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Francesco Morini - Calciatore E Dirigente

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Joined: 31-May-2005
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  763334075_Juventus1931.jpg.91361eb97c92b38c3d0c1765859801fa.jpg FRANCESCO MORINI   

 

 

morini.jpg

 

 

 

http://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Morini

 

 

 

Francesco Morini, veste la maglia bianconera nell’estate del 1969, arrivato, dalla Sampdoria, in compagnia di “Bob” Vieri. Due personaggi completamente differenti: lui pisano (nato a Metato, frazione di S.Giuliano Terme) concreto, attento, preciso, attaccato alla professione, ed il piombinese geniale, quanto incostante, promessa mai mantenuta nel nostro calcio.

L’allenatore della Juventus è Luis Carniglia, un esigente sognatore, il quale avrebbe voluto che tutti i propri giocatori, anche uno stopper, saltassero gli avversari con un tunnel.

Morini non aveva per niente queste caratteristiche e si trovò a disagio. Era una piovra che con mille tentacoli toglieva il pallone dai al diretto rivale, uno stopper perfetto, dalla marcatura ferrea.

«Sapevo di avere dei limiti, ma sono sempre stato sorretto da un buon fisico e da un’ottima condizione atletica; seppure fossi alto, ero molto veloce e scattante, sicché potevo marcare, indifferentemente, avversari piccoli o ben messi. Anche se non cattivo, sono sempre stato molto spigoloso, rognoso ed appiccicoso, pronto in ogni momento a far valere il mio anticipo, Di certo, non mi cimentavo in lanci millimetrici, preferivo appoggiare la palla ad un compagno vicino a me».

Soprannominato “Morgan”, come il pirata, perché, come scriveva un giornalista a quel tempo, «da pirata era il suo modo di depredare l’avversario del pallone roteandogli addosso i bulloni, di arrangiarsi coi gomito, e pazienza se non fluidificava molto».

Fisico poderoso e asciutto (un metro e 81 per 73 chili), undici volte nazionale, Morini era uno di quei rari atleti mai domi, di grandissima utilità, capaci di giocare anche con una caviglia a pezzi, con un muscolo dolente. Arrivò a marcare un extraterreste come Cruijff, malgrado avesse un tallone fuori uso: bastava un’iniezione antidolorifica per farlo scendere in campo.

«In bianconero ho passato degli anni meravigliosi. Abbiamo centrato risultati eccezionali, sia in Italia che in Europa, ho avuto per compagni di squadra, dei veri campioni. È importante giocare con dei campioni, perché ti trascinano ed io mi sono fatto trascinare. Ricordi ne ho tanti, rimpianti un solo: Belgrado, eravamo nel 1973, finale di Coppa dei Campioni, persa contro un Ajax grande, ma non poi così grande. Insomma, avremmo potuto anche giocarcela, invece andò come tutti sanno».
Francesco lascia la Juventus alla fine del campionato 1978/79, dopo 372 presenze in bianconero solo in campionato. Si trasferisce in Canada, nel Toronto Blizzard a studiare lingue, per poi presentarsi, successivamente, al corso di manager di Coverciano. Terminato il corso, “Cecco”, ritorna alla Juventus come dirigente: «Un tipo di lavoro che mi ha sempre affascinato ed appassionato», mettendo a disposizione la sua esperienza maturata sul campo, che unisce la professionalità all’amore per colori per i quali ha dato molto ma dai quali, dice, ha ricevuto moltissimo.

«Ho sempre cercato di imparare dai più bravi, sia da calciatore che da dirigente ed ho sempre continuato a farlo. Sono stato onorato di far parte della famiglia bianconera, mi sono sempre identificato in questo ambiente, conoscendone i segreti; non mi sarei mai visto a lavorare altrove».

Non ha mai segnato una rete ufficiale: «A dire il vero, una volta un goal l’ho fatto, in un torneo italo/inglese, disputato in un estate di tantissimi anni fa. In ogni caso, la mancata segnatura di reti non mi ha mai contagiato più di tanto, perché ciò che mi esaltava era fare in modo che non andasse in goal l’uomo che dovevo marcare; questo equivaleva, per me, ad una rete, perché se in squadra devono essere particolarmente attivi i bomber, altrettanto devono esserlo i difensori ad imbrigliare il gioco delle punte avversarie».

Come dargli torto?


Da “Hurrà Juventus” del maggio 1980:

Lo stopper più granitico e guerreggiante dei tempi moderni, dunque, prende e se ne va. Francesco Morini, gloria vivente di tanto calcio italiota degli anni sessanta e settanta, decide che è giunto il suo momento, ma prima vuole, fortissimamente vuole, concedersi una divagazione sportiva che è emblematica del tempo presente, inimmaginabile per il pioniere.

Morini va a chiudere la sua carriera di ineguagliabile lottatore in America, Canada per l’esattezza, ed è decisione niente affatto sorprendente, semmai perfettamente allineata con la personalità di questo difensore tra i più illustri della Juventus trionfante di questi anni.

Duro è il mestiere di stopper, dove il talento non basta e spesso il coraggio e la cattiveria sono valori ben più essenziali.
Durissimo, poi, fare lo stopper nella Juve. 1969, anno di grazia e di parecchie disavventure. Undici anni orsono, undici anni di Juve tanto diversa. Francesco Morini arriva venticinquenne dalla Sampdoria con la fama di marcatore ruvido ancorché insormontabile. Deve rilevare le incombenze dell’araldo difensivo della Juve “heribertiana”, dell’ultimo centromediano antico del nostro calcio, di Giancarlo Bercellino da Gattinara, eroe con “Tino” Castano del tredicesimo scudetto. È una eredità grave, un fardello dei più ingombranti.

Gli inizi non sono facili, né potrebbero esserlo. La Juve che dovrebbe voltare pagina e tornare ad essere trionfante, in realtà inciampa spesso in ostacoli all’apparenza agevoli e le colpe si ripartiscono tra tutti, stopper compreso, stopper prima di altri.

Il derby di andata in una luminosa e calda giornata di ottobre si vinceva a una manciata di secondi dalla fine grazie ad una rete di Zigoni detto “Zigo” e va a finire che si perde per una dabbenaggine di Morini nostro, che fa saltare indisturbato Bui sotto porta, e gli consente la più comoda delle realizzazioni.

Lo sguardo solare di Francesco si rabbuia, ci sono giornate tristi di solitudine per questo atleta in cerca di comprensione tecnica. Carniglia, l’ “entrenador” che nulla ha da insegnare a Vieri ed Haller fuoriclasse d’altri tempi, non riconosce l’indispensabile lavoro di rottura del biondo stopper toscano e si lascia andare ad affermazioni poco felici che rattristano il ragazzo.

Ci vuole tempo, non molto, ma ci vuole. Carniglia non può avere futuro in questa Juve che vuole proiettarsi sugli anni settanta. Morini fa parte della Juve settanta. Il dilemma tecnico tra il vecchio hidalgo ed il giovane stopper non si pone neppure.

La leggenda bianconera di Francesco Morini, certo, passa attraverso tappe e momenti speciali. Per esempio, momento importante ed altamente significativo il suo duello con “Gigi” Riva, che inizia nel novembre del 1969 all’ “Amsicora” di Cagliari e prosegue per anni, sempre all’insegna della massima correttezza pur nel massimo dispiego di energie e sforzi.

Tenacemente assertore del gioco all’inglese, dotato di un anticipo che non concede scampo all’attaccante in cerca di leziosità, Morini costruisce il suo stile in pochi tratti essenziali e lo spiega al volgo con prestazioni monumentali. I duelli rusticani con “Giorgione” Chinaglia esemplificano al massimo grado questa concezione di gioco, di tempesta ed assalto, di pionierismo nel senso di impegno cristallino, di dedizione alla causa bianconera.

A qualcuno può non piacere questo modo brusco di cercare il tackle, questa volontà tremendamente applicata alla marcatura. Nessuno, però, può discuterne l’efficacia.

“Cesto” Vycpalek, chiamato a proseguire il lavoro del povero Picchi su un telaio di giovani campioni in cerca di grandi traguardi, eredita già lo stopper di tutte le leggende. Nella Juve 1971 che sta per vincere tutto, Morini è già colonna insostituibile. I centravanti del campionato imparano a conoscere ed a temere la disfida lanciata dallo stopper toscano ormai saldamente trapiantato a Torino. Lo scudetto della sofferenza, il quattordicesimo, arriva con il determinante contributo dello stopper giunto a piena maturazione tecnica ed umana. Morini onora la maglia con un rendimento medio altissimo e giganteggia con fior di campioni, soffrendo praticamente in una sola circostanza, un Juventus-Napoli che anche per questo finisce pari, 2-2. Morini nell’occasione è chiamato a controllare un centravanti che ne sa una più del diavolo e che, secondo alcuni, sta per appendere le scarpe al fatidico chiodo. Non sarà così, per fortuna della Juve che anche grazie a costui costruirà il suo mito. Fin troppo chiaro che stiamo parlando di Altafini. Trenta presenze nel magico campionato 1971/72, trenta erano pure statele presenze nel 1970/71. Due stagioni senza manco una assenza che è una rappresentano già un fatto significativo.

Ma il bello deve ancora venire. Lo scudetto numero quindici, quello del 1972/73 propone un Morini ancora migliorato sul piano della sicurezza, ormai dotato di un bagaglio di esperienza che solo un veterano può permettersi di vantare. E Francesco a tutto si può avvicinare, meno che ad un veterano.

1973/74 e 1974/75 coinvolgono anche il biondo difensore bianconero, ne toccano assetti umani non inediti ma comunque suggestivi in prospettiva futura. Morini accusa qualche infortunio, il dispendio di energie e gli elevati rischi che comporta il suo modo di giocare, sempre estremamente battagliero, intaccano, talvolta, la sua dura scorza. Accade che talvolta la critica non sia benevole nei suoi confronti. Sono accadimenti, episodi, che lasciano il tempo che trovano. La volontà contribuisce ad assorbire infortuni e critiche a tempo di record. Il tallone che lo la soffrire viene spesso ignorato a scusante di certe prestazioni non propriamente inappuntabili, e sono le poche volte che il personaggio, che poi personaggio non è almeno nel senso comune del termine, esce allo scoperto ed affronta le critiche con la medesima risolutezza e linearità con cui duella con i centravanti.
Le fortune bianconere non coincidono che raramente con analoghe soddisfazioni azzurre, e questa è la principale ragione di rammarico di Morini. La Nazionale “messicana”, che giustamente Valcareggi, per meriti effettivi oltre che per normale riconoscenza, mantiene a lungo intatta o quasi, non concede spazio allo stopper bianconero, all’ormai leggendario “Morgan” delle mille battaglie.

Né si può dire dei più fortunati l’impatto di Francesco con la maglia azzurra, alle porte del Mondiale di Germania. A trenta anni, coinvolto negli esiti infausti di una spedizione nata male e finita peggio. Morini paga colpe che non ha mai avuto e finisce nel dimenticatoio, proprio mentre la sua vicenda bianconera raggiunge vertici assoluti, tanto in campo nazionale che a livello di coppe. È un neo assolutamente ingiustificato, sul quale Francesco ha lungamente filosofeggiato, senza acredine e inutili polemiche.

Anche questo contribuisce a rendere grande e assoluto il personaggio. Il Morini più grande, quello cui tutti i supporter bianconeri sono maggiormente legati, è però senza dubbio l’ultimo, il più vicino a noi. La maturità del campione è spesso segnata da una lenta quanto inesorabile parabola discendente sul piano del rendimento: nulla di tutto questo nel caso di Morini che conosce nella Juve “trapattoniana” i momenti forse più esaltanti di una carriera sfolgorante. Le battaglie di Coppa Uefa esaltano l’ardore e l’attaccamento alla causa bianconera dello stopper più roccioso dei tempi moderni, ne affinano l’acume tattico, ne rendono sempre più efficace il contrasto. Anche gli esteti devono alfine ammettere uno stile Morini, e di stile autentico si tratta, affinato dalla partecipazione a tutti i massimi eventi della recente storia bianconera.

Entrato di diritto, nella stagione passata, tra i grandi della Juve quanto a fedeltà di presenza, Francesco Morini lascia in modo glorioso, in perfetta sintonia con il suo carattere. In America ritroverà una fetta del suo passato, e rivivrà con sfumature diverse gli attimi esaltanti della sua ineguagliabile carriera. E sarà tramonto ancor più glorioso.

Il momento di appendere le scarpe al chiodo rappresenta per molti giocatori un vero e proprio trauma; vediamo esempi quasi quotidiani di uomini dal passato eccellente che, non sapendo rassegnarsi, accettano ruoli quasi patetici in squadre, per così dire, periferiche. Nel caso di oggi c’è, al contrario, chi impegna le sue attività sempre nel calcio ma in altra direzione restando in “servizio attivo” ad alto livello.

Non poteva essere altrimenti: Francesco Morini stopper tutto d’un pezzo, terrore di tanti attaccanti di casa nostra e del resto del mondo, non soddisfatto delle sue esperienze ha deciso di studiare il calcio straniero ed in particolare quello d’America. Visto che, in casa, vi era ormai un degno e promettente sostituto, se ne è andato a vedere da vicino le società calcistiche del nuovo mondo.

“Sir Morgan”, come lo soprannominano i tifosi, giunto quasi al momento di ritirarsi in pensione, ha voluto rimanere sé stesso: infatti, il segreto della sua carriera è sempre stato condensato in queste due parole: «saper osservare».

«Vi sono due modi di essere buoni giocatori», ha detto “Morgan” in un intervista, «avere innato il senso del gioco e della posizione oppure imparare guardando per far tesoro delle prestazioni altrui».

Nella sua lunga carriera, non ha mai sgarrato da questo intendimento. Per lui non vi sono mai state polemiche se doveva starsene in panchina, sia quando militava nella Sampdoria, sia quando vestiva in bianconero.

«Anche stando ai bordi del campo c’è tutto da apprendere; certo, dipende da chi vedi all’opera ma, stai tranquillo, se hai occhio critico, impari come comportarli anche se fai la riserva».

Il ruolo che ha ricoperto nella sua carriera non è stato dei più facili, eppure in virtù della sua umiltà è riuscito ad intimidire e ridicolizzare tanti avversari di grido.

Tralasciando l’attività nelle squadre minori, la sua carriera si è svolta in sei anni alla Sampdoria ed undici alla Juventus, vivendo due aspetti diversi di gioco, due modi distinti di lottare: il primo quasi totalmente intento alla ricerca della salvezza, il secondo diretto invece alla conquista di tanti primati. Il segreto di una carriera sempre, in crescendo è costituito esclusivamente dalla professionalità di Morini e dal suo comportamento lineare che non ha mai sgarralo dille precise regole che si era imposto. Comportarsi secondo i dettami della disciplina sportiva non gli è mai costato sacrificio: ubbidire all’allenatore è sempre stato per lui facile, mantenersi in forma altrettanto, nessuno può imputargli crisi od impennate di carattere.

«Rimpiango una sola cosa: di non essere mai arrivato a segnare un goal in campionato nonostante tante sgroppate in avanti».
Il nostro biondo Vichingo, ha poi un altro cruccio: «In mezzo a molti successi, a tanti trofei, sento la mancanza di una Coppa dei Campioni. Ogni volta che la Juventus ha giocato in quella competizione è sempre arrivata a due passi, ad un soffio da quel traguardo ed ogni volta se l’è vista sfuggire».

È vero, fare previsioni specie in quel campo, è assai arduo: quella è una strada intessuta di tanti piccoli frammenti di mosaico che fanno storia a sé e poi vi partecipa la “crema del calcio mondiale” per cui il successo ti arriva con la stessa difficoltà di un terno al lotto o di una vincita al totocalcio.

Si è parlato troppe volte di un Morini terribile come se fosse un pirata dell’area di porta. «Non mi sono sempre fermato in quel punto, sovente mi sono spinto in avanti perché così mi ha imposto di fare il gioco praticato dalla Juventus. Ho fatto anche lo stopper avanzato e, credetemi, il mestiere in quel punto del campo è quanto mi ardito».

Le più grosse soddisfazioni di Morgan sono quelle di aver fatto passare notti insonni agli avversari e di aver mandato a monte innumerevoli piani tattici di allenatori avversari che pensavano di poterlo distogliere facilmente dai suoi compiti.

«Cruijff mi ricorderà certamente, Bersellini e tanti altri mi sogneranno, però dovranno dare atto della mia lealtà sportiva, perché falli cattivi con il preciso intento di far male, non ne ho mai compiuti. Non fanno parte del mio bagaglio mentale e neppure del mio stile».

Con queste parole, egli intende chiudere la bocca a taluni denigratori che, per poter segnare reti, avrebbero voluto incontrare un Morini suonatore di violini o clavicembali. Nella vita di ogni giorno, “Cecco”, è tutt’altro che un duro: legato sì alle tradizioni ed ai ricordi ma è anche previdente e sa mettere le mani avanti con oculata preveggenza.

«La vita di un calciatore è veloce, possa con la rapidità di un lampo per cui bisogna aver gli occhi ovunque: sul passato, sul presente e sul futuro».

In vista del futuro si è inserito nella concessionaria “OTMA” e volgendo le spalle indietro ha chiamato Jacopo il figlio.
«Ricorderò sempre i primi passi che ho mosso sul campetto dell’Oratorio di San Jacopo a San Giuliano in quel di Pisa».

Questa è una sorta di legame tra il passato ed il più bel presente dello stopper juventino. Ora, è partito per l’America a studiare l’ambiente calcistico di laggiù: «È che non sono tuoi sazio di esperienze, mi sono cercato un’altra panchina perché so quanto sia utile “vedere” cose nuove per continuare ad “imparare”».

Ecco cosa gravita oggi attorno alla realtà Morini, quell’uomo tutto d’un pezzo che non ha mai speso una parola in più del dovuto e che, forse, ha fatto un solo sogno di troppo: la Coppa dei Campioni. Che cosa si poteva chiedergli e cosa poteva darci di più? Nulla!

Ha vestito la maglia bianconera e quella azzurra della Nazionale con eguale ardore ed impegno, ha collezionato successi in Italia ed all’estero in piena umiltà ed in nome di una inimitabile professionalità.


Il racconto di Caminiti:

Ciccio Morini detto “Morgan”, stopper sgranocchiante il pallone come una cabala misteriosa, soltanto in fin di carriera finalmente in grado di stopparlo al volo, eppure negli scudetti juventini della prima serie bonipertiana uno dei “fondamentali” della squadra, per l’epica grinta. Aveva negli occhi tutto l’infinito della speranza quando lo conobbi nella Sampdoria allenata da Ocwirk. Biondo ed aguzzo, andava in campo e risolveva la vicenda del gioco come un fatto personale con l’asso a lui affidato. Bisognava arginarlo e possibilmente annichilirlo, ed ecco “Morgan”, piratesco il suo stile nell’irruzione tra pallone e piede portante, nella spallata leale ma dura, l’avversario interdetto tentava la replica, ma incespicava fatalmente nel rivale a lui addossato, come una parte del suo stesso intendere, felinamente intuitivo negli anticipi più condizionati.

Allenandosi con ossessiva costanza, rispettandosi come un anacoreta, Morini risolse nella Juventus decisa a vincere tutto, allenata da Vycpalek, da Parola e anche dal giovane “Trap”, ogni problema delle domeniche affliggenti, e se un avversario riuscì a superarlo fu "Giggiriva" di Leggiuno, che sgomitava anche lui, ferocemente proteso al goal d’autore. Quando, nel 1973, Valcareggi lo convocò in Nazionale, insieme a Zoff, Spinosi, Furino, Causio, Anastasi e Capello, era divenuto proprio necessario. Aveva già due scudetti sul petto, ne avrebbe vinti altri tre, con un rendimento sempre sostanziale, che aveva sbugiardato quel verdetto del “caballero” falsamente appassionato Carniglia dei suoi pochi mesi di permanenza juventina. Il cherubino Morini, pur non possedendo l’aire dello stile di Bellugi, completava idealmente la squadra ruggente su tutti i traguardi, in un tempo di calcio a misura di uomo, e di chi uomo era nella vita come in campo.


http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/08/francesco-morini.html

 

 

 

Modificato da Socrates

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Francesco Morini, 'Il Pirata Morgan': stopper di Sampdoria, Juventus e  Nazionale e dirigente di successo | Goal.com Italia

 

Italie : Décès de Francesco Morini, ex-défenseur et dirigeant de la Juventus  - Eurosport

 

tphoto on X: "Alan Clarke(Leeds United) and Francesco Morini(Juventus) in  Leeds United1-1Juventus, the Final of European Fairs Cup at Leeds on  1971.6.3 Photo by Masahide Tomikoshi / TOMIKOSHI PHOTOGRAPHY  https://t.co/G9VTJq5J1g" / X

 

 

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Io nato nel 1960 sono cresciuto con il mito di ciccio morini, bello, duro, elegante, spietato e sopratutto juventino vero... solo chiello si avvicina per grinta al grande morgan, beh la bellezza e l'eleganza

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Black & White Stories: Morini su Hurrà Juventus - Juventus

 

Chi è Francesco Morini, malattia, moglie, figli: tutto sull'ex calciatore,  stopper nella Juve per 26 anni - Il Giornale d'Italia

 

File:Juventus FC 1971-72.jpg - Wikipedia

 

NASL-Francesco Morini

 

Décès de Francesco Morini, ex-défenseur et dirigeant de la Juventus -  L'Avenir

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Francesco Morini morto per colpa del vaccino Covid? - Il Giornale d'Italia

 

Funerali Morini, presenti anche Platini e Tardelli

 

La Juve piange Morini, il Pirata che faceva ammattire Riva - Gazzetta di  Mantova

 

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sono del 68 ma me lo ricordo molto bene, avevo la maglia col suo numero da bambino..asd

Lui Gentile e Furino i miei idoli....

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  763334075_Juventus1931.jpg.91361eb97c92b38c3d0c1765859801fa.jpg FRANCESCO MORINI   

Juventus saddened by passing of Francesco Morini - Juventus

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Morini

 

 

Nazione: Italia Italia
Luogo di nascita: San Giuliano Terme (Pisa)
Data di nascita: 12.08.1944

Luogo di morte: Forte dei Marmi (Lucca)

Data di morte: 31.08.2021
Ruolo: Difensore
Altezza: 185 cm
Peso: 78 kg
Nazionale Italiano
Soprannome: Morgan

 

 

Alla Juventus dal 1969 al 1979

Esordio: 31.08.1969 - Coppa Italia - Mantova-Juventus 0-0

Ultima partita: 20.06.1979 - Coppa Italia - Juventus-Palermo 2-1

 

372 presenze - 0 reti

 

5 scudetti

1 coppa Italia

1 coppa Uefa

 

 

 

Francesco Morini (San Giuliano Terme, 12 agosto 1944  Forte dei Marmi, 31 agosto 2021) è stato un dirigente sportivo e calciatore italiano, di ruolo stopper.

 

Assurto ad alti livelli per le sue notevoli abilità difensive, in particolar modo nella marcatura a uomo e nell'anticipo dell'avversario, oltreché per le sue doti di trascinatore del reparto arretrato, collezionò più di 400 presenze tra i professionisti, spartite principalmente tra Sampdoria, in cui aveva fatto anche la trafila delle formazioni giovanili, e Juventus, con cui ha vinto cinque Scudetti, una Coppa UEFA e una Coppa Italia.

 

Francesco Morini
Francesco Morini - Juventus FC 1972-73.jpg

 

Morini in allenamento per la Juventus al Campo Combi nella stagione 1972-1973

     
Nazionalità Italia Italia
Altezza 185 cm
Peso 78 kg
Calcio Football pictogram.svg
Ruolo Stopper
Termine carriera 1980
Carriera
Giovanili
19??-1963 Sampdoria Sampdoria
Squadre di club
1963-1969 Sampdoria Sampdoria 162 (0)
1969-1980 Juventus Juventus 372 (0)
1980 Toronto Blizzard Toronto Blizzard 22 (0)
Nazionale
1973-1975 Italia Italia 11 (0)

 

Biografia

220px-Francesco_e_Jacopo_Morini.jpg
 
Morini (a destra) a metà degli anni 1980 con il figlio Jacopo ancora bambino.

 

Crebbe ad Arena Metato, frazione di San Giuliano Terme.

 

Ebbe due figli, Jacopo e Andrea, divenuti noti nel mondo dello spettacolo come musicisti e personaggi televisivi.

 

È scomparso all'età di 77 anni a causa di un infarto.

Caratteristiche tecniche

Venne soprannominato Morgan, in omaggio al celebre corsaro Henry Morgan, per via della sua abilità "piratesca" nel rubare palla agli avversari, proprio come un pirata — seppur ricorrendo raramente al fallo, «anche se non cattivo, sono sempre stato molto spigoloso, rognoso ed appiccicoso», ricorderà lo stesso Morini —; a tal proposito, la stampa dell'epoca scrisse che «da pirata era il suo modo di depredare l'avversario del pallone roteandogli addosso i bulloni, di arrangiarsi coi gomiti, e pazienza se non fluidificava molto».

 

Per sua stessa ammissione non molto dotato tecnicamente — «sapevo di avere dei limiti [...] di certo, non mi cimentavo in lanci millimetrici, preferivo appoggiare la palla ad un compagno vicino a me» —, compensava tale handicap eccellendo nell'anticipo, aiutato da una fisionomia asciutta e dalle sue lunghe leve, «una piovra che con mille tentacoli toglieva il pallone al diretto rivale», nonché da una certa ferocia agonistica cui si aggiunse, con l'andare degli anni, anche molto mestiere.

 

220px-Morini_Boninsegna_1973-74.jpg
 
Morini (a sinistra) in contrasto su Boninsegna, suo storico avversario, nel derby d'Italia del 28 aprile 1974.

 

Della sua carriera rimangono nella memoria i duelli sostenuti con i maggiori attaccanti italiani del tempo, su tutti Roberto Boninsegna, questo ultimo dapprima rivale e poi compagno di squadra, e Gigi Riva, il quale confesserà: «È il difensore più cattivo nel quale mi sono imbattuto. Per cattivo intendo che è grintoso, che è spietato agonisticamente, non che è sleale. È come deve essere un vero difensore moderno. Gioca con tutto il corpo pur di non farti passare. Io li ho provati tutti, nessuno mi ha dato tanto filo da torcere, alla lunga mi sono dovuto arrendere...»

 

Caso singolare, non segnò alcuna rete nella sua carriera professionistica — pur se «a dire il vero, una volta un goal l'ho fatto, in un torneo italo-inglese, disputato in un'estate di tantissimi anni fa» —; comunque, da esemplare esponente della categoria degli stopper, «la mancata segnatura di reti non mi ha mai contagiato più di tanto, perché ciò che mi esaltava era fare in modo che non andasse in goal l'uomo che dovevo marcare; questo equivaleva, per me, ad una rete».

 

Carriera

Giocatore

Club

Gli inizi, Sampdoria
170px-Francesco_Morini_Sampdoria_1964.jp
 
Morini alla Sampdoria nella stagione 1964-1965

 

Dopo gli esordi nel club locale del Vecchiano, approdò quindicenne nel vivavio della Sampdoria dove crebbe agli ordini di Cherubino Comini prima e Gipo Poggi poi.

 

A Genova vinse con la formazione giovanile il Torneo di Viareggio 1963, prima di salire in prima squadra e fare il suo esordio in Serie A il 2 febbraio 1964, a Marassi contro la Roma, chiamato a sostituire l'infortunato Azeglio Vicini: nonostante la sconfitta dei suoi e l'impiego improvvisato da mediano, Morini offrì una prova tanto convincente da ritagliarsi immediatamente un posto nell'undici titolare.

 

Si mise in luce nelle file del club ligure militandovi sino al termine del decennio, instaurando una buona intesa con i più esperti compagni di reparto Mario Bergamaschi e Gaudenzio Bernasconi, e calcando pressoché stabilmente i campi della massima serie italiana; l'unica eccezione fu rappresentata dal vittorioso campionato di Serie B 1966-1967 in cui lo stesso Morini e Guido Vincenzi, quest'ultimo nel ruolo di libero, furono parte integrante della migliore difesa della torneo.

Juventus, gli ultimi anni

Nell'estate 1969, su segnalazione di Giampiero Boniperti all'epoca ancora solo consulente della società, Morini passò, insieme al compagno di squadra Roberto Vieri, alla Juventus che, avendolo infine preferito in sede di mercato al palermitano Mario Giubertoni, lo chiamò a raccogliere l'eredità di Giancarlo Bercellino. Superato un difficile avvio per via di incomprensioni col tecnico Luis Carniglia, seppe presto imporsi quale titolare inamovibile: vestì con successo la divisa bianconera per undici stagioni e spiccò, grazie al suo innato carisma, tra i leader dell'autarchica e plurivittoriosa Juventus degli anni Settanta, contribuendo da protagonista alle vittorie di cinque Scudetti, della Coppa Italia 1978-1979 e soprattutto della Coppa UEFA 1976-1977, il primo trofeo confederale del club piemontese.

 

220px-Juventus_vs_Ajax_-_Torino_-_1969_-
 
Morini (a sinistra), neoacquisto della Juventus, posa con l'ajacide Cruijff in occasione dell'amichevole del 27 agosto 1969.

 

Rimase stabilmente al centro della retroguardia della Vecchia Signora per tutta la sua permanenza a Torino, andando inoltre a formare, nell'ultima parte della sua esperienza al Comunale, un'affiatata coppia col più giovane libero Gaetano Scirea. Solo nel corso della stagione 1979-1980, ormai trentacinquenne e conscio di poter condizionare in negativo la crescita del promettente Sergio Brio, scalpitante rincalzo, cedette gradualmente il posto a colui che ne erediterà la maglia numero cinque bianconera.

 

Lasciò la Juventus nel marzo 1980, dopo 255 partite di campionato, per andare a chiudere la carriera in Canada, vivendo una breve esperienza con i Toronto Blizzard all'epoca militanti nella North American Soccer League.

 

In diciassette stagioni da professionista, Morini collezionò 386 presenze in Serie A e 30 in Serie B.

Nazionale

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Morini (a destra) in maglia azzurra, alle prese con il polacco Szarmach nel campionato del mondo 1974.

 

Scese in campo 11 volte per l'Italia, debuttando il 25 febbraio 1973 a Istanbul contro la Turchia, in una gara valevole per le qualificazioni al campionato del mondo 1974; l'anno dopo prese parte alla fase finale della competizione in Germania Ovest, venendo impiegato da titolare in tutti e tre gli incontri della fugace avventura italiana. Indossò per l'ultima volta la maglia azzurra l'8 giugno 1975, in occasione di un'amichevole a Mosca contro l'Unione Sovietica.

 

Ebbe un rapporto difficile con la nazionale, non riuscendo mai a imporsi stabilmente come nelle squadre di club. Tra i fattori che andarono a suo sfavore era incluso il corposo ricambio generazionale avvenuto a metà degli anni Settanta, nonché la concorrenza nel ruolo del più giovane Mauro Bellugi, spesso a lui preferito dai commissari tecnici susseguitisi nel corso del decennio, Ferruccio Valcareggi, Fulvio Bernardini (con cui aveva lavorato durante i suoi ultimi anni alla Sampdoria) ed Enzo Bearzot.

 

Con l'approssimarsi del campionato del mondo 1978, e sentendosi ancora in forma, Morini chiese al compagno di squadra Dino Zoff di intercedere presso Bearzot onde essere incluso tra gli azzurri che avrebbero partecipato alla fase finale in Argentina; tuttavia il portiere, friulano come il commissario tecnico e di temperamento non meno riservato, respinse tale sollecitazione.

Dopo il ritiro

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Da sinistra: Morini dirigente juventino negli anni 1980, in panchina con il massaggiatore De Maria e l'ex compagno di squadra Cabrini.

 

Già sul finire della carriera agonistica si interessò all'attività dirigenziale. Durante l'esperienza canadese studiò lingue, per poi frequentare, una volta appesi gli scarpini al chiodo, il corso per manager di Coverciano.

 

Nell'estate 1981 fu quindi richiamato alla Juventus da Boniperti, nel frattempo salito alla testa del club, per entrare nei quadri della società: ricoprì dapprima il ruolo di direttore sportivo — «un tipo di lavoro che mi ha sempre affascinato ed appassionato» — fino all'autunno del 1990, e poi quello di team manager fino alla stagione 1993-1994, coincisa con la fine della lunga gestione Boniperti.

 

Sotto il suo mandato dirigenziale, la formazione bianconera si fregerà in campo nazionale di tre Scudetti e due Coppe Italia, mentre in quello internazionale di una Coppa delle Coppe, una Supercoppa UEFA, una Coppa dei Campioni e una Coppa Intercontinentale — il cosiddetto Grande Slam che farà della Juventus la prima squadra della storia a mettere in bacheca tutti i maggiori trofei confederali —, oltreché due Coppe UEFA.

 

In seguito lavorò per la Robe di Kappa nell'ambito delle sponsorizzazioni; collaborò inoltre come opinionista per l'emittente televisiva privata Telelombardia.

 

Palmarès

Club

Competizioni giovanili

Competizioni nazionali

Competizioni internazionali

Onorificenze

Medaglia di bronzo al valore atletico - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia di bronzo al valore atletico
  «Campione italiano professionisti»
— Roma, 1972.

 

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Veste la maglia bianconera nell’estate del 1969, arrivato, dalla Sampdoria, in compagnia di Bob Vieri. Due personaggi completamente differenti: lui pisano (nato a Metato, frazione di San Giuliano Terme) concreto, attento, preciso, attaccato alla professione; il pratese geniale, quanto incostante, promessa mai mantenuta nel nostro calcio. L’allenatore della Juventus è Luis Carniglia, un esigente sognatore, il quale avrebbe voluto che tutti i propri giocatori, anche uno stopper, saltassero gli avversari con un tunnel. Morini non aveva per niente queste caratteristiche e si trovò a disagio.
Era una piovra che, con mille tentacoli, toglieva il pallone dai piedi del diretto rivale, uno stopper perfetto, dalla marcatura ferrea.
«Sapevo di avere dei limiti, ma sono sempre stato sorretto da un buon fisico e da un’ottima condizione atletica; seppure fossi alto, ero molto veloce e scattante, sicché potevo marcare, indifferentemente, avversari piccoli o ben messi. Anche se non cattivo, sono sempre stato molto spigoloso, rognoso e appiccicoso, pronto in ogni momento a far valere il mio anticipo, Di certo, non mi cimentavo in lanci millimetrici, preferivo appoggiare la palla a un compagno vicino a me».
Soprannominato Morgan, come il pirata, perché, come scriveva un giornalista a quel tempo, da pirata era il suo modo di depredare l’avversario del pallone roteandogli addosso i bulloni, di arrangiarsi con i gomiti. Fisico poderoso e asciutto (181 centimetri per settantatré chili), undici volte nazionale, Morini era uno di quei rari atleti mai domi, di grandissima utilità, capaci di giocare anche con una caviglia a pezzi, con un muscolo dolente. Arrivò a marcare un extra terreste come Cruijff, malgrado avesse un tallone fuori uso. Bastava un’iniezione antidolorifica per farlo scendere in campo: «In bianconero ho passato degli anni meravigliosi. Abbiamo centrato risultati eccezionali, sia in Italia che in Europa, ho avuto per compagni di squadra, dei veri campioni. È importante giocare con dei campioni, perché ti trascinano ed io mi sono fatto trascinare. Ricordi ne ho tanti, rimpianti un solo: Belgrado, eravamo nel 1973, finale di Coppa dei Campioni, persa contro un Ajax grande, ma non poi così grande. Insomma, avremmo potuto anche giocarcela, invece andò come tutti sanno».
Francesco lascia la Juventus alla fine del campionato 1978-79. Si trasferisce in Canada, nel Toronto Blizzard a studiare lingue, per poi presentarsi, successivamente, al corso di manager di Coverciano. Terminato il corso, Cecco, ritorna alla Juventus come dirigente: «Un tipo di lavoro che mi ha sempre affascinato e appassionato». Mette a disposizione la sua esperienza maturata sul campo, che unisce la professionalità all’amore per colori per i quali ha dato molto ma dai quali, dice, ha ricevuto moltissimo: «Ho sempre cercato di imparare dai più bravi, sia da calciatore che da dirigente ed ho sempre continuato a farlo. Sono stato onorato di far parte della famiglia bianconera, mi sono sempre identificato in questo ambiente, conoscendone i segreti; non mi sarei mai visto a lavorare altrove».
Non ha mai segnato una rete ufficiale: «A dire il vero, una volta un goal l’ho fatto, in un torneo italo-inglese, disputato in un’estate di tantissimi anni fa. In ogni caso, la mancata segnatura di reti non mi ha mai contagiato più di tanto, perché ciò che mi esaltava era fare in modo che non andasse in goal l’uomo che dovevo marcare. Questo equivaleva, per me, a una rete, perché se in squadra devono essere particolarmente attivi i bomber, altrettanto devono esserlo i difensori a imbrigliare il gioco delle punte avversarie». Come dargli torto?

GIANNI GIACONE, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MAGGIO 1980
Lo stopper più granitico e guerreggiante dei tempi moderni, dunque, prende e se ne va. Francesco Morini, gloria vivente di tanto calcio italiota degli anni Sessanta e Settanta, decide che è giunto il suo momento, ma prima vuole, fortissimamente vuole, concedersi una divagazione sportiva che è emblematica del tempo presente, inimmaginabile per il pioniere. Morini va a chiudere la sua carriera di ineguagliabile lottatore in America, Canada per l’esattezza, ed è decisione niente affatto sorprendente, semmai perfettamente allineata con la personalità di questo difensore tra i più illustri della Juventus trionfante di questi anni. Duro è il mestiere di stopper, dove il talento non basta e spesso il coraggio e la cattiveria sono valori ben più essenziali. Durissimo, poi, fare lo stopper nella Juve. 1969, anno di grazia e di parecchie disavventure. Francesco Morini arriva venticinquenne dalla Sampdoria con la fama di marcatore ruvido ancorché insormontabile. Deve rilevare le incombenze dell’araldo difensivo della Juve heribertiana, dell’ultimo centromediano antico del nostro calcio, di Giancarlo Bercellino da Gattinara, eroe con Tino Castano del tredicesimo scudetto. È un’eredità grave, un fardello dei più ingombranti.
Gli inizi non sono facili, né potrebbero esserlo. La Juve che dovrebbe voltare pagina e tornare a essere trionfante, in realtà inciampa spesso in ostacoli all’apparenza agevoli e le colpe si ripartiscono tra tutti, stopper compreso, stopper prima di altri. Il derby di andata in una luminosa e calda giornata di ottobre si vinceva a una manciata di secondi dalla fine grazie ad una rete di Zigoni detto Zigo e va a finire che si perde per una dabbenaggine di Morini nostro, che fa saltare indisturbato Bui sotto porta, e gli consente la più comoda delle realizzazioni. Lo sguardo solare di Francesco si rabbuia, ci sono giornate tristi di solitudine per quest’atleta in cerca di comprensione tecnica. Carniglia, l’allenatore che nulla ha da insegnare a Vieri e Haller fuoriclasse d’altri tempi, non riconosce l’indispensabile lavoro di rottura del biondo stopper toscano e si lascia andare ad affermazioni poco felici che rattristano il ragazzo. Ci vuole tempo, non molto, ma ci vuole. Carniglia non può avere futuro in questa Juve che vuole proiettarsi sugli anni Settanta. Morini fa parte della Juve Settanta. Il dilemma tecnico tra il vecchio hidalgo e il giovane stopper non si pone neppure.
La leggenda bianconera di Francesco Morini, certo, passa attraverso tappe e momenti speciali. Per esempio, momento importante e altamente significativo il suo duello con Gigi Riva, che inizia nel novembre del 1969 all’Amsicora di Cagliari e prosegue per anni, sempre all’insegna della massima correttezza pur nel massimo dispiego di energie e sforzi. Tenacemente assertore del gioco all’inglese, dotato di un anticipo che non concede scampo all’attaccante in cerca di leziosità, Morini costruisce il suo stile in pochi tratti essenziali e lo spiega al volgo con prestazioni monumentali. I duelli rusticani con Giorgione Chinaglia esemplificano al massimo grado questa concezione di gioco, di tempesta e assalto, di pionierismo nel senso di impegno cristallino, di dedizione alla causa bianconera. A qualcuno può non piacere questo modo brusco di cercare il tackle, questa volontà tremendamente applicata alla marcatura. Nessuno, però, può discuterne l’efficacia.
Cesto Vycpálek, chiamato a proseguire il lavoro del povero Picchi su un telaio di giovani campioni in cerca di grandi traguardi, eredita già lo stopper di tutte le leggende. Nella Juve 1971 che sta per vincere tutto, Morini è già colonna insostituibile. I centravanti del campionato imparano a conoscere e a temere la disfida lanciata dallo stopper toscano oramai saldamente trapiantato a Torino. Lo scudetto della sofferenza, il quattordicesimo, arriva con il determinante contributo dello stopper giunto a piena maturazione tecnica e umana. Morini onora la maglia con un rendimento medio altissimo e giganteggia con fior di campioni, soffrendo praticamente in una sola circostanza, un Juventus-Napoli che anche per questo finisce pari, 2-2. Morini nell’occasione è chiamato a controllare un centravanti che ne sa una più del diavolo e che, secondo alcuni, sta per appendere le scarpe al fatidico chiodo. Non sarà così, per fortuna della Juve che anche grazie a costui costruirà il suo mito. Fin troppo chiaro che stiamo parlando di Altafini. Trenta presenze nel magico campionato 1971-72, trenta erano pure state le presenze nel 1970-71. Due stagioni senza manco un’assenza che è una rappresentano già un fatto significativo.
Ma il bello deve ancora venire. Lo scudetto numero quindici, quello del 1972-73 propone un Morini ancora migliorato sul piano della sicurezza, oramai dotato di un bagaglio di esperienza che solo un veterano può permettersi di vantare. E Francesco a tutto si può avvicinare, meno che a un veterano. 1973-74 e 1974-75 coinvolgono anche il biondo difensore bianconero, ne toccano assetti umani non inediti ma comunque suggestivi in prospettiva futura. Morini accusa qualche infortunio, il dispendio di energie e gli elevati rischi che comporta il suo modo di giocare, sempre estremamente battagliero, intaccano, talvolta, la sua dura scorza. Accade che talvolta la critica non sia benevole nei suoi confronti. Sono accadimenti, episodi, che lasciano il tempo che trovano. La volontà contribuisce ad assorbire infortuni e critiche a tempo di record. Il tallone che lo fa soffrire è spesso ignorato a scusante di certe prestazioni non propriamente inappuntabili, e sono le poche volte che il personaggio, che poi personaggio non è almeno nel senso comune del termine, esce allo scoperto e affronta le critiche con la medesima risolutezza e linearità con cui duella con i centravanti.
Le fortune bianconere non coincidono che raramente con analoghe soddisfazioni azzurre, e questa è la principale ragione di rammarico di Morini. La Nazionale messicana, che giustamente Valcareggi, per meriti effettivi oltre che per normale riconoscenza, mantiene a lungo intatta o quasi, non concede spazio allo stopper bianconero, all’oramai leggendario Morgan delle mille battaglie. Né si può dire dei più fortunati l’impatto di Francesco con la maglia azzurra, alle porte del Mondiale di Germania. A trent’anni, coinvolto negli esiti infausti di una spedizione nata male e finita peggio. Morini paga colpe che non ha mai avuto e finisce nel dimenticatoio, proprio mentre la sua vicenda bianconera raggiunge vertici assoluti, tanto in campo nazionale che a livello di coppe. È un neo assolutamente ingiustificato, sul quale Francesco ha lungamente filosofeggiato, senza acredine e inutili polemiche.
Anche questo contribuisce a rendere grande e assoluto il personaggio. Il Morini più grande, quello cui tutti i supporter bianconeri sono maggiormente legati, è però senza dubbio l’ultimo, il più vicino a noi. La maturità del campione è spesso segnata da una lenta quanto inesorabile parabola discendente sul piano del rendimento: nulla di tutto questo nel caso di Morini che conosce nella Juve trapattoniana i momenti forse più esaltanti di una carriera sfolgorante. Le battaglie di Coppa Uefa esaltano l’ardore e l’attaccamento alla causa bianconera dello stopper più roccioso dei tempi moderni, ne affinano l’acume tattico, ne rendono sempre più efficace il contrasto. Anche gli esteti devono alfine ammettere uno stile Morini, e di stile autentico si tratta, affinato dalla partecipazione a tutti i massimi eventi della recente storia bianconera.
Entrato di diritto, nella stagione passata, tra i grandi della Juve quanto a fedeltà di presenza, Francesco Morini lascia in modo glorioso, in perfetta sintonia con il suo carattere. In America ritroverà una fetta del suo passato, e rivivrà con sfumature diverse gli attimi esaltanti della sua ineguagliabile carriera. E sarà tramonto ancor più glorioso. Il momento di appendere le scarpe al chiodo rappresenta per molti giocatori un vero e proprio trauma; vediamo esempi quasi quotidiani di uomini dal passato eccellente che, non sapendo rassegnarsi, accettano ruoli quasi patetici in squadre, per così dire, periferiche. Nel caso di oggi c’è, al contrario, chi impegna le sue attività sempre nel calcio ma in altra direzione restando in servizio attivo ad alto livello. Non poteva essere altrimenti: Francesco Morini stopper tutto di un pezzo, terrore di tanti attaccanti di casa nostra e del resto del mondo, non soddisfatto delle sue esperienze ha deciso di studiare il calcio straniero e in particolare quello d’America. Poiché, in casa, vi era oramai un degno e promettente sostituto, se n’è andato a vedere da vicino le società calcistiche del nuovo mondo.
Sir Morgan, come lo soprannominano i tifosi, giunto quasi al momento di ritirarsi in pensione, ha voluto rimanere se stesso: infatti, il segreto della sua carriera è sempre stato condensato in queste due parole: saper osservare. «Vi sono due modi di essere buoni giocatori – ha detto Morgan in un’intervista – avere innato il senso del gioco e della posizione oppure imparare guardando per far tesoro delle prestazioni altrui». Nella sua lunga carriera, non ha mai sgarrato da questo intendimento. Per lui non vi sono mai state polemiche se doveva starsene in panchina, sia quando militava nella Sampdoria, sia quando vestiva in bianconero: «Anche stando ai bordi del campo c’è tutto da apprendere; certo, dipende da chi vedi all’opera ma, stai tranquillo, se hai occhio critico, impari come comportarli anche se fai la riserva».
Il ruolo che ha ricoperto nella sua carriera non è stato dei più facili, eppure in virtù della sua umiltà è riuscito a intimidire e ridicolizzare tanti avversari di grido. Tralasciando l’attività nelle squadre minori, la sua carriera si è svolta in sei anni alla Sampdoria e undici alla Juventus, vivendo due aspetti diversi di gioco, due modi distinti di lottare: il primo quasi totalmente intento alla ricerca della salvezza, il secondo diretto invece alla conquista di tanti primati. Il segreto di una carriera sempre, in crescendo è costituito esclusivamente dalla professionalità di Morini e dal suo comportamento lineare che non ha mai sgarrato dalle precise regole che si era imposto. Comportarsi secondo i dettami della disciplina sportiva non gli è mai costato sacrificio: ubbidire all’allenatore è sempre stato per lui facile, mantenersi in forma altrettanto, nessuno può imputargli crisi o impennate di carattere.
Il nostro biondo Vichingo, ha un cruccio: «In mezzo a molti successi, a tanti trofei, sento la mancanza di una Coppa dei Campioni. Ogni volta che la Juventus ha giocato in quella competizione è sempre arrivata a due passi, a un soffio da quel traguardo e ogni volta se l’è vista sfuggire». È vero, fare previsioni specie in quel campo, è assai arduo: quella è una strada intessuta di tanti piccoli frammenti di mosaico che fanno storia a sé e poi vi partecipa la crema del calcio mondiale per cui il successo ti arriva con la stessa difficoltà di un terno al lotto o di una vincita al totocalcio.
Si è parlato troppe volte di un Morini terribile come se fosse un pirata dell’area di porta: «Non mi sono sempre fermato in quel punto, sovente mi sono spinto in avanti, perché così mi ha imposto di fare il gioco praticato dalla Juventus. Ho fatto anche lo stopper avanzato e, credetemi, il mestiere in quel punto del campo è quanto mi ardito». Le più grosse soddisfazioni di Morgan sono quelle di aver fatto passare notti insonni agli avversari e di aver mandato a monte innumerevoli piani tattici di allenatori avversari che pensavano di poterlo distogliere facilmente dai suoi compiti: «Cruijff mi ricorderà certamente, Bersellini e tanti altri mi sogneranno, però dovranno dare atto della mia lealtà sportiva, perché falli cattivi con il preciso intento di far male, non ne ho mai compiuti. Non fanno parte del mio bagaglio mentale e neppure del mio stile». Con queste parole, egli intende chiudere la bocca a taluni denigratori che, per poter segnare reti, avrebbero voluto incontrare un Morini suonatore di violini o clavicembali. Nella vita di ogni giorno, Cecco, è tutt’altro che un duro: legato sì alle tradizioni e ai ricordi ma è anche previdente e sa mettere le mani avanti con oculata preveggenza: «La vita di un calciatore è veloce, possa con la rapidità di un lampo per cui bisogna aver gli occhi ovunque: sul passato, sul presente e sul futuro».
In vista del futuro si è inserito nella concessionaria Otma e volgendo le spalle indietro ha chiamato Jacopo il figlio: «Ricorderò sempre i primi passi che ho mosso sul campetto dell’Oratorio di San Jacopo a San Giuliano in quel di Pisa». Questa è una sorta di legame tra il passato e il più bel presente dello stopper juventino. Ora, è partito per l’America a studiare l’ambiente calcistico di laggiù: «È che non sono tuoi sazio di esperienze, mi sono cercato un’altra panchina perché so quanto sia utile vedere cose nuove per continuare a imparare».
Ecco cosa gravita oggi attorno alla realtà Morini, quell’uomo tutto di un pezzo che non ha mai speso una parola in più del dovuto e che, forse, ha fatto un solo sogno di troppo: la Coppa dei Campioni. Che cosa si poteva chiedergli e cosa poteva darci di più? Nulla! Ha vestito la maglia bianconera e quella azzurra della Nazionale con eguale ardore e impegno, ha collezionato successi in Italia e all’estero in piena umiltà e in nome di un’inimitabile professionalità.

VLADIMIRO CAMINITI
Ciccio Morini detto Morgan, stopper sgranocchiante il pallone come una cabala misteriosa, soltanto in fin di carriera finalmente in grado di stopparlo al volo, eppure negli scudetti juventini della prima serie bonipertiana uno dei fondamentali della squadra, per l’epica grinta. Aveva negli occhi tutto l’infinito della speranza quando lo conobbi nella Sampdoria allenata da Ocwirk. Biondo e aguzzo, andava in campo e risolveva la vicenda del gioco come un fatto personale con l’asso a lui affidato. Bisognava arginarlo e possibilmente annichilirlo, ed ecco Morgan, piratesco il suo stile nell’irruzione tra pallone e piede portante, nella spallata leale ma dura, l’avversario interdetto tentava la replica, ma incespicava fatalmente nel rivale a lui addossato, come una parte del suo stesso intendere, felinamente intuitivo negli anticipi più condizionati. Allenandosi con ossessiva costanza, rispettandosi come un anacoreta, Morini risolse nella Juventus decisa a vincere tutto, allenata da Vycpálek, da Parola e anche dal giovane Trap, ogni problema delle domeniche affliggenti, e se un avversario riuscì a superarlo fu Giggiriva di Leggiuno, che sgomitava anche lui, ferocemente proteso al goal d’autore. Quando, nel 1973, Valcareggi lo convocò in Nazionale, insieme a Zoff, Spinosi, Furino, Causio, Anastasi e Capello, era divenuto proprio necessario. Aveva già due scudetti sul petto, ne avrebbe vinti altri tre, con un rendimento sempre sostanziale, che aveva sbugiardato quel verdetto del Caballero falsamente appassionato Carniglia dei suoi pochi mesi di permanenza juventina. Il cherubino Morini, pur non possedendo l’aire dello stile di Bellugi, completava idealmente la squadra ruggente su tutti i traguardi, in un tempo di calcio a misura di uomo, e di chi uomo era nella vita come in campo.

NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DELL’AGOSTO 2011
Francesco Morini detto Morgan, come il pirata. Capello biondo, eleganza naturale e battuta pronta, in fin dei conti nelle sue vene scorre sangue toscano, nonostante sia di casa a Torino oramai da più di quarant’anni. Morini detto Morgan, due vite per la Juventus. Prima da calciatore, poi da dirigente. Dal 1969, anno del suo arrivo dalla Samp in compagnia di Bob Vieri, al 1994, ultimo tassello della Juve bonipertiana spazzato via dal tornado della Triade. Uomo di fiducia del presidente Boniperti, con cui ha condiviso per anni la passione per la caccia, legato a doppio filo con l’avvocato Agnelli, che lo fece tornare dal Canada per affidargli il ruolo di direttore sportivo.
372 presenze con la maglia della Juve, una ventina di volte capitano, zero assoluto nella casella dei goal fatti, piccolo record. Stopper efficace e concreto, cresciuto alla scuola di Bernardini e affinatosi a quella di Carlo Parola, Cecco Morini è il numero cinque della Juventus del primo Trapattoni, che si siede sulla panchina bianconera a soli trentasette anni. Primo luglio 1976: trentacinque anni fa nasce la Giovin Signora. Non fu un azzardo affidare la guida della squadra a Trapattoni? «Effettivamente il Trap era un ragazzo e con pochissima esperienza come tecnico. Ma per Boniperti l’allenatore giovane era uno schema vincente. Nel 1970 ci aveva provato con Armando Picchi, alla prima esperienza in panchina. Un esperimento che stava funzionando benissimo. Squadra dall’età media molto bassa, guidata da un uomo di grandi valori, con carisma e notevoli capacità tattiche. Lì, purtroppo, ci si è messo di mezzo il destino».
D’accordo sulla bontà del progetto bonipertiano, ma quella di Trapattoni rimaneva una scelta che faceva discutere: «La scommessa non era facile da vincere. Trapattoni è stato bravissimo a sapersi inserire con noi. Quelli più scafati come me, Zoff e Furino gli hanno dato una grande mano. Per un allenatore è fondamentale trovare buoni giocatori».
Cosa avevate di speciale? «Per ogni ruolo c’era un ottimo professionista e una brava persona e con questo intendo dire che oltre ad essere tutti bravi calciatori da un punto di vista tecnico, eccetto me (ride), eravamo ragazzi seri, affidabili e disponibili. Trapattoni l’abbiamo fatto diventare noi allenatore. Dirò di più: quella Juve lì avrebbe trasformato in grande allenatore anche uno come Maifredi!».
Cosa aveva di particolare il Trap? «Era molto presente, si allenava con noi, non mollava mai. Stava moltissimo sul campo, specie con i più giovani. Quando eravamo in ritiro faceva il giro delle camere, continuava a dare consigli in vista della partita. Un martello, mai seccante, però. Anzi, la sua era una carica molto positiva».
Di chi fu l’idea di rinunciare al regista per un centrocampo di ferro composto da Furino, Benetti e Tardelli? «Certamente Trapattoni privilegiava la gente che mordeva le caviglie e che aveva le capacità di ripartire a razzo, di lanciare il contropiede veloce. Vado sul sicuro se dico che le varianti tattiche nascevano dal confronto tra Boniperti e Trapattoni. Anche se non so a chi dei due veniva prima l’idea».
Allora è vero che la formazione la faceva Boniperti! «Non è vero. La presenza di Boniperti era un valore aggiunto per l’allenatore. Il presidente sapeva di calcio e aveva grande personalità. Il Trap è stato bravo a lavorare con lui, ogni lunedì era in sede. Cosa che non ha mai fatto Zoff quando è tornato alla Juve da tecnico».
Perché? «Diceva: “Devo andar lì a sentir parlare di Hansen, di Præst. Ma no, non mi va”. Dino è fatto a modo suo, io sono stato con lui in camera per anni e mi avrà detto tre parole. Ricordo che gli piacevano i gialli del Commissario Sanantonio. Sia chiaro, siamo amici, il suo arrivo alla Juve come compagno è stato fondamentale. Prima, oltre che il centravanti, dovevo marcare anche i portieri, visto che non ne bloccavano mai una».
Lei a Zoff, invece, hai fatto più di uno scherzo in campo. «Non ho mai segnato. Mi sono sfogato con alcune autoreti di pregio al povero Dino. Quella più incredibile la realizzai all’Olimpico, contro la Roma nel 1975. Ero solo, sul dischetto del rigore, spalle alla porta. Cross lento di Bruno Conti ed io riesco a beccare il sette in rovesciata. Una sassata paurosa. E Zoff che mi fa: “Se la tiravi più piano, la paravo”».
In fondo i piedi non sono mai stati il suo forte. «Mi ricordo il primo giorno a Torino. Io e Vieri andammo da un barbiere per tagliarci e capelli. Io stavo leggendo il giornale. A un certo punto, uno dei vecchietti che era lì disse: “Porca miseria, hanno mandato via Bercellino e hanno preso quello scarpone di Morini”. Io mi nascosi ancora di più dietro al giornale, chissà forse mi avrebbe preso anche a pedate se mi avesse riconosciuto».
Non male come accoglienza. «La giornata, in realtà, proseguì con la conferenza stampa di presentazione. C’erano venti giornalisti. A Vieri chiesero di tutto, a me neanche una domanda. Una tristezza enorme. Ma avevo voglia di sfondare dopo le buone stagioni alla Sampdoria. Venivo da una famiglia di contadini. Non mi sono mai buttato giù e quando è arrivato il Trap ero oramai uno dei cardini della Juventus».
Quali erano i suoi punti di forza? «L’anticipo, la velocità e la grinta. Il centravanti me lo mangiavo. Il mio motto era: munizioni non arrivano, cannone non spara. Se stavo bene fisicamente, era dura farmi goal. Vallo a chiedere a Gigi Riva: in diciassette duelli, non mi ha mai segnato».
Nella memoria collettiva sono rimasti impressi i corpo a corpo con il Boninsegna interista. «Bonimba era un teppista. Dicono che si strofinasse i gomiti con una pomata irritante. Di sicuro c’è che se gli stavi troppo attaccato, prima o poi ti arrivava un colpo».
E lei porgeva l’altra guancia? «Col cavolo. Una volta a San Siro gli diedi una gomitata sulla spalla. Nelle interviste del dopo partita mi ricordo che dissi che non solo non ero pentito, ma che la spalla gliel’avrei staccata volentieri! Il guaio è che Boniperti, per quelle dichiarazioni, mi dette 500.000 lire di multa. Lo stile era stile».
Com’era il suo rapporto con Boniperti? «Ottimo, da cacciatore a cacciatore. Un anno rischiò l’infarto».
Durante una battuta di caccia? «No (ride), a fine stagione 1971-72. L’anno prima, alla mia richiesta di aumento, mi rispose tirando fuori la foto dell’Inter che aveva vinto lo scudetto. Allora io gli dissi: “Se l’anno prossimo vinciamo, mi regala un fucile”. Accettò la scommessa. Vincemmo il campionato ed io presi un Cosmi, valore commerciale quattro milioni e mezzo. È ancora lì che urla dalla disperazione per i soldi che gli ho fatto spendere».
Si vendicò in qualche modo? «No. Anche perché lui aveva il totale controllo su di noi. Sapeva tutto. Aveva un braccio destro, il mitico Romildo. Mandava lui a spiarti, a vedere se eri in casa o no. Oltre alle classiche telefonate serali. Non potevi muovere un passo. Niente discoteche, niente trasgressioni».
Niente donne, quindi. «Era matematicamente impossibile. Solo quando venivamo convocati con la Nazionale, allora in quella settimana lì le briglie si scioglievano. Aspettavamo quel momento per sfogare tutti gli istinti. Meno male che in azzurro ci sono stato poco».
Le è pesato aver fatto solo una decina di presenze con la Nazionale? «Sinceramente sì. Soprattutto mi rode non essere andato in Argentina. C’era tutta la difesa della Juve, tranne me. Senza contare che Bellugi era mezzo rotto, aveva una gamba più piccola dell’altra. Le provai tutte per andarci, anche una pressione tramite Zoff».
Si è raccomandato? «Gli dissi: “Tu e Bearzot siete della stessa terra. Gli puoi dire che ti fidi di me, che sono anni che giochiamo insieme”. Insomma avrei voluto che lui facesse presente al commissario tecnico che con me poteva andare sul sicuro, oltretutto avrei giocato con gli stessi miei compagni della Juve. Avevamo un blocco difensivo da urlo, in quegli anni».
Mi sembra che l’ambasciata non abbia avuto alcun effetto. «Anche perché non ci fu nessuna ambasciata. Dino mi guardò e fu perentorio: “Io non le faccio queste str... e!”. In compenso Bellugi prese goal dopo un minuto con la Francia e poi si fece male. Ed io persi cento milioni. Ma lasciamo perdere, torniamo alla Juventus 1976-77, è meglio».
Ok. Quali erano i punti di forza di quella squadra? «Tanti, ma non lo spogliatoio».
Davvero? «Il nostro non era uno spogliatoio in cui regnava la perfetta armonia. Non ci sono stati odi particolari, questo mai. Ma nemmeno una fusione perfetta. C’erano tanti leader, tante personalità forti. Poteva succedere che io, Scirea e Zoff fossimo più legati. Bettega per esempio era un tipo chiuso. Durante la settimana ognuno se ne stava per i fatti propri, ma la domenica o il giorno della partita, la Juve era un blocco unico e di acciaio».
Mi immagino durante le partitelle d’allenamento. «Ci tiravamo delle legnate bestiali, sa quante volte il Trap è stato costretto a fischiare prima la fine della partita? C’era molta animosità, diciamo pure rivalità. Si litigava spesso, questo sì».
Qualcuno è arrivato anche alle mani? «Qualche anno prima, tra Salvadore e Marchetti volarono pugni e zoccolate. Oddio, Salvadore, pace all’anima sua, una volta fece andare fuori dai gangheri anche me. Il male è che successe in partita».
Quale? «Era la finale di Coppa Intercontinentale del 1973, a Roma contro l’Independiente. Mi chiamava ogni secondo: stai attento lì, marca stretto quello, occhio di qua. A un certo punto dissi basta e gli rifilai una gomitata nello stomaco. Lui mi rincorse fino a centrocampo per vendicarsi, poi intervennero i compagni e la finimmo lì. Ora che ci penso, ricordo anche una furiosa litigata in allenamento tra Boninsegna e Benetti, durante il loro primo anno alla Juve».
Tutti i particolari, prego. «I primi tempi abitavano nello stesso condominio a Torino. Boninsegna aveva un cane con lo stesso carattere del padrone. Abbaiava in continuazione, si scagliava contro le persone. Una volta dette un morso al portiere. Insopportabile. Poco tempo dopo, il cane fu trovato morto. Per questo Bonimba litigò furiosamente con Benetti, fortemente sospettato di avergli fatto fuori il cane».
Ma era veramente così cattivo Benetti? «Con Benetti nessuno voleva condividere la camera perché fumava e dormiva con le finestre aperte anche a gennaio. Ma in quanto a cattiveria pura, non era il più cattivo. Prima di lui c’era gente come Furino, Tardelli, anch’io. Mettiamoci pure Gentile e sicuramente Bettega. Ecco, lui era capace di farti l’entrataccia».
Ma era anche l’uomo in più di quella squadra. «Roberto era fortissimo, grande giocatore e grande goleador. In quella stagione fu decisivo, sia in campionato sia in Coppa Uefa, insieme al Barone Causio e a Tardelli, una vera rivelazione».
Che ricorda del trionfo in Europa, il primo per la Juve? «I primi due turni in cui buttammo fuori i due Manchester. Una svolta decisiva per il resto del cammino. Personalmente il duello con Sparwasser del Magdeburgo, un centravanti tra i più forti dell’epoca. Fu una partita perfetta, non gli feci vedere pallone. È il mio fiore all’occhiello».
E della finale di Bilbao? «Il Trap fece entrare Spinosi, loro premevano a più non posso. Mi passa davanti, era bianco come un cencio. Ed io gli faccio: “Spina, stai tranquillo, la cosa più importante è che martedì dobbiamo andare a caccia”. Per poco non resta secco e duro per terra. Per il resto la sensazione di assoluta mancanza di forze negli ultimi venti minuti. Non riuscivamo a venir via dall’area. Erano i fotografi a spingerci. Al fischio finale, una gioia mai provata. Finalmente».
Una giusta ricompensa per chi, come lei, visse la delusione di Belgrado del 1973. «Credo di sì. Quella con l’Ajax fu una partita stregata. Loro erano più forti e correvano di più. A un certo punto dissi a Furino: “Ma li hai contati? Perché secondo me sono più di noi”. Stavolta, invece, la Coppa era nostra».
Come avete festeggiato? «Festeggiato? Facemmo in tempo a bere un po’ di spumante, poi Boniperti ci richiamò all’ordine, perché la domenica dopo c’era l’ultima di campionato con la Sampdoria, il Toro era a un punto. L’aeroporto di Bilbao era chiuso per nebbia. La mattina dopo arrivammo in Francia in pullman e poi con un aereo messo a disposizione dall’Avvocato Agnelli tornammo a Torino».
22 maggio 1977: Juventus cinquantuno punti, Torino cinquanta. È lo scudetto record. «Il derby dell’anno lo vincemmo noi».
Grazie anche a una difesa mostruosa. «Senza nulla togliere agli altri reparti, era la nostra arma vincente. Gentile e Cuccureddu non erano solo terzini. Scirea era un centrocampista aggiunto. Con lui l’intesa era perfetta. Non abbiamo mai sbagliato un’uscita difensiva. E poi c’era Zoff, insuperabile».
Nel 1980 chiude la carriera da calciatore e l’anno dopo inizia quella da dirigente. «Non era nei programmi. Ero in Canada, tiravo gli ultimi calci con il Toronto Blizzard. Un giorno mi chiama l’Avvocato: “Morini, la smetta di fare il co*****e in giro per l’America. Torni da noi a fare il direttore sportivo”. Mi avevano offerto di dirigere una scuola calcio, mi davano 150.000 dollari all’anno. Sono tornato a Torino per tre milioni lordi al mese. Ma alla Juve potevo dire di no?».
 
 
Modificato da Socrates

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