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bidescu

Antonio Cabrini

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Joined: 31-May-2005
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Si è imposto subito come un ottimo terzino moderno: le sue qualità apparvero talmente evidenti, che anche in un club come la Juventus, rispettoso della tradizione e, soprattutto, delle gerarchie, decisero che sarebbe stata follia rinviare il lancio di quel giovanotto dal volto d’attore e dal fisico di atleta. La vita juventina di Antonio Cabrini inizia ufficialmente alle quindici di domenica 13 febbraio 1977 a Torino. L’incontro, con la Lazio, è vinto per 2-0 dai bianconeri. Buon auspicio, del resto anche quello era un anno scudetto. Sette partite e quindici nel campionato successivo, tutte giocate ad altissimo livello. Quando la stagione del Mundial di Buenos Aires si apre, Enzo Bearzot decide che Cabrini avrebbe fatto parte della comitiva azzurra. E così, il debutto in azzurro avviene nella più famosa ribalta del mondo.
Cabrini è nato l’8 ottobre 1957 nella fattoria dove, da duecento anni, vive la sua famiglia, fra i paesi di Casalbuttano e Casalverde, a pochi chilometri da Cremona. Il nome della cascina è singolare: Mancapane, perché, si dice, in tempi remoti, una volta al mese, arrivava il gabelliere per riscuotere le tasse e gli abitanti protestavano che mancava tutto, anche il pane.
A tredici anni si trasferisce a Cremona, in casa di una nonna. Libri e gioco del calcio. Frequentava le medie, gli sarebbe piaciuto il diploma di perito agrario e arriverà fino al penultimo anno quando l’impegno nel calcio diventa totale. Il futuro campione del mondo giocava nel San Giorgio, squadra di Casalbuttano. Poi il salto nelle giovanili della Cremonese.
Ha raccontato: «Mi sono presentato da solo, avevo quattordici anni. Cercavano ragazzini, quel giorno eravamo una cinquantina. C’erano diversi allenatori, fra i quali Nolli, ex giocatore della Sampdoria ai tempi di Baldini. È stato il mio vero scopritore, lui mi ha creato come giocatore. Inizialmente giocavo all’attacco, ala sinistra. Negli allievi c’era bisogno di un terzino e Nolli mi mise lì».
Il football, allora, era ancora soltanto un gioco, ma presto sarebbe arrivato il debutto in Serie C: «Fu a Empoli, cercavamo un punto, mi resi conto che in questo mestiere c’era da lottare, ma potevo starci».
Tre anni con la Cremonese allenata da Titta Rota, poi l’Atalanta, in Serie B: trentacinque ottime partite e un goal. Cabrini era in comproprietà con la Juventus che, a fine stagione sborsò, senza batter ciglio, i 700 milioni per il riscatto.
E in bianconero l’ascesa è rapida: la maglia da titolare, le convocazioni nelle Nazionali giovanili, l’ingresso nel Club Italia: «Ho un carattere abbastanza espansivo e aperto, per cui non ho avuto difficoltà di ambientamento a Torino e non ho mai avuto problemi di solitudine; per questo devo ringraziare Tardelli e Scirea, due ragazzi straordinari con i quali ho legato tantissimo, sin dai primi giorni del mio arrivo alla Juventus. Non ho avuto nessun problema nemmeno in Nazionale; al mio esordio, in Argentina, i nove-undicesimi della squadra erano bianconeri, quindi avevo la sensazione di giocare ancora nella Juventus».
È l’idolo delle teenager, elegante di un’eleganza alla moda, un po’ casual, forse un po’ vistosa e così, nelle rare partite mediocri, allo stadio, qualcuno lo chiama Uomo Vogue. Nessuno lo discute come giocatore: è diventato The best in the world, più bravo dell’argentino Alberto Tarantini, più bravo del brasiliano Leandro. Non beve, non fuma, ama leggere, soprattutto Hemingway; gli piace la musica, più leggera che classica, e apprezza Bob Dylan; al cinema lo hanno incantato Jacqueline Bisset e Robert De Niro. Qualcuno gli ha anche suggerito di fare l’attore, con quel volto da bello dello schermo. Un giorno avrebbe sospirato: «Sarebbe bello girare un film sotto la regia di Ingmar Bergman».
Gira il mondo con la Juventus, ma nel cuore gli rimarrà sempre la sua fattoria e a Cremona corre appena può. Quando decide di mettere su famiglia, conferma di essere oramai maturo. In campo il rendimento è sui livelli più alti: gli affondo verso la porta avversaria appaiono incontenibili. «Per me il calcio è un fatto anche dinamico. Anzi, è soprattutto un fatto dinamico. Io non sarò mai un tattico», ha spiegato.
Ma quando gli viene chiesto di seguire le consegne, lo fa con scrupolo. Pochi si accorgono che accarezza il pallone, soprattutto con il sinistro. Come Sivori, del resto, o Puskás. Un grandissimo, da primi cinque di ogni epoca nel suo ruolo; sa mettere il silenziatore ad ali veloci e temute, spingersi avanti e rifornire di cross gli attaccanti e, alla bisogna, è frequentemente in grado di risolvere personalmente l’incontro, sia di testa, eccellente tempismo ed elevazione fuori dal comune, sia su calcio piazzato, sia con ciabattate da fuori. Una continuità di rendimento impressionante, fu fuori fase solo dopo il Mundial argentino; non seppe, infatti, reggere l’impatto con l’improvvisa fama. Stuoli di ragazzine lo avevano eletto loro idolo, al punto che il Trap non esitò a rispedirlo in panchina; rischiò di perdere il posto anche in Nazionale (la concorrenza non era affatto male, Maldera, Baresi e, soprattutto, Nela).
Superato il momentaneo sbandamento, ritornò a essere il miglior esterno sinistro al mondo in quegli anni, nonostante gli antagonisti: l’inglese Sampson, il brasiliano Junior (bravissimo, ma in realtà centrocampista, dirottato sulla fascia solo perché quel Brasile aveva un numero impressionante di centrocampisti di grande valore: Socrates, Falçao, Cerezo, Batista e Dirceu), il francese Bossis, il belga Renquin, il tedesco Briegel (il grandissimo Breitner era stato oramai dirottato in mezzo al campo, per mere ragioni anagrafiche). Tutta gente di assoluto valore ma che non poteva competere con Cabrini nel ruolo di esterno.
Con la Juventus totalizza 440 presenze con cinquantadue goal. Vince tutto: oltre al Mondiale 1982, sei scudetti, due Coppa Italia, una Coppa Campioni, una Coppa delle Coppe, una Coppa Uefa, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa Europea.

VLADIMIRO CAMINITI
Quel terzino casalese che aveva convogliato su di sé tutte le nuvole e tutte le stelle, che il calcio concepì primigenia passione, senz’altro che il calcio così da morire sboccando sangue per un match fra scapoli e ammogliati che fu Caligaris, ha avuto per me il suo seguito ideale in un cremonese bello come il sole, di nome Cabrini. Caligaris si agitava con il suo fazzoletto bianco attorno alla fronte, anticipando oniricamente le soluzioni tattiche che Cabrini, ex attaccante, avrebbe realizzato in modo perfetto, sgusciando in dribbling sull’out, andando al tiro anche in mischia, con quel piede sinistro versatile e acrobatico. Un  puro giovane, tal da stupirsi, appena iniziata a Bologna la carriera di direttore sportivo, di vedere certe scene al mercato, di ragazzi di vent’anni con i loro genitori al seguito a caccia di un qualsivoglia ingaggio. Cabrini ha scritto una favola e l’ha vissuta interamente. Prima di sposare Consuelo, tutte le ragazze d’Italia l’hanno amato, senza essere divo l’hanno divinizzato, come ideale di uomo e di calciatore. Molto vero. Ha occupato nella Juventus e in Nazionale un ruolo spesso nevralgico, dalle sue incursioni e dai suoi tiri molte partite hanno trovato soluzione. Mi rivedo in quello che è il palcoscenico culminante della sua carriera, il bianco stadio Bernabéu la sera magica della finale per il titolo di Campione del Mondo fra Germania e Italia. È l’11 luglio 1982. Tutti i nodi vengono al pettine, ma c’è un momento di viva tensione, di accoramento, di lacrime; appartengono a Cabrini, che manca un calcio di rigore, e le squadre vanno al riposo sullo 0-0. Come andrà a finire? Nel miglior modo, siamo Campioni del Mondo e con tutti i meriti del gioco. La squadra si è superata, Cabrini ha confermato la sua classe alata.
Un terzino di ostruzione sempre sprigionante anticipo ed eleganza, che diventa ipso facto terzino di costruzione, il più ispirato e incisivo dell’intera storia della pedateria italica. Forse, come eclettismo, il massimo, anche a paragone del più potente e lineare Facchetti. Poi l’uomo. Tornito dentro e fuori come un capolavoro, un ragazzo sentimentale, un esteta che ha sempre rifuggito da ogni atteggiamento forzato, il più bello juventino di un ciclo insuperabile, un Rodolfo Valentino del calcio senza le falsità e le angosce del divo per forza.

NICOLA CALZARETTA, “GS” APRILE 2013
Una grande macchia azzurra colora Coverciano, tra rappresentative Under delle varie categorie e quella femminile, allenata dal maggio 2012 da Antonio Cabrini. L’appuntamento con lui è nella hall. Scegliamo un angolino nello stanzone dietro al bar, dopo un bel caffè. Cabrini è in grande forma. Solare e sorridente. Ha accettato con entusiasmo la proposta della Federazione di guidare la Nazionale rosa, dopo aver fatto l’osservatore per Cesare Prandelli. Non poteva essere altrimenti: il Bell’Antonio Commissario Tecnico della Nazionale delle ragazze, un cerchio che si chiude. «A parte le battute, mi sento allenatore, come mentalità. Ho fatto anche il Direttore Sportivo appena chiuso con il calcio giocato, ma quella era una vita che non faceva per me. Mi piace allenare, insegnare, guidare un gruppo. Questa è una bella opportunità e ringrazio la Federcalcio per avermela offerta».
Esperienza ne ha, avendo giocato ad altissimi livelli per una vita intera. Ma oggi siamo qui per parlare dei suoi trascorsi di calciatore. Gli mostro un libro sulla Juve e lui va subito a controllare il suo palmares. Ci sono degli errori? «Non mi sembra. Ci sono gli scudetti e tutte le coppe internazionali. In verità lo guardo per ricordarmi cosa ho vinto (ride)».
Hai vinto molto. «Con quella squadra lì era impossibile non vincere. Eravamo quasi tutti nazionali. Nel 1978, ai Mondiali in Argentina, siamo stati anche nove su undici. Ognuno di noi era un leader nel suo ruolo. E la nostra forza, spesso, la leggevamo nei volti degli avversari».
Cosa dicevano quei volti? «C’era preoccupazione, alcune volte paura. Vedevi questo timore e di qua ti sentivi ancora più convinto, la partita era già vinta ancora prima di giocarla. La stessa soggezione che si ha quando entri perla prima volta in certi stadi, per esempio a San Siro».
Tu hai avuto paura? «Ero emozionato, certo. Spaventato no. Diciamo che la maglia della Juve stempera molte tensioni. Indossare il bianconero è una bellissima corazza che ti protegge da tutto e ti dà le giuste motivazioni per vincere. Sempre».
Tu quanto tempo hai impiegato ad assorbire la mentalità vincente? «Pochissimo. Ho capito in fretta dove ero e cosa mi veniva richiesto. C’era molto istinto da parte mia, il feeling è stato immediato. Ovviamente sono stato aiutato, anche perché quando sono arrivato alla Juve ero veramente un ragazzino».
Non avevi ancora compiuto i diciannove anni. Era l’estate 1976. «È così. Boniperti mi aveva preso già l’anno prima, dopo il mio primo vero campionato in Serie C con la Cremonese. Mi aveva segnalato Vycpálek, osservatore della Juve. Ricordo che a fine stagione Luzzara, il presidente grigiorosso, mi disse: “Ti abbiamo venduto alla Juventus, ma il prossimo anno andrai a Bergamo”. All’epoca ero così: Cremonese e Atalanta erano molto legate alla società bianconera. Era giusto che io facessi esperienza in B. E stato un anno molto positivo e a fine campionato sono andato subito a Torino».
Quando hai incontrato per la prima volta Giampiero Boniperti? «A Villar Perosa, durante il ritiro, per il mio primo contratto. Boniperti arrivava alle otto di mattina. In sette ore sistemava tutti i contratti. Oggi ci vogliono sette mesi. Andava in ordine alfabetico, partiva da Alessandrelli e finiva con Zoff».
A te è toccato presto, allora. «Sì, in mattinata. Entro nella stanza dove c’è anche il dottor Giuliano. Mi metto a sedere e, pronti via, Boniperti prende una foto e mi fa: “Chi sono questi?”. Ed io: “Quelli del Torino”. “Se arriviamo un’altra volta dietro questi qua, non contiamo un c...o. Arrivare secondi alla Juve è come avere perso, ricordatelo”. Questo il messaggio di benvenuto».
E il contratto? (risata) «Mi disse: “Firma qui”. Firmai. Durata dell’incontro: tre minuti e mezzo. Ah, ovviamente la cifra non c’era».
Ricordi di quanto fu il tuo primo ingaggio? «Credo dodici milioni e il mio primo acquisto fu una BMW 316. Comunque, prima di uscire dalla stanza, Boniperti mi disse: “Non preoccuparti, a fine stagione sarai contento”. Alla Juve c’erano dei bei premi. All’epoca era in uso dare un tot a punto, oltre a una cifra robusta in caso di scudetto o coppa. Più vincevi, più guadagnavi. Boniperti era avanti, i contratti legati ai risultati li faceva già negli anni Settanta. Un grandissimo presidente».
Mai avuto screzi con lui? «Mai. Con Boniperti il rapporto è stato meraviglioso. Aveva legato anche con mio padre, in fondo le radici erano comuni: la terra. Mio padre aveva un’azienda agricola. Una volta invitai tutta la squadra alla nostra cascina a Cremona. Facemmo una grande merenda. Venne anche il presidente e, a un certo punto, comparve perfino Ugo Tognazzi. Un pomeriggio fantastico».
Quali erano i punti di forza di Boniperti? «Intanto le fondamenta: la famiglia Agnelli. Boniperti ha avuto la fortuna di avere basi solide e l’Avvocato quella di scegliere il miglior dirigente sportivo. Boniperti aveva mentalità vincente, grinta, grande competenza tecnica, juventinità, carisma. E il suo passato di calciatore gli consentiva di capire noi. Certo, era un tipo intransigente, faceva le bucce a tutti, specie ai giovani. Ma sapeva dare il consiglio giusto. Ah, dimenticavo una cosa».
Prego. «La capacità progettuale. A partire dal totale rinnovamento del 1970, ogni stagione c’era l’inserimento di un giovane. Gentile, Scirea, Tardelli, io. L’anno dopo Fanna e Virdis, quindi Brio. Idee chiare e grande prospettiva, non è da tutti».
Hai un ricordo tutto tuo del presidente? «Tra i tanti ce n’è uno, per me molto significativo. A metà anni Ottanta mi operai a un ginocchio. Appena dimesso dall’ospedale, per prima cosa Boniperti mi rinnovò il contratto. Un gesto che va aldilà degli aspetti materiali e che dà il senso di quali valori ci fossero in quell’ambiente».
E uno degli esempi dello Stile-Juve? «Certamente. Perché quella era la cifra di comportamento tipica di quella società. Che aveva alle spalle la famiglia Agnelli. E tu che indossavi la maglia bianconera dovevi essere così, ti sceglievano soprattutto se possedevi certi valori. Per questo per me lo Stile-Juve vuol dire essere un eletto».
Non abbiamo ancora parlato di Giovanni Trapattoni. «Il Trap è stato il completamento dell’opera, iniziata molti anni prima quando Boniperti scelse il povero Armando Picchi. Con Trapattoni si è creato un connubio vincente. Ricordo che Boniperti ci diceva: “Se venite a lamentarvi, sappiate che noi stiamo sempre con l’allenatore”. Il confronto tra loro era costante. E non è un caso che nei suoi dieci anni sulla panchina bianconera, la Juve abbia vinto tutto, specie all’estero».
E per te cosa ha significato Trapattoni? «Mi ha insegnato a calciare di destro. Alla fine dell’allenamento, mi prendeva con sé e stavamo sul campo parecchio. Lui ed io. Il pallone e il muro. I primi mesi alla Juve li ho passati così. E giuro, non mi è mai pesato».
E poi? «E poi stato l’allenatore che mi ha lanciato, che mi ha fatto crescere sotto tutti i punti di vista. Un maestro. E un martello. Non mollava mai la presa, parlava molto con i giocatori. Ogni sabato, in ritiro, faceva il giro delle camere. Ti faceva il film della partita. “Mi raccomando domani fai così, succederà questo, tieniti pronto a quest’altro”».
Hai parlato di camera: chi era il tuo compagno nei tuoi primi tempi in bianconero? «Beppe Furino, un altro juventino fino all’osso. Anche lui è stato fondamentale con i suoi insegnamenti, non sulla tecnica (ride); piuttosto i tempi degli inserimenti, le marcature, le diagonali. E qualche dritta sul comportamento, sia fuori che dentro il campo».
Era Furino il leader dello spogliatoio? «Per certi versi sì. Ma leader era anche Dino Zoff. O lo stesso Bettega, che era intelligente, sveglio e il più cattivo in campo. Durante le partitelle erano scintille, siamo arrivati anche a scontri duri, in fondo erano tanti i personaggi di spicco. Ma la forza di quella squadra era che ogni cosa rimaneva all’interno dello spogliatoio».
Ma allora la regola aurea che per vincere bisogna essere un gruppo di amici non è sempre vera. «Non credo che esistano regole fisse. Ti posso dire come funzionavano le cose da noi. Eravamo legati, senza dubbio, nel rispetto delle proprie personalità, del carattere, dell’età».
Tradotto? «C’erano due tronconi. I giovani, quelli dal 1953 in giù, e i senior. Scirea era l’ago della bilancia: stava un po’ con noi e un po’ con gli anziani. Un grande, Gaetano, sempre calmo e serafico. Negli anni successivi ha iniziato a fare coppia fissa con Bodini, li chiamavamo Stanlio e Ollio, perché, nel loro modo, erano buffissimi».
Ma Scirea si è mai arrabbiato? «Non succedeva spesso, ma quando si incavolava, aiuto. Erano cinque minuti di fuoco. E accaduto qualche volta in allenamento, meno spesso in partita. Capitava quando non si sentiva sicuro dei compagni e percepiva imminente il pericolo».
Torniamo al gruppo, o meglio ai due tronconi. «Ci si divertiva, com’era normale che fosse per dei ventenni, ma senza sgarrare. Boniperti era uno al quale non sfuggiva niente. Io stavo tutto il giorno con Tardelli, abitavamo nello stesso condominio (trovato da mio padre) in Corso Trapani: lui al quarto piano, io al secondo. Sono stati tempi bellissimi, sempre insieme: colazione, pranzo e cena».
E il dopo cena? (ride) «Torino non offriva molto. Si passavano le serate a casa, qualche festa tra amici. Ma non abbiamo mai passato certi limiti. Anche noi giovani eravamo ben consapevoli delle regole. Io, per esempio, non bevevo, né fumavo. Non lo nego, avevamo due soldi, eravamo bei ragazzi, ambiti, talvolta ne abbiamo approfittato».
Ne parlavate l’indomani nello spogliatoio? «No. Le avventure erano condivise solo tra i protagonisti. Per il resto, vigeva la regola del segreto. Cosa che applico anche oggi. Su certi argomenti, non trovo giusto a distanza di anni andare a rimestare. Hanno fatto parte della tua vita, di un momento ben preciso e stop».
Tra gli anziani, oltre a Furino tuo compagno di camera, chi ricordi con particolare affetto? «Roberto Boninsegna. Io lo adoravo. Anche lui era appena arrivato alla Juve e per noi ragazzi è stato un punto di riferimento importante. Ci invitava spesso a casa sua a mangiare, ci dava consigli, ci ascoltava. In campo ci proteggeva: gli scatti più impegnativi che gli ho visto fare servivano per andare a difendere il compagno in difficoltà. Poi c’era Dino Zoff, una persona sensibile e attenta. Ma anche spiritoso. Ricordo che quando si facevano le serie di tiri in allenamento, ogni sua parata era accompagnata da una presa in giro».
Che bilancio fai del tuo primo anno alla Juventus? «Meglio di così! Scudetto record a cinquantuno punti e Coppa Uefa, il primo trofeo internazionale per la Juve. Io debutto a febbraio, gioco anche in Europa, faccio parte dell’Under 21. Una stagione bellissima. Su questa scia abbiamo costruito le vittorie degli anni successivi».
Qual era il segreto? «Quella Juve lì, oltre a essere fortissima dal punto di vista tecnico, era una squadra granitica, mentalmente inattaccabile. E poi c’era la coppia Boni-Trap e la loro sete di vittoria. Il presidente, nello spogliatoio di Bilbao, con la coppa in mano che dice: “Ragazzi, basta festeggiare. Ricordatevi che domenica c’è la Sampdoria, io voglio vincere anche lo scudetto”. E Trapattoni non era da meno. La partita era appena finita: “Bravi, abbiamo vinto, ma ora scordatevi tutto, perché domenica c’è un’altra battaglia”. Secondo me qui sta il segreto della continuità».
E veniamo alla stagione 1977-78, quella che ti ha portato ai Mondiali d’Argentina. Credevi che saresti diventato titolare? «No, sapevo di essere considerato, percepivo un clima di fiducia. E di natura sono un ottimista».
Qual è stata la prima spia che le cose stavano cambiando? «In verità il primo segnale si era già verificato l’anno prima, in occasione del mio debutto con la Lazio. Quella domenica mancava Gentile. La soluzione più logica sarebbe stata quella di sostituirlo con Spinosi, che era la prima riserva. Invece Trapattoni mise dentro me. Fu una precisa scelta tecnica».
Questa è la base di partenza per il tuo decollo. Tu cosa ci hai messo di tuo? «Ho messo dentro un miglioramento continuo. Dovuto a quattro motivi».
Partiamo con il primo. «La grandissima concentrazione. Ero sempre sul pezzo. La testa è stata la mia vera forza. E poi la convinzione di iniziare a essere una pedina fondamentale e non solo un rincalzo».
Secondo. «Il rapporto con l’allenatore. Trapattoni, specie con i giovani, ha una marcia in più. In quel secondo anno si è preso cura di me al cento per cento. Anche perché aveva in mente un nuovo assetto tattico che io, con le mie caratteristiche, gli potevo garantire».
Immagino che qui ci stia il terzo motivo. «Sì. Io coprivo tutta la fascia, avevo facilità di corsa e tecnicamente, con la cura del destro, ero cresciuto moltissimo. Mi rendevo conto che avevo delle doti particolari, forse uniche. Ma la cosa più bella è che mi veniva tutto naturale, non ero impostato, era istinto».
E pensare che da piccolo giocavi all’attacco. «Fu Mister Nolli a cambiarmi posizione quando ero negli Allievi della Cremonese. All’inizio non fui per niente contento, anche perché a me piaceva fare goal, ma lui mi disse che in quel ruolo li avrei raggiunto grandi traguardi. Ha avuto ragione. Mi piace ricordare Nolli e i tempi della Cremonese, anni bellissimi. Pensa che nella squadra c’erano Gozzoli, De Gradi, Azzali, Malgioglio, Cesare Prandelli: tutta gente che è arrivata ai massimi livelli».
Manca l’ultimo motivo alla base della tua esplosione. «Il divertimento: per me il calcio è sempre stato un gioco. I soldi hanno avuto il loro peso, ma mai superiore alla passione e alla gioia che mi dava giocare».
E un bel giorno arriva Enzo Bearzot. «Il Commissario Tecnico mi convocò nell’Italia Sperimentale, che a Verona, a fine aprile 1978, avrebbe fatto un’amichevole con la Lega scozzese. Giocai tutta la partita e feci bene. A fine gara Bearzot mi prese da parte e mi disse: “Tieniti pronto perché ti porto in Argentina, ma non dire niente a nessuno”. Mi si chiuse lo stomaco, ero felicissimo, ma mantenni il silenzio assoluto. Fino al giorno delle convocazioni».
Sapevi anche che avresti debuttato al Mondiale? «No, anche se la spinta al rinnovamento era forte. La Nazionale era sotto assedio. Per me la svolta ci fu con la partita contro il Deportivo Italiano, a pochi giorni dal Mondiale. Entrai nel secondo tempo al posto di Maldera e, dall’allenamento successivo, nei vari schemi da provare, nel ruolo di terzino sinistro c’ero io».
E così il 2 giugno 1978 debutti in Nazionale, addirittura in un Campionato del Mondo. «Seppi tutto due giorni prima della gara. Bearzot me lo disse, senza la necessità di tante parole. Io mi sentivo pronto, sia mentalmente che fisicamente. Mettiamoci anche un po’ di incoscienza dell’età. Debuttai, e feci un bel Mondiale. Lì in Argentina è nato il trionfo di quattro anni dopo».
Già: 11 luglio 1982, Campioni del Mondo. A distanza di oltre trent’anni, cosa rimane? «La sensazione di aver fatto qualcosa di eccezionale, storico, unico. Specie per come eravamo partiti e per il trattamento che ci avevano riservato in molti. La Nazionale di Spagna è figlia di quella dell’Argentina. Meno potente ma più rapida, più cinica, più brillante».
Quali sono le tue foto personali di quel trionfo? «Non il rigore della finale (ride). Piuttosto il goal contro l’Argentina. Sinistro di prima intenzione a incrociare sul palo più lontano. Uno dei miei gol più belli in Nazionale. E poi Sandro Pertini e il suo abbraccio a ciascuno di noi: ci ha dato l’esatta misura di quel che avevamo fatto. Che andava oltre l’ambito sportivo».
Chiusa la parentesi azzurra, torniamo alla Juve. A un certo punto ti raggiunge in bianconero anche Cesare Prandelli. «L’amico di sempre, nonché il vero artefice del mio cambio di look nell’estate del 1983».
Una scommessa? «Più o meno. Eravamo insieme dal parrucchiere e lui disse: “Tu decidi il taglio per me ed io faccio lo stesso con te”. Feci l’errore di far andare per primo lui, acconciatura normale. Poi toccò a me: e mi tolsero tutti i riccioli. Fu uno shock. Cesare è così, di scherzi ne ha sempre fatti».
Aveva una vittima preferita? «Era Roberto Tavola, un altro dei mattacchioni che nell’estate del 1979 passarono dall’Atalanta alla Juve. Il top era Marocchino, lui era incontenibile. Tavola, invece, era condizionato da tutto. Ricordo sempre il giorno in cui Trapattoni gli consegnò la maglia con il numero dieci e lui: “Ma io non so se ce la faccio a portarla”. Ma come, porca miseria, il Mister ti dà la maglia da titolare e tu rispondi così?».
E tu hai mai avuto paura della maglia bianconera? «Mai. Semmai me l’ha fatta pesare il Trap dopo l’Argentina».
Perché, cosa successe? «Mi tenne fuori per le prime domeniche di campionato. Me la presi molto, caspita avevo fatto un Mondiale incredibile. Ma aveva ragione lui. In quel momento non ero all’altezza di giocare titolare. Il problema è che quando sei calciatore non riesci a valutare appieno le cose. In più c’è un dato statistico: chi ha giocato ai Campionati del Mondo paga pegno nella stagione successiva per almeno quattro-cinque mesi».
Successe così anche dopo Spagna 1982? «In campionato sì. Facemmo meglio in Europa, a parte Atene».
Eppure cerano anche Platini e Boniek. «Due fuoriclasse. Stratosferico Michel, era un piacere vederlo giocare. Zibì era devastante, ma non riusciva a capire come “regolarsi”».
Siamo alle pillole finali: il tuo goal più bello con la Juve? «Goal-partita nel derby del 26 marzo 1979: collo pieno e pallone nell’angolino opposto. Il tutto a un paio di minuti dalla fine. Venne giù il Comunale. Al secondo posto, il goal scudetto due anni dopo, contro la Fiorentina: più di prenderla con il sinistro, mi avvitai in aria, ancora non so come feci».
L’avversario più duro? «Odoacre Chierico, ai tempi della Roma. Era una finta continua, con lui ho durato fatica. Poi c’è Bruno Conti che passava da Gentile a me. È capitato spesso che le convocazioni in Nazionale arrivassero dopo Juve-Roma e che il duello, verbale, continuasse pure li, anche se ridotto a livello di scherzo».
Tra le tante, quali sono le vittorie più significative con la Juve? «La Coppa delle Coppe perché venne subito dopo Atene. E poi l’Intercontinentale a Tokyo nel 1985. Alzai la Coppa da capitano perché Scirea era uscito».
L’Heysel? «Una tragedia incancellabile. Era giusto non giocare, eravamo tutti frastornati. Siamo stati obbligati e, a quel punto, è stata partita vera, soprattutto da parte loro. Doveva essere una festa, è stata una sciagura».
Perché nel 1989 hai lasciato la Juve? «Non l’avrei mai lasciata, qualche anno prima avevo rifiutato una buona offerta della Roma. Ma era finito un ciclo. Per me ci sarebbe stato un ruolo di secondo piano. Io, invece, volevo giocare e, d’istinto, scelsi Bologna».
Ti è pesato andare via? «Molto. Dopo tredici anni. Ero arrivato ragazzino, me ne andavo via da adulto, con tutti i sogni realizzati. La Juve mi ha dato tanto ma credo di averle dato pure io, giocando oltre i limiti».
Quando è successo? «Nella finale di Supercoppa Europea contro il Liverpool nel 1985, avevo il distacco della retina per una pallonata presa da Brio nella partita contro la Sampdoria. Il medico mi disse di stare fermo per un mese. “Non posso” rispondo io . Allora lui si raccomanda che non prenda il pallone di testa. Bene: prima palla, colpo di testa. Per non parlare del ginocchio sfasciato».
Parliamone. «Ho giocato più di mezza stagione con le stecche d’acciaio a protezione del ginocchio. Il tutto coperto da una fasciatura color carne per non far vedere niente all’arbitro. Oggi non ti farebbero neanche avvicinare al campo! Per me questo era normale. Sopportavo il dolore, non volevo mollare. C’era la maglia, c’erano i tifosi. E c’era la Juve».

 

http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/10/antonio-cabrini.html

 

 

Modificato da Socrates

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KhaledAlnouss on Twitter: "Happy birthday to Juventus legend Antonio Cabrini,  who turns 63 today. Games: 440 Goals: 52 🏆: 13 https://t.co/tsDX9ppU0C" /  Twitter
.

 
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Antonio Cabrini, fuori e dentro il campo da calcio | Foto iO Donna
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817 messaggi

L'ultimo vero grande terzino sinistro che abbia avuto la Juve. Mitico Carabina.

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Joined: 01-Dec-2006
87 messaggi

Per lui ho una passione smisurata....... @@sefz

E' sicuramente il miglior terzino sinistro che io abbia avuto la fortuna di ammirare!!!!!!!

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Joined: 07-Oct-2007
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L'ultimo vero grande terzino sinistro che abbia avuto la Juve. Mitico Carabina.

cabrini cetamente

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Joined: 22-Apr-2007
989 messaggi

rispondo a nome di mia sorella che ha 35 anni: ha fatto sicuramente avvicinare tantissime ragazzine di quegli anni alla juventus .asd ...scherzi a parte, io nn ho avuto la fortuna di vederlo, ma ci sono diversi video su youtube ....sembra un giocatore fantastico!!!...altro che sembra, lo

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Joined: 13-Apr-2009
409 messaggi

grande giocatore!!!!!!!!!!!!!!

tutte le mie compagne di classe tifavano juve solo perch

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Joined: 13-Jun-2005
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Zoff-Gentile-Cabrini @@

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rispondo a nome di mia sorella che ha 35 anni: ha fatto sicuramente avvicinare tantissime ragazzine di quegli anni alla juventus .asd ...scherzi a parte, io nn ho avuto la fortuna di vederlo, ma ci sono diversi video su youtube ....sembra un giocatore fantastico!!!...altro che sembra, lo

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....spero topic non doppio....

....ieri dopo la partita con l'udinese su sky e' andato in onda uno speciale sul mitico Cabrini....

Consiglio a tutti , specialmente ai più' giovani del forum di dargli un occhiata per vedere di che grande giocatore stiamo parlando e ancor di più' , se mai ce ne fosse bisogno , che cosa e' la Juventus.....

....di cabrini alla juventus si sa tutto , io lo voglio ricordare in un Juve - Panathinaikos del 1987 , l'anno di Jan Rush , vincemmo 3 a 2 a Torino , uscimmo dalla coppa Uefa , gioco praticamente da solo contro tutti gli avversari , fini' la partita sfinito , nonostante uscimmo dalla coppa Uefa il comunale gli tributo' un ovazione come poche volte aveva fatto...

....fatto fuori da Maifredi x far posto a Luppi e De Marchi ci lascio con qualche rancore ma , come ripetuto ieri sempre bianconere dalla testa ai piedi.....

Grande Antonio

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il piu' grande terzino d'attacco,cosi' veniva definito negli anni 80,della storia bianconera,per me inarrivabile

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Altro pianeta

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Il miglior terzino del mondo della sua epoca !!!

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Antonio Cabrini Signed Photograph - CharityStars

 

 
Da una fattoria nel cremonese fino a salire sul tetto del mondo. Una parabola di sudore e sacrificio
CABRINI
«ALLA JUVE ARRIVARE SECONDI E’ COME CHIUDERE ULTIMI»
«Fatico a pensare che le accuse rivolte a Platini siano vere»
«Calabria e Masina: il futuro è dei baby di Milan e Bologna
Il ruolo di terzino per una decina d’anni è stato cancellato»
di WALTER VELTRONI (CORRIERE DELLO SPORT 28-11-2015)
 
Quando Antonio Cabrini scendeva sulla fascia sinistra, quella in cui abitava stabilmente e dalla quale non si è mai mosso, si aveva l’impressione che tutto potesse accadere. Cabrini sapeva fare ogni cosa: difendere, contrare, giocare in acrobazia in difesa, impostare, lanciare, dribblare, crossare, tirare di testa e di piede. E sapeva anche calciare benissimo i rigori (salvo uno). Era perfetto. Aveva anche un fisico e un volto da attore senza le leziosità di un Beckham. Più che interpretare 007, come si dice potrebbe ora fare l’ala inglese, Antonio Cabrini avrebbe potuto essere un nuovo Trintignant de “Il Sorpasso” o uno Giuliano Gemma de “Il ritorno di Ringo”. Pensare che c’è stato un tempo in cui a destra c’erano Burgnich, Rocca o Gentile e a sinistra Facchetti, Cabrini o Maldini fa venire un po’ di nostalgia per la bellezza di quel calcio di un’Italia non satolla, non presuntuosa. Dove tutto era fatica e coraggio. La storia di Cabrini comincia in una fattoria del cremonese.
 
Si chiamava, singolarmente, “Mancapane”. «Sarebbe bello, sarebbe poetico, se questo nome nascesse da un grido di protesta o da un disperato lamento popolare. Ma non è così, almeno per quanto mi risulta. Il nome della azienda agricola di famiglia in realtà era “Marcapane”, perché, alle origini, era il luogo dove si faceva il dazio delle merci, dove il grano veniva pesato e il prezzo veniva fissato. Poi nel tempo una consonante è cambiata, chissà perché. Ed è rimasta così, come la creatività o il linguaggio popolare ha voluto. Era un classico castelletto con la corte e in mezzo l’aja. Tutto intorno le cascine con le case dei dipendenti, una trentina, con le loro famiglie che crescevano velocemente. C’era una grande allegria, in mezzo alla fatica e alla bruma. Si lavorava la terra, si allevava il bestiame, ma tutta la vita era lì, era un borgo, un microcosmo di vita dura e allegra. C’era una grande serenità, almeno io la ricordo così».
 
C’è ancora l’azienda?
«Sì, i miei vivono ancora lì. E io, quando posso, ci torno. Ma non è più la stessa. Non ci sono più i dipendenti e i loro figli allegri. Ora ci sono le macchine e il lavoro manuale si fa con collaboratori esterni. Si produce ma non c’è più quella comunità e un po’ la avverto, questa assenza, quando nell’aja si sente solo un gran silenzio».
 
E’ in quello spazio che lei ha cominciato a giocare?
«Il mio primo compagno di squadra è stato il muro. Passavo ore a tirare il pallone contro quella superficie disciplinata e fedele che tutto mi restituiva con ordine. Come io gli tiravo il pallone lei me lo rimandava. La fantasia ce la mettevo io, che contro quel muro sono stato capocannoniere, campione del mondo, centravanti e goleador. Era quello il mio Maracanà. Facevo colpi di testa, tiri a effetto, dribbling ubriacanti. La testa era a colori, il muro no. Lui era lì, tetragono. Mia madre inveiva perché lo sbrecciavo, ma almeno gli davo un po’ d’anima. Quelle ore, di ore si trattava, erano il mio mondo a parte. Poi giocavo con gli altri bambini e nei campi, che non ci mancavano, venivano a sfidarci da fuori, l’estate. Mettevamo due pali per terra ed eravamo felici».
 
Come è passato dal muro agli stadi?
«Avevo fatto un campionato Csi a Casalbutano, due chilometri da casa. Poi chiesi a mia madre di portarmi a fare un provino alla Cremonese. Mi vide l’allenatore, Nolli, che fece il diavolo a quattro per avermi. Allora la Cremonese era uno dei poli di un triangolo di amicizia tra società, anche l’Atalanta e la Juventus, che prefigurava un percorso possibile. Molti campioni hanno seguito quell’itinerario. Io allora giocavo punta, ero ala sinistra. Una volta Nolli mi mise alla prova. Mi disse, prima di una partita, “siamo in dieci, resta il ruolo di terzino sinistro, che fai ci giochi tu o preferisci restare fuori?”. Era una domanda retorica, prima che finisse avevo già indossato la maglia numero tre. Non me la sarei mai più tolta. Fino alla partita d’addio».
 
Mi parla di Nolli? La storia del migliore calcio italiano è ingenerosa con questi geni, scopritori d’oro calcistico. Penso, per citarne uno, a Favini, il mitico cercatore di talenti dell’Atalanta.
«Nolli era chiamato “Babbo Nolli”, è stato un grande talent scout, come lo sono quelli veri, che girano i campetti e sanno riconoscere un talento da come calcia o corre. Se rivede la fotografia di quella squadra degli allievi della Cremonese troverà sei ragazzini imberbi che poi sono finiti in Serie A. Oltre a me, c’erano Prandelli, Azzali, De Gradi, Gozzoli e Malgioglio. Non posso non ricordare anche i miei primi allenatori da professionista, Titta Rota, un sergente di ferro gentile e capace, un signore come Cadè e poi il Trap, un mito, che mi ha allenato per anni e insegnato molto».
 
Abbiamo parlato dei primi, mi parla dell’ultimo, Maifredi? E’ stata una meteora nel calcio italiano, per me un personaggio complesso e spiazzante. Non ho mai capito se fosse un genio incompreso o il contrario.
«Maifredi, che ho avuto al Bologna, aveva potenzialità enormi, sul piano teorico. Aveva idee innovative pazzesche. Lui immaginava calcio moderno ed era un vero anticipatore. Si è sorriso sul calcio–champagne ma dietro c’era una ricerca autentica, un progetto di calcio dinamico, esplosivo. Ma non aveva il giusto rapporto con il tempo. I suoi progetti erano talmente innovativi che ci volevano settimane per assimilarli. Lui lo faceva provare tre volte, se non avevi capito i movimenti giusti lui non se ne curava, passava avanti. Non aveva la pazienza necessaria, necessaria anche per i progetti più innovativi».
 
Lei esordisce giovanissimo in Nazionale, e non in una amichevole, ma nella prima partita del girone eliminatorio dei Mondiali del 1978. Aveva diciannove anni e nel suo curriculum ventidue partite in A, solo quattordici delle quali giocate da titolare. Un caso unico.
«Unico era l’allenatore della Nazionale di allora, Enzo Bearzot. Lui, che veniva descritto come un conservatore, era un profondo conoscitore del calcio e un uomo coraggioso. Sentiva che quella Nazionale aveva bisogno di qualcosa di inedito, di spumeggiante. Cercava ragazzi nuovi da inserire. Ricordo che venne a vedere, per questo, una partita della Sperimentale. Al termine mi prese da parte e mi disse “Tu non devi dire niente a nessuno ma io stasera ho deciso, ti porto in Argentina. Non mi importa che hai meno di venti anni e poche partite in A. Ti porto lo stesso”».
 
E quando le comunicò che avrebbe esordito?
«L’ultima amichevole fu con il Deportivo e lui nel secondo tempo fece entrare Paolo Rossi e me. Giocammo bene. E fu il test decisivo».
 
Sì, ricordo un fantastico gol di tacco di Bettega, in quella ripresa...
«Alla fine Bearzot ci avvicinò e ci disse di prepararci perché con la Francia avremmo cominciato noi. Paolo ed io dividemmo la pressione fortissima di quei giorni. Un po’ di incoscienza mi aiutò. E poi il fatto che in quella Nazionale c’era quasi tutta la Juve, squadra fatta da nove italiani su undici. E alla Juve, piaccia o no, tu sei subito abituato alla pressione e a metterti alla prova. Boniperti, quando arrivai, mi fece capire una cosa: che in bianconero arrivare secondi era come arrivare ultimi».
 
Come fu l’impatto con Torino, dopo Cremona e Bergamo?
«Io ero il pulcino, tra campioni e leader in ogni zona del campo. Mi misero, siccome ero il più giovane, nella stanza con Furino, dal quale ho imparato molto. Per esempio a non mollare mai, e anche una certa scaltrezza. Il mio migliore amico era Tardelli. Vivevamo nello stesso stabile e condividevamo tutta la giornata, dalla colazione al ristorante, fino a tarda sera. L’anno dopo il mio esordio nella Juve a Torino arrivò una “cucciolata” da Bergamo: Prandelli, Bodini, Tavola, Marocchino. Erano i miei amici e li aspettavo con gioia. Da Bergamo erano già arrivati lì Pietro Fanna e Gaetano Scirea, al quale ho voluto molto bene. Eravamo un esercito. Nato negli oratori e giocando con i muri».
 
Ora, che lei e Tardelli la sera andaste a dormire dopo aver cenato insieme è una notizia. Ambedue avevate successo con le donne e lei è stato il sogno proibito di generazioni di donne italiane.
«Se le dovessi dire che dovevamo faticare per conquistare una donna le direi una bugia. Però, mi creda o no, io avevo una gerarchia di importanza. Ero un atleta e un professionista. Sapevo quando potevo divertirmi, ma sapevo anche quando dovevo rinunciare. Avevo una priorità: se c’era una partita importante anche Miss Mondo passava in secondo piano. Il centro della mia vita era il mio lavoro, davvero».
 
Come giudica quello che sta passando Platini, uno dei due stranieri di quella squadra?
«In primo luogo mi dispiace, perché siamo molto amici. Poi io, conoscendolo, faccio molta fatica a pensare che siano vere le accuse che gli rivolgono. Le sorprese nella vita possono esserci ma Michel non è certo uno capace di giocarsi una carriera per dei soldi in più. Non riesco davvero a crederci».
 
Pensare a quella formazione significa ritornare con la mente a tanti successi in campionato però anche a due momenti difficili. Il primo, sportivo, la finale persa ad Atene con l’Amburgo e il secondo, umano, la tragedia dell’Heysel. Come li ricorda?
«Il primo fu il frutto del mix tra pressione e eccesso di sicurezza. Non avevamo mai perso una partita, giocavamo un calcio stellare. Eravamo sicuri di vincere. E infatti ci siamo bloccati e abbiamo perso. Bruxelles è la fine dello sport come innocenza. Noi non sapevamo, quando siamo scesi in campo e neanche alla fine del primo tempo, tutto quello che era successo. Ci avevano detto di un morto. E già questo ci aveva scioccato. Noi facemmo il giro di campo per andare dai tifosi, cercare di consolarli e dire che quella coppa l’avevano vinta loro. Sapemmo alla fine. Ma le posso dire una cosa, dopo averci pensato tante volte? Per fortuna si decise di giocare e di non sospendere. Può sembrare assurdo usare quel verbo ludico di fronte alla morte. Ma se noi non fossimo scesi in campo e si fosse dovuto evacuare lo stadio in emergenza ci sarebbe stato un esito ancora più tragico. Sarebbe successo il finimondo».
 
Torniamo all’Argentina, quella Nazionale era più forte di quella che poi vinse nel 1982?
«Io sinceramente credo di sì. Era più forte e strutturata. Ma ci siamo accorti in ritardo di quanto fossimo competitivi. Quella di Spagna era figlia di quella del 1978, ma era più consapevole e più cinica. L’evoluzione della specie».
 
Che clima c’era in quel Mondiale, voi capivate che stavate giocando in un paese sotto dittatura?
«Sì, sapevamo e vedevamo. C’era un clima asfissiante, controlli di polizia ovunque. Poi devo dirle che, nei nostri confronti, il clima cambiò dopo che vincemmo proprio con l’Argentina. Ebbi l’impressione che dessimo fastidio. Fummo gli unici a battere i biancocelesti. E io mi sono convinto che anche se fossimo arrivati in finale, l’Argentina avrebbe vinto comunque. Sia chiaro: era una grande squadra, con Ardiles e Bertoni, ma credo che fosse scritto, per ragioni extracalcistiche, che i Mondiali quell’anno li dovesse vincere l’Argentina. E nessun altro».
 
Veniamo ai Mondiali di Spagna. Il famoso silenzio stampa fu deciso perché un giornalista scrisse che lei e Rossi vivevate nella stessa stanza, come “marito e moglie”. Forse era solo, nelle intenzioni, una battuta infelice, da tutti i punti di vista, ma penso sia stata la classica goccia…
«Sì, c’era un clima invivibile. Eravamo sotto attacco tutti i giorni. Ce ne dicevano di tutti i colori. Non le critiche al gioco, ovviamente più che legittime, ma attacchi personali. Bearzot fu straordinario, ci disse che si sarebbe preso lui tutte le responsabilità di un esito negativo ma che noi dovevamo restare tranquilli. Non era facile però, perché davvero avevano perso i freni. Quella fesseria rientrava in questo clima e decidemmo un gesto forte. Certo rischioso ma necessario. La cosa buffa, ma frequente nel nostro paese, è che gli stessi che fino a qualche giorno prima dicevano che eravamo dei brocchi che dovevano tornare a casa poi si sperticarono in elogi aulici agli eroi di Madrid».
 
Le devo chiedere di quel rigore, ma lo faccio per dovere…
«Per lungo tempo, quando mi assillavano con la storia di quell’errore io rispondevo “ma del gol decisivo con l’Argentina non vi ricordate mai?”. Per me vale il testo della canzone di De Gregori “non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia...” Per me è stato un episodio negativo. Ma almeno a me è andata bene. Abbiamo sbagliato un rigore, ma abbiamo vinto un Mondiale. Miei colleghi hanno fatto lo stesso errore e sono stati eliminati. Comunque se vuol sapere come mi sentivo le posso rispondere semplicemente: mi sentivo una m…. Ho schiacciato stop e reset, per ripartire, ma ci ho messo un po’, almeno venti minuti. Ho reagito, come avevo il dovere di fare».
 
Lei ha molto cambiato il modo di fare il terzino sinistro, Facchetti aveva cominciato la rivoluzione, lei l’ha completata… Poi ci sono stati Maldini, Pessotto e poco altro. Vede qualcuno, tra i giovani?
«Io, quando ho cambiato ruolo, sapevo che ad attaccare ero bravo. Ma sapevo anche che dovevo migliorare in difesa. Volevo essere capace in tutte e due le fasi. Sa, quel ruolo per una decina di anni è stato cancellato. E ci si è improvvisati, magari retrocedendo da centrocampisti. Ma giocare sulla fascia ha una sua specificità. Oggi mi piace, ma è schierato a destra, il ragazzo del Milan, Calabria. E, a sinistra, Masina del Bologna».
 
A proposito chi è l’ala destra che l’ha fatta più impazzire?
«Uno difficilissimo era Bertoni. E poi Bruno Conti, che sapeva giocare con tutte e due i piedi. Lui di solito cominciava a sinistra. Dopo una ventina di minuti veniva dalla mia parte e arrivava sempre insultando Gentile, che gli menava troppo».
 
Lei allena il calcio femminile che io credo sia una risorsa eccezionale per il futuro del football. Mezzo mondo e più di passione e talento da aggiungere al bacino tradizionale di praticanti e tifosi. E un diritto da affermare, fin dalle scuole.
«Guardi, io ne sono convinto come nessun altro. C’è una crescita costante di livello e di numero di bambine che si appassionano al calcio. Ma l’obiettivo deve essere chiaro: ogni squadra di Serie A e B deve avere il suo corrispondente di calcio femminile. Noi ci stiamo preparando agli Europei, ai quali speriamo di qualificarci. Una maggiore attenzione da parte dei media, della scuola, delle società potrebbe far decollare questo sport, come succede in altri Paesi. Ha visto gli stadi pieni dei mondiali femminili di quest’anno? E’ una risorsa eccezionale oltre che il riconoscimento di una realtà di eguaglianza, nello sport e nella società».
 
Mi dice la sua formazione ideale?
«Zoff, Djalma Santos, Beckenbauer, Scirea, Cabrini (no, che dico, Maldini); Neeskens, Del Piero, Iniesta; Pelè , Maradona, Cruyff. Allenatore Guardiola»
 
Lei ha allenato la Nazionale di calcio della Siria, che pensa della situazione di quel Paese oggi?
«Faccio fatica a riconoscere l’immagine meravigliosa di Damasco che ho tenuto in mente con quella dei telegiornali di oggi. Provo grande dolore. Era un regime molto rigido, che teneva sotto controllo il Paese. Un Paese di ricchi troppo ricchi e di poveri troppo poveri. Cosa devo dirle? Spero, guardando il mondo, che la parola pace torni nel nostro vocabolario. In Siria e ovunque».
 
Modificato da Socrates
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1971-1980.png.1674f7f4f3b11a453e03b353c6b8b071.png 2142587268_juve1977.jpg.e1e775a5f5708299003fb0263e509df2.jpg ANTONIO CABRINI 1982-1986.png.6b12d939c3289be90aa050d4e14da30a.png 1651738375_juve1982.png.46a2862c79837444b20a26f57020fce1.png

 

Fútbolismo ⚽️🌎🌍🌏⚽️ on Twitter: "Buon compleanno to Italian left back  #AntonioCabrini who won the 1982 #WorldCup with the Italian national team. # Cabrini was nicknamed "Bell'Antonio" because of his popularity as a  charismatic

 

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Cabrini

 

 

Nazione: Italia Italia
Luogo di nascita: Cremona
Data di nascita: 08.10.1957

Ruolo: Difensore
Altezza: 178 cm
Peso: 72 kg

Nazionale Italiano
Soprannome: Bell'Antonio - Fidanzato d'Italia

 

 

Alla Juventus dal 1976 al 1989

Esordio: 13.02.1977 - Serie A - Juventus-Lazio 2-0

Ultima partita: 25.06.1989 - Serie A - Juventus-Verona 3-0

 

440 presenze - 52 reti

 

6 scudetti

2 coppe Italia

1 coppa dei campioni

1 coppa delle coppe

1 coppa Uefa

1 supercoppa Uefa

1 coppa intercontinentale

 

Campione del mondo 1982 con la nazionale italiana

 

 

 

Antonio Cabrini (Cremona, 8 ottobre 1957) è un allenatore di calcio ed ex calciatore italiano, di ruolo difensore. Campione del mondo con la nazionale italiana nel 1982.

 

Ritenuto uno dei primi terzini moderni, nonché uno dei maggiori interpreti del ruolo a livello mondiale, legò il proprio nome principalmente alla Juventus, squadra nella quale militò per tredici stagioni a cavallo degli anni 70 e 80 del XX secolo, e di cui fu capitano dal 1988 al 1989. Insieme al portiere Dino Zoff, al libero Gaetano Scirea e all'altro terzino Claudio Gentile, compagni di squadra e di nazionale, Cabrini formò una delle migliori linee difensive della storia del calcio.

 

Coi bianconeri ha totalizzato 440 partite e 52 reti, vincendo sei scudetti, due Coppe Italia e tutte le maggiori competizioni UEFA per club: primo giocatore (assieme al già citato Scirea) a raggiungere tale traguardo. In nazionale ha disputato 73 gare realizzando 9 gol, che lo rendono il difensore più prolifico nella storia degli Azzurri.

 

Più volte candidato al Pallone d'oro, si classificò 13º nel 1978.

 

Nel 2022 è stato introdotto nella Hall of Fame del calcio italiano.

 

Antonio Cabrini
Antonio Cabrini - Juventus FC.jpg
Cabrini in allenamento alla Juventus negli anni 80
     
Nazionalità Italia Italia
Altezza 178 cm
Peso 72 kg
Calcio Football pictogram.svg
Ruolo Allenatore (ex difensore)
Termine carriera 1991 - giocatore
Carriera
Giovanili
19??-1970 non conosciuta San Giorgio
1970-1973   Cremonese
Squadre di club
1973-1975   Cremonese 29 (2)
1975-1976   Atalanta 35 (1)
1976-1989   Juventus 440 (52)
1989-1991   Bologna 55 (2)
Nazionale
1975-1976 Italia Italia U-18 8 (0)
1976-1978 Italia Italia U-21 13 (0)
1977-1978 Italia Italia militare 6 (0)
1978-1979 Italia Italia B 2 (0)
1978-1987 Italia Italia 73 (9)
Carriera da allenatore
2000-2001   Arezzo  
2001   Crotone  
2004   Pisa  
2005-2006   Novara  
2007-2008 Siria Siria  
2012-2017 Italia Italia Femminile
Palmarès
 
Coppa mondiale.svg Mondiali di calcio
Oro Spagna 1982

 

Biografia

Fu soprannominato Bell'Antonio e Fidanzato d'Italia in virtù della grande popolarità di cui godeva presso il pubblico femminile.

 

Il 15 settembre 2008 partecipò come concorrente alla sesta edizione del programma televisivo L'isola dei famosi, ritirandosi tuttavia dopo tre settimane a causa di un'ernia. Nello stesso anno si è cimentato come scrittore pubblicando il romanzo Ricatto perfetto. Sempre in televisione, nel 2010 è stato telecronista per Dahlia TV.

 

Nell'estate 2009 entrò a far parte dell'Italia dei Valori, divenendo responsabile dello sport per il Lazio del movimento politico guidato da Antonio Di Pietro.

 

È stato ambassador per Expo Milano 2015.

Caratteristiche tecniche

Giocatore

220px-Coppa_Campioni_1986-87_-_Juventus_
 
Cabrini (a sinistra) ferma in scivolata il madridista Míchel in una sfida di Coppa dei Campioni 1986-1987

 

Nato come ala sinistra, durante la militanza nelle giovanili della Cremonese il tecnico Nolli — «È stato il mio vero scopritore, lui mi ha creato come giocatore» — lo arretrò con successo in difesa: «quel giorno fu chiaro che il calcio cremonese aveva perso una discreta ala e guadagnato un promettente terzino sinistro», ricorderà Carlo Felice Chiesa.

 

Dai suoi precedenti trascorsi sulla fascia ereditò caratteristiche come «potenza e velocità» attraverso le quali reinventò il ruolo, emergendo come un «terzino-attaccante» dal rendimento costante e molto prolifico sottorete grazie a frequenti sganciamenti in avanti, dove mise a frutto la sua notevole elevazione e il suo tiro da lontano, nonché a una buona tecnica che lo rese un valido esecutore di punizioni e rigori. Abile anche in fase difensiva, è riconosciuto tra i migliori terzini al mondo della sua generazione.

Carriera

Giocatore

Club

Gli inizi a Cremona e Bergamo
220px-Antonio_Cabrini_-_1970s_-_US_Cremo
 
Cabrini (a destra) agli esordi con la Cremonese nella prima metà degli anni 70

 

Dopo i primi calci nel San Giorgio, squadra di Casalbuttano, entrò e crebbe nel settore giovanile della Cremonese. Esordì sedicenne nella prima squadra grigiorossa, agli ordini di Battista Rota, collezionando 3 presenze nel campionato di Serie C 1973-1974 (debuttando sul campo dell'Empoli) e diventando titolare la stagione seguente.

 

Nel 1975 passò all'Atalanta, club che lo aveva nel frattempo acquistato in compartecipazione con la Juventus. Nell'unica annata trascorsa a Bergamo disputò un positivo campionato di Serie B, con 35 presenze e un gol, al termine del quale venne riscattato dal club torinese.

I successi alla Juventus
220px-Juventus_Football_Club_1979-1980.j
 
Cabrini (accosciato, al centro) alla Juventus nella stagione 1979-1980

 

Arrivò alla Juventus, allenata da Giovanni Trapattoni, nella stagione 1976-1977. Con la maglia bianconera debuttò il 13 febbraio 1977, all'età di diciannove anni, nella gara casalinga contro la Lazio terminata con la vittoria dei piemontesi per 2-0. Nella sua prima stagione a Torino collezionò 7 presenze e una rete in Serie A, vincendo da comprimario il suo primo scudetto, e due presenze in Coppa UEFA, che gli valsero anche il suo primo successo internazionale nonché il primo alloro confederale nella storia del club.

 

Bissò il successo tricolore nell'annata seguente: partito da rincalzo, sul finire del campionato venne promosso titolare dall'allenatore Giovanni Trapattoni, affermandosi come «rivelazione» del torneo e divenendo in breve tra gli inamovibili della squadra juventina per il decennio a venire — con una sola flessione all'inizio del campionato 1978-1979 quando all'indomani del mundial argentino, quasi stordito dall'improvvisa fama, prestazioni sottotono fecero sì che sia Trapattoni in bianconero, sia Enzo Bearzot in azzurro, lo rispedissero temporaneamente in panchina.

 

Presto ritrovata la titolarità, dopo la Coppa Italia vinta nel 1979 arrivarono per Cabrini altri due scudetti con la Vecchia Signora, nei campionati 1980-1981 e 1981-1982. In questi due campionati il terzino mostrò sempre maggior confidenza con la rete, realizzando 12 gol complessivi.

 

220px-Serie_A_1985-86_-_Verona_vs_Juvent
 
Cabrini (a destra) in maglia juventina nel campionato di Serie A 1985-1986, a colloquio con il tecnico Trapattoni.

 

Negli anni seguenti conquistò con la maglia della Juventus, oltre ad altri due scudetti che portarono a sei il suo bottino personale, la seconda Coppa Italia nel 1983, la Coppa delle Coppe nel 1984 e, l'anno successivo, Supercoppa UEFA e Coppa dei Campioni,divenendo così, con alcuni compagni di squadra, uno dei primi giocatori a vincere le tre maggiori coppe europee (già nella 1977 aveva sollevato la Coppa UEFA); nello stesso anno arrivò inoltre a conquistare tutte le competizioni internazionali per club grazie al trionfo nella Coppa Intercontinentale, divenendo il primo, assieme al compagno di squadra Gaetano Scirea, a raggiungere tale traguardo sportivo.

Gli ultimi anni a Torino, l'epilogo a Bologna

Cabrini continuò a giocare nella Juventus fino alla stagione 1988-1989, diventando in quest'ultima anche capitano dopo il ritiro di Scirea.

 

220px-Serie_A_1989-90_-_Bologna_vs_Cesen
 
Cabrini (a destra) al Bologna nel 1990, alle prese con il cesenate Đukić.

 

L'avanzare dell'età, i primi problemi fisici, nonché divergenze tattiche con Dino Zoff circa un suo possibile impiego da mediano, ruolo ambito da Cabrini ma in cui l'ex compagno di squadra, nel frattempo divenuto allenatore bianconero, gli preferì il giovane Marocchi, lo indussero nell'estate seguente a lasciare Torino dopo tredici anni, 297 partite in Serie A e 33 reti, per accasarsi al Bologna.

 

In Emilia disputò altre due stagioni in massima serie, raggiungendo inoltre nel 1991 i quarti di finale della Coppa UEFA, prima di chiudere la carriera agonistica nello stesso anno.

Nazionale

Nazionali giovanili

In ambito giovanile, nella seconda metà degli anni 70 ha fatto parte delle nazionali Under-18 e Under-21 italiane, oltreché della nazionale militare e di quella cadetta.

Nazionale maggiore
1978-1982
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Un esordiente Cabrini (a destra) in nazionale al campionato del mondo 1978, in marcatura sull'argentino Bertoni.

 

Senza aver ancora esordito in nazionale A, e addirittura senza vantare un posto di rilievo nella sua squadra di club, sul promettente Cabrini scommise il commissario tecnico degli Azzurri, Enzo Bearzot, il quale lo convocò per il campionato del mondo 1978 in Argentina, preferendolo al fin lì titolare Aldo Maldera. Fece il suo esordio il 2 giugno 1978, a vent'anni, nella partita Italia-Francia (2-1) disputata a Mar del Plata; conquistato il posto di titolare, giocò tutte le partite della rassegna iridata, chiusa dagli Azzurri al quarto posto, venendo inoltre premiato dalla FIFA come miglior giovane dell'edizione.

 

Il 20 settembre di quello stesso anno realizzò anche il suo primo gol in maglia azzurra, nella partita amichevole contro la Bulgaria (1-0) disputata a Torino. Dopo aver superato nel biennio 1978-1979 un breve periodo di appannamento all'indomani del mundial sudamericano, in cui rischiò di perdere il posto in azzurro — patendo la concorrenza del succitato Maldera, di Giuseppe Baresi oltreché di un Oriali non ancora dirottato a centrocampo —, tornò ben presto titolare inamovibile, partecipando al campionato d'Europa 1980 dove l'Italia, padrona di casa, si classificò ancora quarta.

 

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Cabrini (accosciato, al centro) nell'Italia campione del mondo a Spagna 1982

 

Vinta la concorrenza di nuovi rivali nel frattempo emersi nella Serie A del tempo — Luciano Marangon ma soprattutto Nela — fu poi tra i protagonisti, giocando tutte le partite da titolare, del campionato del mondo 1982 in Spagna dove gli Azzurri conquistarono il loro terzo titolo mondiale. Nel secondo turno realizzò un gol nella partita vinta contro i campioni in carica dell'Argentina (2-1), mentre sbagliò un calcio di rigore nella finale di Madrid contro la Germania Ovest (3-1), quando il punteggio era ancora a reti bianche; rimane l'unico giocatore ad aver fallito un penalty in una finale di Coppa del mondo nei tempi regolamentari.

1983-1987

Nella prima metà degli anni 80 continuò a far parte del gruppo storico della nazionale, senza tuttavia più raggiungere risultati di rilievo.

La fallita qualificazione al campionato d'Europa 1984 fu un primo campanello d'allarme circa il declino della generazione mundial, poi esploso al campionato del mondo 1986 in Messico, torneo al quale Cabrini prese parte con altri nove compagni già campioni del mondo. L'Italia fu eliminata negli ottavi di finale dalla Francia, e lo stesso Cabrini fu suo malgrado tra i meno brillanti della spedizione italiana.

 

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Cabrini (accosciato, secondo da sinistra) in nazionale per un'amichevole preparatoria al campionato del mondo 1986

 

Ciò nonostante, all'indomani della rassegna iridata nordamericana ereditò da Scirea la fascia di capitano della nazionale, e con l'avvio del nuovo ciclo di Azeglio Vicini fu inizialmente «tra i pochi vecchi a rimanere» nel giro azzurro; tuttavia di lì a breve, sia per sempre più frequenti problemi fisici, sia per una sopravvenuta concorrenza nel ruolo — nell'immediato con il più giovane De Agostini, ma soprattutto con l'astro nascente Paolo Maldini a cui lascerà di fatto il testimone — decise di svestire la maglia azzurra non accettando più convocazioni: «una scelta che fece scalpore, perché non erano ancora i tempi in cui ci si poteva chiamare fuori dalla causa azzurra: magari si faceva in modo di non farsi convocare [...], ma di certo nessuno aveva prima di lui mai annunciato l'addio all'Italia con un comunicato all'ANSA».

 

Disputò la sua ultima partita in nazionale il 17 ottobre 1987 a Berna, all'età di trent'anni, in una sfida contro la Svizzera valida per le qualificazioni al campionato d'Europa 1988. Con l'Italia totalizzò 73 presenze (10 delle quali da capitano) e 9 reti, record di marcature tra i difensori azzurri.

Allenatore

Il 10 giugno 2000 ha iniziato a lavorare come allenatore, debuttando alla guida dell'Arezzo, in Serie C1. Il 20 giugno 2001 ha assunto la guida tecnica del Crotone, in Serie B, venendo esonerato il successivo 18 ottobre per via degli scarsi risultati. In seguito, dal febbraio al novembre del 2004 ha allenato il Pisa, mentre nella stagione 2005-2006 si è seduto sulla panchina del Novara, in entrambi i casi ancora in C1. Tra il 2007 e il 2008 è stato commissario tecnico della Siria, lasciando l'incarico dopo sei mesi a causa della scarsa programmazione della nazionale asiatica.

 

Il 14 maggio 2012 viene scelto come il CT della nazionale italiana femminile. Guida le Azzurre all'europeo 2013: l'Italia passa il primo turno assieme a Svezia e Danimarca, ma l'avventura termina ai quarti di finale contro la Germania. Nelle qualificazioni al mondiale di Canada 2015 termina il girone al secondo posto, alle spalle della Spagna, risultando poi tra le migliori seconde qualificate; alla semifinale play-off le italiane superano l'Ucraina, tuttavia nella finale che metteva in palio l'ultimo pass mondiale, escono sconfitte contro i Paesi Bassi.

 

Ancora sotto la guida di Cabrini, le Azzurre accedono alla fase finale dell'europeo 2017, chiudendo alle spalle della Svizzera il proprio gruppo qualificatorio. Nella fase finale, inserita in un "girone di ferro" con Germania, Svezia e Russia, le sconfitte contro russe e tedesche precludono ulteriori ambizioni alle italiane, che solo nell'ultima e ininfluente giornata ottengono la loro unica vittoria nella competizione, superando le scandinave. Al termine di tale match, Cabrini lascia la panchina dell'Italia femminile dopo cinque anni.

 

Palmarès

Giocatore

Club

Competizioni nazionali
Competizioni internazionali

220px-Juventus_FC_-_Supercoppa_UEFA_1984

 
Cabrini (a destra), con i compagni di squadra Tardelli e Brio — e con indosso le maglie degli avversari del Liverpool —, mostra ai tifosi la targa della Supercoppa UEFA 1984 vinta con la Juventus.

Nazionale

Individuale

Onorificenze

Medaglia di bronzo al valore atletico - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia di bronzo al valore atletico
  «Campione italiano professionisti»
— Roma, 1977.
Medaglia d'oro al valore atletico - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro al valore atletico
  «Campione mondiale»
— Roma, 1982.
Collare d'oro al Merito Sportivo - nastrino per uniforme ordinaria Collare d'oro al Merito Sportivo
  — Roma, 19 dicembre 2017.

 

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Photograph Signed by Paolo Rossi and Antonio Cabrini - CharityStars

 

 

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Juventus_1985-86%252C_Trapattoni_e_Cabrini.jpg

 

Antonio Cabrini - Cremonese, Atalanta, Juventus, Bologna, Italy. | Velhas  senhoras, Guarda-redes, Futebol soccer

 

Bandeira da Juventus, Antonio Cabrini foi inquestionável na Itália de 1982  - Calciopédia

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Ex-Bianconeri Defender Antonio Cabrini: "Serie A Title Down To Three-Horse  Race After Inter Beat Juventus"

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Cabrini: «La Serie A mi annoia. Juventus? E’ ora di cambiare tecnico»

Antonio Cabrini

 

 

Antonio Cabrini, ex terzino della Juventus, ha così parlato ai microfoni di Calcio Saudita.

 

LE PAROLE – «La Serie A mi annoia. Gli anni passano ma vedo sempre le stesse facce, gli stessi dirigenti che si aggiustano le loro cose. La Juventus? Ha lo stesso problema della Roma. Allegri ormai ha dato tutto quello che poteva, per i bianconeri è tempo di cambiare guida tecnica. Giuntoli dovrebbe fare qualcosa, così non va bene».

 

FONTE

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