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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Il caso

Dalla tolleranza zero a 43 anni di sconti

così finisce uno scandalo

Scommesse, le pene “annacquate” del Tnas

Job è l’ultimo caso: da 3 anni e mezzo all’assoluzione

I dubbi di Malagò, il futuro è incerto

di MATTEO PINCI (la Repubblica 29-03-2013)

Il neo presidente del Coni Giovanni Malagò lo aveva bollato come “scontificio” prima ancora di essere eletto. Una fama a cui evidentemente il Tnas deve tenere particolarmente: sono arrivati a 520 mesi complessivi gli “sconti” di pena a tesserati condannati nell’ambito dei processi al calcio scommesse degli ultimi dodici mesi dai due gradi di giudizio della Figc. Poco più di 43 anni di squalifiche varie, in maggioranza per illecito sportivo spesso anche reiterato, cancellati con un colpo di spugna: questo il personalissimo contributo, per di più inappellabile, del tribunale di arbitrato sportivo presso il Coni allo scandalo di scommessopoli che prometteva di ridisegnare la geografia del nostro calcio. Un contributo che demolisce i verdetti di primo e secondo grado pronunciati dalle corti endofederali con sentenze diametralmente opposte, e che attenta alla credibilità del lavoro istruttorio e processuale di mesi della federazione con pronunciamenti emessi dopo poche ore appena di camera di consiglio. L’ultimo verdetto ha cancellato mercoledì i 3 anni e mezzo di squalifica al calciatore svincolato Job Iyock, all’epoca dei fatti al Grosseto, raggiungendo il “prestigioso” traguardo dei 520 mesi totali di sconti, grazie anche ad altri annullamenti e riduzioni delle squalifiche. Perché di “saldi” sostanziali che trasformano pene severissime in buffetti hanno beneficiato tanti: 22 soggetti dall’estate scorsa a oggi. Cancellate, di fatto, le responsabilità di quei giocatori non certo di fama, ma che secondo le sentenze sportive costituivano il sottobosco attraverso cui alterare partite e campionati. Con tanti saluti alla “tolleranza zero”, all’inasprimento delle norme, ai propositi di pulizia del calcio sventolati dalle istituzioni sportive all’indomani dell’esplosione del bubbone scommesse.

Due arbitri di parte e un presidente: questa la composizione del collegio arbitrale del Tnas per ogni controversia. Gli arbitri vengono scelti tra i 50 esperti – magistrati a riposo, avvocati di stato, professori universitari, magistrati della Corte dei Conti – attentamente selezionati dal Coni. Che però prende le distanze da un organo “indipendente”, assicurando di mettere esclusivamente a disposizione la propria segreteria e le aule al primo piano dello stadio Olimpico per le udienze.

La Figc ha iniziato a sollevare il problema, innervosita dall’evolversi della situazione. Dubbi su utilità e funzionamento di questa struttura li ha manifestati lo stesso presidente Malagò. Se come sembra il Tnas è destinato a chiudere o a rinnovarsi, verrebbe da chiedersi se ci si trovi di fronte ai saldi di fine serie.

ECCO LA FABBRICA DEL COLPO DI SPUGNA

di ALIGI PONTANI (la Repubblica 29-03-2013)

Quarantatré anni di sconti. Fa perfino allegria guardare alle bravate del Tnas, o più semplicemente non è proprio più possibile prendere sul serio una giustizia sportiva che lo preveda: un tribunale arbitrale (istituito “presso il Coni”, ricordiamolo) che si è ormai trasformato nella fabbrica delle spugne, sempre pronte a lavare via le severissime, integerrime, esemplari sanzioni che il calcio sa infliggere a chi sgarra. È un meccanismo diabolico, ma collaudato negli anni. Vediamolo. Un magistrato fa scoppiare uno scandalo — scommesse, arbitri: è lo stesso — e il mondo dello sport reagisce con promesse solenni: tolleranza zero, pugno di ferro, giustizia rapida. A questi slogan, sempre uguali, aggiunge considerazioni alte: sono solo poche mele marce, il nostro ambiente è sano, cose così. Quindi cominciano i processi, in effetti rapidi (per esigenze di calendario, dunque televisive) che portano alle famose sanzioni esemplari, in primo e secondo grado, quando il fuoco mediatico è alto, l’attenzione pubblica ancora desta, lo sguardo della politica non proprio assente. Poi, con calma, contando sull’assuefazione dell’opinione pubblica e sulla distrazione generale, si va al Tnas, disgraziatamente definito la «Cassazione dello Sport», dove il pugno di ferro diventa una pacca sulle spalle e le sentenze esemplari buffetti sulle guance. Della Cassazione il Tnas non ha nulla: non deve infatti stabilire la legittimità di una sentenza o la corretta applicazione delle regole in un processo. Ha poteri più alti: i giudici esaminano i ricorsi e in genere senza ulteriori indagini possono decidere tutto ciò che vogliono, emettendo un nuovo e inappellabile verdetto. Ultima parola, e andate in pace.

È evidente, però, che questi 520 mesi di sconti accordati a chi secondo le sentenze precedenti aveva trasformato il calcio in un mercato infame di partite, gol e autogol comprati e venduti in contanti, segna il punto di non ritorno del sistema: o i processi di primo e secondo grado sono stati una farsa ignobile, o lo sono quelli di terzo grado. Non c’è un’altra possibilità. Il neo presidente del Coni Malagò in campagna elettorale aveva promesso una cosa impegnativa: «Voglio che il Palazzo dello sport diventi di vetro: la trasparenza sarà la prima missione». Ecco, ci aiuti a vedere bene cosa succede in quelle stanze, dove le sentenze vengono svendute come ai saldi degli ultimi giorni. Faccia presto, però: adesso il vero scandalo non sono gli scandali, ma come vengono affrontati.

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Primi e scontenti

La beffa del Cardiff: torna in Premier

ma gli arabi si sono presi l’anima

Dopo 50 anni È in testa alla Championship, ma i nuovi proprietari hanno cambiato il colore delle maglie e invertito il simbolo: non più un uccello blu per i bluebirds, ma un dragone rosso

di LORENZO LONGHI (l'Unità 29-0-2013)

L’IMMAGINE PIÙ EMBLEMATICA LA PUBBLICÒ, ALCUNI MESI FA, IL MENSILE CALCISTICO BRITANNICO FOURFOURTWO: PADRE E FIGLIO UNITI DALLA PASSIONE PER LA STESSA SQUADRA, BARDATI DEI COLORI DEL CLUB, UNO ACCANTO ALL’ALTRO, ALLO STADIO. Qualcosa, però, non quadrava: maglia e sciarpa blu per il genitore, rosse per il figlio, logo diverso. Ordinarie scene di tifo al Cardiff City Stadium, la casa appunto del Cardiff City, istantanee sin troppo frequenti dallo scorso agosto, da quando cioè la storica casacca e lo storico stemma dei Bluebirds sono mutati; dal tradizionale blu al rosso, dall’uccello azzurro che da sempre accompagna la squadra della capitale gallese ad un dragone rosso.

Come il denaro batte la storia: Vincent Tan Chee Yioun, tycoon malese la cui fortuna è stimata da Forbes in 1,3 miliardi di dollari, nel 2010 ha acquistato il club, salvandolo da un possibile fallimento, e da allora ha cominciato a dettare legge, piegando la tradizione di uno dei club più noti - sebbene poco vincenti - del Regno Unito ad immagine e somiglianza delle sue origini. Perché il drago che dall’agosto campeggia in primo piano sulle maglie (rosse e non più blu) del Cardiff City è un emblema del Galles, ma è considerato soprattutto un simbolo di potere e forza nella cultura asiatica, dove il rosso connota fortuna, mentre il blu è colore funereo. Per dire, è un po’ come se, un giorno, un qualsiasi magnate acquistasse un club fortemente caratterizzato come la Fiorentina, inserisse un leone o una tigre nello stemma del club ed eliminasse il colore viola perché porta sfiga.

Ecco: al Cardiff City è accaduto più o meno questo. L’uccello azzurro c’è ancora, ma molto ridimensionato, nella parte bassa del logo del club, sotto una inedita scritta («Fire&Passion») che pare più che altro lo slogan di un sexy shop. Ma tant’è e così, ogni volta che la squadra gioca in casa, i tifosi si dividono. Da una parte i puristi vestiti di blu, dall’altra chi ha accettato la novità, secondo la filosofia del «better red than dead», visto che ora i Bluebirds, foraggiati dal denaro di Tan, comandano la Championship, la B inglese, e stanno per tornare nella massima serie, dove non giocano dal 1962 e dove ritroveranno i rivali gallesi dello Swansea. I cui tifosi, intanto, se la ridono: un po’ perché hanno appena vinto la League Cup, un po’ perché i loro acerrimi nemici faticano anche a riconoscerli. E li sfottono: «Who are ya, red?», e voi rossi chi siete?

Il punto di non ritorno si è avuto lo scorso 19 febbraio quando, in occasione della sfida di campionato contro il Brighton, Tan ha deciso di regalare 25 mila sciarpe rosse al pubblico, per vincere la riluttanza di numerosi tifosi ad acquistare gadget del nuovo corso: mossa azzeccata, perché il richiamo del gratuito fa sempre colpo e così, per la prima volta in 114 anni, lo stadio del Cardiff ha visto la netta prevalenza di un colore che non fosse il blu. Che poi l’idolo locale Craig Bellamy e compagni quel giorno abbiano perso non ha scalfito il tycoon malese, che ha immediatamente alzato l’asticella, raccontando ad un giornale gallese la sua intenzione futura di ribattezzare il club Cardiff Dragons. Solo che, a quel punto, si è scatenato il putiferio: passino, a malincuore, le sciarpe rosse - sulle quali peraltro compariva solo Cardiff, e non Cardiff City, il nome completo del club - ma questa proprio no. E proprio il cubitale «No» sulla prima pagina sportiva del South Wales Echo, il quotidiano più popolare di Cardiff, rendeva bene l’idea della reazione della tifoseria a questa fuga in avanti.

Un sondaggio del Cardiff City Supporters Trust ha rivelato che oltre la metà dei tifosi si sarebbe opposta al rebranding, paventando una sorta di Aventino del tifo. Addirittura, già sul web gruppi di supporter proponevano l’idea di far rinascere i Bluebirds originali, creando ex novo una società sul modello di quanto accadde all’Afc Wimbledon una decina di anni fa. Tan e i suoi hanno dovuto fare subito retromarcia, ma il timore fra i tifosi gallesi rimane, anche perché il probabile approdo in Premier League porterebbe occasioni di visibilità e sponsorizzazione che al business di Tan, che mira allo sterminato mercato asiatico ovviamente, farebbero gola.

Già, la Premier League. Una stagione così eccellente dalle parti di Cardiff non si vedeva da cinquant’anni: esistono intere generazioni che non hanno mai visto i Bluebirds giocare nella massima divisione inglese. Dopo una campagna di successi, sta per accadere, ma dallo stesso sondaggio si apprende che il 36,1% dei tifosi considera «disappointing», e cioè deludente, quella che sul campo è la stagione più gloriosa da mezzo secolo a questa parte. Perché i risultati possono narcotizzare il malcontento, certo, ma quando si tratterà di festeggiare, in rosso, una promozione attesa (ma in blu) da quasi una vita, a tanti tifosi verrà una crisi di identità.

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Clubs turn to chaplains for guidance

as pressures on players grow

Graham Taylor and Sir Alex Ferguson have been instrumental

in a phenomenon that is spreading from football to other sports

‘They don’t wear dog collars or preach. It’s a wonderful resource’

‘They need to be good listeners, giving advice that is independent’

by ALYSON RUDD (THE TIMES 29-03-2013)

The Church is in crisis. Congregations are collapsing, scandals abound, but there is one place where religion is flourishing. In sport. As the nation celebrates the Easter weekend, there are 254 sports chaplains at work in the UK.

A football manager’s wish list might include a transfer budget, talented players, a trustworthy assistant and an effective scouting network. But increasingly it also includes the appointment of a chaplain. Chris Powell, the manager of Charlton Athletic, says that his chaplain is the heartbeat of his npower Championship club and he would not want to manage without one.

“If a club doesn’t have a chaplain, they are missing the point,” Powell says.

We are in his office after a training session in the bitter cold, when the manager of a club who could yet be drawn into a relegation battle might be expected to have little time for questions of faith. But Powell is articulate and passionate about what club chaplains offer.

“Why not have someone who will help the club grow, help players individually, be part of the support network?” he says. “Someone who has a well-rounded view on life is a vital part, the heartbeat of the club for me.

“Players need a voice, someone with empathy away from the football side. They hear me demanding more. I’m their boss and they understand that, but these guys might see something that means they need to talk. They won’t come to me with a question about religion or bereavement. They have lives to lead away from football and can we help them? Yes. Not everyone will think that way but if I ever have to go to another club, I would demand a chaplain ASAP.”

Chaplaincy in sport is a rapidly expanding phenomenon but, as Powell says, not everyone buys into the concept. Coaches dislike interference, club owners fear Bible bashers. At Tottenham Hotspur, for example, the players have access to the club’s various external religious contacts, but the club regard religion as a private matter and deem it inappropriate to appoint a chaplain representing one faith.

Football was where it all began and the rise of sports chaplaincy was helped because Sir Alex Ferguson supports the concept.

From an executive box at Old Trafford I can see various banners proclaiming that support of Manchester United is a religion. Reverend John Boyers, the club’s chaplain, is with me. Boyers — or Rev John, as he is known to all at the club — started it all 22 years ago when he was asked by the Baptist Union to run SCORE (now rebranded as Sports Chaplaincy UK), a new organisation dedicated to offering a spiritual presence in sport, a role Boyers had played at Watford since 1977.

Graham Taylor, then the Watford manager, whom Boyers used to watch play in his native Grimsby, took a huge risk, in Boyers’s opinion, by appointing him. “Graham Taylor unleashed me,” Boyers says. “I could have been a nutter, a Bible basher, he didn’t know.” Taylor was astute enough to get Boyers to join training on Monday mornings. “It was really hard work,” Boyers, who played in a local league, says.

At the end of the first season, Taylor said that it had gone well; the players liked him and he had heard that he had helped a few of them, so they signed him up for another year. Boyers’s church gave him a day and a half a week to spend at Vicarage Road.

In 1979 Taylor told him that he could assume he was officially the club chaplain. From the start, Boyers knew instinctively that he had to be proactive pastorally but reactive spiritually or risk alienating players and management.

At the same time as the club embraced a spiritual presence, Watford progressed from the old fourth division to the top flight and an FA Cup Final, and the football world wondered what their secret might be.

“Other clubs started phoning me and asking me to visit them to explain what this chaplaincy was,” Boyers says. One club keen to poach him were United. Bertie Mee, then Taylor’s assistant at Watford, told Boyers that if he wanted to develop chaplaincy, he would be better off at a club with a much higher profile.

“Does God favour clubs with chaplains?” Boyers says. “The rain falls on the just and unjust. A good manager will gather the right players. Maybe God placed me in Watford when it was doing well and then at Manchester United for reasons of profile. I’m not the reason why this club has been successful, Alex Ferguson is the reason.”

Boyers is convinced that chaplaincy is the norm at Scottish football clubs thanks to Ferguson’s patronage. “The fact I was working at Man United and Sir Alex is adored in Scotland is why chaplaincy has worked so well in Scotland,” he says.

But back to those banners. Isn’t it awkward for a minister to read that United is the only religion? “It doesn’t really jar with me,” Boyers says. “I think there are many bits about football that are like religion: the camaraderie, the friendship, the commitment, the singing and the worship.

“Following a football team, whether it is Grimsby Town or Man United, will not give you what faith offers you. It offers forgiveness, eternal life, a sense of God with you, and you don’t get that following any football team. It’s not a replacement.”

Boyers’s pragmatism is crucial. Chaplains cannot afford to be judgmental and he knows of at least one chaplain who walked out on a club because he was offended by the players swearing.

The task of making sure the right people enter sports chaplaincy now falls to Richard Gamble, who, as chief executive of Sports Chaplaincy UK, has embarked on an expansion programme. From September, chaplaincy accreditation will be in force. “I’m trying to introduce some quality control,” Gamble says. “Sporting bodies do not want people who will evangelise. If that is what you want to do, you are not cut out for sports chaplaincy.”

Instead, chaplains need to be good listeners, offering advice that is independent, and although the majority of chats are about pastoral matters, an increasing number of players, particularly in football, are from a religious background and, when they need spiritual advice, they turn to their club’s chaplain. Gamble wants chaplaincy to be as accepted in sport as psychology.

Brian Hemmings, sports psychologist at Northamptonshire County Cricket Club, believes that chaplaincy ought to be an integral part of any club. “In football there is a proliferation of Latin American and African players,” Hemmings, who also works in golf and motor racing, says. “We are a secular society largely, but in their societies Christianity is a huge part of their being. Sports psychology is being naive; its research comes from a secular and western perspective and has largely ignored spirituality and faith.

“Chaplains don’t wear dog collars, they don’t preach. It’s a wonderful resource. Sport is so commercial and high-pressured and there are so many more mental health problems, addictive behaviour, marriage breakdowns, depression, in a multitude of sports. The more chaplains that are around to pick up those issues is good for those involved.”

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Ma chi ha votato questa Lega?

ROBERTO DE PONTI - CorSera - 30-03-2013

Tutto impeccabile, tutto indiscutibile. A parte il fatto che a lamentarsi prima di tutti dovrebbe essere il Cagliari, che ha vissuto una situazione surreale. E chiudiamo un occhio sul fatto che i rossoblù a porte chiuse abbiano conquistato 7 punti su 9 e che con il «dodicesimo uomo» abbiano perso 3 volte. Quello che stupisce e l'attacco diretto alla Lega di serie A. Non perché la Lega non abbia responsabilità, ma perché alle ultime elezioni la maggioranza dei club ha scelto di proseguire con la presidenza Beretta. Primus inter pares, il Milan. Con Adriano Galliani, che della Lega è vicepresidente. Stravagante, no?

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IlCaso

IS ARENAS, DANNO E FIGURACCIA

CARLO LAUDISA - Gasport - 30-03-2013

La questione posta dal Milan non va presa sotto gamba. Intorno allo stadio Is Arenas è nato un guazzabuglio che da mesi condiziona l'intero campionato. Adriano Galliani pone il problema della regolarità del torneo ed é sotto gli occhi di tutti che non è la stessa cosa affrontare il Cagliari in casa con il supporto del suo appassionato pubblico o cimentarsi contro la squadra di Pulga al cospetto dei soli abbonati, se non addirittura a porte chiuse. I diversi pesi e misure sono ormai alle spalle.

Il danno è fatto e rischia di protrarsi anche nei restanti turni. L'a.d. rossonero guarda alla Champions e pesa il proprio handicap tecnico (ed economico) rapportandosi alle dirette concorrenti in classifica. Ma la questione riguarda tutta la massima serie. Ne risulta lesa l'immagine. All'estero facciamo l'ennesima brutta figura e, soprattutto, si conferma l'impressione che il nostro sistema-calcio sia ingessato, se non proprio zavorrato da logiche anacronistiche.

Certo, fa da contrappasso che la. grana sarda scoppi proprio nel giorno in cui l'Udinese annuncia l'acquisto dello stadio Friuli. E' una bella notizia che segue l'esempio virtuoso della luventus, un'esperienza tanto invidiabile quanto poco esportabile. Per ora. Senza l'ombrello di una legge ad hoc la lodevole iniziativa della famiglia Pozzo potrà essere realizzata in tempi celeri e con modalità adeguate? L'interrogativo va posto perché a Cagliari molte cose sono andate storte.

Federcalcio, Lega di serie A e relativi dirigenti non hanno saputo gestire questa fase di transizione con soluzioni eque, oltre che pratiche.

Massimo Cellino a Cagliari ha agito d'istinto. Di sicuro con tanti errori a monte e qui non è il caso d'approfondire il tema penale. Ma una vicenda locale irrisolta non può tenere in scacco tutta la Serie A.

Ha sbagliato la Lega di A a concedere l'uso del nuovo stadio senza opportune garanzie. Servono norme più severe per la prossima stagione. Ma non basta. Il calcio vari un protocollo che accompagni i club in viaggi meno avventurosi. La tanto invocata legge sugli stadi resta un sogno svanito tra i fumi delle ultime legislature. E' dura pensare che le priorità del calcio godano di un occhio di riguardo tra le nebbie della politica alle prese con le emergenze del Paese. Il calcio si dimostri efficiente. Come mai in passato.

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«Galliani ha ragione»

Il dg Marroccu: «Il campionato dei Cagliari non è stato regolare»

Solo ieri sera l'ok alle porte chiuse. «Stiamo diventando indesiderabili Un danno enorme per l'intera Sardegna»

Giuseppe Amisani -Corsport -30-03-2013

CAGLIARI - «Il Cagliari sta facendo una figura vergognosa. Non ha usato mezzi termini ieri pomeriggio il direttore generale rossoblù Francesco Marroccu che si è sostituito a Ivo Pulga nella consueta conferenza stampa del prepartita. Troppo importanti e troppo ravvicinate le questioni che ancora una volta riguardavano lo stadio di Is Arenas, vietato al pubblico per la terza gara consecutiva, perché la società non prendesse una ferma posizione e il rappresentante della dirigenza cagliaritana lo ha fatto con forza.

IL VERO PROBLEMA - «Stiamo riuscendo a essere additati come una Regione le cui istituzioni non riescono a trovare un accordo nemmeno per aprire uno stadio per cinquemila persone. In sei mesi di campionato abbiamo passato di tutto. Prima abbiamo giocato senza pubblico, poi con lo stadio aperto a metà, poi con l'accesso libero a tutti e infine di nuovo con lo stadio chiuso. Abbiamo avuto reclami suIle carenze strutturali, problemi sull'ordine pubblico, con i Vigili del Fuoco e con la ASL, problemi con tutti e sempre per motivi diversi».

Una situazione che a Marroccu non va giù tanto che il dg ha una sua personale spiegazione che poi è anche quella della società. «Evidentemente un vero problema non c'è, ma è il Cagliari Calcio il problema oforse il presidente che si trova ancora agli arresti domiciliari sempre per questioni legate allo stadio. E intanto noi ci facciamo una figura meschina». L'amarezza è tanta anche perché ormai la società si sente quasi impotente di fronte a tutte le vicissitudini che ha dovuto superare. «Se pensate che a un giorno dalla gara noi ancora non sapevamo dove si sarebbe giocato perché la Commissione Comunale si è dichiarata incompetente dicendo che la capienza dei settori sarebbe stata superiore alle cinquemila unità, ma noi non abbiamo mai chiesto questo. Abbiamo solo chiesto di poter far accedere i nostri abbonati e tra l'altro ci siamo rivolti alla Commissione dopo che questo ci era stato indicato dal Prefetto in un comunicato ujfciale. Dall'esterno ormai ci definiscono una banda di dilettanti perché questo è il messaggio che passa e credo che abbiamo toccato il minimo storico».

CAMPIONATO FALSATO - Le frasi diffuse ieri dall'Amministratore Delegato del Milan, Adriano Galliani, non sono passate inosservate tra la dirigenza sarda e Marroccu non si è potuto esimere dal commentarle. «Il Milan ha detto solo la verità. Il Cagliari ha dato tre punti alla Roma perché l'allora Prefetto aveva rinviato una partita, poi decisa dal Giudice sportivo, poi abbiamo giocato a Parma contro la Juve e contro altre squadre alcune volte con il pubblico e altre senza. Non è possibile dire che il campionato del Cagliari sia stato regolare, ma secondo quanto dice Galliani non è il Cagliari il problema, bensì la gestione quantomeno singolare dell'intera vicenda dello stadio».

Una situazione che sta creando disagio e difficoltà alla società, per non parlare della squadra, che si potrebbe ripercuotere anche sul futuro rossoblù. «Il Cagliari sta diventando una squadra indesiderata e un domani ci penseranno due volte prima di farci iscrivere al campionato. Un danno di immagine enorme per noi ma anche per tutta la Sardegna perché il Cagliari e il calcio in generale sono una fonte di reddito importante e noi da soli stiamo riuscendo a farci del male. Se Cellino presumibilmente si fosse chiamato Rossi, noi ora avremmo uno stadio».

Non resta che sperare che i tifosi siano fermi nel loro disappunto ma allo stesso tempo responsabili cosl come è stata la società che ha solo fatto sentire tutto il suo malcontento. «Noi gli inviti e le preghiere le abbiamo fatte ai nostri politici ma non sono servite. I nostri tifosi non hanno bisogno di alcuna indicazione perché si sono sempre comportanti benissimo pur essendo loro, insieme a tutta la Sardegna, la parte più danneggiata in questa vicenda. Non so come avrebbero reagito in altre città».

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EL PAÍS 31-03-2013

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Italy takes bold gamble on plan B

in attempt to limit soaring wage bills

by GABRIELE MARCOTTI (THE TIMES 01-04-2013)

Big problems require big ideas. Nobody could deny that Italy’s Serie B has significant issues. Attendances are down 25 per cent this year to about 4,700 a game, fewer than the average of the past five years (nearly 6,000) and substantially fewer than the second-flight of Spain and France (both around 6,300), Germany (16,000) and the npower Championship in England (17,200).

Low attendances wouldn’t be an issue per se if there was revenue coming in from elsewhere. But there isn’t. The TV contract, although larger than any second-tier league bar the Championship, is small. Merchandising is just about non-existent. League-wide sponsorship adds up to less than £3 million, which gets divided among the 22 clubs.

Indeed, Serie B’s most consistent source of revenue is the £55 million or so they receive as a direct subsidy from Serie A. Yet even with the Serie A solidarity payments, the vast majority of clubs are losing money hand over fist for the simple reason that they pay far too much in wages. Serie B’s wage bills are the second highest among second-tier leagues in Europe and, as such, clearly unsustainable.

In a normal free market economy, clubs that overspend would simply go bust over time. Their debts would get bigger and bigger until they could no longer find a friendly local bank to extend a line of credit and they would go under. But, of course, football doesn’t work that way. We don’t see clubs merely as businesses, but as social trusts, hubs of their communities. We see an inherent value in keeping them open for business, which is why, for example, the Football League introduced its version of Financial Fair Play, limiting the amount of losses a club can sustain over time.

Well, Serie B has gone a step farther. They’ve become the first league in a major European footballing nation to introduce an individual salary cap, although, as we’ll see, it’s more of a luxury tax.

From next season, no Serie B player will be able to sign a contract worth more than £126,000 a year, or roughly £2,400 a week. In addition, he’ll be able to pocket up to another £126,000 per season on a performance basis. (Here, clubs will have wide latitude: they could be easy-to-reach goals, like simply turning up for training x times a year, or rather more ambitious ones, like achieving promotion.) The bottom line is that no player should cost a club more than just under £5,000 a week.

If he does? Well, then there will be penalties, hence the luxury tax element. If you break the £252,000 per annum ceiling, for every pound you go over, you receive one pound less in solidarity money. So a player on £10,000 a week, or £500,000 a year, will still get his wages, it’s just that the club will have £248,000 less in solidarity payments.

Where will that money go? To virtuous clubs and those who develop youngsters. The withheld solidarity payments will go into a central fund. Half will be distributed among clubs who stay within the rules, half as prize money based on results at youth level.

The obvious effect is that wages will fall. Now, 28 per cent of Serie B players earn more than the limit in guaranteed money, let alone bonuses. They will have to accept a pay cut or seek employment elsewhere.

Costs should fall and more youngsters will be given a chance since, as of 2014-15, squad sizes will be limited to 20 players aged 21 or over (at present the limit is 24). Theoretically, this means that no club will have a wage bill much higher than £5-6 million. With solidarity payments, central sponsorship and TV money covering nearly half of that, all you need to do to break even is find £2-3 million from gate receipts and club sponsorship.

It’s not surprising then that these measures were unanimously approved by the Serie B owners. The arms race has, effectively, been called off.

That said, there are unresolved questions. What happens to Serie A sides who get relegated with hefty wage bills? They’ll have to insert relegation clauses in their contracts (which is a tough sell when trying to sign a player), sell their star players (probably at below market price since they’ll be “motivated sellers”) or make do without hefty solidarity payments.

Also, this individual form of luxury tax seems ripe for a legal challenge. And you’re bound to have a bunch of players who will prefer to earn a few bob abroad rather than stay within the £248,000 straitjacket in Serie B, which means the quality of play will decline.

There will also be concerns about players being paid offshore or under the table in an effort to circumvent the limits. In addition, given the even greater disparity in wages, it will become easy for Serie A clubs to hoover up talent from Serie B.

Then again, something had to change. At least this way there will be incentives to give youngsters playing time. And there will be a sustainable economic model. It’s a big gamble and all we can do is speculate about what will happen.

But sometimes, it’s better to take a giant leap into the unknown than baby steps towards the abyss.

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Sueños de niños,

juego de mayores

El Tribunal Supremo cuestiona y obliga a repensar los contratos leoninos de los clubes de fútbol para retener a sus jóvenes promesas. Las canteras se han convertido en un negocio más

Un fallo anula una indemnización de 3,4 millones pactada con unos padres

“Los equipos pequeños pagan más a la familia”, dice un agente

“Se puede decidir el presente de los hijos”, dice un experto, “no hipotecar su futuro”

114 pactos laborales de entre 2004 a 2008 tenían penalización millonaria

“No hay que hacer contratos genéricos, sino uno a uno”, dice un experto

Hay equipos que se protegen con cláusulas anti-Madrid o anti-Barça

por AMAYA IRÍBAR y LUIS MARTÍN (EL PAÍS 02-04-2013)

Si un niño aspira a ser futbolista en España, probablemente no exista mejor sitio que La Masia, la cantera del Barcelona. Por lo que ofrece como escuela y, sobre todo, por el horizonte real que supone llegar al primer equipo: 23 futbolistas formados en las categorías inferiores han debutado en los últimos cinco años en el Barcelona. No hay mejor imagen de eso que la de Reina, Valdés, Piqué, Puyol, Xavi, Iniesta, Cesc y Pedro celebrando el Mundial de España. Otros muchos, la mayoría, se ganan la vida en equipos menores, en la Liga o en el extranjero.

Pero en ese paraíso que le cuesta al club 15 millones anuales se han abierto recientemente dos grietas legales. El mes pasado una sentencia del Tribunal Supremo sobre el llamado caso Baena tumbó la forma en que el club intenta retener a sus jóvenes futbolistas por considerar abusivo el contrato que les hace. Y la FIFA ha prohibido al Barça alinear a seis jugadores cadetes e infantiles por vulnerar las normas de traspasos de menores de edad. Ambas decisiones reabren un viejo debate que afecta no solo al Barça, sino a todas las canteras: cómo proteger el fútbol base sin lesionar los derechos de unos chavales que hacen lo que más les gusta en el mundo y, al mismo tiempo, forman ya parte del gran negocio del fútbol. A esa protección no siempre, ni mucho menos, contribuyen los progenitores, deslumbrados por la posibilidad de que los menores les solucionen la vida.

Aunque en España la edad mínima para trabajar son los 16 años y la FIFA prohíbe que los menores de 18 suscriban contratos de más de tres años de duración y solo permite su traspaso a clubes de otro país en situaciones excepcionales, son muchos los pequeños futbolistas captados por los ojeadores de los equipos a edades más tempranas, incluso a los ocho o nueve años. “A los más pequeños es más fácil fidelizarlos porque los padres no son tan valientes y se resisten a que cambien de ciudad”, dice Pablo Blanco, coordinador de escalafones inferiores del Sevilla y exjugador del mismo equipo, al que llegó cuando era un juvenil. Pero a partir de los 11 o 12 años “todas las canteras meten mano en otras canteras”, como resume de forma gráfica un abogado y reconocen en algunos equipos.

Los clubes invierten mucho dinero en sus jóvenes promesas y quieren recuperar esa inversión, básicamente asegurándose de que el jugador no se irá a otro club simplemente dando las gracias cuando está a las puertas del primer equipo. Por eso intentan blindar a sus jugadores con fórmulas más o menos sofisticadas. Pagándoles los estudios, casa y comida y facilitándoles material deportivo y una gratificación mensual, que en el Sevilla es de hasta 500 euros a partir de los 14 años —y crecen según asciende el chico— y en el Athletic llegan a los 600 en el caso de los mejores de 16 años. Estas cantidades parecen migajas al lado de los 4.000 euros que recibe el padre de un talento andaluz que juega en el Málaga. “Cuanto más pequeño es el club, más pagan a los padres”, asegura un agente que ha firmado contratos de menores con la mayoría de equipos de Primera.

En las oficinas del Camp Nou encontraron hace más de una década la fórmula perfecta para atar a sus promesas, tanto que la copiaron muchas otras canteras españolas. Es la que utilizaron con Raúl Baena, que hoy tiene 24 años y juega en el Espanyol.

Baena empezó en el Faro de Torrox, el club de su pueblo, y a los 11 recaló en el Málaga. Dos años después le tentó el Barça y sus padres no dudaron. Para sellar su entrada en La Masia, el 22 de abril de 2002, los señores Baena firmaron junto a su hijo, que entonces era un escolar de 13 años, tres documentos. El primero era un contrato de jugador no profesional, en el que el pequeño jugador se comprometía a integrarse en la escuela del Barça y a cambio el club le garantizaba “estancia y manutención”, estudios, viajes a casa y una “compensación mensual para gastos”. Si Baena rompía este acuerdo para irse a otro club debería pagar una indemnización de 30.000 euros.

El segundo documento era un “precontrato de trabajo” de 10 años de duración que establece cuándo y cómo se convertiría en profesional, como tarde a los 18 años. Se adjunta también el contrato en sí, que señala lo que cobraría en cada categoría e implica la cesión de sus derechos de imagen. La fecha de ese documento, que recoge una penalización de tres millones de euros “actualizados con el IPC”, va en blanco porque se rellena en el momento en que el jugador se convierte en profesional.

Esa cantidad “decidida libremente por las partes” es lo que reclamó el Barcelona al jugador en los tribunales cuando este fichó por el Espanyol en 2007. El Supremo considera nulo el precontrato y la penalización que incluye, que ascendía a 3,489 millones de euros, “porque vulnera el interés superior del menor”.

Para Ricardo Morante, de Ejaso Estudio Jurídico y abogado del jugador, se trata de “un contrato absolutamente ilícito porque coarta la libertad del menor para decidir su futuro, con una cláusula ilegal por desproporcionada”.

¿Y los padres que también firmaron el contrato? “Se excedieron en su representación”, explica.

“Lo que dice la sentencia es que los padres pueden decidir sobre el presente de sus hijos, no hipotecar su futuro”, resume Antonio Sempere, de Gómez-Acebo & Pombo y catedrático de Derecho Laboral. O sea, que los clubes pueden firmar lo que quieran con los padres, pero el chaval será libre de tomar sus decisiones desde los 16 años. Y son chavales que, en muchos casos, ya tienen agente.

La batalla que ha perdido el Barça cambia el panorama porque muchos clubes hacen algo similar, confirman agentes y abogados. “Nosotros tenemos algo parecido, pero solo en el caso de los mejores jugadores; además, ni duran tanto ni los firman tan pequeños ni la indemnización es tan alta”, dicen en el Villarreal.

No hay números oficiales del alcance del problema, pero sí algunas pistas: en la documentación aportada por la Liga Nacional de Fútbol para distintos juicios se asegura que desde 2004 y hasta 2008 se registraron 152 contratos de este tipo: 114 de ellos tenían penalizaciones de tres millones de euros o más (hasta de 15 millones, aseguran) y otros 38 imponían castigos más pequeños. Los de la FIFA hablan de un fenómeno europeo: en 2011 se registraron en el sistema de la organización 13.000 traspasos o inscripciones de menores de 18 años. De los 1.500 que solicitaron autorización de la FIFA, el 55% tenían entre 12 y 15 años.

La propia sentencia apunta una posibilidad: exigir que este tipo de contratos se hagan bajo supervisión judicial, algo que muchos en el sector no ven factible. Otra sería hacer a los chavales renovar de forma periódica el consentimiento, apunta un abogado. O, cumpliendo al pie de la letra el espíritu de la sentencia: ofrecerles contratos de formación hasta los 16 años y asumir el riesgo de que luego se marchen, como aseguran que hacen en el Sevilla. Para Juan de Dios Crespo, experto en Derecho Deportivo y asesor del Villarreal en estos temas, “lo que no hay que hacer son contratos genéricos, sino uno a uno, y ajustar las penalizaciones a la realidad”.

Tal vez la solución sería que los clubes y la federación pactaran las indemnizaciones a pagar si un equipo roba un chico a otro. “Lo ideal sería que hubiera un baremo”, asegura el directivo del Sevilla, consciente de la realidad: “El Barça tiene una política muy agresiva en la captación. Todos la tenemos, cada uno en nuestro entorno, pero el Barça por su fama y las condiciones que ofrece tiene más atractivo”.

El directivo del Sevilla pone el ejemplo de los cuatro canteranos que han dejado en los últimos tiempos el club para instalarse en La Masia. El más pequeño de ellos jugaba en el equipo alevín (categoría para los niños de 10 y 11 años) y fue una de las imágenes de la inauguración de la nueva Masia a finales de 2011. No es un caso aislado. El Villarreal también tiene un conflicto con el Barça por un portero infantil (12 y 13 años). Por eso hay equipos que imponen cláusulas anti-Barça o anti-Madrid, tratando de protegerse del bocado del pez grande. En el caso del Barça, el peligro llega de Inglaterra. “Contra 200.000 euros por cuatro años es difícil competir por mucha Masia que ofrezcas”, dicen en el club.

Hasta la sentencia de Baena, el caso de referencia era el de Fran Mérida, que dejó La Masia para seguir los pasos de Fábregas en el Arsenal. Le faltaban seis meses para cumplir 16 años cuando comunicó al club que no firmaría el contrato profesional y se fue a entrenarse en el equipo del barrio de Arriznavarra, en Vitoria, sin ficha federativa. Una argucia legal que no le sirvió de mucho. El Arsenal terminó pagando.

Cambie lo que cambie después de la sentencia, y nadie quiere dar detalles porque como buen negocio cada empresa guarda celosamente su estrategia, el peligro es que los clubes dejen de invertir. “Si lo tocan mucho, ¿quién querrá gastar dinero en formar niños de los 12 a los 16 años?”, se preguntan algunos. “La sentencia resuelve bien un caso, pero no el problema de la cantera, porque estas hacen una inversión importante y tienen que ser compensadas. Debe haber un equilibrio”, asegura Sempere. El Tribunal de Luxemburgo ya se pronunció en un sentido similar con el francés Bernard.

El Supremo ha reabierto con su decisión otro viejo dilema, el de si los niños deportistas deben tener una consideración especial por lo precoces y cortas que son sus carreras.

Este aspecto lo puede resolver el Gobierno si decide rebajar la edad laboral de los deportistas a los 14 años, pero esto iría en contra de lo que defienden la FIFA y las instituciones laborales. Ajenos a todo ello, cientos de niños sueñan con una plaza en La Masia. El negocio continúa.

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ANÁLISIS

Deporte profesional y menores de edad

Es una oportunidad para dar visibilidad al valor social que los clubes aportan con las canteras

por JAVIER HERVÁS (EL PAÍS 02-04-2013)

La reciente sentencia del Supremo sobre el caso Baena viene a ser una nueva manifestación del que es un debate clásico: proteger el desarrollo del menor en el entorno del deporte profesional.

Que el periodo natural en que se desarrolla la práctica profesional del deporte se opone al proceso de maduración natural es una cuestión cierta. La decisión de un joven acerca de su futuro como deportista profesional se tiene que realizar en edad adolescente. Y, por tanto, la realidad del deporte profesional y los componentes jurídico y económico que se derivan, así como los derechos económicos y profesionales del joven deportista, entran en conflicto con la tutela de los derechos del menor, y con los derechos que asisten al club que le forma.

El Supremo afirma la nulidad de los contratos de Baena: precontrato de trabajo, contrato de jugador profesional y contrato de trabajo con cesión de derechos de imagen, porque los pactos alcanzados con el menor y sus representantes son contrarios al orden público en materia de contratación de menores, especialmente a la necesaria tutela del interés del menor en poder decidir sobre su futuro profesional como presupuesto del desarrollo de su libre personalidad. Y se declara la nulidad al producirse la firma a los 13 años, y aún asistido de sus representantes legales, sin que concurriese autorización judicial.

Admitiendo estas tesis —pese a la discusión que pudiera establecerse por haber firmado el menor con la asistencia de sus representantes legales, la asistencia de expertos y en un entorno en que este tipo de contratos era habitual—, tras su declaración de nulidad cabe apreciarse un matiz interesante que puede ayudar a conjugar en el futuro la protección de los intereses del menor y de los clubes formadores. Y ello se puede observar desde la doble realidad temporal del análisis que se hace en la sentencia: lo que se puede pactar antes de los 16 años, donde prevalece el “superior interés del menor” de un modo taxativo, y entre los 16 y los 18, donde se puede restablecer un equilibrio entre los derechos y obligaciones derivados del contrato de trabajo, los derechos del menor y los intereses del club.

El equilibrio entre la protección del menor y los derechos de los clubes se regula en la normativa federativa (FIFA y federaciones nacionales) para las categorías de infantil, cadete y juvenil articulando un juego de capacidades de retención del club y posibilidades de desvinculación voluntaria del jugador en función de la estructura de equipos no profesionales del propio club: el principio general es que el menor puede cambiar de club al finalizar cada temporada, salvo que el club, en el año en que el jugador cambia de categoría, le dé la posibilidad de que siga jugando en un equipo superior, en cuyo caso puede retenerlo al menos un año. Este mismo equilibrio se busca al limitar los contratos de trabajo entre 16 y 18 años a una duración máxima de tres años, y prohibiendo los transfer internacionales de los menores de 18 años, salvo en tres excepciones ligadas a la movilidad laboral de los padres, los jugadores comunitarios y los jugadores transfronterizos.

Conocido es que los clubes consideran insuficiente para sus intereses estas posibilidades, pero, al menos los españoles, a la luz de la sentencia del caso Baena, deberán articular la defensa de sus intereses considerando la especial protección del menor, y ahí es donde se abren posibilidades interesantes, y ya exploradas a nivel internacional. Se trata de una oportunidad para dar mayor visibilidad y fortaleza al valor social que los clubes aportan al mantener con gran desembolso económico las canteras y una mejora de sus prácticas contractuales, acercándolas al ámbito de la responsabilidad social corporativa, de la formación y de la contratación ligada al desarrollo profesional, hará incrementar su reputación social y fortalecer su política de retención de talento.

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NASSER AL-KHELAÏFI Presidente del París Saint Germain y de Al Jazeera Sports

“Ganar mucho dinero con un club

de fútbol no es muy complicado”

“Sentimos un gran respeto por Florentino Pérez. Si queremos un jugador le llamaremos”

“Pretendemos ser uno de los cinco mejores de Europa antes de 2018 y estamos en los plazos”

“Es muy difícil tener una identidad, nuestros jugadores llevan menos de un año juntos”

“Todos los cataríes están contentos por cómo ayudamos al Barcelona”

por DIEGO TORRES (EL PAÍS 02-04-2013)

Siendo muy joven Nasser al-Khelaïfi (Catar, 1973) se hizo tenista profesional. No subió del puesto 995 del ránking de la ATP y los premios en metálico que obtuvo a lo largo de su carrera rondaron apenas los 16.000 dólares. La aventura le sirvió, sin embargo, para hacer vida social. Coincidió en el equipo nacional con el príncipe heredero catarí, el jeque Tamim ben Hamad al-Thani, y ambos trabaron una larga amistad. Por encargo del príncipe, AlKhelaïfi se ocupó de la rama deportiva de una de las fortunas más imponentes del planeta, el fondo de inversiones soberano del emirato de Catar (Qatar Investment Authority). La adquisición del Paris Saint Germain por parte del QSI en 2011 colocó a AlKhelaïfi en la presidencia del club que hoy, con la visita del Barça, vive su día grande. Ayer abrió el palco del Parque de los Príncipes para ejercer de anfitrión con exquisita discreción.

Pregunta. ¿Qué sería de usted sin el tenis?

Respuesta. Todo esto no habría sido posible para mí sin el tenis. Eso seguro.

P. Presidente de la federación de tenis catarí, presidente de la cadena Al Jazeera Sports, propietario de los derechos televisivos de la Ligue 1, presidente del Paris Saint Germain… usted es el gran administrador de los intereses del emirato de Catar en la industria del deporte.

R. Soy el presidente de Qatar Sports Investment, que es el fondo de inversiones soberano de Catar que ha adquirido el PSG. Pero no me ocupo de todo lo relacionado con el deporte en Catar.

P. ¿Cree que Cristiano acabará su carrera en el PSG?

R. ¿Dónde ha oído eso? ¡Es un rumor! Si firmamos a un jugador lo diremos. No tenemos nada que esconder.

P. ¿Sabe que a Cristiano le gustaría quedarse libre en 2015 para negociar personalmente con quien quiera?

R. Falta mucho tiempo para eso y creo que es feliz en España. Además, sentimos un gran respeto por Florentino Pérez. Si queremos un jugador llamaremos al presidente.

P. ¿Cuál es su modelo ideal administrativo en el fútbol?

R. Tenemos nuestro propio estilo. Tenemos que adaptarnos a la cultura y a la ley francesa. No es posible trasladar las ideas porque, por ejemplo, el Barcelona lo ha hecho genial, pero su estructura societaria es completamente distinta a la nuestra. El Barça es público y el PSG es una empresa privada.

P. Ha dicho que quiere construir el club más importante del mundo. ¿Qué plazo se pone?

R. No estamos aquí para ganar los dos primeros años y largarnos. Estamos apresurados, pero somos realistas. Nuestros objetivos eran claros: el primer año estar en la Champions, el segundo ganar la Liga francesa y avanzar hasta donde podamos en la Champions. Estamos cumpliendo. La inversión obtiene sus frutos. Y estamos listos para competir con el Barcelona.

P. ¿Qué estilo de fútbol le gustaría que identifique a su equipo?

R. Para nosotros lo más importante es disfrutar cuando vemos jugar al equipo. Pero ahora es muy difícil tener una identidad porque nuestros jugadores llevan menos de un año juntos. Sabemos dónde queremos estar: entre los cinco mejores equipos de Europa antes de 2018. Si continuamos así lo conseguiremos. El modo de jugar dependerá del técnico y de los jugadores. Hemos firmado jugadores como Pastore, Ibrahimovic, Moura o Verratti, que son muy creativos. Ellos nos dan el estilo.

P. ¿Quiere destituir a Ancelotti?

R. Gracias a él seguimos vivos en todas las competiciones.

P. ¿Entonces Mourinho no tiene por qué esperar más ofertas suyas?

R. No le hemos hecho ninguna oferta. ¡No nos metan en problemas!

P. El PSG y el Barça tienen algo en común: una misma fuente de financiación. Su país patrocina al Barça a través de Qatar Airways y Qatar Foundation, el dinero púbico catarí sirve para sostener al PSG, y en 2022 Catar organizará el Mundial. ¿A qué se debe ese súbito interés por el fútbol?

R. El deporte en general es muy importante para Catar. Educa a la gente y la protege, la mantiene saludable, la ayuda a estar concentrada. Es una universidad. El fútbol enseña a trabajar en equipo, a esforzarse. La gente adora el fútbol en Catar. Es un amor genuino.

P. ¿Qué opinan los cataríes de que se emplee su dinero en pagar clubes extranjeros?

R. Lo ven como algo muy positivo. Todos están contentos por el modo en que estamos ayudando al Barcelona, por la adquisición del PSG y por el Mundial. Si usted va a Catar y le pregunta a cualquier catarí le dirá que está muy orgulloso de su país por lo que estamos consiguiendo.

P. Hay teorías geopolíticas que aseguran que los países del Golfo Pérsico invierten dinero en Occidente a cambio de protección militar.

R. Lo siento, yo no estoy en política. No puedo responder. Es la primera vez que escucho esto. Yo solo estoy en el negocio del deporte.

P. El PSG es una marca representativa de un país. Esto le da contenido político.

R. ¡No! En absoluto. Esto no tiene nada que ver con la política. Gracias a Dios. Nosotros actuamos con el corazón, naturalmente. Así es como somos.

P. El petróleo y el gas son, probablemente, los negocios más lucrativos. Casi en el otro extremo está el fútbol, que normalmente da pérdidas. ¿Por qué invertir 150 millones al año en fichajes sin obtener un retorno?

R. Si se planifica y se administra bien puedes ganar mucho dinero con un club de fútbol. No es muy complicado. Necesitas tiempo. Pero para nosotros no será difícil ser rentables: somos el único club de la capital de Francia, donde viven 20 millones de personas y se asientan las compañías más importantes del país. Hemos incrementado por tres los ingresos en un año y medio. Es un hecho. Este club tiene un gran potencial.

P. Hace un año el balance del PSG daba más de 100 millones de euros de pérdidas y los presupuestos del año que viene prevén unas pérdidas insignificantes. El PSG acaba de firmar un contrato de 150 millones de euros al año con QTA, representante del Ministerio de Turismo catarí. ¿No teme que la UEFA lo considere una inyección disfrazada de capital?

R. El contrato con el QTA es como cualquier contrato de patrocinio. No supone ningún riesgo.

P. ¿Qué relación tiene Nicolas Sarkozy con su club?

R. La única relación es que es un gran hincha del PSG.

P. Dicen en Inglaterra que Sarkozy llamó a Arsène Wenger para que entrenara al PSG. Eso es trabajar para el PSG.

R. Eso no es verdad. ¡Él es el presidente! Tengo un gran respeto por el presidente, y para nosotros, cualquier aficionado al PSG es igual de importante.

P. ¿Habría sido posible la adquisición del PSG sin las buenas relaciones que mantiene Catar con Sarkozy?

R. Yo mismo negocié la compra con el antiguo propietario, Colony Capital, y nunca hubo nadie de por medio.

P. El Barça y el Madrid se benefician de la negociación individual de los derechos de televisión en España. ¿Cómo contrarresta este potencial?

R. En España eso cambiará a partir de 2015. En Francia la Liga negocia los derechos televisivos en nombre de todos los clubes. Como en la Premier y la Serie A. Es lo que tiene más sentido. Aquí en Francia los clubes estamos muy unidos. Somos como una gran familia.

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Pelé, Sócrates e Senna

Campioni “rossi” spiati

DOSSIER DEI MILITARI SU “O REI” PER UN VOLANTINO COMUNISTA

E SUL “DOTTORE” DELLA FIORENTINA PER L’ATTIVISMO A SINISTRA

BRASILE Il talento della F1 schedato dopo minacce di sequestro ricevute da uno dei più pericolosi cartelli del narcotraffico

di ALESSANDRO OPPES (il Fatto Quotidiano 03-04-2013)

Tutti sospetti, anche Pelé, Sócrates e Senna. Come si conviene sotto qualsiasi governo dittatoriale. Ma, forse è questa la vera novità, anche dopo, negli anni immediatamente successivi al ritorno della democrazia. Presidenti della Repubblica (da Collor a Cardoso, da Lula fino a Dilma Rousseff, con il suo passato da guerrigliera), sportivi, artisti, religiosi sono stati spia-ti in Brasile non solo all’epoca del regime militare che resse le sorti del Paese tra il 1964 e l’85 (e di quello precedente, l’Estado Novo di Getulio Vargas: 1937-’45), ma pure dopo, quando il presidente eletto Tancredo Neves morì senza aver potuto assumere l’incarico e il governo passò nelle mani di José Sarney. Quasi 275 mi-la file digitalizzati, un milione di immagini, schede, dossier: negli archivi di polizia dello Stato di San Paolo – messi online da lunedì scorso con una iniziativa di trasparenza senza precedenti voluta dalla presidenza della Repubblica, da diversi ministeri, università ed enti pubblici – emergono i nomi di migliaia di brasiliani celebri, alcuni particolarmente sorprendenti perché, di loro, si conoscono quasi solo i trionfi sportivi e non la pericolosa attività sovversiva.

È il caso, ad esempio, di Ayrton Senna, che viene citato come bi-campeão di Formula1, il che significa che venne schedato nel 1990, dopo aver conquistato due titoli mondiali (il terzo risale al ’91, tre anni prima della scomparsa). Il dossier cita la Folha de São Paulo e O Estadão, ricordando il clima di terrore nel quale viveva la famiglia di Senna dopo le minacce di sequestro ricevute dal Comando Vermelho, uno dei più pericolosi cartelli brasiliani del narcotraffico. In quel periodo, si segnala, il pilota viveva sotto la protezione della polizia civile e di quella militare. Nessun riferimento, invece, a manifestazioni politiche o coinvolgimento in attività di partito.

L’ex campione della Seleção (e della Fiorentina) Sócrates, morto nel dicembre del 2011, viene citato in un rapporto del 1988, dove si sostiene che il suo nome era quotato come possibile candidato del Pt (il Partito dei lavoratori di Lula) alla carica di sindaco di Ribeirão Preto, una città dello Stato di San Paolo. Nel 1984, Sócrates partecipò alla campagna Diretas Já, un movimento civico che chiedeva la convocazione di elezioni presidenziali dirette per mettere fine al regime di João Baptista Figueiredo, il capo dell’ultima giunta militare, e nello stesso periodo fu anche uno dei promotori di Democracia Corintiana, con il quale i calciatori del Corinthians rivedicavano più libertà e maggiore influenza nelle decisioni amministrative del club di San Paolo. Tra i campioni schedati in piena dittatura c’è anche il nome del più grande, Edson Arantes do Nascimento, il mitico Pelé. I funzionari del Departamento de Ordem Politica Social, il principale organo di intelligence e repressione, lo spiarono durante tutto il corso della sua straordinaria carriera, nella quale era molto più impegnato a vincere tre Coppe del Mondo con la Seleção (nel 1958, nel ’62 e nel ’70) – segnando 1281 gol in 1363 partite – che non a organizzare complotti contro i generali. Ma era proprio la fama planetaria di O Rei a farne un potenziale nemico, un personaggio da tenere sotto stretto controllo per l’enorme ripercussione che poteva avere ogni sua dichiarazione, qualsiasi posizione extra-sportiva potesse prendere.

Dagli archivi emerge che il “file” dedicato a Pelé è uno dei più corposi: riporta un’infinità di movimenti di denaro, ritagli di giornale che parlano dell’attentato, nel 1973, contro la sua casa di Santos – la cittadina costiera la cui squadra di calcio divenne celebre proprio grazie alle sue straordinarie imprese – e i rapporti di polizia dedicati a quel fatto di cronaca. Il regime cominciò a sospettare di Pelé proprio dopo il trionfo ai mondiali del Messico nel 1970: durante una cerimonia celebrata in suo onore, un funzionario pubblico iscritto a un sindacato di sinistra illegale gli fece avere una copia di un manifesto che chiedeva l’amnistia per i prigionieri politici, facendo così scattare l’allarme tra i militari.

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Borussia Dortmund, Malaga and

Europe's political football of austerity

There is a close similarity between football and the economy of

Europe. Should German-style regulations control both?

by STEFAN SZYMANSKI (The Guardian 03-04-2013)

The Champions League quarter final between Borussia Dortmund and Malaga is a metaphor for the economic and political fault lines of Europe. Dortmund represents solid German values, a profitable club from the tightly regulated Bundesliga. Malaga, by contrast, has been in dispute with Uefa for some time and had until midnight on 31 March to prove to Uefa that they have paid up all overdue debts or they will be excluded from Uefa competition for the next four years.

It's true that a few years ago Dortmund had financial troubles, but they were forced to sell players and accept a loan from Bayern Munich to balance the books. Equivalent regulation and control is unknown in Spain. Last week a report suggested that Spanish clubs as a whole may come under investigation by the European commission for receiving illegal state aid, and by most accounts the majority of Spanish clubs are not commercially viable. Even Spanish MEPs have called for football clubs to live within their means.

Just as the Spanish economy is mired in recession because of a catastrophic backlog of bad debts and the German economic juggernaut continues to prosper, so German football seems ready to carry all before it while southern Europe's traditional strength seeps away. Indeed, there is a very close similarity between football and the wider economy of Europe, in terms of the causes of crisis, the solutions, and ultimately the winners and losers.

First, the problem. Contrary to appearance, there is little difference between a football manager and a bank manager. Both are gamblers who use other people's money to bet on the next big thing. Both work hard to present an aura of invulnerability and inevitability, when in reality both are exposed to the fickle laws of chance.

The principle of banking is to borrow short and lend long, giving rise to two sorts of risk – liquidity risk (depositors want their money back) and solvency risk (the long-term investment you lent to went belly up). Usually it is insolvency that leads to a liquidity crisis and general failure.

The principle of football is to buy players today in the expectation of future success and income, which also gives rise to liquidity risk (the future revenues are slow to arrive) and insolvency risk (the future revenues never arrive).

Given that we cannot live without banking or football, both sorts of manager are prone to moral hazard – taking excessive risk today in the knowledge that if things don't work out tomorrow then the organisation is too big to fail. Banks and football clubs almost never disappear, but they often have to be propped up when they fail.

Historically the propping up has been carried out by local and national governments. In the case of banks, it has been the national central bank that has provided liquidity as the lender of last resort, and the central government that has bailed out losses by using the largesse of the taxpayers. In the case of football, typically local governments have provided subsidies and the national tax authorities have written off overdue payments to keep the clubs afloat.

Now Europe has a new regime, the eurozone for banking and Uefa financial fair play for football. For those nations signed up to the euro, the European Central Bank provides liquidity for the banks and if the bad debts are too large for the national government to cover – as has been the case in recent years for Ireland, Portugal, Greece, Spain and now Cyprus – then bailout has to come from the combined eurozone, whose decision-making is currently dominated by Angela Merkel and the German government.

In the past many governments were prepared to write off bad debts by printing more money and inflating the problem away, reducing the value of their currencies and thus stimulating an economic revival following a short-term crisis. Austerity will not allow this to happen, so exposed countries are forced to live with seemingly permanent recession. So long as the eurozone crisis keeps the euro exchange rate competitive, German exporters benefit and the German economy continues to grow.

This is not, as some would like to suggest, a German conspiracy. To the Germans it just seems like common sense, but it is also true that everyone goes into these things with their own interests at heart while convincing themselves they are acting in the best interests of everyone.

So too with the financial fair play regulations. Under Uefa's rules, clubs are penalised if they lack liquidity, while EU rules against state aid prohibit a government bailout for insolvent clubs. Traditionally strong clubs from southern Europe are now being forced to live within their ever decreasing means, and this football austerity is also likely to benefit Germany.

German clubs were at the forefront of pushing for financial regulation at the European level to match their own regulation at home. Thanks to public investment in new stadiums for the 2006 World Cup, generous sponsorship from Germany's industrial giants and a wealthy population of 80 million, German clubs are set to outspend their southern neighbours in the years to come, reversing a decade or more of weakness.

Many people argue that Europe's austerity policy is not tenable in the long run if it impoverishes the poorer nations, and much the same can be said of the financial fair play regulations. Sound finance is a worthy goal, but not if it guarantees German and English dominance (in the latter case funded by international broadcast income) at the expense of the game's traditional southern powers.

il caso Il celebre club calcistico va incontro a sanzioni pesanti

Il Real Madrid rischia

grosso: aiuti dai politici

Inchiesta dell’Ue sui favori milionari. Tirati in ballo anche Gonzalez e Aznar

di LUIGI GUELPA (il Giornale 04-04-2013)

Altro che l'esclusione di Casillas contro il Galatasaray o l'addio a fine stagione di Mourinho. Nello spazio di un battito di ciglia il Real Madrid, il club sportivo più prestigioso del pianeta, è finito nell'occhio del ciclone dell' Unione Europea che ha aperto un fascicolo per aiuti economici irregolari ottenuti dalla squadra dei galacticos. La notizia, anticipata ieri dal quotidiano britannico Independent, è stata confermata dal vicepresidente della Commissione Europea, nonché responsabile per la concorrenza, Joaquin Almunia. Ironia della sorte uno spagnolo, che sta indagando sul club «merengues» e su una lunga serie di rapporti fin troppo disinvolti tra il Real, il comune di Madrid, gli ex esecutivi di Felipe González e José María Aznar e la famiglia reale.

Tutti personaggi che, pur mantenendo una certa trasversalità politica, sono legati tra loro dalla fede incrollabile per la squadra in camiseta blanca. L'indagine preliminare si è innescata dopo che la Commissione ha ricevuto una serie di reclami e segnalazioni che riguardano operazioni e accordi risalenti al 1996 con il municipio dellacapitale iberica e successivamente, siamo nel 2002, con il governo di Aznar che pare abbia agito su precise indicazioni della famiglia Borbone. La prima vicenda riguarda un accordo tra il Real e il comune di Madrid per lo sfruttamento dei terreni attorno allo stadio «Santiago Bernabeu». L'amministrazione comunale, almeno secondo le prime indiscrezioni, avrebbe largamente sovrastimato il valore di un'ampia area del quartiere di Las Tablas. In poche parole il Real comprò i terreni in questione per circa 420 mila euro, salvo rivenderli nel 2011 per quasi 23 milioni. L'altro episodio, decisamente più clamoroso, è legato all'ottenimento di una modifica del piano regolatore per terreni di proprietà madridista nella zona della Ciudad Deportiva di Valdebebas, attuale quartier generale del Real. Fu così che con la bacchetta magica aree vincolate ad impianti sportivi fino al 2099, per decreto reale, diventarono terreni edificabili a tutti gli effetti. Un affare da 480 milioni di euro che ha permesso al presidente Florentino Perez di finanziare gran parte del suo progetto «Galacticos», ingaggiando calciatori come Ronaldo, Zidane, Beckham e Figo tra gli altri, e che è stato visto dalle società concorrenti della Liga, Barcellona su tutte, come la prova più lampante dell'asse Aznar-Perez con la benedizione di re Juan Carlos.

All'epoca dei fatti un membro del governo di Catalunya, Pere Esteve (scomparso nel 2005), inviò due interrogazioni al Parlamento europeo, senza però ottenere risposta. Nel testo, che come per magia è saltato fuori proprio ieri sulla stampa di Barcellona, si legge tra le altre cose questa frase significativa: «Il signor Perez sostiene di avere a disposizione 300 milioni di euro per la campagna acquisti, io mi chiedo da dove provengano. Il presidente del Real dice che recupererà quel denaro vendendo magliette, ma per riuscirci dovrebbe vendere 30 milioni di esemplari. È impossibile. Chiediamo che qualcuno faccia luce». Ci sono voluti più di dieci anni prima che l'Unione Europea decidesse di fare davvero un po' di chiarezza, ma alla fine quel giorno è arrivato senza sorprendere più di tanto i detrattori del Real. Mentre Florentino Perez sostiene di essere tranquillo, il presidente dell'Uefa Michel Platini, ideatore di quel fair play finanziario che parecchi club (soprattutto quelli gestiti dagli sceicchi, Psg e City su tutti) neppure contemplano, è apparso invece molto preoccupato. «L'augurio è che si faccia al più presto chiarezza su una vicenda che sembra avere parecchi lati oscuri. Si impone la massima serietà, anche per garantire l'equilibrio delle competizioni sportive».

Il Real rischia grosso. Se sarà riconosciuto colpevole non potrà ingaggiare calciatori per 5 anni e soprattutto verrebbe costretto dall’Uefa a fissare un tetto degli stipendi, con la pressoché scontata partenza di tutti i calciatori migliori che Perez sta ricoprendo d'oro. Forse per questo, sostengono i maligni a Madrid, Mourinho ha deciso di fare le valigie. Anche perché la storia dei terreni era un po' il segreto di Pulcinella.

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FINANZA & PALLONE I dati del Report Calcio 2013 di Arel, Figc e PwC - Ricavi di vendita in progresso a 2,12 miliardi

Calcio in crisi, debiti in crescita

Le perdite nette scendono a 388 milioni con le plusvalenze da cessioni

IL CROLLO In totale solo 22 squadre professionistiche hanno il bilancio in attivo In serie A indebitamento complessivo a 2,9 miliardi

Gianni Dragoni - Sole 24 ore - 5-04-2013

La marcia di avvicinamento al Fair Play finanziario voluto dalla Uefa che scatterà dalla stagione 2014-2015 vede il calcio italiano ancora ampiamente perdente. Aumentano le perdite di gestione e i debiti, mentre è insufficiente l'apporto dei ricavi da stadio, a causa del ritardo negli investimenti nelle infrastrutture.

Questo nonostante gli incoraggianti risultati sportivi della nazionale guidata da Cesare Prandelli e di alcune rappresentative giovanili, delle quali è co- ordinatore Arrigo Sacchi.

La fotografia dei conti del calcio professionistico evidenzia ancora perdite elevate,-388 milioni di euro è il risultato netto aggregato nella stagione al 3o giugno 2012 dei club di serie A, B e Lega Pro (prima e seconda divisione), secondo il rapporto curato dalla Pricewaterhouse-Coopers, nell'ambito del «Report Calcio 2013» curato dall'Arel, in collaborazione con Federcalcio e PwC.

L'analisi sui conti è stata fatta - ha spiegato Emanuele Grasso, partner di PwC - analizzando 547 bilanci delle squadre che hanno partecipato ai 4 campionati professionistici dal 2007 al 2012. Mancano 95 bilanci (il 15 r% del totale) a seguito di mancata ammissione o non iscrizione. Tutti censiti i bilanci dei club di serie A, che incide per l'81% sui ricavi di vendita (plusvalenze escluse),1.718 milioni su 2.123.

Le perdite nette del 2012 per l'intero compatto professionistico sono inferiori del 10% ai 43o milioni dell'esercizio precedente, ma il miglioramento è solo apparente. Alla riduzione del passivo concorrono in maniera determinante le plusvalenze per la cessione di giocatori, che sono aumentate del 20,9%, da 444 a 537 milioni: senza le plusvalenze il «bilancione» aggregato del 2012 si sarebbe chiuso con una perdita di 925 milioni, superiore agli 875 milioni del 2011.

E questa la vera dimensione del buco gestionale del calcio professionistico, perché le plusvalenze tranne qualche caso (per esempio la cessione di Pastore dal Palermo al Psg) sono realizzate nel mercato tra squadre italiane, quindi andrebbero annullate come operazioni «intercompany» se si facesse un bilancio consolidato del settore e non un semplice aggregato, che è la somma algebrica di tutti i club. E un buco di 925 milioni su un settore che ha ricavi di vendita (escluse le plusvalenze che sono operazioni straordinarie) di 2.123 milioni ( 4% sul 2011) significa che il calcio professionistico macina perdite pari a 43,57 euro ogni loo euro di ricavi.

Il passivo è dovuto in gran parte alla serie A, che nella stagione al 3o giugno 2012 ha riportato una perdita netta aggregata di 282 milioni, inferiore ai 300 milioni dell'anno precedente; ma se si considerano le plusvalenze nette sul calcio-mercato, aumentate da 308 a 375 milioni, il rosso gestionale della serie A è aumentato, da 6o8 milioni del 2011 a 657 milioni. In serie A sono aumentati i debiti complessivi, in crescita dell'8,8% a 2,9 miliardi di euro. I debiti finanziari netti, cioè l'esposizione verso le banche, è un po'diminuita, da 885 a 826 milioni, mentre c'è stato un aumento del patrimonio netto, il capitale versato dai soci più le eventuali riserve, da 150 a 209 milioni.Il settore tuttavia rimane sottocapitalizzato.

In totale solo 22 squadre hanno il bilancio in attivo, di cui otto in serie A (9 nel 2011). Otto hanno il bilancio in attivo in B che nell'aggregato ha una perdita netta di 56 milioni.

Rispetto ai parametri di altri Paesi, ha detto Grasso, «l'Inghilterra sta peggio dell'Italia, nell'ultimo anno la perdita netta complessiva è aumentata a 434 milioni di euro. In Spagna c'è una perdita netta di 147 milioni, ma il settore è condizionato dai due club maggiori. La Germania rappresenta il punto di forza, un risultato aggregato positivo è un aspetto sorprendente, 37 milioni». Anche nel calcio, come nell'economia di Eurolandia, domina la Germania.

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Gianluca Zapponini - MF -5-04-2013

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La Repubblica 5-04-2013

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Ma che succede a questa discussione? Nessuno scrive più male della Juve? Il kalciomarcio è diventato sano?

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Ma che succede a questa discussione? Nessuno scrive più male della Juve? Il kalciomarcio è diventato sano?

Era quello che mi chiedevo anch'io :|

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• IL CONSIGLIO FEDERALE

La Lega Pro boccia le seconde squadre

Il presidente Macalli: «La questione è chiusa per sempre». Apertura sulle multiproprietà, contrasti sul 3° extracomunitario. Approvato il budget

SIMONE DI STEFANO - Tuttosport - 16-04-2013

Scordatevi le seconde squadre in Lega Pro, sulle multiproprietà se ne può parlare, mentre il terzo extracomunitario sembra volerlo solo la Serie A. In uno dei consigli federali più brevi e sereni degli ultimi tempi, ancor prima di parlare di riforme interne, il calcio deve serrare le fila per proteggersi dagli attacchi esterni del Coni, pronto a tagliare di nuovo i contributi. Ieri il Consiglio ha approvato il budget 2013, una scartoffia Amministrativa che serve però ad Giancarlo Abete per uscire immune dai controlli" incrociati della Giunta Coni di oggi, dove il numero uno federale dirà la sua, chiedendo lui una riforma della giustizia sportiva soprattutto con la revisione del Tnas che è del Coni e che sarebbe il primo organo da dover rivedere.

COMPATTI Un terrore del calcio, che su questo replica unito e compatto: «Non c'è una situazione di blocco in Figc, mi sembra che i blocchi stianno altrove e non all'interno della Federazione, dice Abete. «Il calcio italiano ha un suo appeal all'interno di chi produce risorse e quindi prima di tagliare devono stare molto attenti.,tuona il presidente della Lega Pro, Mario Macalli. Che però quando si tratta di parlare di seconde squadre nel suo campionato diventa rosso: «La questione delle seconde squadre in Lega Pro è chiusa per sempre, anzi non è mai cominciata". Per la Lega Pro vanno bene invece le multiproprietà a patto che i soldi statali il "multi-presidente" (per esempio Claudio Lotito che possiede due club professionistici, Lazio e Salernitana) li prenda una sola volta. «Lotito non ha contravvenuto a una norma, Lotito ha acquisito una società interregionale che è stata poi promossa», specifica comunque Abete. Entro la fine della stagione bisognerà comunque mettere mano alla norma, altrimenti si rischia una nuova deroga.

EXTRACOMUNITARIO Abete affronta invece con freddezza il nodo del terzo extracomunitario: «Nel 2012/13 sono entrati 32 extracomunitari, a me non è sembrato che abbiano fatto una grande differenza... Per il presidente della Lega Serie A, Maurizio Beretta, appare invece una richiesta «nell'interesse di tutti per mettere sullo stesso piano delle regole l'Italia con i mercati internazionali Due gli ostacoli: la legge Bossi-Fini, e il contingentamento, deciso ogni anno dal Coni. II cerchio è chiuso

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Il caso

L'insostenibile leggerezza del dirigente che sussurrava agli arbitri

Stefano Biondi - Il Giorno/La Nazione - 16-04-2013

MAURIZIO BERETTA, presidente di Lega, si fa portavoce degli scontenti e chiede agli arbitri «prestazioni all'altezza». Marcello Nicchi, che presiede l'Associazione degli arbitri, la prende male: «Parlando di attenzione forse si riferiva ai suoi giocatori». Non è dato di sapere, però, di quali giocatori si occupi Beretta, probabilmente tutti quelli della serie A. In ogni caso, siamo alle solite: gli insopportabili piagnoni del pallone non cambiano mai.

Esonerano sei allenatori, buttano i quattrini ingaggiando cinquanta giocatori più o meno inutili, perdono e la colpa è degli arbitri. Se un arbitro oggi sbagliasse quanto hanno sbagliato alcuni presidenti, dovrebbe scappare dall'Italia protetto dalla Croce Rossa.

Lamentele sempre uguali, di sconfitti vittime del complotto e di vincitori che se la godono in silenzio. Non sono credibili e non lo saranno fino a quando non forniranno una prova della loro credibilità. Come? La prima volta che un arbitro gli spiana la strada alla vittoria, lo dicano. Allora avranno il diritto di lamentarsi. Poi ci sarebbe l'opzione moviola in campo, per ridurre gli errori. Ma i grandi club non la vogliono. Forse perché le loro sconfitte rimarrebbero senza l'alibi più comodo e la loro influenza sugli arbitri si ridurrebbe drasticamente.

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Inviato (modificato)

16

apr.

2013

Moratti, l’autunno del patriarca

Oliviero Beha - 16-04-2013

L’Inter affonda, con quattro sconfitte in cinque partite. E la colpa sembra soprattutto del presidente nerazzurro: troppo tifoso per decidere con freddezza, troppo “nobile” per la trincea

Non è solo la crisi di Stramaccioni onomatopeico fino al midollo, e neppure quella dei giocatori. Non quella dello staff medico e delle corsie ospedaliere né quella degli arbitri infingardi e nemmeno di una dirigenza quasi ventennale attorno al Presidente con poco costrutto (almeno per la squadra…). No. È soprattutto la crisi dell’Inter di Moratti, e del suo modo di stare nel calcio. Troppo vicino, fino ad aderire alla squadra completamente come a un album di figurine, per stare al comando della nave con la freddezza che ci vuole tra i marosi rotondologistici. Troppo lontano per quarti di censo e patriziato dalle “stanze dei palloni” dove si negoziano i campionati perché scevro di astuzie e timoroso che non lo facciano più giocare all’ex “gioco più bello del mondo”. In fondo che altro è questa continua querimonia sulle ingiustizie (leggi difformità/incertezze) arbitrali, spesso sacrosanta, se non una clamorosa riedizione di tanti anni passati a mangiarsi le unghie per gli scudetti persi e le fortune investite?

Adesso siamo alle quattro sconfitte in cinque partite, con domani il baratro (evitabile soltanto con il coltello tra i denti) di un’eliminazione anche dalla finale di Coppa Italia, e il fusibile in panchina, alias “area tecnica”, è un giovane cadetto di West Point alla vaccinara: allora, 15 anni fa, quando Ronaldo veniva abbattuto a Torino da un Juliano qualunque senza il baffo di un rigore, e la Juve si slurpava l’ennesimo scudetto, il Mister fusibile era Gigi Simoni, anziano e navigato quanto Stramaccioni è giovane e dotato. Ma come si vede cambia poco. Perché? Qual è la malattia dell’Inter che strapazza l’Italia e l’Europa con meriti e aiutini solo durante l’eclissi post Calciopoli, nella pausa tra gli imperi moggeschi e quelli attuali marottiani (ma solo caserecci) in lievitazione? Malattia che appassito il fiore Mancini per altrui “default” e la pianta Mourinho per esaurimento scorte, adesso ha di nuovo contagiato tutto l’ambiente? Pezzo per pezzo, le spiegazioni ci sono, a volte vengono indagate con acribia, qui e altrove le avete trovate spesso. Ma il tutto avviene sotto l’egida sempre approssimativa di Massimo Moratti che tuona ogni tre per due, ma poi accetta obtorto collo di fare la parte dell’antagonista perdente o addirittura del deuteragonista nel solito dramma farsesco arbitrale e subarbitrale (e quest’anno si rischia la comparsata definitiva…). Moratti ha speso troppo, pare oltre un miliardo e mezzo di euro dal 1995, una Finanziaria sportiva mentre arrivano i petrol-rubli russi in società, e francamente ricorda tanto l’opinione che Giulio Onesti aveva della generazione precedente, dico dei presidenti dei club, come il leggendario Moratti padre, Angelo (che però aveva Allodi che gli lavava i panni ovunque: do you remember le storie di Coppa Campioni?). E adesso il Moratti junior, attor giovane invecchiato non abbastanza forte e convinto per ribaltare il tavolo del potere è costretto a tenersi le pigne, e immagino anche Stramaccioni. Che ingaggiato – che so – da un Bologna, probabilmente farebbe l’anno prossimo da giovane in crescita un gran campionato… Per dire che è l’insieme a sbarellare, il coro a stonare tra campo e uffici, non il singolo qualunque ruolo abbia.

Dell’arbitro di Trieste, Moratti ha diritto di pensare e dire il peggio possibile. Paradossalmente nel peggio (contro l’Atalanta fu inventato un rigore di sana pianta) ancora peggio quello che ha fatto contro il Cagliari Celi, pauroso di fischiare i rigori buoni e disponibile per esaurimento nervi a battezzare quelli fasulli. Ma caro Moratti, è sempre stato così, con o senza Moggi… Fosse stato in De Laurentiis dopo il rigore non dato al Napoli che avrebbe probabilmente cambiato la partita, che avrebbe detto? È ovvio che l’occhio di riguardo è “per” il Milan e non “contro” il Napoli. Per il Milan e di conseguenza contro la Fiorentina, se il posto in Champions rimasto è uno solo. Se Galliani perdesse la Champions sarebbe solo perché si è sarebbe squagliato da solo al caldo, tra l’affetto dei suoi, arbitri compresi. Tutto il resto è califanesca noia, déjà vu, come per l’Inter… Anzi no. C’è un killer seriale in giro per i campi dove si picchia tanto, si corre poco e ci si stupisce se in Eu- ropa facciamo piangere. È uno che ha troncato definitivamente la carriera al laziale Brocchi e adesso ha chiuso la stagione al sampdoriano Krsticic, senza neppure un’espulsioncina… Zeman mi diceva anni fa che è un centrocampista di valore, fra i più forti da lui allenati. Adesso fa lo scarparo professionista. Forse perché il tempo passa per tutti, anche per Matusalemme…

(Oliviero Beha)

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Modificato da huskylover

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GIUNTA CONI I NODI: RUOLI DI TNAS E ALTA CORTE

Malagò rompe ogni" indugio

«Presto la nuova giustizia»

A giorni le proposte di Abete

ma.gal. - Gasport - 17-04-2013

ROMA «II Coni, In collaborazione con la Figc, procederà per una vera riforma della giustizia sportiva. Non ci va di avere una situazione temporanea e pal doverne aprire un'altra, Procederemo quindi direttamente a un discorso definitivo che pensiamo sia vincente», II presidente del Conl Giovanni Malagò spiega cosl al termine delle Giunta il lavoro avviato. Nel prossimi glomi (due o tre al massimo) il numero uno del calcio, Giancarlo Abete, farà pervenire al Coni le proposte, la Giunta ne riparfèrà il 14 maggio. Nel frattempo lavoreranno gil uffici. Sul tavolo una riforma che II 2 febbraio 2012 Il Consiglio nazionale aveva varato, alcune federazioni anche acquisito, ma che lo stesso Coni aveva poi congelato. Quindi per evitare di partire il 1° luglio con un riforma da rifare, Abete e Malagò (ma in verità tutta la Giunta) hanno deciso di rimboccarsi le maniche, e «aggredire il problema».

Cosa cambiare Due i punti da affrontare: ruolo del Tnas e dell'Afta corte; la giustizia endofederale. Il Tnas è la pietra dello scandalo (Il lodo Terzi ne è l'ennesima dimostrazione: ritenuto provato l'Illecito ma ridotta a sette mesi la squalifica, sotto II minimo stabilito dal codice dl giustizia sportiva), II calcio ritiene «Inammissibile» un arbitrato (spesso monocratico) a valle di due giudizi collegali e vorrebbe un terzo grado di giudizio collegale (Alta Corte) che intervenisse solo sulla legittimità e sulla regolare Interpretazione delle regole. All'Interno delle federazioni due i capisaldi della riforma: la responsabilità oggettiva da rimodulare al ribasso e un maggiore spazio al diritti della difesa con II contraddittorio e l'escussione dei testimoni.

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Il caso

Giustizia sportiva processi e Tnas saranno cambiati

FULVIO BIANCHI - La Repubblica - 17-04-2013

ROMA — La promessa. «Faremo uno riforma della giustizia sportiva insieme con la Figc, ma vogliamo che sia una riforma vera, definitiva». Giovanni Malagò dopo aver attaccato Abete, passa alla fase due. In Giunta Coni, ieri, tutti, daCarraro aChimenti, si sono espressi a favore di una profonda revisione della giustizia sportiva, dopo i clamorosi colpi di spugna del calcioscommesse. Abete ha espresso i suoi progetti ed entro 48 ore, come spiega un comunicato di Palazzo H, farà "avere alla Giunta un documento in cui illustrerà le idee e le proposte della Figc". Il governo dello sport ha"condiviso all'unanimità che il tema vada affrontato con urgenza ma nello stesso tempo non si possono ipotizzare scelte affrettate che potrebbero nuocere al buon esito della riforma che sarà fatta in collaborazione con la Figc". Ecco come potrebbe cambiare la giustizia sportiva: a) revisione o soppressione del Tnas ed ell'Alta Corte; b) attenuanti, richieste soprattutto dalla Lega di serie A, della responsabilità oggettiva, in modo che club possano prendere le distanze dagli illeciti edai loro "tesserati infedeli"; c) maggiori diritti alla difesa nei processi; d) revisione del patteggiamento che ha portato di recente a non poche polemiche e contraddizioni; e) chiarimenti sui termini della prescrizione e sulle scelta dei giudici di secondo grado. Non si farà in tempo a trovare un accordo entro il 30 giugno: la prossima stagione quindi i processi sportivi si faranno con le norme attuali. Presto inizierà a riunirsi anche la commissione perla revisione dei parametri dei contributi alle Federazioni: c'è fermento, soprattutto nei confronti della Figc che prende 62 milioni.

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Coni Malagò lavorerà col presidente della Figc Abete: sul tavolo la modifica della responsabilità oggettiva

«Pronti a cambiare la giustizia sportiva»

Simone Pieretti - Il Tempo - 17-04-2013

Il presidente del Coni Giovanni Malagò è pronto a metter mano alla riforma della giustizia sportiva. Ieri, in occasione della Giunta nazionale, il presidente del Comitato olimpico ha annunciato imminenti cambiamenti. Il Coni si muoverà insieme alla Federcalcio, pronta a mettere sul tavolo quattro o cinque idee che potrebbero diventare le linee guida del nuovo ordinamento. Nelle prossime ore il presidente federale Giancarlo Abete consegnerà aMalagò un fascicolo con i quattro punti fondamentali da rivedere: la revisione del ruolo del Tnas e dell'Alta Corte di giustizia del Coni, la modifica della responsabilità oggettiva (con maggiori attenuanti per i club che cercano di difendersi dal comportamento antiprofessionale dei loro tesserati), l' ampliamento dei diritti della difesa nei procedimenti sportivi e infine la revisione dei termini di prescrizione e delle regole dell'istituto del patteggiamento.

«Il Coni, in collaborazione con la Federcalcio, procederà per fare una vera e propria riforma della giustizia sportiva - sottolinea il numero uno dello sport italiano Giovanni Mala-gò - perché evidentemente non ci va di avere una situazione temporanea e poi doverne riaprire un'altra. Procederemo quindi direttamente a un discorso definitivo, pensiamo sia la strada vincente. Abbiamo toccato l'argomento e nella prossima Giunta Nazionale usciranno fuori delle proposte, tenendo conto che c'erano già stati anche dei principi generali individuati dalla Giunta prece-dente. Alcune federazioni hanno recepito una serie di considerazioni. Altre, invece, sulla base anche di riflessioni recenti, sono elemento per poter aprire un dibattito per la vera riforma della giustizia sportiva».

Si ripartirà quindi dall'abbreviazione dei termini e dei gradi di giudizio (si dovrebbe passare da tre gradi di giudizio a due), dagli effetti della decisione della giustizia sportiva e dall'indipendenza dei giudici. «Il tema va affrontato con urgenza - sottolinea il Coni - ma nello stesso tempo non si possono ipotizzare scelte affrettate».

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• CONI AL LAVORO CON LA FIGC

Giustizia sportiva, si cambia

Malagò: «Riforma definitiva»

Nel mirino responsabilità oggettiva e determinazione delle pene

SIMONE DI STEFANO - Tuttosport - 17-04-2013

ROMA.Il Coni va a braccetto con il calcio nella riforma della giustizia sportiva. Del resto è dal mondo del pallone che i dubbi sull'attuale modello di. giustizia hanno iniziato a propagarsi, mentre è dal Tnas (quindi dal Coni), che si è manifestata l'esigenza/urgenza di sanzioni più certe e non di sconti a raffica: «Il Coni, in collaborazione con la Federcalcio, procederà per fare una vera e propria riforma della giustizia sportiva perché evidentemente non ci va di avere una situazione temporanea e poi doverne riaprirne un'altra». Parola del presidente del Coni, Giovanni Malagò, il quale ieri ha recepito in Giunta i "consigli" del numero uno Figc, Giancarlo Abete. Il quale all'uscita si è congedato con un sibillino usiamo giunti a delle conclusioni...». Di che tipo e sulla base di cosa, un'ora dopo neanche Malagò sarebbe stato abbastanza chiaro nello spiegarsi.

DEFINITIVA Una cosa è certa, la giustizia sportiva sarà riformata e non per un anno o due. Il numero uno dello sport italiano usa la parola «definitiva». Si procederà «direttamente - specifica Malagò - a un discorso definitivo che pensiamo sia vincente. Per i termini però bisogna avere un po' di pazienza, l'argomento resta comunque fortemente all'ordine del giorno. Alcune federazioni hanno già recepito una serie di considerazioni altre invece, sulla base anche di riflessioni recenti, sono elemento per aprire un dibattito perla vera riforma della giustizia sportiva». Abete ha comunicato che entro domani farà avere alla Giunta un documento in cui illustrerà le idee e le proposte della Figc: revisione dei ruoli di Tnas e Alta Corte del Coni, "ammorbidimento" della responsabilità oggettiva nei casi in cui le società dimostrano di aver fatto di tutto per difendersi dagli illeciti derivanti soprattutto dall'emergere del fenomeno di Scommesso- poli. E poi ancora revisione del patteggiamento, della prescrizione e della scelta del giudice di secondo grado.

COLLABORAZIONE Sono questi i punti salienti, che interessano non solo al calcio ma a tutte le discipline. Tanto che, all'unanimità, la Giunta ha stabilito che «il tema va affrontato con urgenza - si legge nel comunicato del Coni - a 360 gradi, ma nello stesso tempo non si possono ipotizzare scelte affrettate che potrebbero nuocere al buon esito della riforma che comunque sarà fatta in collaborazione con la Federcalcio». Collaborazione che invece non ci sarà sul fronte della revisione dei parametri per i contributi alle federazioni, con il calcio preso di mira e a rischio di nuovi tagli. Proprio per questo ieri è stato nominato un gruppo di lavoro composto dai presidenti federali Buonfiglio (canoa), Matteoli (pesca sportiva), Giorni (atletica), Sesti (motociclismo), Binaghi (tennis), Di Rocco (ciclismo), Bianchi (triathlon) e Barelli (nuoto).

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SVOLTA DOPO DUE ANNI IN CUI SONO DIVAMPATE LE POLEMICHE PER LE SENTENZE LEGATE AL CASO SCOMMESSE •

Coni e sportiva giustizia sportiva

si va verso una riforma

La responsabilità oggettiva uno dei temi «caldi»

La giornalaccio rosa del Mezzogiorno - 17-04-2013

ROMA. Se ne parla da tempo, ma è giunto il momento per iniziare (o, meglio, riprendere) la riforma della giustizia sportiva. A ribadirlo è stato, il presidente del Coni, Giovanni Malagò, al termine della Giunta Nazionale di oggi. Ma a muoversi è anche la Federcalcio, la più importante tra le 45 federazioni in seno al Comitato olimpico italiano.

Il presidente Figc, Giancarlo Abete, infatti, ha annunciato ieri che entro 48 ore farà avere alla Giunta un documento in cui illustrerà le idee dei vari protagonisti del mondo del pallone, maturate nel corso della lunga stagione dei processi al Calcioscomesse che, dal 2011, si intrecciano al calcio giocato privandolo di protagonisti (il tecnico juventino Conte, per citarne uno), riscrivendone le classifiche e intossicandolo con polemiche velenose. «Quattro-cinque, le proposte» firmate Figc: la revisione del ruolo del Tnas (ribattezzato «scontificio») e dell'Alta corte; la modifica della responsabilità oggettiva, con una una maggiore valorizzazione delle attenuanti per le società che cercano di difendersi dal comportamento dei tesserati «infedeli»; l'ampliamento dei diritti della difesa nei procedimenti sportivi; la revisione dei termini di prescrizione e delle regole dell'istituto del patteggiamento.

«Il Coni, in collaborazione con la Federcalcio, procederà per fare una vera e propria riforma della giustizia sportiva perchè evidentemente non ci va di avere una situazione temporanea e poi doverne riaprirne un'altra. Procederemo quindi direttamente a un discorso definitivo che pensiamo sia vincente», rileva il numero uno dello sport italiano.

I punti della Figc vanno ad integrare le linee guida della 'Commissione dei Saggi voluta dall'allora presidente del Coni Gianni Petrucci (e approvate dal Consiglio Nazionale del 2 febbraio 2012), anche per difendersi dal «doping legale» dei club: uno su tutti la Juve, in battaglia con la Federcalcio, fuori dal perimetro della giustizia sportiva, negli ultimi strascichi della vicenda Calciopoli. «Abbiamo toccato l'argomento e alla prossima Giunta usciranno fuori delle proposte - assicura Malagò - tenendo conto che c'erano dei principi generali individuati dalla Giunta precedente. Alcune federazioni hanno già recepito una serie di considerazioni altre, invece, sulla base anche di riflessioni recenti, sono elemento per aprire un dibattito per la vera riforma della giustizia sportiva». Dei principi da cui (ri)partire legati anche all'abbreviazione dei termini e dei gradi di giudizio (da 3 a 2), agli effetti della decisione della giustizia sportiva e all’indipendenza dei giudici. «Il tema va affrontato con urgenza a 360 gradi ma nello stesso tempo non si possono ipotizzare scelte affrettate», recita una nota del Coni. La volontà di cambiare c'è. E il Coni e la Figc provano a fare squadra.

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Diritti TV: segnalazione a Parlamento, necessario modificare il sistema vigente. occorre una ripartizione delle risorse basata sul merito sportivo, decisa da un soggetto terzo diverso dalla Lega Calcio

17 Aprile 2013

DIRITTI TV: ANTITRUST A GOVERNO E PARLAMENTO, NECESSARIO MODIFICARE IL SISTEMA VIGENTE. OCCORRE UNA RIPARTIZIONE DELLE RISORSE BASATA SUL MERITO SPORTIVO, DECISA DA UN SOGGETTO TERZO DIVERSO DALLA LEGA CALCIO

L’associazione dei Club non ha la necessaria posizione di terzietà. Segnalazione inviata ai Presidenti di Senato e Camera, al Presidente del Consiglio e ai Ministri dello Sviluppo Economico e degli Affari regionali.

Rivedere i criteri per l’assegnazione tra i club delle risorse derivanti dalla vendita dei diritti tv nel settore calcistico. Lo chiede l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in una segnalazione inviata a Parlamento e Governo, a firma del Presidente Giovanni Pitruzzella.

Secondo l’Antitrust occorre innanzitutto prevedere meccanismi di ripartizione che premino maggiormente il merito sportivo, eliminando il riferimento ai risultati ‘storici’ contenuti nella normativa vigente, che partono dai risultati della stagione calcistica 1946/1947. Anche il riferimento al bacino d’utenza dei club, previsto dalla normativa del 2008, non risulta direttamente riferibile al risultato sportivo, visto che il numero di spettatori cui può fare affidamento una società di calcio sfugge alla logica meritocratica. E’ dunque necessario rivedere l’opportunità di mantenere tale criterio di ripartizione, o quanto meno di limitarne ulteriormente l’incidenza rispetto a quello che premia i risultati.

Per l’Autorità, i profitti di una società sportiva dipendono dalla competitività dei concorrenti: un evento sportivo ha infatti una maggiore attrattiva quando c’è equilibrio tecnico tra le squadre e quindi incertezza sul risultato. Pertanto, la remunerazione del merito sportivo agevolerebbe il conseguimento dell’equilibrio tra i partecipanti alle competizioni e stimolerebbe gli investimenti nello sport anche da parte di nuovi entranti. Nella situazione attuale, poiché la quota delle risorse viene allocata secondo criteri che premiano in buona parte la storia e la notorietà di un club, gli investimenti volti a sviluppare club minori per portarli a competere ad armi pari non trovano adeguata remunerazione in tempi ragionevoli.

A parere dell’Antitrust occorre inoltre individuare un soggetto terzo, diverso dalla Lega Calcio, che proceda alla ripartizione delle risorse economiche derivanti dalla vendita dei diritti Tv, per garantirne una maggior equità e imparzialità. La Lega, in quanto composta da organi in cui siedono esponenti delle singole squadre, non rappresenta infatti il soggetto nella posizione migliore per dettare le regole di ripartizione delle risorse, posto che talune società potrebbero trovarsi nella condizione di influenzare a loro vantaggio tali scelte. La ripartizione dei proventi derivanti dalla vendita dei diritti televisivi, indipendentemente dallo specifico meccanismo di commercializzazione adottato, dovrebbe, quindi, essere effettuata da un soggetto avulso dagli interessi economici delle società di calcio, e realizzata nell’ottica di garantire la necessaria flessibilità e competitività dell’intero sistema calcistico.

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Studio Fifa Nel 2012 abbiamo. importato 263 calciatori, l'Inghilterra 501 e la Germania 307. Fuga dalla Spagna: 432 partenze

E' un sempre affare giocare nel calcio italiano

Ingaggi record per gli stranieri

Media di oltre mezzo milione di euro

Paolo Tomaselli - CorSera - 17-04-2013

MILANO — Il famigerato «top player» si aggira per l'Europa e dribbla l'Italia. Buon per lui, ma la classe media ci ama ancora e a ragione: secondo uno studio della Fifa sui trasferimenti estero su estero nel 2012 (Transfer Matching System) i calciatori che sono sbarcati nel nostro Paese sono quelli mediamente più pagati (55o mila euro). L'analisi è ricca e dettagliata, ma tiene in considerazione i sei mercati dove i movimenti sono stati maggiori: Italia, Inghilterra, Germania, Portogallo, Brasile e Argentina. Quindi la Spagna, la Russia, o la Francia (ovvero il Paris Saint Germain) che ha importato Ibrahimovic, Thiago Silva e Lavezzi non sono tenute in considerazione e sicuramente come stipendio medio degli acquisti nel 2012 ci superano.

L'Italia, verrebbe da pensare, punta di più sulla quantità (dei giocatori e degli scambi) che sulla qualità. Ma anche questo è vero fino a un certo punto perché, in Europa, l'Inghilterra (501) e la Germania (307) hanno importato più giocatori di noi (263). Mentre dalla Spagna, che a parte Barcellona e Real se la passa malissimo, c'è stata una fuga generale (432 partenze contro le nostre 339). E anche nel saldo netto (in attivo di una settantina di milioni di euro) il calcio italiano dimostra di godere di buona salute: solo il supermercato brasiliano (100 milioni) e la carissima boutique portoghese (85) hanno spremuto di più da un flusso mondiale che ha coinvolto 11.552 calciatori, con un giro di affari di 2 miliardi di euro, ma comunque in calo sensibile (l0%) rispetto al 2011.

Il primato incontestabile del nostro calcio resta però quello degli ingaggi dei nuovi arrivati, mediamente ben oltre il mezzo milione di euro. L'Inghilterra si ferma sui 500 mila, la Germania si assesta sui 329 mila. Mentre in Sudamerica,l'Argèntina e il Brasile (mercato più attivo in uscita, ma a sorpresa anche in entrata) superano a stento i 5o mila euro. L'Italia è un affare per i calciatori e anche per i procuratori, altri grandi protagonisti dello studio Fifa, con un significativo 19% di incremento di intermediazioni. L'Inghilterra tecnicamente paga di più per le commissioni degli agenti (45 milioni di euro) contro i 30 italiani, ma considerato il numero maggiore di trasferimenti Oltremanica (la Fifa conteggia anche quelli all'interno del Regno Unito) si può dire che l'andamento è lo stesso degli stipendi: calciatori e agenti mediamente guadagnano di più con il nostro calcio.

Ma facendo la conta, al di là dei conti, chi è arrivato da noi nell'anno di grazia 2012? I pezzi grossi (anche per l'ingaggio) sono stati Pogba alla Juve, De Jong e Niang al Milan, Pereira all'inter, Aquilani e Borja Valero a Firenze, la colonia di sudamericani della Roma, da Marquinho a Dodo, i laziali Ederson e Ciani. Ma il resto della truppa giustifica il primato italiano e gli stipendi medi più alti in assoluto? Il dubbio, alle pendici del monte ingaggi più impervio del calcio mondiale, è legittimo.

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"Impossibile fare pulizia

i mafiosi parlano di più"

Il pm Di Martino: "Troppi interessi nel calcio"

La Repubblica - 17-04-2013

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l'opinione

COSI' l'ANTITRUST RIAPRE LE FERITE

di Antonio Maglie - Corsport - 18-04-2013

Il tema è serio, la sua soluzione complessa e certamente non immediata. La legge sulla distribuzione dei diritti televisivi nacque in una fase confusa e concitata della vita del calcio italiano (non che adesso sia più serena): subito dopo Calclopoli. Avrebbe dovuto sanare le storture del sistema precedente, quello basato sulla titolarità soggettiva con più Grandi e Forti che ramazzavano gran parte delle risorse sul tavolo. Le intenzioni dell'allora ministro dello sport, Giovanna Melandri, vennero accolte con grande entusiasmo. I risultati, però, apparvero immediatamente al di sotto delle attese: provvedimento confuso, che lasciava troppa discrezionalità alle scelte della Lega e, all'interno della Lega, alle scelte dei più potenti.

L'Antitrust ha puntato il dito sui punti critici di quel provvedimento. Il fatto è che sono ormai trascorsi molti anni, che nel frattempo la situazione economica è profondamente cambiata e che i club hanno organizzato la propria vita sulla base dei ricavi sin qui ottenuti della distribuzione delle risorse definita con accordi che hanno prodotto divisioni, a volte profonde spaccature. L'Antitrust, insomma, non attacca solo una legge, riapre ferite all'interno della Lega provvisoriamente rimarginate.

L'intervento dell'Autorità avrà sicuramente un peso: il Parlamento non potrà far finta di nulla. E, d'altro canto, che la leggi «ingessi» il sistema è evidente (lo ingessa anche il fair play di Platini e la cosa dovrebbe sollecitare l'interesse dell'Antitrust europea). Ma difficilmente questo intervento avrà conseguenze immediate. L'Autorità, infatti, si rivolge al Parlamento, cioè al potere legislativo chiedendogli di cambiare la norma. Ma al momento le Camere sono impegnate su altri temi (da oggi si vota per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica) e poi non è detto che rimangano in carica visto che manca ancora il Governo. E se anche dovesse nascere prossimamente un esecutivo, è evidente che le leggi legate alle drammatiche urgenze economiche avrebbero una comprensibile priorità su tutto il resto. Il pronunciamento, insomma, ha il valore di un post-it attaccato ai portoni di Montecitorio e Paiano Madama. Chiaro il contenuto: questa legge non aiuta la concorrenza, perciò cambiatela.

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IL PUNTO DI VISTA

Liti sulle briciole e il calcio arranca

STEFANO SALANDIN - Tuttosport - 18-04-2013

Claudio Lotito parla di «tempesta in un bicchier d'acqua» perché fa riferimento agli eventuali effetti che il parere del-l'Antitrust potrebbe avere sulla ripartizione dei diritti tu Se invece vagliamo cercare un'altra immagine che rimandi al merito della questione pensiamo alla lite tra i capponi di Renzo". Intendiamoci: la "torta"per cui si beccano è golosa assai: un miliardo di euro ma la realtà è che la Legge Melandri ha già permesso di riequilibrare la "dimensione delle fette" in maniera consistente Prima, per esempio, la differenza tra ciò che percepiva la prima e l'ultima era di 9 a 1. Ora, per esempio la Juve incassa "solo" 4 volte più del Pescara. E la Legge Melandri ha portato a una crescita del valore dei diritti del 27% Certo, Spagna a parte, in Premiere in Bundesliga le ripartizioni sono ancora più equilibrate ma anche lavorando di lima (perché di questo si parla) sulla Legge, non si sposterebbero gli equilibri e neppure si ridurrebbe il gap con l'estero. Pérché quelli differenziano e non vivono solo sulla "pappa pronta" delle tv. Due esempi veloci: il peso dei diritti sul fatturato globale dello United è del 36%, del Bayirn appena del 22% Al Milan, per restare tra i top club italiani, si sale al 46 %. Da noi, insomma, siamo sempre (quasi tutti) tv a spartirsi quello che già c' e, casomai, a tirare in mezzo i tribunali. Perché c'è sempre un giudice a Palermo (o a Catania: ricordate?) che ha voglia di interessarsi di calcio.

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INTER-MILAN STAGIONE SENZA TROFEI

DAL 2002 AL 2012 NE AVEVANO VINTI 25

NICOLA CECERE - Gasport - 18-04-2013

L' Inter, ultimo insulto di questa stagione sciagurata, viene affossata da un prodotto del suo vivaio, Mattia Destro, chissà perché sacrificato in sede di mercato dopo il naturale apprendistato in provincia. E' una delle diverse operazioni criticabili di un dopo Mourinho apparso carente anzitutto in sede di programmazione. Certo, la formazione di «superstiti» schierata ieri sera da Stramaccioni, rende in pieno l'idea dei continui agguati subiti dalla malasorte. E del resto quando le annate sono così negative, totalmente negative, c'è sempre una componente di avversità non preventivabili. Sugli errori commessi, sul depauperamento tecnico e caratteriale dell'lnter vincente, si è molto dibattuto. Perciò la Nord, prima di assistere a questo ultimo atto di resa, si era già proiettata sul futuro. Tre i grandi striscioni apparsi sulla curva, che chiamando in causa Mourinho, Bonolis e il d.g. Fasso-ne (quale ex juventino) sottintendevano un comune denominatore: il presidente cerchi nuovi collaboratori all'interno del mondo Inter. E' quindi molto importante, a giudizio del popolo nerazzurro, il senso di appartenenza alla maglia non soltanto nei giocatori, ma pure nei dirigenti. Seguendo questo criterio, Moratti dovrebbe chiamare in panchina Walter Zenga e richiamare in società Sandro Mazzola o Lele Oriali: bandiere interiste. Vedremo se il presidente, che ha comunque annunciato pochi giorni fa la volontà di apportare correzioni all'intera struttura («c'è molto da cambiare, anzi, tutto»), accoglierà il suggerimento dei tifosi. Intanto l'operazione rilancio dovrà essere portata a compimento senza i soldi derivanti dalla partecipazione alla Champions. Il che significa che Moratti investirà nell'Inter una buona parte dei milioni appena incassati dalla Saras, l'altra azienda di famiglia. Perché, sia che arrivi un socio forte, sia che debba proseguire da solo, il patron nerazzurro non è tipo da arrendersi dinanzi alle sconfitte, a differenza di quanto accaduto alla squadra in questa fallimentare stagione: al primo episodio avverso, plof... Tutti sgonfi. Invece il presidente ha la capacità di ricaricarsi di più proprio quando intorno a lui trova macerie. Per i tifosi è una garanzia di uno strenuo impegno per rinascere Gli alibi non mancano a Stramaccioni e sono robusti. E' però vero che nell'improvvisata formazione di ieri sera la linea difensiva era l'unica cosa collaudata in precedenza: e i gol di Destro chiamano pesantemente in causa i movimenti sbagliati di questa linea... La Roma, più squadra, ne ha approfittato con apparente semplicità. E adesso va a sfidare la Lazio nel primo derby capitolino che vale la Coppa Italia, con annessa Europa League. Piange Milano, invece. Nelle ultime dieci stagioni, cioè dal 2002 al 2012, le due squadre meneghine avevano vinto almeno un titolo all'anno. Quindici i trofei colti dall'Inter: 1 Champions, 1 Mondiale per club, 5 scudetti, 4 Coppe Italia, 4 Supercoppe d'Italia. Dieci i trofei del Milan: 2 Champions, 1 Mondiale per club, 2 scudetti, 1 Coppa Italia, 2 Supercoppe d'Europa, 2 Supercoppe d'Italia. Stavolta è digiuno. Anche se Berlusconi si può consolare acciuffando il posto-Champions.

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CorSera 18-04-2013

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Tuttosport -18-04-2013

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