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Lo stile Juventus

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Visita della rosa juventina agli stabilimenti della casa automobilistica FIAT (1964). Il modello di gestione imprenditoriale della squadra sportiva da parte di diversi membri della famiglia Agnelli, dagli anni venti del XX secolo, influì notevolmente nello sviluppo del calcio italiano e nel consolidamento della sinergia tra la Juventus e la citata compagnia.

 

 

« FIAT, IFI, Juventus: lo stile è sempre quello, identica è la matrice. È lo stile di Giovanni Agnelli, il fondatore, che corre attraverso le generazioni e concorre all'evoluzione del mondo. Un manifesto di lavoro che si fa quotidiana regola di vita: dunque, non può stupire che l'auto dell'anno o lo scudetto siano gemelli essendo la stessa la Dinastia dalla quale discendono. »

(Mario Pennacchia, Gli Agnelli e la Juventus, 1985.)
 
Con l'espressione Stile Juventus, a volte riferita anche come Spirito Juventus o più semplicemente come Stile Juve, si usa indicare una peculiare forma di gestione sportiva applicata nella società calcistica italiana per azioni Juventus Football Club, inerente all'amministrazione aziendale, al fine di ottenere con maggior efficienza il successo.
 
La locuzione fu coniata dai mezzi di comunicazione di massa attorno agli anni trenta del ventesimo secolo per riassumere il traguardo sportivo raggiunto nel calcio nazionale a partire dal 1923 – accentuato durante la prima metà del decennio successivo – dalla squadra allora presieduta dall'avvocato torinese Edoardo Agnelli, considerato il fautore del modello, divenuta nel frattempo una società polisportiva e, in seguito, la prima entità nello sport italiano con status professionistico ante litteram; ispirato dall'insieme di politiche imprenditoriali introdotte nella società anonima FIAT, a quel tempo presieduta dal commendator Giovanni Agnelli, ebbe un ruolo decisivo nella svolta verso il professionismo e nell'ulteriore affermazione popolare del calcio tricolore, influendo anche nelle decisioni dirigenziali di altri club a partire dal secondo dopoguerra, ed emergendo quale modello organizzativo di riferimento per lo sport nella Penisola.
 
L'espressione fa anche riferimento all'ethos sportivo proprio della società bianconera che intende aderire ai principi di «correttezza, professionalità, capacità di innovazione continua e capacità di perseguire e conseguire il risultato con tutte le proprie forze», avendo anche qualche nesso con altri concetti inerenti al club quali «orgoglio gobbo», «fino alla fine» e, più complessivamente, «emozione Juventus»; oltre a richiamarsi, per esteso, a qualsiasi aspetto della propria cultura sportiva, degli usi e costumi delle diverse personalità legate alla società, nonché alle caratteristiche dell'organizzazione interna e – in virtù delle origini del club e del proprio azionista di riferimento – al cosiddetto «stile sabaudo» strettamente affine alla cultura piemontese.
 
L'antropologo francese Christian Bromberger lo definisce come «l'immagine ideale di una cultura aziendale rigorosamente organizzata [...] simboleggiata con le 'tre S': Semplicità, Serietà, Sobrietà», facendone un paragone con «lo stile di un'aristocratica 'vecchia signora' che coniuga le regole dell'étiquette e la rigorosa disciplina del mondo industriale [...]» che si riflette in gran parte nell'organizzazione societaria del club e nelle caratteristiche di gioco della squadra.
 
 
(wikipedia.org)

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Cenni storici

 

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Nel luglio del 1923, anno della riunificazione del campionato, il vicepresidente della FIAT e del Foot-Ball Club Juventus Edoardo Agnelli venne eletto per decisione unanime della giunta dei soci alla presidenza del club, succedendo all'avvocato Gino Olivetti. Personaggio proiettato verso il futuro, Agnelli diversificò le attività societarie rispetto a quella principale del calcio e, con la collaborazione del barone Giovanni Mazzonis, incaricato della vicepresidenza, introdusse una serie di riforme amministrative in seno al club, ispirandosi al modello e ai principi anglosassoni del foot-ball, che si dimostreranno decisive per l'istituzione del girone unico e la svolta verso il professionismo nonché per il conseguente sviluppo del calcio in Italia: tra queste, la creazione di una compagnia dedicata all'amministrazione aziendale della squadra sportiva – quarantaquattro anni prima della conversione delle società calcistiche in aziende a capitale privato –, la decisione di adottare inizialmente le tecniche della cosiddetta «scuola danubiana», ingaggiando il primo allenatore professionista nella storia del club, l'ungherese Jenő Károly, e il connazionale Ferenc Hirzer, attaccante e futuro capocannoniere del campionato nazionale; in aggiunta ciò, l'intera rosa venne stipendiata e gli immobili ammodernati, investendo soprattutto nell'illuminazione artificiale dello campo di proprietà costruito otto mesi prima su richiesta del presidente Olivetti, oltreché in una sede sociale dedicata ai dipendenti e soci juventini e nel settore medico, tutte novità per l'epoca.

 
Durante il decennio seguente, in virtù dei successi sportivi della squadra bianconera e del profondo impatto che essi ebbero nella società italiana di quel tempo, i mezzi di comunicazione di massa coniarono l'espressione «stile Juventus» per sottolineare l'efficienza della gestione societaria che distingueva i bianconeri dal dilettantismo ancora imperante nelle altre società italiane del tempo, principalmente quelle meridionali
 
La presidenza dell'avvocato Agnelli, che cambierà per sempre l'approccio al sistema sportivo divenendo antesignana del cosiddetto football management sviluppatosi in Italia a partire della seconda metà del secolo, si caratterizzò anche per l'introduzione di un rigido e, per l'epoca, innovativo regolamento di controllo interno – ispirato ai principi istituiti in FIAT dopo la fine della Grande Guerra e proseguiti agl'inizi del decennio successivo dal direttore centrale Vittorio Valletta – che la totalità di dipendenti del club, giocatori inclusi, doveva rispettare: questi prescriveva l'uso di un abbigliamento formale durante gli atti pubblici e viaggi in trasferta della squadra, l'evitare ogni polemica sia a livello personale che societario, il non concedere interviste senza l'autorizzazione dirigenziale, il rispetto delle decisioni arbitrali garantendo il fair play e l'apprendimento di regole d'étiquette e d'espressione linguistica, «perché alla Juventus non era ammessa l'ignoranza», accentuando così le già radicate caratteristiche aziendali all'interno del club e rafforzando, di conseguenza, sia l'ammirazione verso la squadra tra la popolazione interessata al calcio che l'ostilità che, per motivi campanilistici, ormai la circondava. Il giornalista Carlo Bergoglio, detto Carlin, diede testimonianza di ciò tra le pagine dell'edizione della rivista Guerin Sportivo del 2 maggio 1934:
 
« Hanno creato un ambiente che, come una macchina per impastare tutti i caratteri, ne farne il tipo unico mai illuso e mai disperato, mai troppo ottimista e mai troppo pessimista. Mai agitato e mai placato.
Cadere nella macchina un Monti o un Cesarini, un Orsi o un Varglien, spiriti fieri magari protervi, ed escono ben presto come gli altri: impastati. Ricadde un Tiberti, un Ferrari, un Sernagiotto, un Ferrero o un Valinasso e ne esce fuori un momento sicuro con qualche fierezza.
Il 'super asso' diventa solo un asso, l'aspirante a campione diventa asso; uno cava, l'altro cresce, tutto si livella. L'educazione e naturale riservo fanno il resto: se entri e nel Circolo, un tipo in guanti bianchi riceve il tuo cappello, gli stucchi dorati t'impediscono di dir parolaccie. La stretta di mano sulla tetti all'orologio, non una mano sulla spalla. Nessun ordine del giorno, ma l'ordine con l'ora per il domani, firma carcame. Mai niente di nuovo. Un giocatore entra e capisce dov'è, cosa deve imparare, il senso delle distanze, il rispetto, quel formalismo che è pure necessario se tutti gli esserci si sono basati su quello. »
 
Il primo periodo di successo del calcio professionistico italiano si concluse con la tragica scomparsa di Agnelli, vittima di un incidente aereo il 14 luglio 1935, dopo il quale la società sarà gestita dal barone Mazzonis – fino a quel momento, vicepresidente della Juventus – e, ulteriormente, dall'ex calciatore bianconero e futuro proprietario della Compagnia Industriale Sportiva Italia (CISITALIA) Piero Dusio, che potenzierà l'attività polisportiva del club. Nel frattempo, essa venne trasferita ad Alba per sfuggire ai bombardamenti sulla città di Torino durante la seconda guerra mondiale.
 
 
- Riproposizione e consolidamento
 
L'atteggiamento societario della Juventus fu riproposto durante la seconda metà del XX secolo con l'assunzione della massima carica dirigenziale del club da parte dell'imprenditore Gianni Agnelli, membro del consiglio di amministrazione del club dal 1938, la cui gestione avrà un impatto nella comunità sportiva simile a quello sperimentato negli anni venti. Influenzato sia dal padre Edoardo che dal nonno, l'omonimo senatore Agnelli, l'Avvocato – come era già noto – portò avanti una serie di riforme in seno alla società, nel frattempo indebolitasi per la distruzione delle proprie infrastrutture quali il centro sportivo, la sede amministrativa e il Circolo societario durante i bombardamenti cittadini e, in particolare, per la liquidazione della CISITALIA, che l'amministrò durante la Resistenza e i primi anni della Ricostruzione. Conferendogli da allora un grado di stabilità considerevolmente superiore a quello delle istituzioni sportive e politiche sia in ambito tecnico che manageriale, Agnelli portò la squadra, capitanata dal difensore Carlo Parola e rinforzata dagli acquisti di giocatori di rilievo quali il futuro capitano della nazionale italiana Giampiero Boniperti e i nazionali danesi John Hansen e Karl Åge Præst, a vincere due titoli del campionato di Serie A nel 1950 e 1952 – i primi dopo un quindicennio – nonché a partecipare, in rappresentanza della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) quale campione d'Italia 1949-50, a un torneo internazionale disputatosi in Brasile nel 1951, nella quale arrivò in finale esprimendo al massimo livello il gioco a zona, un atteggiamento tattico all'epoca sconosciuto in Sudamerica, una circostanza che permetterà ai bianconeri di estendere la propria popolarità nel continente.
 
Durata sino al 1954, la presidenza di Gianni Agnelli consoliderà il sodalizio tra la Juventus e la dinastia proprietaria della FIAT, il più antico e duraturo nello sport italiano, iniziato un trentennio prima e interrotto tragicamente nel 1935, rafforzando notevolmente l'identificazione fra la squadra e la famiglia, e di cui lo stesso Avvocato diverrà l'immagine pubblica. Tra le altre cose, proprio lui contribuirà anche a riformare le norme contrattuali FIGC, all'epoca ripartite in maniera proporzionale all'importanza della città-sede dei club – un criterio arbitrario stabilito dalla Federazione – e il relativo carovita, in favore del valore di mercato del singolo atleta e del proprio rendimento sportivo.
 
Il metodo gestionale juventino si sarebbe consolidato come modello sportivo-finanziario durante la successiva presidenza di Umberto Agnelli, anche lui imprenditore. Eletto nel 1955 da una giunta di soci, tra cui il fratello Gianni – divenendo il più giovane ad assumere la massima carica dirigenziale nella storia della società, ad appena ventidue anni –, la sua presidenza venne caratterizzata dagli ingaggi di giocatori di rilievo – ma a quel tempo sconosciuti al pubblico italiano – quali il nazionale gallese John Charles e il nazionale argentino Omar Sívori, decisivi per la conquista di tre campionati di lega e due coppe nazionali consecutive dalla stagione 1957-58 all'annata 1960-61, facendo sì che la Juventus emergesse come la squadra-simbolo dell'allora favorevole congiuntura economica interna, anche in virtù di un cospicuo incremento del bacino di simpatizzanti a seguito della massiccia immigrazione meridionale a Torino nei primi anni della decade del 1950.
 
Per i seguenti otto anni verrà rafforzata la struttura direttiva della squadra, nei quali andò definitivamente ad affermarsi anche una peculiare politica di reclutamento iniziata alla fine del secondo conflitto mondiale: oltre a puntare soprattutto sull'ingaggio di giocatori italiani – scelta che si rivelerà determinante nei cicli di successi della Nazionale «A» –, inclusi atleti noti per una notevole predisposizione e polivalenza tattica e disciplinaria, andando a compensare certi limiti tecnici, e per questo spesso parangonati agli operai della compagnia, il club si segnalò nell'ingaggiare stranieri pescati principalmente nei paesi limitrofi quali la Francia, in virtù dei vincoli storici che tale nazione condivide con la città di Torino, e dell'Europa centrale e settentrionale, in quanto ritenuti «più adattabili» allo stile di vita della capitale sabauda nonché alla disciplina ormai caratteristica della società nei confronti dei calciatori provenienti da altre latitudini.
 
In virtù al successo ottenuto con la Juventus, il Dottore Agnelli sarà eletto per unanimità presidente della FIGC nel 1959 con l'obiettivo di ristrutturare il calcio italiano dopo il fallimento della squadra rappresentativa tricolore, non qualificatasi al mondiale di Svezia dell'anno precedente. Durante la sua gestione presenterà in Federcalcio un programma di rinnovamento interno basato sulla trasparenza economica, sugli investimenti nell settore giovanile, sull'istituzione di corsi per medici, istruttori e massaggiatori, sul rinnovamento della formazione degli arbitri e degli allenatori, e una riforma della giustizia sportiva.
 
«Ho creato un gruppo, dal 1971 quando sono diventato pre­sidente ad oggi, questo gruppo è rimasto compatto, salvo ringio­vanirsi e potenziarsi come detta­no i tempi. Abbiamo il medico a tempo pieno, credo che siamo una delle poche società italiane ad averlo e se ne vedono i frutti positivi. Ma soprattutto colletti­vo in tutti i sensi e meglio ancora l'asso al servizio del collettivo.»
(Giampiero Boniperti, 1984.)
 
Dopo le rispettive attività dirigenziali a fronte del club i fratelli Agnelli rimasero legati ai colori bianconeri compiendo, in diversi periodi, una serie di incarichi amministrativi, assumendo ulteriormente il ruolo di presidente onorario con cui poterono mantenere la propria influenza sul consiglio di amministrazione della società. Così, il club poté sollevare le tensioni tra la FIAT e i sindacati degli anni sessanta, aggravate durante il cosiddetto «autunno caldo», attraverso una «politica dell'economia» istaurata dall'onorevole Vittore Catella su iniziativa di Gianni Agnelli. Tale provvedimento societario sarebbe continuato durante gli anni del terrorismo dal suo successore Giampiero Boniperti, chi assunse la massima carica istituzionale bianconera nell'estate del 1971 su richiesta di Gianni Agnelli, per affrontare la crisi di risultati delle squadre italiane originate dal divieto di tesseramento di giocatori di nazionalità diversa all'italiana ed allenatori che svolgerono l'attività sportiva fuori dal territorio nazionale imposto dalla Lega Nazionale Professionisti (LNP) su iniziativa del presidente federale Giuseppe Pasquale dopo l'insuccesso della cosiddetta Squadra Azzurra al campionato mondiale del 1966 e ulteriormente aggravata dall'emersione del primo scandalo del calcioscommese quattordici anni più tardi, a cui la società bianconera si era opposto in quanto «determinava una condizione sfavorevole per il calcio italiano nelle competizioni internazionali», la livello tecnico-tattico in confronti, principalmente, delle squadre militanti al campionato dei Paesi Bassi, di cui ebbe l'origine il cosiddetto totaalvoetbal, uno stile di gioco offensivo che avrà un forte impatto nel resto del continente; al campionato inglese, le cui ricevettero a metà del decennio un'autorizazione speciale da parte della Federazione Internazionale del Calcio (FIFA) per ingaggiare giocatori originari nelle altre nazioni costitutive del Regno Unito e nelle antiche colonie dell'impero britannico senza alterare le restrizioni agli acquisti di giocatori di altre nazionalità imposte in precedenza dalla propria associazione nazionale; al campionato spagnolo, le cui poterono ingaggiare la maggioranza dei migliori atleti che parteciparono ai mondiali del 1974 e del 1978 e anche a quello tedesco occidentale, il cui sarebbe stato classificato al primo posto nel ranking europeo alla fine della decade. Per farlo, Boniperti elaborò un progetto a lungo termine gestito con rinnovati criteri industriali, caratterizzato dall'introduzione e successiva applicazione della zona mista, un innovativo schema tattico che coniuga efficientemente i concetti del calcio totale neerlandese e il classico catenaccio italico; dall'inserimento graduale in prima squadra di giovani calciatori forniti nel settore giovanile juventino quali Giuseppe Furino, Roberto Bettega e Paolo Rossi, nonché dall'arruolamento di talenti in prospettiva provvenenti con presenza attiva nel campionato di Serie A con altri club quali Gaetano Scirea, Antonio Cabrini, Claudio Gentile, Marco Tardelli e Franco Causio; e dalla ferrea disciplina – includendo d'immagine – imposta alla squadra bassata in quella che esperimentò durante l'attività agonistica; dando inizio al periodo di successo più duraturo nella storia del calcio italiano, in cui sarà considerevolmente arricchito il palmarès, e che darà inizio a un periodo aureo per il calcio italiano a partire della riapertura delle frontiere e l'autorizzazione ai club di tesserare un giocatore proveniente di un'associazione nazionale estera a partire della stagione 1980-81 e la successiva vittoria della rappresentativa italiana ai mondiali del 1982. Nel febbraio del 1990, Boniperti rassegnò le dimissioni in ragione della conflittualità insostenibile con i procuratori, essendo sostituito dall'avvocato Vittorio Caissotti di Chiusano.
 
 
- Ulteriori cambiamenti
 
Il modello bianconero subì un rinnovamento complessivo nell'estate 1990 con l'introduzione di politiche economiche, applicate precedentemente nella multinazionale Ferrari S.p.A., dal neo vicepresidente della società Luca Cordero di Montezemolo per contrapporre la cosiddetta «crisi dell'auto» sorta nella regione alla fine del decennio e, più in particolare, le nuove esigenze del mondo del calcio, le cui constrastarono le proprie caratteristiche basiche – discrezione, efficienza e, se necessario, austerità[64] –: una maggior cobertura mediatica, principalmente a carico della televisione privata, l'uso sistematico di tecniche marketing e merchandising per generare redditi da capitale e l'accessa – e crescente influenza – della figura del procuratore nel calciomercato; indirizzandosi gradualmente verso una politica d'autofinanziamento su iniziativa congiunta dei fratelli Agnelli, la cui sarà compiuta a partire della stagione 1994-95 sotto l'amministrazione di Antonio Giraudo per cui esito sarà anche istituita una efficiente politica di compra e vendita di giocatori di rilievo per garantire la continuità di alto rendimento della squadra, rispettando contemporaneamente gli impegni del bilancio societario; con cui si posizionerà in modo stabile tra le primi cinque società calcistiche a livello mondiale in termini di fatturato, valore borsistico e patrimonio di marca[66] fino allo scoppio dello scandalo del calcio italiano del 2006, di cui conseguenze si è ricuperato a partire del 2012 sotto la presidenza del dott. Andrea Agnelli con l'istituzione di un insieme di provvedimenti dirigenziali quali la costruzione di, tra le altre strutture, un stadio di proprietà – il primo scenario calcistico moderno concepito nel Paese – e un moderno complesso sportivo e amministrativo, la firma e rinnovamento di convegni commerciali con un gruppo di associazioni e aziende di caratura internazionale seguendo la strategia commerciale nota come Less is More (Meno è di più) per intensificare la visibilità del marchio juventino e delle aziende che la sponsorizzano e l'usufrutto costante dei servizi di rete sociale che lo collocano come un'alternativa di soluzione della problematica riguardante il calcio italiano contemporaneo.
 
 
(wikipedia.org)

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Interpretazione 


 


Boniperti-Trapattoni-Zoff.jpg


 


 

« Di stile Juventus parlano gli altri, non noi. »

(Giovanni Agnelli, 1997.)

 

Benché sia molto difficile di definire precisa e complessivamente il significato dello «stile Juventus» e tutto ciò che rappresenta, nel corso degli anni esso è stato interpretato in diverse maniere, soprattutto dal cosiddetto «dopoguerra calcistico», sia con connotazioni positive che negative. Alcuni analisi in ambito delle scienze sociali conclusero che il termine descrive contemporaneamente a un modello duraturo di gestione sportiva-aziendale caratterizzato da una cospicua capacità d'adattamento alla congiuntura nazionale e alla continuità nel tempo dell'azionista di riferimento – iniziata nel 1923 e ininterrotta dal 1947 – e, di conseguenza, la sinergia tra la società sportiva e la FIAT (pur non essendo stata mai da essa direttamente gestita), la pianificazione strategica e l'insieme di politiche amministrative introdotte con successo all'interno del club; nonché, dai principi e valori che esso persegue quali «correttezza, professionalità, capacità di innovazione continua e capacità di perseguire e conseguire il risultato con tutte le proprie forze», a un ethos sportivo riferito all'insieme di comportamenti, atteggiamenti e valori che fanno capo «all'eleganza, alla parsimonia, alla misura, alla disciplina e alla concretezza» che lo contraddistinguono agli occhi della popolazione media italiana, espresse da varie personalità di rilievo legate alla Juventus, quali giocatori, allenatori, dirigenti e presidenti – principalmente dall'Avvocato Gianni Agnelli, il cui aggiunse il proprio stile personale –, avendo anche qualche nesso con altri concetti inerenti al club quali «orgoglio gobbo», «fino alla fine» e, più complessivamente, «emozione Juventus»; oltre a far riferimento, per esteso, a qualsiasi aspetto della propria cultura sportiva, degli usi e dei costumi delle diverse personalità legate alla società, nonché alle caratteristiche dell'organizzazione interna e, inoltre – in virtù delle origini del club nonché della stessa dinastia Agnelli –, correlato intrinsecamente al cosiddetto «stile sabaudo» strettamente affine alla cultura piemontese.

 

Descritto spesso come un «modello di rigore, disciplina e stabilità», il termine è anche riconosciuto quale uno dei elementi che più contraddistingono l'identità del club piemontese assieme al conubbio con la dinastia proprietaria della FIAT, la notevole diffusione e trasversalismo della propria tifoseria e «e un'invidia [nei confronti del club] altrettanto diffusa», oltreché il riflesso dell'identità e cosmovisione a livello cittadino e regionale.

 

 

- Modello sportivo

 


Nel suo libro Gli Agnelli e la Juventus (1985) lo scrittore Mario Pennacchia scrisse che l'avvocato Edoardo Agnelli assunse la presidenza della Juventus nel 1923 dall'assemblea straordinaria dei soci, su iniziativa del terzino Antonio Bruna, all'epoca operaio della FIAT, e il dirigente bianconero Sandro Zambelli, con l'oggettivo di imporre una nuova concezione del club di calcio in un'epoca in cui essi erano gestiti a livello dilettantistico, seguendo due fondamenti: «[il] football è destinato a trovare spazio e attenzioni sempre maggiori tra le nostre popolazioni» e «[la] certezza che il campionato deve essere al più presto unificato per diventare veramente nazionale». Tali politiche permessero alla Juventus diventare la prima entità nello sport italiano con status professionistico ante litteram.

 

 

In una serie di studi comparativi sulla diversità di percezione del calcio in Europa, pubblicati a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, l'antropologo francese Christian Bromberger affermò che il modo di fare juventino è «l'immagine ideale di una cultura aziendale rigorosamente organizzata», la cui simboleggiò con quello che lui definì come le 'tre S': «Semplicità, Serietà, Sobrietà» come il riassunto del progetto sociale del club indirizzo a ottenere la massima efficienza. Bromberger sostenne, inoltre, che il funzionamento del club e le caratteristiche di gioco di squadra – definite come «[un stile di] 'realismo efficace' orientato alla vittoria, la cui consegue attraverso la semplicità tattica, il rigore difensivo e la concretezza verso la porta avversaria» – riflette in gran parte quel modello di rigore imprenditoriale. Per farlo, le successive dirigenze del club a partire degli anni venti hanno imposto una serie di regole di condotta per tutti i suoi dipendenti, compresi i calciatori, per rafforzare così l'immagine della società seguendo principi imprenditoriali già applicati nella FIAT e, proprio come essa assegnò diverse responsabilità di gestione dei propri concessionari per meritocrazia a i suoi antichi dipendenti, alcuni giocatori divenuti icone della Juventus compirono diversi ruoli dirigenziali all'interno del club una volta terminata l'attività agonistica. Allo stesso modo, la particolare politica di arruolamento condotta dalla proprietà bianconera dalla fine degli anni quaranta divenne duratura e sostenibile perché riflette l'ideale della popolazione che il club rappresenta e, al di là degli obbietivi societari, la storia istituzionale della FIAT: al gruppo di giocatori capaci di ergersi quali simboli del club e che indirettamente incidono alla promozione dell'azienda, i cui invece riflettono attraverso il proprio riconoscimento internazionale, l'universalità della Juventus – come Michel Platini, chi diventò un'icona del contegno bianconero «come modello di rigore professionista e intelligenza tattica» – vengono regularmente inseriti giocatori d'origine non italiano provvenenti principalmente dell'Europa centrale e settentrionale in quanto sono ritenuti «più adattabili» alla realtà della capitale sabauda e alla disciplina della società e, seppur con minor frecuenza, della regione orientale del continente e dell'America Meridionale seguendo le politiche d'espansione finanziaria della casa automobilistica, oltreché un gruppo di giocatori provvenenti del Meridione italiano che nella squadra compirono una funzione analoga a quella svolta dalla classe operaia nel settore automobilistico quali Pietro Anastasi, Franco Causio e Sergio Brio considerando la situazione demografica a Torino negli anni sessanta e settanta.

 

Un decennio più tardi, lo storico Valerio Castronovo sostenne che il modello di gestione introdotto con successo nel club dai fratelli Agnelli, seppur diverso al futuro mecenatismo italiano in quanto caratterizzato dall'intelligenza, professionalità e cautela applicata negli investimenti, nel rispetto della realtà socioeconomica della Nazione, fu usato da riferimento nelle politiche sportive adottate dal petroliere Angelo Moratti all'Internazionale durante gli anni sessanta,intanto che per il giornalista Gian Paolo Ormezzano influenziò, seppur in modo indiretto, nelle decisioni societarie assunte dal futuro politico Silvio Berlusconi durante il suo primo periodo a fronte del Milan ai fini degli anni ottanta. La leadership acquisita dai fratelli Agnelli, soprattutto dal Dottore Umberto, a fronte della massima carica dirigenziale della Juventus, altresì, fu uno dei fattori che ispiraronno il rinovamento della struttura interna della FIAT a metà degli anni sessanta, il cui permesserà alla compagnia divenire la prima holding della Nazione e giungere livelli di produttività e fatturato mai raggiunti fino a quel periodo da un'azienda creata nella penisola italica.

 

Nei primi anni del terzo millennio lo specialista in marketing sportivo Michel Desbordes considerò lo stile Juventus, dal punto di vista manageriale, il benchmark del calcio italiano, in ragione dei diversi cambiamenti e innovazioni amministrative condotte dalla società e la propria attività in campo sociale. Ritenne, inoltre, che il legame tra la Juventus e gli Agnelli – in modo analogo ad altre associazioni tra club calcistici e corporazioni come le stabilite tra il PSV Eindhoven e l'azienda elettronica olandese Philips, il Sochaux e la casa automobilistica francese Peugeot e il Bayer Leverkusen e la compagnia chimica-farmaceutica tedesca Bayer AG e differenziandosi di casi di mecenatismo imposti nella seconda metà degli anni ottanta da futuri politici quali Silvio Berlusconi al Milan e Bernard Tapie e, tre lustri più tardi, dall'imprenditore Robert Louis-Dreyfus all'Olympique Marsiglia – cercò sia in ambito sportivo che finanziario e nonostante il concetto di cultura aziendale non era sviluppato all'inizio del Novecento, «occupare i lavoratori durante il loro tempo libero e garantire una migliore identificazione da un sistema di valori e comportamenti». Di conseguenza, il grado di soddisfazione dei dipendenti della FIAT varia in modo direttamente proporzionale agli allori ottenutti dalla squadra.


 

 


- Ethos

 

«Così come Orfeo incantò il suo pubblico con la sua lira, la Juventus incanta ogni fan (e anche spesso gli avversari) con il suo stile.»

(Ted Richards, Soccer and Philosophy: Beautiful Thoughts on the Beautiful Game, 2010.)

 

 


Il filosofo statunitense Ted Richards nel suo libro Soccer and Philosophy: Beautiful Thoughts on the Beautiful Game (2010) attestò che il modo di fare juventino funziona della stessa maniera di un marchio, gestito attraverso un lungo processo di costruzione e consolidamento durato decadi; tramutando la comprensione di tutto quello con cui viene associato. Così, l'ideale di essere juventino – definito come «un impasto fra una naturale eleganza e un portamento sereno» –, sviluppato dalla famiglia Agnelli tramite la distinta condotta pubblica, divenne un modello per il club e i propri simpatizzanti.[2]

 

In virtù della gestione aziendale introdotta dalla proprietà nonché l'eleganza e serenità espressa dentro e fuori dall'ambiente sportivo da giocatori quali Giampiero Boniperti, John Charles, Dino Zoff, Roberto Bettega, Gaetano Scirea e Alessandro Del Piero, da allenatori come Giovanni Trapattoni e Marcello Lippi e anche da dirigenti quali il già citato Boniperti, Vittore Catella e Vittorio Caissotti di Chiusano; l'ethos bianconero acquisì una figura «potente, a tutto tondo e di lunga durata» che trasforma subitamente l'immagine della persona o gruppo associato all'entità,[2] per il quale il suo campo di applicazione in altri ambiti della vita quotidiana sostanzialmente non ha confini, divenendo uno dei simboli associati a una squadra più estesi e tradizionali nello sport contemporaneo.[2]

 

Richards, per concludere, sostenne che il contegno bianconero, reputato come «l'immagine stilizzata di una squadra», è stato riflettuto tra i membri della Famiglia, contribuendo decisamente a creare il proprio mito fuori dell'ambiente calcistico, sia nel mondo dei negozi – specialmente l'industria automobilistica – che nella società, «trattegiando la personæ dei propri giocatori, dei tifosi e, probabilmente, dell'intero calcio italiano» – a cui sviluppo ha decisamente contribuito – fino alla fine degli anni ottanta, periodo in cui venne cambiato radicalmente la nozione e visione dello sport attraverso la costruzione di una nuova immagine diffusa massicciamente su scala nazionale dai mezzi di communicazione audiovisuale privati, principalmente la televisione.[2][91]

 

 


- Interpetazioni complementari

 

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Paragonato al cosiddetto «stile sabaudo» legato alla Casa Savoia, la dinastia che governò l'omonimo ducato tra i secoli XV e XIX e, in seguito, il Regno d'Italia dal Risorgimento (1861), di cui la città di Torino divenne la prima capitale, fino all'ascesa della ditattura fascista (1925) rispettivamente; per lo storico Giovanni De Luna, l'atteggiamento dirigenziale all'interno del club è l'estensione sportiva delle politiche imprenditoriali della famiglia Agnelli – spesso riferiti quali gli eredi culturali dei Savoia –, acquisendo la sua iconografia con lo stile personale dell'Avvocato, caratterizzato, tra altri, dalla propria garbatezza, espressata da un particolare senso ironico nelle sconfitte e la non esibizione d'eccessivi entusiasmi nelle vittorie; durante la seconda metà del XX secolo ed i primi anni di quello successivo.

 

Secondo il parere di un altro accademico quale Aldo Agosti, l'atteggiamento societario bianconero, definito come «un modello efficiente di gestione ed educazione sportiva», progettato da diverse personalità all'epoca legate al club torinese, fu complessivamente uno dei punti cardini che generarono l'incremento esplosivo del tifo bianconero a partire degli anni trenta oltreché il massiccio sostegno verso la squadra nella regione meridionale della Nazione e che da allora la distingue del resto di società sportive provvenenti del Nord. I risultati sportivi della squadra come frutto della sua applicazione, fecero che il cittadino medio in quella zona geografica della Penisola idealizzara la società e tutto ciò attorno a essa come modello per la crescita istituzionale delle squadre sportive locali per il successivo trentennio fino all'«avvicinamento» tra la società e la tifoseria sperimentato durante il cosiddetto «Boom economico».

 

Infine, l'economista specializzato in negozi familiari David Bain sostenne nel 2014 che la gestione – sia diretta che indiretta – degli Agnelli a fronte della Juventus, consolidata con la seconda generazione da quando venne iniziato il sodalizio (1923) e che permesse alla squadra del Piemonte ottenere altri venti titoli di campione d'Italia, sette coppe nazionali, quattro Supercoppe LNP, due Coppe Intercontinentali, due Coppa dei Campioni e Champions League, una Coppa delle Coppe, tre Coppe UEFA, una Coppa Intertoto dell'UEFA e due Supercoppe europee, per un totale di 42 trofei ufficiali dal secondo dopoguerra al 2004; costituiscono il massimo caso a livello mondiale di una società calcistica a conduzione familiare al punto che il club e tale dinastia imprenditoriale sono de facto ritenuti sinonimi tra di sé.

 

 

(wikipedia.org)


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