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Socrates

Roberto Bettega - Calciatore E Dirigente

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1940-1971.png.c6698df6b3e4377956e655ea4e1a5ec5.png 1971-1980.png.9aa065e2b205d2d2409c6150eccd838b.png ROBERTO BETTEGA 1980-1982.png.3e692d855bb8db13bf29f94e8c190316.png  1982-1986.png.e323814a7a8f65421b88299497073451.png
 
 
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Nato a Torino il 27 dicembre 1950, Bettega esordisce in A il 27 settembre 1970 in Catania-Juventus 0-1. Entra nel settore giovanile della Juventus nel 1961, a dieci anni, nel ruolo di mediano, sotto la guida di Pedrale. Rabitti lo imposta da ala sinistra e la società lo manda nel 1969 a Varese, per farsi le ossa. È la squadra baby allenata da Liedholm, un Varese rivelazione in cui Bobby-gol segna subito tanto, tredici reti, primo posto nella classifica cannonieri; viene naturale paragonarlo a John Charles, dal quale ha ereditato il colpo di testa. Con il Varese, vince l’ambito premio Chevron, per il miglior tiratore della serie cadetta e il premio Ponti, quale miglior giocatore della Serie B. Liedholm lo descrive così: «Possiede le qualità essenziali per una punta: piede e testa, cioè buon trattamento di palla ed elevazione. È un altruista e un opportunista secondo le circostanze e ciò, naturalmente, corrisponde al meglio per un uomo d’area di rigore».
Nel 1970 è esordio in A, a Catania: «Ero completamente concentrato sulla partita e ogni altro pensiero, compresa l’emozione, scomparve. Appena toccato il primo pallone, sparì anche la paura di sbagliare; andò bene il primo stop e il successivo passaggio, per cui, fortunatamente, tutto proseguì nei migliori dei modi, tanto che, verso la fine della partita, riuscii a segnare il goal della vittoria, con un bel colpo di testa. In porta c’era l’amico Tancredi, terzini Spinosi e Furino, stopper Morini, libero Salvadore e Cuccureddu mediano di appoggio. In attacco Haller ala tornante, Marchetti e Capello mezze ali, Anastasi al centro dell’attacco ed io, con la maglia numero undici, schierato all’ala sinistra. Dopo quell’incontro, ne giocai altri ventisette, segnando tredici goal, che mi sembra non siano da buttare via per un esordiente».
Il campionato successivo è quello del grandissimo goal di tacco a San Siro contro il Milan, battuto per 4-1; quel goal rimane tuttora negli occhi di tutti i tifosi juventini come uno dei più belli e più importanti segnati da Roberto: «Giocare nella Juventus è una grandissima soddisfazione, la più grande della mia vita. Penso che indossare la maglia bianconera sia il sogno di ogni giocatore, il sogno di tutta una carriera; questa mia soddisfazione acquista ancora maggior valore, poiché i miei primi passi li ho mossi, da ragazzino imberbe, proprio nella Juventus».
Il 16 gennaio 1972 c’è Juventus-Fiorentina: Bettega fa in tempo a siglare il decimo goal in quattordici gare e il giorno dopo è ricoverato in ospedale per un’infiammazione polmonare. Molti, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo, temono per il suo futuro. Guarisce grazie al lungo soggiorno in montagna, a Pragelato, e alle cure di Emanuela, sua moglie. A giugno Boniperti annuncia: «Sarà lui il migliore acquisto della stagione».
E Bettega vince, nel 1972-73, con la Juventus il secondo scudetto consecutivo; buona parte del merito per il titolo e per quello dell’anno precedente è suo. Nel 1975 debutta in Nazionale, a Helsinki, Commissario Tecnico è Bernardini, è la famosa squadra dai piedi buoni. Con quindici reti in ventinove gare, Bettega è l’unico a poter dire di essersi salvato dal naufragio nella stagione 1975-76, quella dell’incredibile rimonta operata dal Torino indietro di cinque punti.
Chi l’ha visto giocare non può che ricordarlo come uno dei più grandi in maglia bianconera; tecnica di base da manuale del calcio, forza fisica, intelligenza calcistica e personalità. Giocatore capace di rendersi utile in ogni zona del campo in virtù di una visione di gioco davvero sbalorditiva e inconsueta per un attaccante. Il suo numero migliore è il colpo di testa: con Santillana, quanto di meglio ci sia in circolazione in quegli anni. Roberto, meno esplosivo dello spagnolo, è fortissimo in acrobazia, grazie ad un tempismo quasi sovrumano, che gli permette di impattare la palla al meglio (grazie anche a prodigiose torsioni del busto e del collo).
Il goal che fa alla Finlandia, ne costituisce un perfetto compendio, così come molti altri: quello all’Inghilterra all’Olimpico, al Milan a San Siro dopo una perfetta volata del Barone Causio sulla destra, la doppietta ai francesi dell’Olympique il giorno del rientro dopo la malattia, alla Jugoslavia con un sinistro al volo a incrociare, al Celtic in giravolta. Tanti goal, tante prodezze, sempre e comunque da juventino vero, intriso nell’anima di questi colori.
Con l’arrivo di Benetti e Boninsegna, nasce la Juventus dei cinquantuno punti, della vittoria in Coppa Uefa (primo trofeo continentale) proprio con rete decisiva di Roberto nell’inferno di Bilbao. In Nazionale, intanto, Bettega vive il suo unico Mondiale, quello di Argentina; l’Italia arriva solo quarta, ma per lunghi tratti del torneo è la squadra più spettacolare e Roberto ne è un protagonista assoluto.
Due anni bui per la squadra bianconera, quelli successivi al Mundial, scudetto al Milan e all’Inter, ma la soddisfazione, nel 1980, di vincere la classifica cannonieri con sedici goal in ventotto gare. Vince un altro scudetto nel 1980-81, comincia molto bene il torneo successivo (cinque reti in sette partite) quando in Coppa dei Campioni, contro l’Anderlecht subisce un grave infortunio in uno scontro con il portiere Munaron: rottura dei legamenti del ginocchio, a trent’anni si riparla di carriera finita. Il viaggio in Spagna, per il Mondiale, è perduto.
«L’infezione polmonare, se ci penso adesso, mi dico che ero un incosciente ma, probabilmente, era la forza reattiva dei vent’anni. Ho giudicato la malattia un incidente di percorso, niente di più. È stato molto più difficile sopportare le conseguenze dell’infortunio al ginocchio e non solo per il dolore che mi ha torturato a lungo. La malattia si affaccia, invece, con strani sintomi, un po’ di tosse la settimana prima del match con la Fiorentina. Sì, ho un leggero mancamento prima della partita con l’Inter, a San Siro, quindici giorni prima, un malessere attribuito alla tensione nervosa, all’aver fatto un massaggio vicino a un calorifero: eravamo in pieno inverno. Comunque, la tosse suggerì ai medici di fare una radiografia; quando il male mi sbatte in un letto, ho già segnato dieci reti. Perdo nove mesi e praticamente l’anno successivo, poiché il fisico si è appesantito e non è facile eliminare sette chili per rientrare nei limiti abituali. Tant’è che l’estate seguente, invece che in vacanza, resto a Torino a sudare. Ritrovo il mio peso normale dopo diciotto mesi. L’incidente con Munaron, invece, è stato tutto più dolente e faticoso; è un infortunio che lascia il segno e modifica la mia struttura fisica».
Rientra nella stagione 1982-83, giocando insieme a Platini, Boniek e Paolo Rossi; arretrando la sua posizione in campo, dimostra tutte le sue qualità tecniche e la sua intelligenza calcistica. Questo campionato, purtroppo, non è felice, la sconfitta di Atene in finale di Coppa dei Campioni è una delusione enorme, per quella che forse resterà la più bella Juventus degli ultimi vent’anni: «Non c’è giornalista in Europa che, quella notte, avrebbe scommesso una Dracma sulla vittoria dell’Amburgo. Eppure, non so che cosa ci succede; non è stanchezza, né forma scadente, è solo questione di testa. Il Mondiale del 1982 non è cosa per me; a causa dell’infortunio non vengo convocato. Brontolo, però mi metto l’anima in pace. Ma ad Atene la Juventus la fa grossa. Se avessi la facoltà di rivivere un avvenimento nella mia carriera, tornerei a quel maggio maledetto e rigiocherei la finale con i tedeschi. Loro non demeritano, solo che noi siamo irriconoscibili. Lascio, perciò, il calcio senza realizzare un sogno meraviglioso».
Abbandona la Juventus l’anno successivo per andare in Canada, nelle file del Toronto Blizzard, per dare lustro a un calcio in ascesa ma ben presto stretto dai debiti. Il 3 novembre 1984 quando si parla di un suo trasferimento part-time all’Udinese prima di chiudere la parentesi oltreoceano, lo schianto in auto presso Santhià, sull’autostrada. Forse l’amico dei tempi del Varese, Ariedo Braida, l’aveva convinto a giocare a Udine, per poi intraprendere la carriera di manager, ma tutto sfuma a causa di questo incidente.
Bettega salda il suo debito con il calcio canadese e torna in Italia, dove entra nello staff di una trasmissione sportiva di Canale 5, fino a diventare uomo importantissimo della nuova Juventus in collaborazione con Moggi e Giraudo, con i quali conquista altri prestigiosi trofei e continua a scrivere le pagine gloriose dell’amata Juventus.
Nell’estate del 2007, abbandona l’incarico di dirigente; dopo una vita in bianconero, il saluto non può essere che molto triste. Nel dicembre del 2009, ritorna in società, con la carica di vice direttore generale, per lasciarla dopo pochi mesi causa l’arrivo di Andrea Agnelli ai vertici della società juventina.


ALBERTO FASANO, “HURRÀ JUVENTUS” LUGLIO-AGOSTO 1981
Dopo Altafini e Anastasi, dopo Borel e Boniperti, eccoci alla “B” come Bettega, il primo del nostro alfabetiere che resta legato alla Juve dei giorni nostri, come giocatore, si intende, perché anche Boniperti è più che mai di attualità nel club più scudettato d’Italia. E noi crediamo che, se nei destini bianconeri sta scritto che Bettega dovrà recitare parti da protagonista anche come dirigente, Bettega non potesse iniziare in modo migliore per imitare il suo presidente.
Boniperti conquistò cinque scudetti come giocatore e sei come presidente; Bettega i suoi sei scudetti, come giocatore, li ha già messi in archivio. E lui dice che questa meravigliosa storia non è ancora finita. In attesa, forse, di iniziarne un’altra.
Quando si guarda Roberto Bettega, si ha negli occhi l’immagine e lo stile della Juventus. Credo sia sufficiente questa constatazione per illustrare i meriti di questo ragazzo, al di là delle sue strepitose qualità tecniche. Non saprei trovare una ragione plausibile. Probabilmente Bettega deve il proprio stile al fatto di essere un autentico piemontese, anzi un torinese; nato e cresciuto nella Juventus dove Mario Pedrale gli insegnò tutto sul calcio, affinando il repertorio di doti naturali che l’esperto allenatore aveva prontamente individuato nel ragazzino smilzo eppure potente.
Roberto fece il tirocinio nel NAGC e fu stabilmente impiegato in tutti i campionati ai quali presero parte le varie squadre di ragazzi e allievi bianconeri. Il tirocinio di preparazione al grande salto della Serie A fu fatto nelle file del Varese.
Esordì in prima squadra a fine settembre 1970, aggregandosi a una compagnia già illustre, per la presenza di uomini come Furino, Anastasi, Salvadore, Haller, Morini, Cuccureddu. Lui, Bettega, giocava all’ala sinistra, sfruttando le esperienze di uomo squadra acquisite nel lungo periodo in cui fu utilizzato come mediano di spinta; ma sfruttando soprattutto le eccezionali doti di elevazione che, data la statura notevole, gli permettevano di superare di testa i difensori protesi a ostacolarlo.
Ricordo che lo guardavo e seguivo con ammirazione. Di calcio, oramai, nella vita ne avevo visto tanto, un po’ dappertutto nel mondo; ma certe finezze, certe intuizioni di quel ragazzo, denotavano il segno di una classe completa e raffinata. Se nel suo modo di addomesticare i palloni più ostici si imponeva un ricordo, era subito quello di un suo illustrissimo predecessore, John Charles, il fuoriclasse gallese studiato e ammirato dal ragazzino Bettega come il libro di testo della sua materia preferita.
Non aveva ancora vent’anni quando ebbe il posto in prima squadra: ed anche questo rilievo statistico serve a collocarlo nella galleria dei più importanti campioni juventini, proprio come Borel e Boniperti. Nessun tecnico gli avrebbe negato fiducia e non solo per il naturale, purissimo istinto calcistico. La sua natura di uomo appariva già precisa malgrado la giovane età, sotto un’impronta di serietà e di saldezza morale quanto meno insolite in un ragazzo senza troppi grilli a fargli confusione in testa, teso solo a perseguire quella che si prospettava una promettente carriera, ora che era approdato alla prima squadra della Juventus, toccando il tetto dei suoi sogni infantili.
Si catapultò in campo con l’intera somma di energie e di risorse tecnico-agonistiche. Nella giovane squadra di Armando Picchi, puntellata dall’esperienza indispensabile di Salvadore e Haller, vecchie volpi degli stadi, e sorretta dalla vigorosa tenacia di Morini e dall’inestinguibile grinta di Purino, Bettega si avviava con piglio sicuro a diventare l’arciere. La sua carriera è stata incredibilmente positiva. Non riuscivo a capire, all’inizio, perché Bettega fosse tanto bravo e positivo. Poi individuai la risposta esatta. Bettega era il più bravo perché non giocava mai per se stesso.
Partiva da lontano, in dribbling, faceva fuori tre avversari e si presentava alla conclusione; poi serviva il compagno meglio piazzato di lui. Era un altruista e un generoso. Un tattico di classe superiore, perché cercava il goal attraverso la manovra in tutte le zone del campo, percorrendo traiettorie verticali e orizzontali, iniziando l’azione e trovandosi poi puntuale all’appuntamento decisivo in area di rigore.
È chiaro che c’è stata una lenta evoluzione nel suo gioco. Da cannoniere puro (ma forse non lo è mai stato, almeno nel senso vero del termine) a uomo squadra, da punta di diamante a regista. Dovessi esprimere un giudizio del tutto personale, direi che il Bettega ultima maniera è quello che più mi è piaciuto, è quello che desidero conservarmi negli occhi per l’archivio personale.
Ora che Bettega si sta avvicinando alla conclusione di una carriera impareggiabile, ora si può dire che ha vinto veramente tutto. Ha vinto anche il destino che gli aveva teso un agguato perfido e crudele. È una storia che molti hanno dimenticato, ma sicuramente non lui.
Roberto non avrebbe mai immaginato di potersi ammalare di un morbo così insolito in un atleta, in un calciatore. Eppure gli esami clinici effettuati quel lunedì umido e triste, l’indomani di una partita con la Fiorentina che Bettega aveva risolto con uno dei suoi goal, una gara gagliarda, combattuta sul fango, gli esami clinici, dicevamo, aveva dato un responso dolorosissimo, allucinante. La notizia della malattia di Bettega fece rapidamente il giro d’Italia, suscitando un’ondata di affettuosa commozione. Tifosi e non tifosi rimasero soprattutto sconvolti dal fatto che la sfortuna avesse preso di mira un uomo singolarmente buono, un giovanissimo, la cui vita esemplare poteva venire addotta come modello a milioni di giocatori coetanei.
Come sempre accade in casi del genere, ragguagliando gli sportivi sulle condizioni di salute del giocatore, la televisione mandò in onda servizi nei quali si rividero quei suoi incredibili goal, le proiezioni in avanti che gli consentivano di incontrare e incornare il pallone in appuntamenti negati alla maggior parte degli attaccanti italiani. La gente prese parte al dramma di Bettega, quel ragazzo che agli addetti ai lavori era apparso come la nuova speranza del calcio italiano e che aveva portato in campo, oltre alle indubbie doti tecniche, un requisito insolito al ruvido football, la grazia elegantissima dei movimenti accoppiata a quella altrettanto inconsueta del comportamento.
La Juve mise al servizio di Bettega malato il meglio della scienza medica della patologia polmonare. Il ragazzo fu curato in modo razionale e moderato, nulla fu tralasciato perché la guarigione fosse completa e perfetta. Roberto guarì e la Juve ritrovò il vero Bettega. La malattia non era riuscita ad atterrarlo nel fisico né danneggiarlo nel morale.
Il Bettega che tornava alla Juve, al calcio, agli amici, alle folle di tutta Italia era un ragazzo di appena ventitré anni, ma già ricco di esperienze decisive. Nulla era mutato: ma quella botta crudele gli aveva forse tolto la spensieratezza. Glielo si poteva leggere sul viso, che oramai era quello di un uomo. Forse era l’incertezza di poter nuovamente essere campione, come lo era stato sin dalle prime battaglie calcistiche in maglia bianconera. Ci volle poco tempo per ridare a se stesso, prima ancora che ai compagni di squadra e agli sportivi, la certezza che nulla del prezioso patrimonio tecnico era andato perduto. Anzi! L’esperienza ha maturato il campione e l’ha posto sui piedestalli più alti.
Il Bettega visto e ammirato nei grandi confronti con i più forti club europei, il Bettega visto e ammirato in Argentina nelle gare di Campionato del Mondo, è un campione in senso assoluto, completo. Solo in questa ultima sua stagione una serie di fastidiosi contrattempi legati a vicende che poco o nulla hanno a che fare con il calcio giocato, gli ha fatto perdere l’abituale rendimento. Bettega è rimasto scosso e turbato per la nota vicenda con l’arbitro Agnolin, le lunghe squalifiche gli hanno procurato traumi morali che hanno condizionato anche l’apporto tecnico-agonistico alla squadra. Solo a tratti, e non in tutte le partite, abbiamo potuto riavere davanti agli occhi l’immagine impareggiabile del Bettega vero e autentico.
Gli sportivi, i tifosi sono esigenti. Da un giocatore come Bettega si pretende quasi sempre soltanto il goal. Ma chi sa vedere oltre quel mistero agonistico che è appunto il goal, si rende conto di quanto Bettega passa ancora essere utile alla squadra. Ne è soprattutto convinto Giovanni Trapattoni che non rinuncerebbe mai all’apporto del suo giocatore.
Il tecnico bianconero sa molto bene che la bravura del Bettega di oggi si esplica massimamente nella capacità di orchestrare il gioco di squadra, segnatamente in quella zona di centrocampo dove le azioni, modulando dalla fase difensiva nella fase offensiva, pigliano carattere direzione e impulso. Con Bettega in campo il gioco acquista razionalità e organicità. C’è manovra in direzione del goal. Bisogna guardare dentro al gioco e capire i meriti del giocatore, di un uomo che taglia e cuce la stoffa della partita con la maestria di un sarto che, per ogni colpo di forbice e ogni gugliata, vede l’abito già confezionato e, pertanto, non ne sbaglia la lavorazione. Un discorso che ha una sua morale: Bettega sa sempre che cosa bisogna fare in campo e ogni sua azione è diretta in senso offensivo.
Il suo stile è sobrio, essenziale; posso dire che Bettega arriva allo stile attraverso il ragionamento tattico, quasi mai attraverso i numeri del virtuosismo individuale, anche se il senso acrobatico e la sicurezza del palleggio gli consentono ogni tipo di numeri. Per me Bettega è ancora un campione che da calore più di quanto dia luce; lo si sente più di quanto lo si veda. In lui l’organizzatore dell’azione di complesso soverchia il creatore dell’azione travolgente e spettacolare. Forse Bettega lavora per la Juve (la frase mia è un po’ paradossale) più di quanto la Juve lavori per lui, nel senso di offrirgli le misure e i modi per erigersi a protagonista della partita.
Bettega ha superato i trent’anni: non ha più davanti a sé una lunghissima striscia di tappeto erboso da percorrere con passo di carica. Ma sono convinto che quest’anno, con il traguardo del Campionati del Mondo in Spagna, Bettega saprà dare ancora moltissimo a se stesso e alla Juventus. Sarà indispensabile ritrovare il meglio nelle condizioni fisiche, ma a questo penserà Trapattoni. E poi c’è lo stimolo di chiudere la carriera in maglia azzurra dopo aver cucito su quella bianconera il ventesimo scudetto. È un impegno di orgoglio e l’orgoglio figura tra le molto qualità di questo ragazzo dai capelli bianchi.
Bettega, l’ultimo gradino della vera Juventus, Bettega torinese, dai grandi occhi pensosi e malinconici, dal largo sorriso e dall’infinita passione per calcio che gli ha dato notorietà e ricchezza. Bettega, dall’educazione oxfordiana e dallo stile bianconero, forse l’ultimo vero campione della Juve decennale di Giampiero Boniperti.

 

Modificato da Socrates

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Roberto Bettega, Bobby Gol [Best Goals] - YouTube

 

IL PALLONE RACCONTA: ROBERTO BETTEGA | AIC - Associazione Italiana  Calciatori

 

Che fine ha fatto Bettega: i gol, la tubercolosi, Calciopoli e la terza vita
.

   
Modificato da Socrates

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Grande @@ !!

Aspettiamo il tuo ritorno :sisi: .......

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Ti aspettiamo @@

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Ti aspettiamo @@

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Bene. E ora aspetto anche lucianone.

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Bene. E ora aspetto anche lucianone.

Aspetta e spera...

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@@ Auguri Roberto!!! @@

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mio idolo da bambino

grazie bobby gol che se tornato

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IN DIRETTA CON IL PASSATO : ROBERTO BETTEGA

 

Prima di Essere Bobby-Gol

 

RACCATAPALLE NELLA JUVENTUS, LE GIOVANILI E IL SUCCESSO IN B CON IL VARESE

E POI IL GRANDE DEBUTTO NELLA SQUADRA BIANCONERA

 

File:Serie A 1981-82 - Juventus vs Cesena - Roberto Bettega.jpg - Wikipedia

 

GolCalcio.it

 

Roberto Bettega, juventini come lui ce ne sono pochi. E non solo perché con i suoi gol, quasi sempre esaltanti, ha contribuito a far della sua squadra l’asso pigliatutto, ma per la sua assoluta semplicità, la cortesia e l’assoluta realtà. Nella Juventus ha cominciato giovanissimo: “Avevo solo nove anni quando mio padre mi accompagno allo stadio e nell’intervallo abbiamo sentito che cercavano bambini per il NAGC. Il giorno siamo andati alla selezione e sono stato accettato.

Incomincia a dare i primi calci al “Combi” e la domenica facevo il raccattapalle a Sivori e a Charles…quest’ultimo è stato il mio campione preferito, e ed ora, non voglio che dicano che gli assomiglio, andiamoci piano…John è stato un campione troppo bravo in tutto. All’inizio giocavo come mediano laterale e così incominciai fra i giovanissimi. A quattordici anni lasciai il NAGC per la trafila delle squadre minori e nella squadra allievi l’allenatore Grosso intuì la mia inclinazione come goleador. Un giorno mi disse che dovevo provare a giocare all’ala destra perché dimostravo un temperamento d’attaccante. Andò bene e poi giocai come centravanti, in difesa non tornai più.

Poi la “Primavera” e poi la “De Martino”, ma non credevo che la mia carriera andasse poi così di corsa. Credevo di cominciare in serie C o D invece all’epoca la Juventus aveva chiesto al Varese Leopardi. I lombardi volevano Zigoni, ma la dirigenza nicchiò offrendo infine io e Bonci. Andai a Varese ricco di entusiasmo, anche perché ero stato ceduto in comproprietà, ma all’inizio i tecnici mi dissero che avrei giocato poco, in modo che successivamente sarei stato riscattato per pochi soldi…

Ma in campionato le cose andarono diversamente; le due punte Braida e poi Corradi si infortunarono in pochi giorni così alla quinta di campionato Liedholm mi fece esordire con il Modena. Alla fine del torneo disputai trenta incontri segnando ben tredici gol, altro che panchina!

La Juventus mi riscattò ma avevo paura di non giocare; in quel periodo ci furono ottimi acquisti come Capello e Landini dalla Roma. Invece Picchi ebbe subito fiducia in me e debuttai con il Catania e realizzai il gol della vittoria. Così comincia la mia carriera con la Juventus, una squadra che spesso ha “ucciso il campionato”. In molti dicono “squadra aiutata”, “arbitri che vedono troppo o troppo poco”… tutte favole! La Juventus è una squadra che ha sempre dimostrato di essere una formazione di primo ordine, che può aspirare a trofei più esaltanti! Lo so. E’ quasi uno scotto da pagare, che vince di solito non è simpatico…ma la realtà e diversa, le vittorie sono sempre frutto di sacrificio, rinuncia ,lotta.”

 

da "Intrepido" n.13 del 27 marzo 1975

 

Juventus, tanti auguri Roberto Bettega! Il ricordo del club bianconero
Modificato da Socrates

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iper-sottovaluato, iper-odiato dai soliti invidiosi.

un centravanti con i fiocchi.

Modificato da MacNamechB&W

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Grande Bobby goal .Uno dei più grandi giocatori bianconeri di sempre ;)

Parole Sante, dopo Michel Platini è il più grande giocatore bianconero che ricordo

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JuventusFC 🇬🇧🇺🇸 on X: "#OnThisDay 📆 Roberto Bettega (1970), Jose  Altafini (1972) and Juan Cuadrado (2015) made their ⚫️⚪️ debuts! #ForzaJuve  https://t.co/l6ZZC5L4XR" / X

 

ROBERTO BETTEGA: A 'head' unlike any other - ilnostrocalcio.it

 

Roberto Bettega (Italie) | Juventus, As roma, Sportif

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che dire..??

Dovrebbero farlo presidente onorario.

Ne ho visti pochi di Juventini come Lui. Fuori e dentro il campo.

"Eroe" della mia infanzia/adolescenza, secondo me uno degli attaccanti più forti di tutti i tempi.

Grazie Bobby-Gol!!!

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che dire..??

Dovrebbero farlo presidente onorario.

Ne ho visti pochi di Juventini come Lui. Fuori e dentro il campo.

"Eroe" della mia infanzia/adolescenza, secondo me uno degli attaccanti più forti di tutti i tempi.

Grazie Bobby-Gol!!!

troppo bistrattato nella memoria dei tifosi... non ne capisco il perchè! forse per le sue esperienze da dirigente? :/

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Sono Juventino grazie a lui...idolo della mia infanzia.

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Lo chiamano Bobby-Gol

70 anni di Roberto Bettega, dal tacco al tuffo

 

 

 

Michele è a bordo campo col muso appoggiato alla rete. C’è un freddo tagliente a Torino e una nebbia leggera e bagnata é sospesa nell’aria ma lui non si muove. Suo papà lo ha accompagnato ad assistere agli allenamenti della Juventus. Il verde del campo sembra l’unico colore vivo della giornata, ma fa fatica a imporsi su tutto quel grigio, anche se in alcuni punti sembra quasi brillare.

 

Tra i giocatori ce n’è uno, alto ed elegante, che prova e riprova i colpi di testa: cross da sinistra, cross da destra, colpo di testa. Michele ne è come ipnotizzato. La curiosità dei bambini obbedisce a leggi nascoste ed enigmatiche. Il loro istinto asseconda i richiami di gioia e bellezza senza compromessi. Quei colpi di testa sembrano disegnati, tanto sono precisi e plastici, e quel giocatore quando salta sembra quasi restare sospeso in aria un attimo in più del normale. Poi, quando i giocatori imboccano la via degli spogliatoi, Michele chiede a suo papà chi fosse quel giocatore. «Bettega, Michele. Si chiama Roberto Bettega, e ha classe da vendere.» Quella prima emozione di Michele ora ha un nome e un cognome.

 

Comincia a sfogliare i numeri di Hurrà Juventus del vicino di casa, e i primi articoli che va a cercare riguardano proprio quel giocatore volante. Scopre che è nato a Torino e che ha cominciato a giocare nel Nucleo Addestramento Giovani Calciatori della Juventus; prima mediano, poi ala sinistra. Legge della Juventus che lo aveva spedito al Varese, per farsi le ossa, sotto la guida del Barone Liedholm. Legge, emozionandosi, della sua prima partita in Serie A non ancora ventenne, nel settembre 1970, sotto la guida di Armando Picchi, che lo aveva schierato contro il Catania. Scopre che in quella sua stagione d’esordio era stato fenomenale: tra campionato e coppe ben 42 match disputati e 21 gol segnati, anche se la Coppa delle Fiere era sfuggita per un soffio. Legge che Bettega viene considerato un giocatore assai raffinato, capace di orchestrare la manovra e di andare in rete con arguzia. Uno insomma dotato di grande tecnica individuale, intuito, classe e intelligenza.

 

Michele ricostruisce pian piano tutto il percorso calcistico di Bettega. Trova la splendida sequenza fotografica della sua doppietta contro il Milan, il 31 ottobre 1971: un primo gol di testa e poi, su imbeccata di Furino, una magia, un gol di tacco che fulmina Cudicini e fa ammutolire San Siro, scatenando la gioia dei tifosi bianconeri. Scopre che i tifosi della Vecchia Signora hanno preso a chiamarlo Bobby Gol.

 

1971/72 Milan – Juventus 1-4, il famoso goal di Bettega di tacco nel 2020 |  Juventus, Goal, Calcio

 

L’entusiasmo con cui Michele continua a consumare le pagine della rivista ha un sussulto quando scopre che dopo il match contro la Fiorentina del 16 gennaio 1972 era iniziato per lui un periodo doloroso e difficile: una radiografia consigliata da una strana tosse aveva evidenziato una brutta infezione polmonare che rischiava di rovinare la carriera appena agli inizi di un campione già idolo dei tifosi bianconeri. Con un tuffo al cuore Michele legge della gigantesca voglia di tornare in campo come prima, che aiuta Bobby Gol a calcare l’erba dopo nove mesi. Nell’estate del 1972 è di nuovo a Villar Perosa con i compagni. Non va nemmeno in vacanza, per allenarsi, e in stagione mette a segno comunque 8 reti giocando 27 partite, pur nel pieno della sua fase di recupero. Legge che alla fine, per ristabilire peso forma e brillantezza, di mesi ce ne mette ben diciotto. ...............

 

Scova le partite dove Bettega torna a brillare, sconfiggendo ogni dubbio sulla sua piena ripresa con quegli 8 gol che contribuiscono allo scudetto in quell’emozionante finale di stagione del 1973. Scopre il dolore per la sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni contro l’Ajax, scova i servizi del nuovo scudetto bianconero, quello del 1975, e le foto dei 17 gol della stagione 1976-77, che legge essere «magica» per i colori bianconeri, perché anche grazie ai prodigi del suo numero 11 la Juve porta a casa la Coppa Uefa.

 

File:Roberto Bettega UEFA Juventus-Bilbao 1977-05-04.jpg - Wikipedia

 

Quelle foto di Bettega e compagni a Bilbao fanno venire i brividi. Michele scopre tra quelle pagine che Bobby Gol vola anche in maglia azzurra, e se fosse sua, quella rivista, la foto del suo gol contro l’Inghilterra, in testa e di tuffo, la ritaglierebbe volentieri, come anche quella dello splendido gol nello storico match in cui gli azzurri sconfiggono l’Argentina ai Mondiali del 1978.

 

I 70 anni di Roberto Bettega, icona della Juve e della Nazionale -  Iacchite.blog

 

Ormai è quasi ora di cena, e di numeri di Hurrà Juventus da sfogliare ne rimangono pochi. C’è ancora il tempo per un viaggio fotografico negli 11 gol con cui Bettega trascina la Juve allo scudetto del 1978. Poi il papà bussa alla porta e si avvicina, sorridendo quando scopre che quelli non sono libri di scuola ma riviste di memoria bianconera. «Domenica andiamo al Comunale, così il tuo Bettega te lo puoi vedere in una partita vera, Michele.»

 

Al Comunale di Torino Michele entrerà pochi giorni dopo, avvolto da un’emozione magica e sottile, e non staccherà gli occhi di dosso dal suo Bobby Gol – artefice della sua neonata passione bianconera – neanche per un istante. Ne seguirà ogni passo, ogni gesto, ogni movimento, ogni sussulto delle gambe e dei capelli, ora lievemente argentati. Lo vedrà partire e arretrare, alzare gli occhi e consegnare palla, riceverla e stopparla con grazia. Lo vedrà danzare sul campo come un atleta di scherma, portare palla con discrezione inglese, lanciare un compagno verso la porta. Poi, su un cross dalla destra, accentrarsi, salire in cielo, restare in aria un istante in più degli altri e colpire di testa, trafiggendo il portiere con acrobatica naturalezza. Ed esultare braccia al cielo, correndo proprio in direzione della sua tribuna.

 

Articolo completo -> https://www.juventibus.com/lo-chiamano-bobby-gol/

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Bettega's Juventus Retro Signed Shirt, 1977 - CharityStars

 

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_Bettega

 

 

Nazione: Italia Italia
Luogo di nascita: Torino
Data di nascita: 27.12.1950

Ruolo: Attaccante
Altezza: 184 cm
Peso: 78 kg

Nazionale Italiano
Soprannome: BobbyGol - Penna Bianca

 

 

Alla Juventus dal 1970 al 1983

Esordio: 30.08.1970 - Coppa Italia - Verona-Juventus 1-1

Ultima partita: 25.05.1983 - Coppa dei Campioni - Amburgo-Juventus 1-0

 

482 presenze - 178 reti

 

7 scudetti

1 coppa Italia

1 coppa Uefa

 

Dirigente della Juventus dal 1994 al 2006 e dal 2009 al 2010

 

 

 

Roberto Bettega (Torino, 27 dicembre 1950) è un dirigente sportivo ed ex calciatore italiano, di ruolo attaccante.

 

Da sempre alla Juventus, società nelle cui giovanili entrò agli inizi degli anni 1960, con essa trascorse tredici stagioni da professionista vincendo sette campionati nazionali, una Coppa UEFA e una Coppa Italia. In nazionale fu impiegato per 42 volte tra il 1975 e il 1983, con 19 gol all'attivo, facendo parte delle rappresentative che si classificarono al quarto posto al campionato del mondo 1978 e al campionato d'Europa 1980.

 

Durante l'attività agonistica è stato soprannominato Bobby gol per la prolificità sotto rete, e Penna bianca per la precoce canizie che caratterizzava la sua chioma. Dopo il ritiro divenne opinionista televisivo e dirigente sportivo: fu, dal 1994 al 2006, vicepresidente e, tra il 2009 e il 2010, vicedirettore generale della Juventus. Per volontà di Francisco Ocampo, presidente del Tacuary, a Bettega è stato intitolato, dal 2002 alla dismissione del 2015, l'Estadio Roberto Bettega di Asunción, in Paraguay.

 

Roberto Bettega
Roberto Bettega - Italia.jpg
Bettega in nazionale nel 1979
     
Nazionalità Italia Italia
Altezza 184 cm
Peso 78 kg
Calcio Football pictogram.svg
Ruolo Attaccante
Termine carriera 1984
Carriera
Giovanili
1961-1969   Juventus
Squadre di club
1969-1970    Varese 30 (13)
1970-1983   Juventus 482 (178)
1983-1984   Toronto Blizzard 48 (11)
Nazionale
1975-1983 Italia Italia 42 (19)

 

Caratteristiche tecniche

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Uno dei gol più famosi di Bettega, il colpo di tacco al Milan nella sfida di San Siro dell'annata 1971-1972: «una prodezza rara per quegli anni».

 

Era considerato un attaccante molto moderno per la sua generazione oltreché un trascinatore della squadra, in grado sia di concludere sia di suggerire. Ambidestro, dotato di fisico atletico, intuito, tecnica individuale e visione di gioco, era uno specialista nel colpo di testa: in questo ultimo caso, rimane memorabile il suo gol in tuffo all'Inghilterra nella sfida di Roma del 17 novembre 1976, che fissò il 2-0 e contribuì alla qualificazione dell'Italia al campionato del mondo 1978 a spese degli inglesi.

 

È stato definito uno dei più completi attaccanti italiani di sempre, grazie anche alla determinazione e alla professionalità che l'hanno contraddistinto.

 

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L'acrobatico gol di Bettega che fissò la vittoria 2-0 dell'Italia sull'Inghilterra, nelle qualificazioni al campionato del mondo 1978: il colpo di testa fu tra le principali abilità dell'attaccante.

 

Affermatosi come attaccante puro, la sua ascesa fu frenata da un principio di tubercolosi che lo colpì nella stagione 1971-1972; Giampiero Mughini scrisse di lui che fu tale malattia a impedirgli di diventare il più grande calciatore dell'era moderna. In seguito arretrò la propria posizione in campo, agendo dapprima da centravanti di manovra e a fine carriera anche da centrocampista offensivo.

 

Da rimarcare la sua capacità di assurgere ad alti livelli realizzativi pur senza l'apporto dei calci di rigore: rimangono appena 6 le massime punizioni tirate in carriera, tutte trasformate.

Carriera

Giocatore

Club

Juventus e Varese
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Un giovane Bettega (in piedi, secondo da destra) al debutto da professionista nel Varese vincitore della Serie B 1969-1970.

 

Nato a Torino da una famiglia veneta emigrata da Villabruna, con il padre operaio alla FIAT, Bettega entrò da bambino nella Juventus compiendo tutta la trafila delle squadre giovanili. Qui crebbe sotto la guida dello storico tecnico del vivaio bianconero del tempo, Mario Pedrale, il quale lo paragonò agli esordi a John Charles.

 

In vista della sua prima stagione da calciatore professionista, nell'estate 1969 il club piemontese decise di mandare il promettente attaccante, anche per evitare che potesse "bruciarsi" con un precoce salto nella prima squadra juventina, in prestito in Serie B nel Varese: venne infatti richiesto dall'allenatore dei lombardi, Nils Liedholm, dopo essere stato da questi notato durante una sfida tra le formazioni giovanili dei due club. Lanciato subito titolare, nella sua unica annata in maglia biancorossa il poco più che diciottenne Bettega emerse come la maggiore rivelazione di quel campionato cadetto, contribuendo al primo posto e annessa promozione in Serie A dei bosini, risultati a cui concorse segnando 13 gol che ne fecero, in coabitazione col compagno di squadra Ariedo Braida e col catanese Aquilino Bonfanti, il capocannoniere del torneo.

Ritorno alla Juventus
1970-1976
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Da destra: Anastasi e Bettega, coppia d'attacco della Juventus per gran parte degli anni 1970, insieme ai compagni di squadra durante il ritiro di Villar Perosa dell'estate 1971.

 

Ritornò alla Juventus nella stagione 1970-1971, rimanendovi per tredici stagioni consecutive fino al 1983. Giocò in totale 482 partite con la maglia bianconera (326 in Serie A, 74 in Coppa Italia, 31 in Coppa dei Campioni, 8 in Coppa delle Coppe e 42 in Coppa UEFA), segnando 178 gol (129 in Serie A, 22 in Coppa Italia, 7 in Coppa dei Campioni, 1 in Coppa delle Coppe e 19 in Coppa UEFA, terzo dietro ad Alessandro Del Piero e Giampiero Boniperti nella classifica dei maggiori cannonieri della storia del club. Curiosamente, Bettega fece ritorno alla Juventus come unico giocatore torinese e cresciuto nel vivaio, proprio mentre la squadra già annoverava o stava per ingaggiare una leva di giovani originari del Mezzogiorno; tra questi anche colui che diventerà il suo partner d'attacco di riferimento, il catanese Pietro Anastasi, con cui nelle sei stagioni seguenti andrà a comporre uno dei migliori tandem offensivi che la storia bianconera ricordi.

 

Debuttò in Serie A il 27 settembre 1970 in trasferta contro il Catania, segnando il gol decisivo. Giocò 42 partite (28 in Serie A, 11 in Coppa delle Fiere e 3 in Coppa Italia) e segnò 21 gol (rispettivamente 13, 6 e 2). Per la seconda volta, la Juventus raggiunse la finale in una competizione continentale, venendo sconfitta dagli inglesi del Leeds Utd nell'ultima edizione della Coppa delle Fiere: dopo il 2-2 casalingo, nel quale Bettega segnò la rete dell'1-0, la gara di ritorno si concluse 1-1 e il trofeo fu vinto dagli inglesi per la regola dei gol fuori casa.

 

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Bettega in azione nel campionato 1975-1976, mentre trova la rete sul terreno della Roma.

 

Ebbe un ottimo avvio nel campionato 1971-1972, in cui spiccò la doppietta contro il Milan alla quarta giornata, segnando prima di testa e poi, su assist di Anastasi, con un pregevole colpo di tacco — un gesto tecnico all'epoca ancora raro a vedersi — rimasto negli annali. Tuttavia dopo 10 reti in 14 partite, l'ultima il 16 gennaio 1972 contro la Fiorentina, fu costretto a un lungo stop per un principio di tubercolosi: il disturbo lo affliggeva da inizio carriera, costringendolo a respirare con fatica e limitandone il rendimento. Rientrò in squadra solamente all'inizio del campionato successivo, aiutando la Juventus a vincere il secondo scudetto consecutivo e contribuendo al percorso che portò i bianconeri alla loro prima finale di Coppa dei Campioni, persa il 30 maggio 1973 contro l'Ajax.

 

Malgrado che nei due anni successivi avesse segnato con minore frequenza, fu fatto esordire in nazionale dal CT Fulvio Bernardini nel giugno 1975, giocando l'intera gara esterna vinta contro la Finlandia. Superò di nuovo la soglia dei dieci gol nella stagione 1975-1976, annata in cui la Juventus perse lo scudetto a vantaggio dei concittadini e rivali del Torino, dopo aver dilapidato un vantaggio di 5 punti alla 21ª giornata. Contemporaneamente, in nazionale dovette accontentarsi di alcuni spezzoni di partita nella nuova gestione tecnica affidata al tandem Bernardini-Bearzot.

1976-1983
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Bettega esulta dopo il suo gol-scudetto alla Sampdoria nell'ultima giornata del campionato 1976-1977.

 

Nell'estate 1976, con l'arrivo di Giovanni Trapattoni sulla panchina bianconera, cominciò un ciclo vincente destinato a durare un decennio. La Juventus vinse lo scudetto per una lunghezza sui campioni uscenti del Torino, totalizzando il punteggio record di 51 punti sui 60 disponibili (la Fiorentina, terza, giunse a 16 lunghezze di distacco). Bettega non saltò alcuna partita e mise a segno 17 gol, aggiungendone altri 5 nella Coppa UEFA vinta nella stessa stagione. Fu il primo trofeo internazionale conquistato dalla squadra, che ebbe la meglio nella doppia finale sui baschi dell'Athletic Bilbao: nel ritorno perso 2-1 in Spagna, nell'arena infuocata del San Mamés, fu la decisiva marcatura di testa di Bettega, su traversone di Marco Tardelli, a consegnare alla Juventus il trofeo grazie al maggior numero di gol segnati in trasferta.

 

La Juventus bissò il titolo italiano nel 1977-1978, precedendo stavolta, assieme al Torino, anche il sorprendente Lanerossi Vicenza. Fu il preludio del grande mondiale che Bettega e l'Italia disputarono in Argentina nell'estate 1978. Affermatosi anche in campo internazionale, sia nel 1977 che nel 1978 Bettega giunse quarto nella classifica del Pallone d'oro di France Football.

 

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Bettega svetta sulla difesa del Cesena nel corso del campionato 1981-1982.

 

Nelle due stagioni successive, la Juventus perse il titolo italiano prima a favore del Milan e poi dell'Inter, ma conquistò la Coppa Italia 1978-1979 sconfiggendo 2-1 ai tempi supplementari il Palermo nella finale di Napoli, durante la quale Bettega fu costretto a uscire per un infortunio alle costole. Nella stagione successiva realizzò 16 gol che gli valsero la conquista, per l'unica volta in carriera, del titolo di capocannoniere della Serie A; ciò anche aiutato dal fatto di avere derogato a una sua consuetudine, accettando di diventare, per lo spazio del finale di campionato, il rigorista della squadra. In quella stessa annata, la Juventus affrontò in semifinale di Coppa delle Coppe gli inglesi dell'Arsenal: nella gara di andata a Highbury un'autorete di Bettega fece terminare la partita 1-1 dopo il vantaggio dei bianconeri, che furono poi eliminati nel retour match di Torino.

Nel 1980-1981 vinse nuovamente lo scudetto segnando 5 reti. Nella Coppa UEFA di quella stagione, le sue tre reti non consentirono alla Juventus di superare il secondo turno, eliminata dal Widzew Łódź: i polacchi si imposero all'andata in casa per 3-1 (con Bettega a rete per la Juventus), mentre al ritorno i supplementari finirono 3-1 per i bianconeri, che cedettero poi ai tiri di rigore per 5-4. Il 4 novembre 1981, dopo aver perso per 3-1 all'andata negli ottavi di finale della Coppa dei Campioni 1981-1982 contro l'Anderlecht a Bruxelles, uno scontro con il portiere belga Jacky Munaron nella gara di ritorno costò a Bettega un grave infortunio ai legamenti del ginocchio. La Juventus fu eliminata e Bettega perse l'intera stagione, dovendo rinunciare anche alla convocazione al campionato del mondo 1982.

 

Nella stagione 1982-1983 cominciò a non essere più titolare inamovibile, alternandosi in campo con il giovane Domenico Marocchino; nel corso dell'annata non fu neanche particolarmente fortunato sottorete, colpendo undici legni tra pali e traverse. Nella semifinale di andata di Coppa dei Campioni contro il Widzew Łódź, Bettega segnò il gol del 2-0; la Juventus perse poi la coppa nella finale di Atene contro l'Amburgo, l'ultima partita di Bettega con la maglia bianconera che svestì anticipatamente a stagione ancora in corso, sul finire del maggio 1983.

Toronto Blizzard
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Bettega (in piedi, primo da sinistra) al Toronto Blizzard nel 1984

 

Dopo aver dato l'addio alla Juventus, si trasferì nel giugno 1983 nella North American Soccer League (NASL) per militare nelle file della squadra canadese del Toronto Blizzard. Debuttò in maglia biancorossoblù il 6 dello stesso mese, in una sconfitta agli shootout contro il Vancouver Whitecaps nella regular season di campionato. Rimase a Toronto per due stagioni, raggiungendo in entrambe la finale play-off del campionato, il cosiddetto Soccer Bowl, perso dal Blizzard contro i Tulsa Roughnecks nel 1983 e il Chicago Sting nel 1984.

 

Con voci sempre più insistenti circa un prossimo fallimento della NASL — che si concretizzeranno di lì a breve —, Bettega rientrò temporaneamente in Italia nell'autunno 1984. Qui in novembre rimase vittima di un grave incidente automobilistico sull'autostrada Torino-Milano e ricoverato per alcuni giorni in rianimazione: l'episodio de facto pose fine alla sua carriera agonistica.

Nazionale

Debuttò nella nazionale italiana nel 1975 contro la Finlandia, raggiungendo poi l'apice della propria carriera azzurra al campionato del mondo 1978 in Argentina, in cui fu schierato titolare dal CT Enzo Bearzot. Fu l'attaccante azzurro più prolifico dai tempi di Gigi Riva: nel triennio che si chiuse con la rassegna iridata del 1978, Bettega disputò 19 gare e segnò 16 volte. Siglò una quaterna che servì per superare la Finlandia 6-1 e, soprattutto, mettere al sicuro la differenza reti nei confronto dell'Inghilterra nel girone di qualificazione per i mondiali argentini.

 

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Da destra: Bettega in nazionale nel 1976, mentre festeggia con Tardelli e il commissario tecnico Bearzot la vittoria di Roma contro gli inglesi.

 

In Sudamerica segnò una rete contro l'Ungheria e colse per tre volte la traversa della porta avversaria. Successivamente, nella partita che costò l'unica sconfitta ai futuri campioni del mondo, fu l'autore della marcatura con cui l'Italia batté i padroni di casa di César Luis Menotti. L'Italia arrivò quarta dopo la sconfitta nella finale per il terzo posto contro il Brasile, in cui gli azzurri colpirono tre pali, l'ultimo a opera di Bettega con un colpo di testa nei minuti finali. In virtù delle ottime prestazioni fornite, fu inserito dalla FIFA nella formazione ideale di quel mondiale.

 

Due anni dopo prese parte al campionato d'Europa 1980 che si disputò in Italia e che vide la nazionale padrona di casa piazzarsi al quarto posto. Bettega fece parte dell'undici titolare, dopo che si era laureato capocannoniere del campionato italiano. Segnò il gol del pareggio nella trasferta in Jugoslavia valida per il girone di qualificazione al campionato del mondo 1982, che avrebbero visto nell'estate di quell'anno il trionfo degli azzurri. Bettega dovette tuttavia rinunciare alla rassegna iridata, a causa del serio infortunio patito in Coppa dei Campioni nel novembre 1981.

 

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Da sinistra: un duello aereo tra l'argentino Passarella e Bettega al campionato del mondo 1978; seguono l'azione Scirea e Cuccureddu.

 

Dopo un biennio di mancate convocazioni, il 16 aprile 1983 disputò a Bucarest la gara valida per il girone di qualificazione al campionato d'Europa 1984, persa 1-0 contro la Romania. Fu l'ultima partita in maglia azzurra per Bettega, che fu sostituito al 69' da Alessandro Altobelli. In nazionale vanta un totale di 42 presenze e 19 gol.

Dopo il ritiro

Già al termine dell'attività agonistica si ipotizzò un futuro dirigenziale per Bettega in seno alla Juventus, tuttavia non concretizzatosi nell'immediato a causa di dissidi con l'allora presidente bianconero Giampiero Boniperti.

 

Fu solo all'inizio del 1994 che Umberto Agnelli, nel frattempo tornato a impegnarsi concretamente nella squadra di famiglia, lo richiamò a Torino, dapprima affiancandolo a Boniperti come amministratore delegato ma ben presto affidandogli «pieni poteri» con la nomina a vicepresidente, facendone di fatto l'erede di Boniperti alla testa della società. Insieme al direttore generale Luciano Moggi e all'amministratore delegato Antonio Giraudo, Bettega andò a formare la cosiddetta "Triade" che a cavallo degli anni 1990 e 2000 diede vita a uno dei più vittoriosi cicli bianconeri; in particolare, Bettega assunse una posizione operativamente più «defilata» rispetto ai due colleghi, ricoprendo il ruolo di tramite tra la dirigenza e la squadra, e segnalandosi peraltro come uomo mercato sul calcio estero dove, tra gli altri, scoprì Zinédine Zidane.

 

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Bettega vicepresidente juventino nel 2001, tra il patron Gianni Agnelli (a sinistra) e il calciatore Zinédine Zidane (a destra).

 

Lo scoppio dello scandalo del calcio italiano del 2006 coinvolse la dirigenza juventina ma non Bettega, uscito indenne dall'indagine. Pur costretto a lasciare la vicepresidenza nonché il posto nel consiglio di amministrazione, onde rompere a livello d'immagine con la precedente gestione della "Triade", nella stagione 2006-2007 rimase nella società bianconera (nel frattempo declassata d'ufficio in Serie B) come consulente di mercato. Al termine dell'annata, con la squadra torinese ritornata nel frattempo in Serie A, il 22 giugno 2007 si dimise dall'incarico, dopo che la procura torinese lo aveva nel frattempo iscritto tra gli indagati di un'inchiesta inerente all'ipotesi di falso in bilancio da parte della società bianconera.

 

Una volta assolto con formula piena — «perché il fatto non sussiste» — dalla succitata accusa, il 23 dicembre 2009 tornò a pieno titolo nei quadri della Juventus venendo nominato vicedirettore generale con responsabilità sull'intera area sportiva, di fatto numero due della società dopo il presidente Jean-Claude Blanc. Tuttavia la sua seconda esperienza dirigenziale nel club terminò il 31 maggio 2010, dopo soli cinque mesi e senza conseguire risultati sportivi di rilievo, sostituito dal nuovo direttore generale Giuseppe Marotta nell'ambito del repulisti societario portato avanti dal neopresidente Andrea Agnelli.

 

Al di fuori del calcio, dopo aver lasciato l'attività agonistica Bettega portò avanti alcune attività imprenditoriali, gestendo una fabbrica d'imballaggi e acquisendo un ristorante McDonald's in piazza Castello a Torino.

 

Sul versante televisivo fu, negli anni 1980 e 1990, opinionista sportivo delle reti Fininvest. Nel 1985 commentò la finale della Coppa Intercontinentale tra Juventus e Argentinos Juniors affiancando il giornalista Giuseppe Albertini; quella fu la prima volta, per le telecronache italiane delle partite di calcio, in cui il telecronista era accompagnato da un ex calciatore o ex allenatore nelle vesti di commentatore tecnico. Successivamente affiancò Nando Martellini, al debutto sulla Fininvest dopo avere lasciato la Rai. Condusse anche la trasmissione Caccia al 13 e collaborò con Tele Capodistria. Negli anni 2010 fu opinionista per Controcampo e Speciale Champions League, programmi calcistici delle reti Mediaset, e per la syndication 7 Gold.

Record

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Bettega in azione in maglia azzurra durante Italia-Finlandia (6-1) del 15 ottobre 1977, sfida nella quale realizzò una storica quaterna.

 

Palmarès

Club

Competizioni nazionali

Competizioni internazionali

Individuale

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Bettega (al centro) premiato quale capocannoniere della Serie B 1969-1970

 

Onorificenze

Medaglia di bronzo al valore atletico - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia di bronzo al valore atletico
  «Campione italiano professionisti (brevetto n. 2263)» — 1973

 

 

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«Giocare nella Juventus è una grandissima soddisfazione, la più grande della mia vita. Penso che indossare la maglia bianconera sia il sogno di ogni giocatore, il sogno di tutta una carriera; questa mia soddisfazione acquista ancora maggior valore, poiché i miei primi passi li ho mossi, da ragazzino imberbe, proprio nella Juventus».
Un regalo di Natale, per Raimondo e Orsola. Il piccolo Roberto, secondogenito di casa Bettega, si presenta al mondo il 27 dicembre 1950. Nasce in una casa della periferia torinese, non troppo lontano dal cuore di una città austera e orgogliosa, complessa e taciturna.
Appena fuori dal centro, dove nasce Robertino, si respira un’altra vita. C’è l’anima proletaria, c’è il mestiere che sporca le mani e purifica i sentimenti. Papà Raimondo fa il carrozziere, mamma Orsola la maestra. Né stenti né stravizi, la vita scorre tranquilla. Fino all’illuminazione. Che arriva secca, precisa, nel cuore e nella mente di un ragazzino di appena 7 anni. E nel cuore del tifo, in mezzo alla curva Filadelfia del Comunale di Torino, in un pomeriggio da derby. Di qua la Juve, di là il Toro. La scelta non ammette compromessi, ed essendo la scelta di un bambino è dannatamente seria.
Robertino dipinge di bianconero il sangue che gli scorre nelle vene, si innamora di quell’oggetto tondo che rotola sul campo e ne fa un pensiero fisso. Da lì in avanti, la vita è scuola e pallone. Papà Raimondo se ne rende conto, e non ostacola il suo ragazzo. Figurarsi: per lui la Juventus è fede cristallina, gli piace vedere quel figliolo consumato dalla stessa passione. Di più, Roberto gioca e ci dà dentro, e intanto sogna come tutti i ragazzi della sua età. Siccome il sogno è una maglia bianconera, papà non si fa pregare: lo infila in macchina e lo porta a casa Juve, alla scuola di avviamento per giovani calciatori. Se son rose, pensa, fioriranno.
Il primo maestro, storico per tutti i marmocchi che si presentano in quegli anni ai cancelli bianconeri, si chiama Mario Pedrale. Robertino la prende di petto, si appassiona e s’impegna, e nel frattempo Madre Natura fa il resto: a 13 anni il diminutivo diventa fuori luogo, per un ragazzo che è cresciuto fino a toccare quota 170 centimetri, e che nelle foto di gruppo si riconosce sempre al volo.
«È vero, pensavo soltanto a giocare al calcio. Per ore e ore avrei soltanto inseguito quella sfera di cuoio. Poi, da tifoso bianconero, ero ben felice di essere finito tra i Pulcini della Juve. Nel 1962 faccio la mia prima apparizione allo Stadio Comunale: prima di Juventus-Inter si affrontano due squadre del NAGG bianconero. C’era molta gente, ma non ero affatto emozionato, A proposito: agli inizi della mia carriera giocavo da mediano. La “svolta storica”, da centrocampista ad attaccante, avviene nel 1964-65, per merito dell’allenatore degli Allievi. Grosso. Il mio idolo giovanile? John Charles. Mi piaceva il suo modo di giocare, la sua bravura nel colpire di testa in perfetta elevazione... Degli anni giovanili, ricordo le partite con la Nazionale Juniores giocate insieme a gente come Bordon e Spinosi».
Nel gruppo, appunto, si fa notare. Spazia tra centrocampo e attacco, e non si perde per strada come tanti coetanei. Quando Pedrale lo consegna a Ercole Rabitti, che lo aggrega alla prima squadra per la stagione 1968-69, spende le prime frasi profetiche: «Io dico che è nato attaccante. Se il fisico lo sorregge, può diventare una punta alla Charles».
Rabitti, a parole, gli va a ruota. Ma, in effetti, cerca la prova del nove, e non gli sembra che buttarlo in campo subito sia la cosa migliore. Meglio parcheggiarlo in prestito per un anno, mandarlo, come si dice, a farsi le ossa.
La stazione prescelta è quella di Varese, Serie B. Alla guida c’è un europeo del Nord che ha lasciato il segno del suo passaggio nel calcio italiano: una vita da mediano, ma di lusso, con i cromosomi del fuoriclasse. Si chiama Nils Liedholm, il timoniere del Varese. In rossonero la sua nuova carriera di tecnico non ha avuto un ritmo esaltante, la B è in fondo un trampolino di lancio anche per lui.
Forse è per questo, anche per questo, che crede ai giovani. Forse è per questo che punta su Roberto Bettega, per il suo Varese che non può mettere in campo troppi talenti. Insomma, lo svedese getta nella mischia il neppure ventenne Bettega, e il ragazzo lo ripaga delle attenzioni. Prima stagione vera da professionista, 30 presenze e 13 reti in serie B.
È lui il miglior realizzatore del torneo, insieme al compagno di squadra Ariedo Braida e ad Aquilino Bonfanti del Catania. In quel Varese, che vola sicuro verso la Serie A, Bettega trova compagni di viaggio indimenticabili: “Gedeone” Carmignani, lo stesso Braida, Ricky Sogliano, Dario Dolci, Angelo Rimbano. Tutti lasceranno un segno del loro passaggio sul calcio italiano, e lui più di ogni altro.
Liedholm lo descrive così: «Possiede le qualità essenziali per una punta: piede e testa, cioè buon trattamento di palla ed elevazione. È un altruista e un opportunista secondo le circostanze e ciò, naturalmente, corrisponde al meglio per un uomo d’area di rigore».
Intanto, lascia parecchi osservatori a bocca aperta. Compresi quelli della Juventus, Rabitti in testa, che si affrettano a richiamarlo alla base. Il ragazzo ha talento: a nemmeno vent’anni mette in mostra acume tattico e impressionante potenza.
I suoi gol hanno già il marchio di fabbrica: Roberto segna di testa, tuffandosi col coraggio dell’incoscienza, e il suo piede, soprattutto quello destro, sa già dare alla sfera traiettorie uniche. «È un opportunista, sa farsi trovare pronto all’appuntamento col gol. Ma nello stesso tempo non è un freddo, un calcolatore, e va in cerca della palla e del gioco alla fonte». All’epoca, questo è il giudizio tecnico per il neo-cannoniere cadetto che approda alla massima serie dalla porta principale. Lusinghiero è dir poco, considerando che ha appena vent’anni.
«Un successo non sperato ma che, dopo poche settimane dal mio debutto, iniziava a prendere consistenza, visto che continuavo a segnare e a convincere. Il goal più bello? Penso di averne fatti diversi. Ricordo la doppietta col Mantova, la rete con l’Arezzo, quella con l’Atalanta. Una curiosità: all’ultima di campionato batto un rigore contro il Piacenza realizzandolo. Dovranno passare dieci anni prima che, in campionato, prenda nuovamente la rincorsa dal dischetto. Io parto da un principio ben preciso: si può vincere la classifica cannonieri soltanto usufruendo dei calci di rigore».
Il giovane figlio della scuola bianconera torna a casa ma casa non è più quella di una volta. È cambiata l’aria che si respira, sono cambiati idee e uomini.
Giampiero Boniperti è di nuovo in famiglia, con addosso la veste di amministratore delegato. Il direttore generale è Italo Allodi, la guida della squadra è affidata ad Armando Picchi. È l’inizio di una rivoluzione tecnica che non si arresta neanche quando un destino maledetto si accanisce contro l’ex campione livornese. Picchi se ne va da questo mondo, trascinato via ad appena 36 anni da un male incurabile, e Boniperti sceglie (in disaccordo con Allodi) Cestmír Vycpálek per continuare il viaggio.
È la stagione 1970-71, c’è già, in bozza, una Juventus da grande ciclo. Ci sono talenti prossimi a farsi gruppo vincente: i giovani come Capello, Causio, Spinosi, i “grandi vecchi” come Salvadore e Haller, dispensatori d’esperienza. E c’è, da subito, il giovane Bettega: debutto con gol-vittoria alla prima di campionato, a Catania.
«Ero completamente concentrato sulla partita e ogni altro pensiero, compresa l’emozione, scomparve. Appena toccato il primo pallone, sparì anche la paura di sbagliare; andò bene il primo stop e il successivo passaggio, per cui, fortunatamente, tutto proseguì nei migliori dei modi, tanto che, verso la fine della partita, riuscii a segnare il goal della vittoria, con un bel colpo di testa. In porta c’era l’amico Tancredi, terzini Spinosi e Furino, stopper Morini, libero Salvadore e Cuccureddu mediano di appoggio. In attacco Haller ala tornante, Marchetti e Capello mezze ali, Anastasi al centro dell’attacco ed io, con la maglia numero 11, schierato all’ala sinistra. Arriviamo al 4° posto in classifica dietro l’Inter di Boninsegna, il Milan e il Napoli. 13 reti al primo anno non sono male; mi classifico al 4° posto dietro Boninsegna, Prati e Savoldi, cioè tutti cannonieri affermati. Purtroppo, da un punto di vista umano, subiamo un grave trauma: muore l’allenatore Armando Picchi, uomo buono, intelligente e sensibile. È un brutto colpo per tutti noi: eravamo legati da profonda amicizia e stima a quell’uomo generoso».
È solo l’inizio: il bomber del nuovo corso parte con l’acceleratore a tavoletta anche nella stagione successiva. Il ragazzo-prodigio studia da idolo delle folle, infila una serie d’oro, suggella il momento magico il 31 ottobre del 1971 con un gol da antologia nella doppietta rifilata al Milan. Col grande Nereo Rocco che si toglie il cappello in segno d’ammirazione.
«Certi goal non li potrò mai dimenticare. La prima rete la infilo di testa, in “schiacciata” su perfetto cross di Causio. La seconda, forse il mio “centro” più bello, lo realizzo di tacco beffando il portiere Cudicini».
Dice John Charles: «Devo ringraziare Bettega; se in Italia si parla ancora di me è grazie a lui e mi fa piacere che qualcuno si ricordi del sottoscritto. Sinceramente, non sta a me dire se Roberto sia più bravo di com’ero io o se lo diventerà in futuro. Devo ammettere, però, che fra lui e me ci sono delle analogie: anch’egli è ottimo nel colpo di testa, anch’egli è abile nello smarcarsi, anch’egli, soprattutto, segna, e segna tanto. Dal vivo, l’ho visto all’opera cinque volte, fra le quali in occasioni di Milan-Juventus 1-4; in quella circostanza, il ragazzo è stato super. Mi ha entusiasmato. Non ha mostrato punti deboli, non saprei nemmeno cosa consigliargli di curare particolarmente per migliorare, perché è eccellente in tutto. È giovanissimo eppure è un giocatore già fatto. Pur essendo un uomo-gol di provata affidabilità, è bravissimo nel rendersi utile ai compagni, per i quali risulta alquanto prezioso. La sua verde età mi fa pensare che riuscirà a progredire ancora; fra un paio d’anni sarà un fenomeno. Ribadisco: son contentissimo che Bettega venga accostato a me, ma non è mio compito azzardare confronti fra noi. Il mio augurio più grande a Roberto è quello di continuare a confermarsi ogni domenica, senza soluzione di continuità: se ci riuscirà, allora la Juve diverrà la più forte squadra d’Europa. Nel processo di crescita della Signora, l’apporto del suo attaccante sarà fondamentale. In ogni caso, auguro ai bianconeri di vincere lo scudetto, io faccio sempre il tifo per loro. Il mio grande amico Boniperti è fortunato: quando giocava, poteva contare su di me; ora, può contare su Bettega!».
14 partite, 10 gol, papà Raimondo è pieno d’orgoglio e i cuori bianconeri impazziscono di gioia: sembra la consacrazione, ma un pomeriggio di pioggia e gelo, dopo l’ennesima rete sparata in faccia alla Fiorentina al Comunale, la vita cambia all’improvviso.
Gli piomba addosso una tosse fastidiosa, insistente. Entra in clinica il 1° gennaio del 1972, brutta maniera di iniziare l’anno. Lo visitano e la diagnosi è impietosa: affezione infiammatoria all’apparato respiratorio. È pleurite, per capirci: la stagione è finita.
Roberto fa in tempo a unirsi ai compagni a primavera, nel pomeriggio felice in cui si brinda allo scudetto. Un tricolore a cui ha contribuito, con quei 10 gol pesanti come macigni.
«Un brutto colpo, davvero... Ma ho saputo reagire alla malasorte con coraggio, senza perdermi d’animo, A vent’anni è giusto non demoralizzarsi. Recupero dopo otto mesi lunghi difficili».
La malattia lascia, la determinazione (se possibile) raddoppia. Il 24 settembre del 1972, a Bologna, Roberto Bettega torna in campo accolto dagli applausi. Ha vinto una battaglia difficile, ne è uscito più forte dentro.
A giugno Boniperti annuncia: «Sarà lui il migliore acquisto della stagione».
Lo dimostra in campo, trascinando la Juve al secondo scudetto consecutivo. Diventando una bandiera: lui c’è sempre, là davanti, anche quando i compagni di reparto cambiano.
Dopo Anastasi e Haller, dopo l’Altafini part-time di fine carriera, ecco Roberto “Bonimba” Boninsegna. La Juve si muove, si evolve, intorno al figlio del carrozziere diventato idolo della curva. E lui, tatticamente versatile, sa adattarsi a ogni situazione e a qualsiasi compagno di viaggio.
«In effetti ritorno a giocare secondo una mia predisposizione naturale, facendo cioè la mezzapunta, tornando indietro a centrocampo oppure ritrovandomi in difesa. Più che fare i goal, mi piace giocare. Più che un successo personale, preferisco la vittoria della squadra. È il mio carattere. Sono comunque anni importanti per la Juventus, che vince lo scudetto nel 1972-73 e nel 1974-75; nel 1973-74, invece, terminiamo secondi alle spalle della Lazio-rivelazione di Maestrelli e Chinaglia. Ricordo bene la stagione del 16° scudetto. Siglo soltanto 6 goal, ma sono quasi tutti importanti: contro Milan, Napoli, Vicenza... Gli anni ‘70 parlano soltanto bianconero».
Stagione di alti e bassi, diciamo pure a corrente alternata. Eppure importante, perché arriva finalmente il momento di giocare la carta Bettega anche in azzurro. A decidere in questo senso è il vecchio maestro Fulvio Bernardini, che apre un nuovo capitolo della carriera del campione. Un capitolo fatto di grandi gioie e segnato, oltre che dall’incontro decisivo con Enzo Bearzot, da un incredibile scherzo del destino. Il secondo, dopo la malattia del 1972. Quello che gli negherà, dieci anni più tardi, la gioia di partecipare a un’avventura mondiale da vincitore.
Con la maglia bianconera, intanto, Bettega continua a togliersi soddisfazioni.
Non è immediato il feeling con Vycpálek, non lo è quello con Carletto Parola. Ci si mettono anche certe situazioni difficili e fastidiose, come la volata-scudetto perduta contro il Torino nella stagione 1975-76, una sconfitta che il bottino personale di quindici gol non ripaga.
Le reti salgono a quota 17 nel 1976-77, e questa volta a vincere il testa a testa sono Roberto e compagni. È il primo capolavoro di un tecnico giovane e vincente voluto da Boniperti: Giovanni Trapattoni presenta all’Italia la sua Juve da battaglia, fisicamente corazzata dagli innesti di Benetti e di un ancora vivacissimo Boninsegna, resa sicura tra i pali da Zoff, in difesa dalla coppia Cuccureddu-Gentile, da Morini e da un sempre più autoritario Scirea, illuminata da Causio che regala a Bettega e a Boninsegna mille occasioni da gol.
È finalmente una Juve europea, e lo dimostra vincendo il suo primo trofeo internazionale, la Coppa Uefa, dopo aver buttato fuori Manchester City, Manchester United, Shakhtar Donetsk, Magdeburgo, AEK e, in finale, l’Athletic Bilbao. Nell’inferno della partita di ritorno, in Spagna, è proprio Bobby Gol ad aprire la strada verso la gloria, con una rete destinata a restare nella storia bianconera.
Il 5° scudetto arriva l’anno successivo (1977-78). «In questa stagione inizio subito bene, realizzando una doppietta, nella prima di campionato, al Foggia; ricordo ancora la rete che infilo di sinistro al Perugia, il goal d’anticipo al Verona, la doppietta al Vicenza di Paolino Rossi all’ultima di campionato... Sono 18 scudetti: una felicità immensa per me e i miei compagni di squadra».
Poi, stagione 1979-80, la vittoria nella classifica dei cannonieri. «Il gol che preferisco è quello contro l’Inter al Comunale, perché vinciamo per 2-0 contro i futuri Campioni d’Italia mostrando un gioco vivace e incisivo. Segno, sinceramente, un gran goal. 32’: Gentile crossa dalla sinistra, salto di testa anticipando alla perfezione Bordon e Mozzini, infilando sulla sinistra. Poi non dimenticherò mai l’ultimo sigillo, anche se segnato su rigore: è il goal che mi permette di vincere la classifica cannonieri, davanti a giocatori bravi come Altobelli, Rossi, Graziani e Selvaggi. Sono contento e ringrazio tutti i miei compagni, che mi sono stati vicini e, che mi hanno aiutato a compiere questa impresa».
Il sesto, quello più difficile per il campione, nel 1980-81. Una stagione da 5 gol in 25 partite, praticamente in salita in una squadra priva di vere punte, con Fanna, Causio, Marocchino guidati dalla sapienza di Liam Brady. Stagione di stonature (la clamorosa litigata con l’arbitro Gigi Agnolin) e di sospetti (i difensori del Perugia accusano Bettega di aver fatto pressioni in campo perché lo lasciassero segnare: un mese di squalifica).
Qualcuno parla già di viale del tramonto, non è il massimo per uno che appena un anno prima vinceva la classifica marcatori del campionato italiano. Lui tace, secondo l’antica scuola appresa da mamma Orsola, paziente e gozzaniana maestrina torinese.
Tace e accetta, come chi sa capire la vita, come chi sa che oggi sei idolo e domani puoi finire nella polvere, come chi non si sorprende e non si spaventa di questa vita effimera da uomini di calcio.
Tace e si prepara, con Bearzot, all’assalto mondiale di Spagna, che gli verrà negato, si diceva, dall’ennesimo brutto scherzo del destino. Il secondo in carriera.
Rassegnato? Mai. Roberto Bettega, torinese duro e puro, testardo e taciturno, si riprende la vita: è ancora campione d’Italia (il 7° sigillo) nella stagione all’inferno 1981-82, e l’anno dopo agguanta la Coppa Italia e va all’attacco della Grande Illusione. È in dirittura d’arrivo, vorrebbe chiudere in bellezza.
Dieci giorni dopo il commiato dal campionato italiano (15 maggio 1983, Juventus-Genoa 4-2), fa l’ultima apparizione ufficiale in maglia bianconera ad Atene: si gioca la finale di Coppa dei Campioni. Di fronte alla Juve del Trap c’è l’Amburgo, e i bianconeri sulla carta sono i favoriti d’obbligo. Bobby Gol è a un passo dal sogno, come tutto il popolo juventino. A svegliare tutti quanti sarà il maledetto, imprendibile tiro di Felix Magath.
Il campione ha i capelli grigi, per l’ultima recita si è assicurato un ruolo nella Juve forse più bella degli ultimi vent’anni. Accanto ha gli uomini del futuro: Platini, Rossi, Boniek. Non bastano, per volare sull’Europa. Appuntamento rimandato, per la Vecchia Signora del calcio italiano.
«Non c’è giornalista in Europa che, quella notte, avrebbe scommesso una Dracma sulla vittoria dell’Amburgo. Eppure, non so che cosa ci succede; non è stanchezza, né forma scadente, è solo questione di testa. Il Mondiale del 1982 non è cosa per me; a causa dell’infortunio non vengo convocato. Brontolo, però mi metto l’anima in pace. Ma ad Atene la Juventus la fa grossa. Se avessi la facoltà di rivivere un avvenimento nella mia carriera, tornerei a quel maggio maledetto e rigiocherei la finale con i tedeschi. Loro non demeritano, solo che noi siamo irriconoscibili. Lascio, perciò, il calcio senza realizzare un sogno meraviglioso».
Roberto Bettega consegna la sua maglia alla storia bianconera, e a quella storia si consegna. Questione di numeri, di grandi numeri: in 13 anni, quella maglia l’ha indossata in 481 occasioni ufficiali, trovando la strada della rete in 178 occasioni. Ha vinto 7 scudetti, due volte la Coppa Italia, una Coppa Uefa, ha sfiorato due volte la Coppa dei Campioni (oltre alla finale dell1983 con l’Amburgo, quella lasciata nelle mani dell’Ajax il 30 maggio del 1973).
A chiamare Roberto Bettega in Nazionale è nientemeno che Fulvio Bernardini, profeta del calcio dei “piedi buoni”. Un’incoronazione, insomma. Magari un po’ tardiva, perché la decisione il Dottore la prende il 5 giugno del 1975, facendo esordire il campione bianconero contro la Finlandia, in una squadra azzurro-juventina.
Bettega ha 25 anni, e certamente a farlo arrivare in ritardo all’appuntamento con la Nazionale è stata la lunga malattia del 1972, quella che sembrava dovergli spezzare ambizioni e speranze. Il battesimo lo firma Bernardini, la consacrazione a opera di Enzo Bearzot, che del Bettega azzurro sarà il vero mentore.
La nuova Italia, coraggiosa e allegramente sfacciata, sicura dei propri mezzi, nasce intorno a Bobby Gol, al suo ruolo di attaccante mai avulso dal gioco, naturalmente alle sue reti. Ci conta, il friulano Bearzot, e il giocatore risponde alle sollecitazioni.
Inventando, tra l’altro, una perla da consegnare agli annali: il gol che il 17 novembre del 1976 regala all’Italia il successo sull’Inghilterra all’Olimpico, oltre a una certezza in più sulla strada verso il Mondiale d’Argentina. La fotografia è nella memoria: volo d’angelo, colpo di testa sublime, Clemence in ginocchio e con lui tutta l’Inghilterra.
In Argentina, Bettega disputa l’unico Mondiale della sua carriera: brillante dal punto di vista del gioco, un po’ meno da quello del risultato. La squadra gira intorno a lui, sembra costruita apposta per lui. È bella e sfortunata.
Il campione potrebbe rifarsi nell’anno del Grande Sogno, se soltanto la sorte non gli si mettesse contro. Per la Nazionale di Bearzot, che a Spagna ‘82 vuol giocare da protagonista, Bettega e sempre un punto fermo. Lui si mostra vivo, acceso, nella prima parte della stagione.
Fino a quella serata maledetta di Coppa dei Campioni. È il 4 novembre del 1981, a Torino si gioca Juventus-Anderlecht: Bettega ha un terrificante impatto con Munaron, il portiere belga, e resta a terra. La diagnosi è impietosa, proprio come accadde nel 1972: distacco del legamento collaterale-mediale del ginocchio sinistro, stagione finita, viaggio in Spagna cancellato (anche se Bearzot, incredulo orfano del suo campione, prova a credere fino all’ultimo istante in un miracolo).
«L’infezione polmonare, se ci penso adesso, mi dico che ero un incosciente ma, probabilmente, era la forza reattiva dei vent’anni. Ho giudicato la malattia un incidente di percorso, niente di più. È stato molto più difficile sopportare le conseguenze dell’infortunio al ginocchio e non solo per il dolore che mi ha torturato a lungo. La malattia si affaccia, invece, con strani sintomi, un po’ di tosse la settimana prima del match con la Fiorentina. Sì, ho un leggero mancamento prima della partita con l’Inter, a San Siro, quindici giorni prima, un malessere attribuito alla tensione nervosa, all’aver fatto un massaggio vicino a un calorifero: eravamo in pieno inverno. Comunque, la tosse suggerì ai medici di fare una radiografia; quando il male mi sbatte in un letto, ho già segnato 10 reti. Perdo nove mesi e praticamente l’anno successivo, poiché il fisico si è appesantito e non è facile eliminare sette chili per rientrare nei limiti abituali. Tant’è che l’estate seguente, invece che in vacanza, resto a Torino a sudare. Ritrovo il mio peso normale dopo diciotto mesi. L’incidente con Munaron, invece, è stato tutto più dolente e faticoso; è un infortunio che lascia il segno e modifica la mia struttura fisica».
Perde l’azzurro più intenso, Bobby Gol. Nella sua storia di calciatore e simbolo azzurro manca quella trasferta spagnola iniziata tra i mugugni e finita in gloria. Brutta botta, ma lui non si perde d’animo e comunque la maglia azzurra riesce a riconquistarla.
L’ultimo atto va in scena il 16 aprile del 1983, a Bucarest: Romania-Italia 1-0 è la recita numero 42. Con questo numero, e col 19 che resta scritto a caratteri indelebili sulla casella delle reti realizzate, il viaggio azzurro si chiude.
Non senza rimpianti.

 

https://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/12/nato-torino-il-27-dicembre-1950-bettega.html

 

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Il 8/4/2022 alle 10:55 , Socrates ha scritto:

 

Che dire? Immenso Bobby goal. Ricordo il tacco di S.Siro in quel mitico Milan-Juve1-4 che devastò l'imbattibile difesa di Paron Rocco. Vidi in diretta il goal in tuffo all'Inghilterra. Lo vidi disperato nella triste finale di Atene. Immenso Bobby goal, inamovibile nel Sacrario della Juventus:Zebra:

 

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Juventus legend Roberto Bettega linked to Toronto FC Presidency - Waking  The Red

 

LEGGENDE BIANCONERE: ROBERTO BETTEGA E ALESSANDRO DEL PIERO

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