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Socrates

Pietro Anastasi

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In memory of Pietro Anastasi - Juventus
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bomber vero,mica i bomberini di oggi

amauri .bah

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@@ Speriamo nascano ancora Campioni come lui, preferibilmente italiani!

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Mai amato in 45 anni di Juve un giocatore come lui. Ho gi

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Pietruzzo Anastasi mitico, quanto mi sono sgolato ai suoi gol @@

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Inviato (modificato)

PIETRO ANASTASI

UN GRANDE CENTRAVANTI

Nel Varese diventa fortissimo e con un suo gol l'Italia conquista la Coppa Europa; poi con la

Juventus vince tre scudetti. Passa all'Inter dove delude chiudendo la carriera nell'Ascoli .

 

 

 

Best of Pietro Anastasi - Juventus TV

 

Un calciatore non altissimo dalla pelle olivastra con un pronunciato ciuffo nero sulla fronte e due occhi svelti e lucidi, che sembrano conoscere già tutte le malizie del calcio. Così si presenta sui campi della piccola squadra della sua città Catania, la Massiminiana, un giocatore leggendario ed importante per il nostro calcio, Pietro Anastasi.

Nato nel 1948 a soli diciassette anni diventa protagonista giocando nel Varese, in serie B. Con le sue reti, questo giovane “emigrato” del calcio regala subito la massima divisione alla squadra lombarda. Continua il suo grande periodo segnando ben undici reti nella stagione 1967-68 e portando il Varese ad occupare il settimo posto in campionato. E’ una bella squadra questo Varese che si toglie anche lo sfizio di battere in casa le grandi del nostro campionato come Inter, Milan e Juventus che viene superata per cinque a zero con Anastasi che firma una tripletta!

I tifosi lo ribattezzano subito “Pietruzzo”, facendo rivivere il suo sangue siciliano, e diventa l’uomo nuovo del nostro calcio al punto che Valcareggi lo convoca in azzurro. Il suo debutto è leggendario. Infatti gioca nella finale per la Coppa Europa contro la Jugoslavia. Sarà presente nelle due partite ed è suo il mitico gol al volo del 2 a 0 che spiana l’Italia alla storica conquista del titolo continentale. Ormai Pietro è giustamente l’uomo del momento e la Juventus di Boniperti, alla ricerca di nuovi protagonisti per ritornare grande, non si lascia sfuggire l’occasione per acquistarlo.

Il prezzo è esorbitante, ben seicento milioni e Anastasi a solo venti anni diventa anche il simbolo di tutti quei suoi conterranei che sono andati a lavorare a Torino in cerca di una vita migliore. Il pubblico e tifosi non solo bianconeri gli dimostrano subito grande affetto che contraccambia diventando subito protagonista; prima stagione in bianconero con quattordici reti ma la Juventus non decolla. L'anno successivo diventa allenatore Armando Picchi, suo compagno di squadra nel Varese, ed Anastasi è sempre a grande livello realizzando quindici reti ma la sua verve non è sufficiente a raddrizzare un attacco di non altissimo livello con Vieri e Zigoni. Intanto i mondiali messicani sono alle porte e lo aspettano come protagonista insieme a Gigi Riva.

Un destino strano fermerà la grande avventura del centravanti catanese. Uno scherzo pesante del suo massaggiatore lo porta ad un travaso di sangue nella zona genitale. La notizia non viene diffusa per la sua delicatezza alla stampa alla quale viene comunicato che il calciatore è stato vittima di una violento attacco di appendicite. Inizia un momento delicato nella vita del cannoniere che nella stagione 1970-71 sembra aver perso il fiuto del gol, giocando senza quella forza e vigoria che lo aveva caratterizzato. Picchi non ne fa un dramma conoscendo bene la stoffa di Pietro, intanto la Juventus conclude ad un modesto quarto posto. L’anno dopo arriva Roberto Bettega ma Anastasi entra subito in sintonia con il giocane attaccante e sembra ritornare ai livelli degli anni passati. Lo scudetto é cosa fatta e incomincia un periodo positivo sia per il calciatore che per il club bianconero.

Anastasi diventa il giocatore dei gol impossibili, tuffandosi di testa o spiazzando con invisibili tocchi i portieri avversari proprio all’ultimo momento.

Due titoli, una finale persa di Coppa Campioni e Anastasi titolare nella nazionale grazie anche ai sedici gol segnati nella vittoriosa stagione 1973-74. Ai mondiali del 1974 però il ruolo di centravanti viene dato a Chinaglia, ma Anastasi entrerà nel secondo tempo del match d’esordio con Haiti, “festeggiato” dal giocatore laziale che manderà a quel paese l’intera panchina azzurra. Sarà una crisi superata al punto che nell’ultimo incontro con la Polonia giocheranno entrambi, creando però una sterile coppia di attacco. Il mondiale tedesco sarà la sua ultima grande manifestazione; Bernardini lo richiamerà per giocare solo due partite in nazionale che ormai lo considera un "protagonista del passato" dopo aver collezionato 25 presenze con otto reti.

Nel 1975 la Juventus guidata da Parola vince ancora il campionato ma ormai i leaders dell’attacco bianconero sono Bettega e Causio e il suo gioco sta dimostrando quasi una involuzione. Pietruzzo non sembra più il brillante attaccante degli anni passati al punto che i ”vecchietti” Altafini e Gori mettono in discussione il suo posto da titolare. Anche se il pubblico del Comunale lo osanna in continuazione sottolineando ogni sua azione con valanghe di applausi, la dirigenza bianconera lo accantona in panchina, presagio di una imminente cessione.

Il suo destino è all’Inter che lo scambia con il più anziano Boninsegna e i bianconeri chiedono cento milioni in più per compensare il “divario” di età fra i due bomber. Saranno due destini diversi. Da una parte “Bonimba” che vince due scudetti ed una coppa UEFA, dall’altra Anastasi aspettato come salvatore della patria che non riesce più a fare una rete. Ogni domenica per il pubblico di S.Siro è una domenica di attesa, e l’esame per Pietro diventa sembra più crudele. Anastasi segna pochissimo e l'Inter senza i suoi goal attesi diventa solo spettatrice per la lotta al titolo. Sono solo due gli anni con la maglia nerazzurra, due anni di continue delusioni e di soli sette reti in ben 46 partite! Unico piccolo risultato una Coppa Italia che però non allontana le amarezze. A trenta anni viene ceduto all’Ascoli provinciale di belle speranze dove riveste la maglia di titolare ma le reti continuano a mancare.

Ormai “Pietruzzo” è solo la leggenda conclusa di se stesso e due baffoni neri sembrano testimoniare il tempo che è passato, cercando di rinverdire, anche se a solo trenta anni, i successi della sua gioventù. Terminerà la sua carriera, sicuramente gloriosa, giocando nel Lugano in Svizzera nel 1981 la sua ultima stagione rimanendo il simbolo di una generazione di calciatori e di tifosi.


GolCalcio.it

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Una vita in rovesciata. Addio Anastasi, primo grande colpo di mercato

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LA MIA JUVE MERIDIONALE

Anno 1968. Pietro Anastasi veste la maglia bianconera, diventando presto l'idolo

degli operai meridionali occupati in Fiat. «Cuccureddu, Causio, Longobucco: eravamo

tanti del Sud. In campo mi chiamavano Ƭerrone. E io: "Sì, ma guadagno più di te"».

Boniperti, Parola, Vycpalek, Allodi, l'Europeo '68: un romanzo firmato "Pietruzzo"

di NICOLA CALZARETTA (GUERIN SPORTIVO | MAGGIO 2015)

La cosa che più colpisce in Pietro Anastasi, nato a Catania il 7 aprile 1948, sono gli occhi. Scuri, scintillanti, vivi. E il sorriso. Solare e malinconico allo stesso tempo. Ci troviamo a casa sua, a Varese, la città di sua moglie Anna. «Devo tutto a questa donna» dice subito Pietruzzo, così come lo ribattezzò il conterraneo Vladimiro Caminiti. «Mi ha fatto da equilibratore. Quando tendevo a esaltarmi, mi riportava con i piedi per terra. Quando andavo giù di corda, sapeva scuotermi per risalire». Sono insieme da una vita, da quando il diciottenne Anastasi si trovò catapultato al Nord dopo gli straordinari esordi con la Massiminiana in Serie D. Stagione 1966-67, la prima a Varese, allora in Serie B. Il matrimonio nel 1970, due figli, e dal 1993 per lui la meritata pensione tra un po’ di scuola calcio, i commenti tecnici in televisione e gli impegni con le leggende bianconere. Eh già, perché se siamo qui è per ricordare soprattutto le otto stagioni con la maglia della Juventus. Dal 1968 al 1976, tre scudetti, oltre 300 presenze e 130 gol. Numeri che danno l’esatta misura di un attaccante che in campo non si è mai risparmiato e che per i tantissimi tifosi meridionali della Juventus, in quel primo scorcio di Anni 70, ha rappresentato la possibilità del riscatto. Numeri di un centravanti che 40 anni fa stabilì un record tuttora imbattuto: tre gol realizzati da subentrante.

Vogliamo partire proprio da quello Juventus-Lazio del 27 aprile 1975?

«Quart’ultima partita del campionato. Siamo primi con tre punti sul Napoli e per me, che sono anche il capitano, si profila un’altra panchina. Già la domenica precedente con il Cagliari non ero partito titolare. Ma stavolta non ci sto. E quando il tecnico Carlo Parola legge la formazione, io gli dico che me ne torno a casa».

Questo quando succede?

«La mattina prima della partita, nel ritiro di Villar Perosa».

Poi ha cambiato idea.

«Chiamo mia moglie e le dico quel che sta succedendo. Lei mi suggerisce di accettare le decisioni dell’allenatore, ma io non voglio sentire ragioni. Poi durante la passeggiata, ecco l’Avvocato Agnelli, al corrente dei fatti. E anche lui mi invita a non fare stupidaggini. Ma sono ancora ferito. Decisiva è la seconda telefonata con Anna. A quel punto mi faccio buono buono e mi metto a disposizione dell’allenatore».

Numero tredici, seduto in mezzo a Piloni e Spinosi.

«Fino al 70’. Stiamo vincendo 1-0, ma anche il Napoli è in vantaggio. Occorre mettere al sicuro il risultato. E così, quando mancano venti minuti alla fine, Parola mi dice di entrare al posto di Bettega».

E lei cosa inventa?

«In cinque minuti, dall’83’ all’88’, realizzo una tripletta. Nessun subentrante era mai riuscito nell’impresa prima e – per quel che mi risulta – neppure dopo nel campionato italiano. A quel punto, sul 4-0, il risultato è più che in cassaforte. Missione compiuta».

Se li ricorda quei tre gol?

«Il primo di destro in scivolata ad anticipare il difensore su cross basso dalla destra. Il secondo di sinistro al volo a mezza altezza su centro dalla sinistra. Il terzo dopo una traversa di Viola: sulla ribattuta colpisco il palo, la riprendo e segno. In quell’occasione, Felice Pulici fece come l’orso nei giochi della fiera: a ogni sparo, cambiava direzione, senza capirci più nulla».

Sarà stato un record anche per lui prendere tre gol in 5 minuti.

«Credo di sì. Ero una furia, non mi importava chi avessi di fronte in quel momento. Avevo così tanta rabbia in corpo che se la partita fosse durata ancora avrei continuato a segnare. Pulici o non Pulici».

È vero che la mattina dopo chiamò l’Avvocato?

«Sì. Mi disse: “Ha visto che avevo ragione io quando le dicevo di non fare stupidaggini?”. Gli diedi corda, non ebbi cuore di dirgli che in verità il merito era tutto di mia moglie».

Le ultime tre gare le ha giocate tutte dall’inizio.

«A quel punto sarebbe stata dura per l’allenatore giustificare un’esclusione. Ripresi la numero 9, la fascia azzurra di capitano e nell’ultima gara contro il Vicenza segnai il gol del momentaneo 3-0, vivendo una delle emozioni più forti della mia carriera in bianconero».

Perché?

«Sul 2-0 per noi tutto lo stadio aveva iniziato a chiamare il mio nome. L’urlo si era fatto sempre più forte e insistente. I tifosi volevano un mio gol, che in effetti arrivò al 36’. Allora ci fu un boato e a me vennero le lacrime agli occhi dalla commozione».

Con i tifosi c’è sempre stato un legame particolare, vero?

«Ancora oggi è così, nonostante siano passati molti anni. Di me il tifoso bianconero ha sempre apprezzato la generosità e l’impegno. Non ho mai giocato al risparmio: per la maglia della Juventus ho dato il massimo».

E poi c’è la questione meridionale.

«Per i tanti lavoratori che venivano dal Sud e che si facevano il mazzo in fabbrica sono diventato un simbolo, anzi ero uno di loro, quello che aveva avuto la buona sorte di giocare a pallone. Ricordo che mi fermavano fuori dello stadio e mi dicevano di farmi valere anche per loro. Mi rendeva orgoglioso».

Qualcuno all’epoca sosteneva che non fosse un caso che la Juventus avesse molti giocatori del Sud.

«Di vero c’è solo che eravamo in diversi: oltre a me c’era Furino, anche se lui fin da piccolo abitava a Torino. Poi Causio, Cuccureddu, Longobucco, anche Spinosi volendo, che era di Roma. Ma per stare alla Juve non bastava certo essere meridionali. Occorreva ben altro. Come abbiamo dimostrato in quegli anni dominando in Italia, col pallone ci sapevamo fare».

Lei forse meglio degli altri, visto lo striscione che a un certo punto apparve nei distinti.

«“Anastasi Pelé bianco”. Comparve nei primi anni alla Juve. Mi fece un certo effetto, accidenti. Poi però mi dissi: “Chissà cosa ne pensa Pelé!”».

E Carlo Parola, invece, di lei cosa pensava?

«Non so cosa avesse con me. Non mi vedeva bene, cose che capitano. La mia permanenza alla Juve è stata pregiudicata dal rapporto non proprio idilliaco con lui. Però le confesso che mi trovo un po’ a disagio a parlare di una persona che non c’è più».

Possiamo parlare dei fatti e delle sue sensazioni.

«Parola arrivò nel 1974. Dopo il secondo posto dietro la Lazio, Boniperti decise di sostituire Vycpalek con cui avevamo vinto due scudetti. Vycpalek era un uomo molto legato al presidente, sapeva di calcio, buono, con un fare molto paterno. Con lui era difficile non andare d’accordo».

A differenza del suo successore.

«Il primo scontro con Parola ci fu nel dicembre 1974 in occasione della partita di Coppa Uefa in Olanda contro l’Ajax. Sono infortunato, lo certifica anche il nostro medico La Neve. Il tecnico mi dà del vigliacco, pensa che mi voglia risparmiare. Ma non è così. Morale della favola: sto fuori in campionato per tutto dicembre. Rientro a gennaio con la Ternana».

Quindi c’è la panchina con la Lazio di aprile.

«Era successo anche la domenica prima. In quel caso esagerai. C’era un rapporto molto teso tra di noi, che non giovava a nessuno e che è poi scoppiato clamorosamente l’anno dopo, costandoci uno scudetto già vinto».

Parliamone.

«Tutto inizia nell’intervallo di Lazio-Juventus del 7 marzo 1976. Era una giornata no per me, capitano partite dove non ti viene bene nulla. Chiesi di essere sostituito, pensavo che avrebbe fatto bene alla squadra. E così fu, al mio posto entrò Bobo Gori».

Quindi?

«Quel gesto fu mal interpretato da Parola, che mi mise in panchina per la successiva gara contro il Milan, dandomi gli ultimi venti minuti. La rottura vera si consumò la settimana dopo. Si gioca a Cesena e il mister mi rimette fuori. A quel punto chiedo spiegazioni, ero il capitano».

E lui?

«Mi risponde male. E io lo mando a quel paese. La partita con il Cesena la vedo dalla tribuna. Quindi qualche giorno dopo sbotto e dico chiaro e tondo che con Parola non voglio più avere niente a che fare. Finisco “fuori rosa”. Esco di squadra con la Juve avanti di cinque punti sul Torino. Alla trentesima giornata i granata vincono lo scudetto. Se abbiamo perso un campionato già vinto, la responsabilità non è certo mia che sono rimasto fuori nelle ultime nove partite. I colpevoli sono quelli che pensavano di avere già vinto».

E Boniperti in tutta questa storia?

«Avrebbe potuto intervenire in mia difesa, se avesse voluto. Invece mi disse: “Facciamo finire il campionato, poi ne parliamo”. Anche lui era sicuro dell’esito finale. Alla fine della stagione, ci vedemmo. Mi chiese di rimanere, lo fece più volte anche il dottor Giuliano, il suo braccio destro. Ma ormai era troppo tardi. Non c’erano più le condizioni. Meglio chiudere».

È stato un addio amaro?

«Senza dubbio. Chiesi solo di essere ceduto a una squadra che non doveva lottare per rimanere in A».

Lasciò così la Juve dopo otto anni. Una curiosità: come era arrivato in bianconero?

«Il mio acquisto nel 1968 era stato rocambolesco. Ero già dell’Inter. Dopo il mio primo campionato in A con il Varese nel ’67-68, in cui avevo segnato 11 gol, si fece avanti la società nerazzurra con Italo Allodi. Lui era molto amico di Casati, il Ds del Varese. Si figuri: andavano anche in vacanza insieme con le famiglie. Si strinsero la mano e chiusero l’affare».

Contento?

«Felicissimo! A venti anni andavo in una grande squadra, e poi Milano era vicina a Varese, dove abitava Anna con cui mi ero intanto fidanzato».

E poi?

«Ci fu un’amichevole di fine stagione tra Inter e Roma. I nerazzurri chiesero il permesso al Varese di potermi far giocare. Nell’intervallo mi venne incontro Mario Brogini, un amico fotografo di Varese, che era venuto per fare le prime foto con la nuova maglia. Fu lui a darmi la notizia della Juventus».

Le svelò anche i particolari?

«Non mi ricordo se accadde in quell’occasione. Si misero d’accordo direttamente l’Avvocato Agnelli e il presidente del Varese Borghi. Oltre ai soldi (660 milioni di lire, ndr), nell’affare entrò anche la fornitura di compressori di frigoriferi per la Ignis, l’azienda di Borghi. So che Allodi si arrabbiò con Casati, ma lui non avrebbe potuto certo andare contro il suo principale».

E lei in tutto questo?

«Rimasi frastornato. Un po’ mi dispiaceva non andare all’Inter, perché voleva dire allontanarsi da Varese. Ma ero al settimo cielo perché vestivo la maglia della squadra di cui sono sempre stato tifoso, e lo sono tuttora. Nel portafoglio conservo ancora la foto fatta al Cibali col grande Charles. Si avverava un sogno».

Dai campi polverosi della Sicilia alla Juve.

«Il pallone è sempre stato in cima ai miei pensieri. Ero il più piccolo di quattro fratelli, c’era la scuola, mi piaceva il mare, ho fatto piccoli lavori come il garzone di macelleria o lo stagnino. Ma il sogno era diventare calciatore e indossare la maglia bianconera».

Quali sono state le tappe fondamentali?

«Gli inizi all’oratorio San Filippo Neri di Catania. Per tutti ero Pietro “U turcu” perché d’estate diventavo nero come la pece. Poi la Trinacria e infine la Massiminiana. Devo tutto a Renzo Vellutini, che convinse i fratelli Massimino a prendermi nel 1964: a 16 anni debuttai in Serie D. Due anni dopo ero già in B».

E il Varese come è che la scova in Sicilia?

«Per caso. Il Ds varesino Casati era al Cibali per assistere a Catania-Varese. Sarebbe dovuto ripartire con la squadra, ma lasciò il posto in aereo a una donna incinta. Il rinvio del volo di ritorno gli consentì di seguire il giorno dopo, sempre al Cibali, Massiminiana-Paternò. Anche se finì 0-0, mi vide e prese nota».

Sensazioni?

«Ero felice perché andavo in B a 18 anni, avrei avuto una bella vetrina e qualche soldo in più. Ma avevo paura perché andavo lontano per un’avventura che avrebbe potuto finire subito. A Varese mi accompagnarono i genitori. Al momento del saluto, piansero».

E lei?

«Riuscii a trattenere le lacrime, anche perché fin dal primo impatto ho avuto la sensazione di essere in una famiglia. Poco dopo conobbi Anna, la quale certamente ha agevolato tutto. I due anni a Varese sono stati splendidi. Anche per i risultati sportivi, ovviamente».

Ce li ricorda?

«Il primo anno conquistammo la promozione in A. L’anno dopo il Varese fece un campionato eccezionale, battendo molte grandi. Eravamo una buona squadra con campioni come Armando Picchi, gente di esperienza come Sogliano, Da Pozzo, Maroso e giovani come il sottoscritto e Franco Cresci. L’allenatore era Bruno Arcari: a me ha insegnato tanto, soprattutto a come muovermi in attacco».

Insegnamenti utili, visti gli 11 gol finali.

«Per me è stata una stagione fantastica. La ciliegina sulla torta fu la tripletta nel 5-0 alla Juventus, un risultato entrato nella storia del Varese. E poi il regalo più bello: la chiamata in Nazionale per l’Europeo. Successe tutto in fretta. Il passaggio rocambolesco alla Juve, la maglia azzurra. Ero al settimo cielo, un sogno essere lì con Zoff, Rivera, Mazzola, Gigi Riva».

Nella finale con la Jugoslavia in attacco c’è lei, all’esordio.

«Eravamo nello spogliatoio, mi chiama Valcareggi e mi fa: “Picciotto, tocca a te!”. E non aggiunge altro. Gioco in coppia con Prati. La Jugoslavia è più forte e pareggiamo, grazie a una punizione di Domenghini nel finale. I regolamenti a quel tempo prevedevano la ripetizione della gara. Si rigioca due giorni dopo, Valcareggi cambia mezza squadra. Io sono confermato e accanto a me c’è Gigi Riva».

Riva sblocca e lei, alla mezz’ora, realizza un gol in semirovesciata spettacolare: tutto voluto?

«È stato sempre detto che sbagliai lo stop. Può darsi, non ricordo. So che feci una rete bellissima e che non stavo nella pelle dalla gioia. Ancora oggi quella notte romana con l’Olimpico illuminato dalle fiaccole mi fa venire la pelle d’oca. Vincemmo l’Europeo, l’unico nel nostro albo d’oro, e ci nominarono Cavalieri della Repubblica. Per me, che avevo 20 anni e non ero ancora maggiorenne (all’epoca la maggiore età era ai 21 anni, ndr), fecero un’eccezione».

Torniamo allo stop “sbagliato”: talvolta la critica ha sottolineato certe presunte lacune tecniche.

«La risposta migliore l’ha data Boniperti. Lui diceva che io ero troppo veloce. Spesso capitava che anticipassi il pallone. Però rimaneva lì, tra i miei piedi. E io, a quel punto, potevo fare la giocata desiderata».

Da un punto di vista tattico, invece, si è sempre considerato un centravanti?

«Ho spesso giocato con il 9, ma il centravanti non l’ho mai fatto. Mi piaceva allargarmi, spaziare, servire i compagni. Il famoso gol di tacco di Bettega a San Siro, nasce da un mio assist dopo un dribbling in area. Sono stato un falso nove. Mi rivedo molto in Tevez, che viene fuori a prendere il pallone e gioca spesso come trequartista».

Chiudiamo la parentesi azzurra con il suo forfait al Mondiale di Messico 1970.

«È ancora oggi uno dei miei più grandi rimpianti. E tutto per una sciocchezza».

I particolari, prego.

«Stavo scherzando con il nostro massaggiatore Spialtini. Lui era seduto sul divano, io ero dietro. A un certo punto lui, spazientito e dopo avermi detto già diverse volte di smetterla, mi dà un colpo con il dorso della mano e mi colpisce ai testicoli. Dolore immediato, ma la cosa finisce lì».

E poi?

«Durante la notte, ero in camera con Furino, non ce la faccio più dal dolore, mentre il testicolo colpito si è gonfiato paurosamente. Il Dottor Fini mi dà un calmante, ma dobbiamo andare di corsa in ospedale. La situazione è grave, posso correre il rischio di un’amputazione se non mi operano all’istante per assorbire il versamento interno».

E così addio Mondiale.

«Eravamo alla vigilia della partenza per il Messico. Non ce la potevo fare. Ma lì la combinarono grossa, chiamando al mio posto due attaccanti, Boninsegna e Prati e mandando via Lodetti che ancora mi maledice. Fu una stupidaggine, oltretutto Prati non giocò mai. Io poi ho fatto ancora un po’ di Nazionale. Ero anche a Monaco nel 1974, ma lì la squadra non c’era».

È il momento di tornare a parlare della Juventus. Ci siamo fermati al racconto dell’acquisto.

«Il primo impatto col mondo bianconero fu istruttivo. Era estate e andai in sede a incontrarmi per la prima volta con i nuovi dirigenti non pensando alla forma. Avevo una maglietta e un normale paio di pantaloni. Il presidente Catella mi disse: “La prossima volta si presenti in giacca e cravatta”».

E sul campo come andò?

«L’esordio fu eccezionale. A Bergamo, contro l’Atalanta, facciamo 3-3. Io segno una doppietta e uno dei due gol credo sia uno dei più belli realizzati con la Juve. Doppio pallonetto agli avversari e sinistro potente prima che la palla tocchi terra, tutto a grandissima velocità».

Allenatore quell’anno, stagione ‘68-69, era Heriberto Herrera.

«Un uomo molto rigido, maniacale. Incuteva timore, specie davanti alla bilancia. Dava multe a chi sgarrava col peso. Ricordo che Haller e Piloni erano tra i più terrorizzati perché tendevano a ingrassare anche mangiando pochissimo».

Con lei HH2 fu molto duro all’inizio.

«Durante uno dei primi allenamenti mi trattò malissimo davanti ai compagni. Stavamo facendo una seduta tattica, io non ero abituato a certi metodi. A un certo punto mi dice: “Basta, coño (stupido, ndr), vada fuori”. Mi mandò via e fece entrare al mio posto Zigoni per farmi vedere come andava fatto il movimento. A me vennero le lacrime agli occhi dalla rabbia».

L’anno dopo ci fu il breve regno di Luis Carniglia.

«Aveva il vizio di parlare male di noi giocatori alle nostre spalle. Non ho un buon ricordo di lui. Ma nemmeno la società, visto che lo licenziò quasi subito. Al suo posto chiamarono Ercole Rabitti, che allenava le giovanili. Da lì le cose iniziarono a girare per il meglio, anche se quella era una Juve che non lottava per lo scudetto».

La svolta ci fu nell’estate del 1970.

«Furono gettate le basi della Juventus che ha poi dominato nei successivi quindici anni. Furono acquistati molti giovani, alcuni come Causio e Bettega rientrarono dai prestiti. Boniperti, il quale non era ancora ufficialmente presidente ma aveva già compiti direttivi, e Italo Allodi furono gli ideatori del progetto».

E come allenatore fu scelto il giovane Armando Picchi, suo compagno di squadra a Varese.

«Allodi lo conosceva benissimo, sapeva che aveva tutte le qualità per guidare una squadra giovane e importante come la Juventus. Nell’anno a Varese, ero rimasto stupito dalla grinta, dalla lucidità di pensiero e dal grande carisma, oltre che dalle qualità umane. Trovarmelo come allenatore fu un piacere».

Nessun imbarazzo?

«No, anche se in privato gli davo del tu e in pubblico del lei. Peccato che il destino con lui sia stato così cattivo. Noi sapevamo tutto, fu molto dura in quei mesi continuare a pensare al pallone. Fu bravo Cestmir Vycpalek, il nuovo allenatore, a tenere unito il gruppo e fu molto importante la presenza di Italo Allodi, un grande dirigente».

Un po’ dimenticato, vero?

«Molto dimenticato, ma questo è il vecchio vizio del nostro mondo. Senza nulla togliere a Boniperti, Allodi ha avuto grandi meriti nella rinascita della Juve. Quando le cose non andavano bene o c’era da cementare il gruppo, lui organizzava delle cene, spesso con le famiglie. Una volta accadde dopo la papera di Carmignani contro il Cagliari (il numero uno bianconero si fece sfuggire di mano un pallone innocuo, ndr). Tutti a cena e lui che regala al portiere una pinza. Geniale».

E poi che altro ha fatto?

«Intervenne sui premi. Alla Juve gli ingaggi non erano migliori di altre squadre, ma se si vinceva, allora arrivavano tanti soldi. A quel tempo per ogni punto davano 80.000 lire a giocatore. Bene, lui arrivò e disse: “Se battete il Milan, ci sono 800.000 lire per ognuno”. Sia chiaro: lo sportivo vuole sempre vincere, ma certi stimoli sono molto importanti».

Le strategie di Allodi hanno funzionato, nel 1972 la Juve vince il campionato.

«Il mio primo scudetto, quello a cui sono più legato. Anche perché dopo la malattia che colpì Bettega e che lo tenne fuori per metà stagione, io mi sentii molto più responsabilizzato. Verso la fine della stagione ci fu anche il grave lutto di Vycaplek, che perse suo figlio vittima di un incidente aereo».

Quel campionato vide un grande Torino come vostro avversario. Ha dei ricordi particolari?

«Il ricordo più importante... me lo ha lasciato Cereser, che mi diede un calcio sulla mano destra, all’altezza del metacarpo anulare, che di fatto è rincalcato verso l’interno. Lui da dietro mi diede la zampata».

Ma lei non si difendeva?

«Sul piano fisico no, sono un metro e settantadue. Si usavano le parole. Loro mi dicevano “ţerrone” e io gli rispondevo “Sì, sono un ţerrone ma che guadagna più di te”».

L’anno dopo, stagione 1972-73, fate il bis.

«Vincemmo lo scudetto all’ultima giornata. La scossa vera ce la diede il Verona che stava battendo il Milan capolista. Anche noi a Roma eravamo sotto di un gol. Nell’intervallo, dentro lo spogliatoio, ci guardammo negli occhi. Nessun discorso, solo la consapevolezza che ce la potevamo fare. Anzi, che dovevamo farcela. Andò così, 2-1 per noi e alla fine altro tricolore».

Su quella partita non sono mancate le chiacchiere.

«Ma lasciamo stare! Noi sapevamo che per arrivare al traguardo dovevamo solo vincere. Lo stimolo decisivo sono state le notizie dal Bentegodi. E poi, se andiamo a vedere i gol, cosa c’è che non va? La difesa giallorossa poteva fare diversamente sul colpo di testa di Altafini? E sulla bomba di Cuccureddu all’incrocio dei pali? Fu una vittoria solare. Semmai c’era un altro problema».

Quale?

«Riguardava Vycpalek. Prima della trasferta romana, anche per smorzare la tensione, qualcuno di noi disse: “Mister, domenica non possiamo vincere: non ce la faremmo a portarla in trionfo”. E lui: “Ma io domenica sarò leggero come una libellula”».

Prima ha nominato Altafini, che proprio in quella stagione venne alla Juve: come fu preso il suo arrivo?

«Bene, veramente. José era un vero campione, capace di essere decisivo anche giocando poco. Si inserì benissimo in squadra e poi quello lì era un gruppo veramente solido e caratterizzato da grandi personalità».

Ha qualche episodio curioso che le torna alla memoria?

«Penso a Helmut Haller, un tedesco napoletano, giocherellone e scherzoso. A volte portava con sé quel palloncino che sedendoci sopra emette rumori simili alle puzzette. Era uno dei suoi divertimenti preferiti. Senza dimenticare le sfide all’ultima moda tra Causio e Damiani. Li facevamo sfilare nello spogliatoio e poi davamo i voti».

Il 1973 è anche l’anno della finale della Coppa dei Campioni persa dalla sua Juventus contro l’Ajax.

«Un gran peccato. Loro erano sicuramente più forti. Noi andammo in ritiro per troppo tempo. In più, ci fu anche un cambio di formazione che non ci convinse. Fuori Cuccureddu e dentro Altafini. Ma la cosa che ci fece più male fu vedere come loro trattarono la Coppa una volta saliti sul pullman. La buttarono lì, sui sedili, come fosse un trofeo qualsiasi».

Nel 1975 arriva il suo terzo scudetto, poi l’anno dopo l’addio.

«Andai all’Inter. Due campionati così così, ma alla prima stagione conquistammo la Coppa Italia. C’è gente che è stata molti anni più di me in nerazzurro senza vincere nulla».

Infine c’è l’Ascoli e soprattutto una data: 30 dicembre 1979.

«E chi se la scorda? Giochiamo a Torino contro la Juventus. Prima della partita mi viene a salutare l’Avvocato Agnelli, un grandissimo onore per me. Io sono alla caccia del mio centesimo gol in Serie A. Sembra una maledizione, me ne hanno già annullati un paio nelle giornate precedenti. Dopo 8 minuti batto Zoff con un colpo di testa e tutto il Comunale mi applaude. Come se non fossi mai andato via».

 

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Auguri al "Pelé del Sud" ! 

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Per chi ha voglia di vedere un breve filmato in cui è condensato tutto: lo "scippo" .asd all'Inter durante l'intervallo, l'amore dei tifosi, i tre goal alla Lazio, il centesimo goal in campionato contro di noi quando vestiva maglia dell'Ascoli...

Il mio primo idolo. Non penso di avere mai amato un giocatore così tanto. Era l'idolo assoluto in curva, amato da tutti (meridionali venuti a Torino e piemontesi doc) senza alcuna distinzione. Si faceva amare perchè era un generoso e si vedeva quanto amava la maglia che indossava. Aveva tanti soprannomi e diminuitivi (Pietruzzo, Pietro u turco, il Pelè bianco, ecc.). Era l'UNICO giocatore della Juve chiamato per nome di battesimo nei cori della curva. PIETRO! PIETRO! PIETRO! era un coro costante in tutte le partite. Poi le strade si separarano ma rimane e rimarrà sempre ANASTASI IL PELÈ BIANCO come recitava lo striscione nei distinti.:sventola2:

 

 

 

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Un anno fa (17 gennaio 2020) ci lasciava Pietro Anastasi. Un ricordo del popolare "Pietruzzu" da parte del nostro forum.

 

SportMob – Best Juventus Forwards of All Time

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Inviato (modificato)

660004714_juventus1931.jpg.49082c9021571af734b61594acc3bc02.jpg PIETRO ANASTASI

 

In memory of Pietro Anastasi - Juventus

 

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Pietro_Anastasi

 

 

Nazione: Italia Italia
Luogo di nascita: Catania
Data di nascita: 07.04.1948

Luogo di morte: Varese

Data di morte: 17.01.2020
Ruolo: Attaccante
Altezza: 172 cm
Peso: 66 kg

Nazionale Italiano
Soprannome: Pietruzzu 'u turcu - Pelé bianco

 

 

Alla Juventus dal 1968 al 1976

Esordio: 08.09.1968 - Coppa Italia - Cesena-Juventus 0-0

Ultima partita: 14.03.1976 - Serie A - Juventus-Milan 1-1

 

303 presenze - 130 reti

 

3 scudetti

 

Campione d'Europa 1968 con la nazionale italiana

 

 

 

«Pietro Anastasi finì per essere il simbolo vivente di un'intera classe sociale: quella di chi lasciava a malincuore il Meridione per andare a guadagnarsi da vivere nelle fabbriche del Nord.»

(Alessandro Baricco, 2008)

 

Pietro Anastasi (Catania, 7 aprile 1948  Varese, 17 gennaio 2020) è stato un calciatore e allenatore di calcio italiano, di ruolo centravanti.

Dopo gli esordi nella Massiminiana e la ribalta nel Varese, legò la sua attività agonistica soprattutto alla Juventus, squadra nella quale militò per otto stagioni a cavallo degli anni 1960 e 1970 diventandone uno degli uomini-simbolo, nonché tra i più amati dai tifosi, fino a esserne nominato capitano dal 1974 al 1976; con i bianconeri vinse tre campionati di Serie A, nel 1971-1972, 1972-1973 e 1974-1975, disputando inoltre le finali di Coppa delle Fiere, nel 1971, Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale, queste ultime entrambe nel 1973.

Considerato uno dei migliori attaccanti italiani della sua generazione, giocò con la squadra torinese un totale di 258 partite in Serie A realizzando 78 reti, laureandosi capocannoniere della Coppa delle Fiere 1970-1971 e della Coppa Italia 1974-1975, prima di una precoce parabola discendente che lo portò a chiudere la carriera con le maglie di Inter, Ascoli e Lugano. Ha disputato complessivamente 338 gare nella massima serie italiana segnando 105 gol; è stato inoltre il secondo marcatore della categoria, nel 1968-1969, e il terzo in altre due occasioni, nel 1969-1970 e 1973-1974. Campione europeo con la nazionale italiana nel 1968, in azzurro ha giocato 25 partite siglando 8 reti.

Nel 2020 è stato introdotto postumamente nella Hall of Fame del calcio italiano.

 

Pietro Anastasi
Pietro Anastasi - Juventus FC 1971-72.jpg
Anastasi alla Juventus nella stagione 1971-1972
     
Nazionalità Italia Italia
Altezza 172 cm
Peso 66 kg
Calcio Football pictogram.svg
Ruolo Allenatore (ex centravanti)
Termine carriera 1982 - giocatore
19?? - allenatore
Carriera
Giovanili
1958-1961 non conosciuta San Filippo Neri
1961-1964 non conosciuta Trinacria
Squadre di club
1964-1966   Massiminiana 38 (19)
1966-1968   Varese 66 (17)
1968-1976   Juventus 303 (130)
1976-1978   Inter 46 (7)
1978-1981   Ascoli 58 (9)
1981-1982   Lugano 14 (10)
Nazionale
1967 Italia Italia U-21 6 (2)
1968 Italia Italia B 4 (2)
1968-1975 Italia Italia 25 (8)
Carriera da allenatore
198?-198?   Varese Giovanili
Palmarès
 
Gold medal mediterranean.svg Giochi del Mediterraneo
Oro Tunisi 1967
UEFA European Cup.svg Europei di calcio
Oro Italia 1968

 

Biografia

«Ogni tanto, durante le partite, qualcuno mi insultava a colpi di "te***ne". Lo facevano più che altro per farmi innervosire. Io lo sapevo e tranquillamente gli rispondevo dicendogli: "Sarò pure te***ne, ma guadagno più di te che sei un polentone".»

(Pietro Anastasi, 2011)

 

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Un giovane Anastasi (in piedi, al centro) impegnato in un campionato aziendale catanese di "calcio a 9" nella prima metà degli anni 1960

 

Nacque nella zona industriale di Catania, nell'immediato secondo dopoguerra, da una modesta famiglia operaia: «con me, eravamo in nove e vivevamo in una piccola casa» nel quartiere Fortino, racconterà in seguito. Sin dalla giovane età si appassionò al calcio, tanto da marinare varie volte la scuola per andare a giocare a pallone in strada.

Durante la militanza nel Varese conobbe la sua futura moglie, Anna, che in seguito gli darà due figli; dopo il ritiro dall'attività agonistica, si stabilì definitivamente nella città varesina. Dopo essere stato operato con successo per un tumore all'intestino, nell'ultimo triennio di vita gli venne diagnosticata una sclerosi laterale amiotrofica che lo portò progressivamente alla morte, sopraggiunta a 71 anni, decidendo per la sedazione profonda e rifiutando un ulteriore accanimento terapeutico.

Caratteristiche tecniche

«Ha più estro che tecnica, più possesso fisico dell'azione che senso tattico; caccia il goal come uno stallone la femmina.»

(Vladimiro Caminiti)

 

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Anastasi in allenamento nel febbraio 1971

 

Cresciuto con John Charles come idolo — «nel portafoglio conservo ancora la foto fatta al Cibali», ricorderà quasi settantenne —, al contrario dell'ariete gallese Anastasi fu un attaccante dotato di scatto e velocità, «mobilissimo e imprevedibile», caratteristiche che gli permettevano, tra le altre cose, di sopperire ad alcune lacune tecniche — «spesso capitava che anticipassi il pallone. Però rimaneva li, tra i miei piedi. Ed io, a quel punto, potevo fare la giocata desiderata» —, nonché di aiutare i compagni — «penso di essere stato un giocatore altruista, giocavo soprattutto per la squadra, [...] mai [...] per me stesso» — ripiegando all'indietro o recuperando palle perse. Dal fisico «corto e robusto», aveva inoltre dalla sua un buon palleggio, seppur molto singolare, una grande prontezza di riflessi e, anche per via di un innato opportunismo, rapidità nel concludere a rete.

Definito da Vladimiro Caminiti come un misto tra due centrattacco del passato quali Guglielmo Gabetto e Benito Lorenzi, agli esordi fu accostato da Cesare Lanza a un suo contemporaneo, Luigi Meroni, soprattutto nel tocco di palla «di destro e di sinistro, magari con minore fantasia del Beatle comasco, ma, spesso, con superiore altruismo»; un atteggiamento, questo ultimo, sottolineato anche da Candido Cannavò, che riassunse il suo giudizio su Anastasi in «un grande giocatore, per abilità, per destrezza, per generosità». A Darwin Pastorin, negli anni 1970 giovane tifoso juventino, rimandava infine «nel dribbling, nella rovesciata, nella rete d'istinto» ai calciatori carioca ammirati durante la sua infanzia in terra brasiliana.

 

220px-Italia_vs_Jugoslavia_-_Torino_-_19
 
Anastasi (a sinistra) batte il portiere Marić con un'apprezzabile parabola di sinistro, nell'amichevole tra Italia e Jugoslavia del 20 settembre 1972.

 

Viene erroneamente ricordato come una prima punta, quando in realtà era per sua stessa ammissione «un uomo d'area che sapeva anche manovrare», a suo agio pure spalle alla porta. Definitosi, decenni dopo il ritiro, una sorta di falso nueve ante litteram, il siciliano era a ben vedere un attaccante che soleva spaziare per il campo — cosa che gli accadeva ancora più in nazionale, dove spesso si ritrovava a stazionare fisso all'ala, che non nelle squadre di club —, uscendo spesso dall'area di rigore a prendere la sfera e, giostrando quasi da trequartista poi, «inventa[re] palle gol» effettuando cross dal fondo o servendo assist: «giocavo come numero nove, però poi il numero nove lo facevo poche volte. Giocavo soprattutto sulle fasce laterali, a cercarmi gli spazi e mettere delle palle in mezzo».

Carriera

Club

Gli inizi, Massiminiana e Varese

Dopo gli inizi nella formazione dell'oratorio San Filippo Neri di Catania — dove, anche per via della pelle olivastra, «per tutti ero Pietro 'u turcu perché d'estate diventavo nero come la pece» —, e poi nella Trinacria, approdò ancora in giovane età alla Massiminiana, in Serie D, dove si mise in luce nel suo secondo campionato, quello del 1965-1966, segnando 18 reti in 31 partite che aiutarono il club di famiglia dei Massimino, nato appena sette anni prima, a vincere il proprio girone e ottenere così una storica promozione in Serie C, massima categoria raggiunta dai giallorossi.

 

220px-Associazione_Calcio_Massiminiana_%
 
Un promettente Anastasi (accosciato, primo da destra) nella Massiminiana che conquistò la promozione in Serie C al termine del campionato 1965-1966.

 

Proprio nel corso di quel torneo riuscì a destare, per una serie di fortuite circostanze, le attenzioni del direttore sportivo del Varese, Alfredo Casati: questi, come ricorderà lo stesso Anastasi, «era al Cibali per assistere a Catania-Varese. Sarebbe dovuto ripartire con la squadra» poche ore dopo ma, una volta giunto all'aeroporto di Fontanarossa, «lasciò il posto in aereo a una donna incinta». Tornato in albergo, nell'attesa del nuovo volo il barista gli suggerì di riempire la giornata seguente andando a vedere «sempre al Cibali, Massiminiana-Paternò», parlandogli di «un ragazzino che è un vero portento»; pur se l'incontro si concluse a reti bianche, Casati «mi vide e prese nota [...] A fine partita, venne giù negli spogliatoi e l'affare si concluse in poche ore».

L'attaccante lasciò così la Sicilia per approdare dall'altra parte del Paese, in Lombardia, tra le file dei biancorossi all'epoca militanti in Serie B, dove nel successivo biennio giocherà al fianco di nomi quali il capitano Armando Picchi, gente di esperienza come Sogliano, Da Pozzo e Maroso, e coetanei come Cresci. Sotto la guida dell'allenatore Pietro Magni, nella prima stagione in maglia varesina conquistò la promozione nella massima categoria segnando 6 gol in 37 apparizioni. Debuttò poi in Serie A il 24 settembre 1967, non ancora ventenne, contro la Fiorentina, trovando nell'occasione anche la sua prima rete stagionale; da ricordare è inoltre la tripletta siglata nel 5-0 del Varese sulla sua futura squadra, la Juventus, il 4 febbraio 1968, il punto più alto di un campionato rimasto negli annali del calcio biancorosso: «quella vittoria fu memorabile, ma ci rendemmo conto dell'impresa compiuta solo negli spogliatoi, al termine della partita. [...] Tutta l'annata fu irripetibile: imbattuti in casa, settimi alla fine. Tutto un sogno».

 

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Anastasi al Varese nel 1967-1968, stagione della sua affermazione ad alti livelli.

 

Complessivamente nella sua prima stagione in Serie A — dove, nell'album Calciatori Panini, il nome del giocatore sulla figurina era erroneamente «Piero» anziché Pietro — Anastasi realizzò 11 reti in 29 partite, contribuendo alla positiva settima piazza in graduatoria del Varese — il migliore piazzamento dei lombardi nella storia della massima categoria — ora allenato da Bruno Arcari, un tecnico che il giocatore ricorda per avergli «insegnato tanto, soprattutto a come muovermi in attacco»; a corollario, a livello personale si piazzò pure settimo nella classifica marcatori, emergendo quale maggiore rivelazione del campionato.

Juventus

Anni di ricostruzione (1968-1970)

«Erano piene di nebbia, a quel tempo, le mattine d'inverno a Torino, ed era dura rimettersi a battere la lastra nel reparto presse della Fiat. Ma c'erano giorni diversi, c'erano i magici lunedì in cui l'operaio "terùn", naturalmente juventino, poteva dimenticare ogni gelo nella strada e nel cuore, ogni amarezza, ogni sporca fatica della vita grama. Perché la domenica la Goeba aveva vinto. E al centro dell'attacco di quella squadra c'era lui, Pietro Anastasi da Catania, Pietruzzu, Pietro 'u turco.»

(Maurizio Crosetti, 2020)

 

Le prestazioni offerte a Varese fecero convergere su Anastasi le attenzioni delle grandi squadre italiane. La spuntò la Juventus che nel maggio 1968 lo acquistò per la cifra-record di circa 650 milioni di lire: una somma considerevole per l'epoca, che ne fece addirittura il calciatore più pagato al mondo di quel decennio.

Inizialmente il giovane sembrava destinato all'Inter, anche per via dell'amicizia tra Casati e il dirigente nerazzurro Italo Allodi; tuttavia, a trasferimento praticamente concluso, intervenne Gianni Agnelli — «mi voleva da mesi, da quando mi aveva visto segnare una tripletta proprio contro la Juve» — il quale, anche approfittando del momentaneo vuoto ai vertici della società meneghina causa l'avvicendamento tra Angelo Moratti e Ivanoe Fraizzoli, con una trattativa-lampo andò ad accordarsi direttamente con il presidente varesino Giovanni Borghi mettendo sul piatto, in aggiunta ai soldi del cartellino, pure una «fornitura di compressori di frigoriferi per la Ignis, l'azienda di Borghi», da parte della FIAT. Un acquisto che, oltre al lato sportivo, riservò dei non trascurabili risvolti politico-sindacali: in un mondo lavorativo preda delle agitazioni sessantottine, l'arrivo a Torino del catanese Anastasi contribuì a calmierare la situazione all'interno degli stabilimenti di Mirafiori, dove una manodopera in gran parte d'origine meridionale elesse subito a proprio beniamino quel giovane e più fortunato conterraneo.

 

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Da destra: gli juventini Anastasi, Haller, Leonardi e Salvadore escono dal campo al termine della vittoriosa trasferta di campionato del 28 dicembre 1969 contro la Roma.

 

Questo, nonostante il giocatore avesse già avuto modo di vestire ufficiosamente i colori nerazzurri, aggregato al club meneghino per un'amichevole di fine stagione a San Siro contro la Roma: «tornato negli spogliatoi per l'intervallo, un fotografo che conoscevo [...] che era venuto per fare le prime foto con la nuova maglia [...] mi disse: "Pietro, guarda che sei un giocatore della Juventus"». L'attaccante rimase nell'occasione «frastornato. Un po' mi dispiaceva non andare all'Inter, perché voleva dire allontanarsi da Varese» dove viveva la fidanzata e futura moglie Anna, «ma ero al settimo cielo perché vestivo la maglia della squadra di cui sono sempre stato tifoso [...]. Si avverava un sogno».

Debuttò in bianconero il 29 settembre di quell'anno, realizzando subito una doppietta con la nuova casacca nel 3-3 di Bergamo contro l'Atalanta. Nelle prime due stagioni a Torino fu allenato dapprima da un sergente di ferro quale Heriberto Herrera, poi da Luis Carniglia, con cui non ebbe un buon rapporto — «aveva il vizio di parlare male di noi giocatori alle nostre spalle. Non ho un buon ricordo di lui. Ma nemmeno la società, visto che lo licenziò quasi subito» — e infine da Ercole Rabitti, militando in una formazione che pur annoverando elementi quali del Sol, Haller e Salvadore, cui si aggregheranno nel 1969 anche Cuccureddu, Furino e Morini, trovandosi alla fine di un ciclo non riuscì a impegnarsi in traguardi di rilievo, cedendo il passo alle milanesi nonché al rampante Cagliari di Riva. Questo nonostante un Anastasi il quale, pur essendo il più giovane dello spogliatoio, dimostrò di non patire l'impatto con una big chiudendo i primi due campionati in Piemonte entrambi in doppia cifra; tra queste reti, quella che il 17 novembre 1968 decise allo scadere il suo primo derby torinese giocato.

Ricambio generazionale e primi successi (1970-1974)
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Al termine del successo casalingo contro il Napoli del 7 marzo 1971, Anastasi (a destra) discute con Bettega, con cui formò uno dei più affiatati tandem d'attacco della storia bianconera.

 

«Il ragazzo del Sud entusiasmò per il suo modo di giocare a tutto istinto, stop approssimativi, scatti, gol incredibili e per quel suo modo d'essere profondamente juventino. Anastasi faceva coppia con il torinese Bettega, il suo esatto opposto, distillato d'eleganza, straordinario nel gioco di testa, rifornito con generosità di cross dal ragazzo di Sicilia. I due fecero la fortuna dei bianconeri, contestualmente alla loro.»

(Tuttosport, 2009)

 

La svolta arrivò nell'estate 1970, quando la società bianconera si rinnovò profondamente. All'arrivo di Allodi e Giampiero Boniperti a livello dirigenziale, seguì l'inserimento in squadra di una nutrita pattuglia di giovani quali Capello, Causio e Spinosi. In una squadra ora affidata a una vecchia conoscenza di Anastasi, quel Picchi nel frattempo divenuto allenatore, l'attaccante andò a far coppia in avanti con un altro volto nuovo, un prodotto delle giovanili all'esordio in prima squadra, Roberto Bettega: agli antipodi sia geograficamente sia tatticamente — catanese e centravanti a tutto campo il primo, torinese e punta d'area di rigore il secondo —, ciò nonostante l'intesa tra i due scattò immediata tant'è che Pietruzzu e Bobby Gol, imbeccati dalle giocate di Causio e Haller, nei sei anni trascorsi assieme a Torino comporranno una delle meglio assortite coppie d'attacco che la storia juventina ricordi.

La stagione 1970-1971, la prima del nuovo corso bonipertiano, seppur chiusasi senza titoli in bacheca — nonché segnata dal lutto per la precoce scomparsa, sul finire di maggio, del trentaseienne Picchi —, vide Anastasi laurearsi capocannoniere della Coppa delle Fiere — unico italiano nell'arco della manifestazione — con 10 reti in 9 match compresa l'ultima nella storia della coppa, all'Elland Road di Leeds, che valse il definitivo 1-1 nella finale di ritorno di quell'edizione tra un'imbattuta Juventus e il Leeds Utd, con gl'inglesi a sollevare il trofeo per la regola dei gol in trasferta. L'annata si chiuse per la punta con 2 reti nel commemorativo Trofeo Picchi, che ne fecero il migliore marcatore del quadrangolare, chiuso dai bianconeri al terzo posto, in coabitazione con Boninsegna, Brugnera e La Rosa.

 

Anastasi e il Meridione

A Torino, il catanese Anastasi assurse presto tra gli idoli di una curva juventina al tempo gremita da «tanti lavoratori che venivano dal Sud e che si facevano il mazzo in fabbrica», in quanto percepito come «uno di loro», un ragazzo di Sicilia andato a cercar fortuna nel lontano Piemonte: «l'identificazione tra il popolo bianconero di origine meridionale e noi che eravamo degli emigrati, privilegiati, ma comunque emigrati al Nord, fu molto forte in quegli anni [...] ricordo che mi fermavano fuori dello stadio e mi dicevano di farmi valere anche per loro. Mi rendeva orgoglioso».

Negli anni conclusivi del boom economico e del consolidamento dell'emigrazione interna in essere a Torino dal secondo dopoguerra, il centravanti divenne un'icona per un'intera generazione di meridionali trapiantati nella città sabauda, che vedevano in lui «quello che aveva avuto la buona sorte di giocare a pallone [...] Io fui uno dei primi giocatori meridionali ad avere successo nel grande calcio [e] sentivo di essere diventato un modello, anche un motivo di speranza per tanti ragazzi che come me inseguivano i loro sogni partendo per il Nord».

Assieme a conterranei del Mezzogiorno quali Cuccureddu e Furino, cui si aggiunsero più avanti Causio, Gentile e Brio, Anastasi fu il maggiore esponente della cosiddetta «squadra meridionale» pluricampione d'Italia negli anni 1970; un decennio in cui la Juventus, per una predisposizione a puntare su calciatori di quella zona del Paese — ricevendo di riflesso un vasto sostegno dalla locale popolazione, in controtendenza rispetto agli altri club del Settentrione —, si guadagnò l'appellativo di Sudista: «avvertivamo forte il calore della nostra gente al Comunale di Torino che era lo stesso, per intensità, che ritrovavamo anche negli stadi da Roma in giù. E quel calore era una grande spinta in campo».

 

Pelé Bianco, come Anastasi era stato soprannominato dai tifosi bianconeri, dovrà attendere il 1971-1972 per festeggiare il suo primo scudetto, «quello a cui sono più legato. Anche perché dopo la malattia che colpì Bettega e che lo tenne fuori per metà stagione, io mi sentìi molto più responsabilizzato», vinto in volata contro il Milan del paròn Rocco e il Torino di Giagnoni, cui l'attaccante contribuì con 11 gol in 30 partite: «quel campionato rappresentò il primo traguardo della mia carriera e dell'esperienza juventina. Arrivai al Nord che ero davvero un ragazzino e presto diventai uomo».

I piemontesi di Čestmír Vycpálek bissarono il tricolore nell'annata seguente, in un campionato rimasto tra i più appassionanti nella storia del girone unico, avendo la meglio solo nei minuti finali dell'ultima giornata delle due rivali, i succitati rossoneri e la neopromossa Lazio di Maestrelli e Chinaglia. Anastasi patì tuttavia sul piano personale la concorrenza del neoacquisto José Altafini, con cui si ritrovò spesso a darsi il cambio nonostante la non più giovane età dell'italo-brasiliano, tanto che, pur se rimarrà questa la stagione del suo massimo impiego con 47 presente totali, il catanese mise a referto 6 reti in Serie A e 7 nelle coppe, al di sotto dei suoi fin lì standard juventini. Con i bianconeri raggiunse inoltre nel 1973 due finali, quella di Coppa Italia e, per la prima nella storia del club, quella di Coppa dei Campioni, entrambe perse contro, rispettivamente, il Milan e l'Ajax di Kovács e Cruijff: nonostante la sconfitta di Roma con i rossoneri, nella partita che chiuse l'annata, arrivò ai rigori, ben più amaro fu l'esito della sfida di Belgrado contro i Lancieri, un rovescio dettato anche dall'essere «un po' intimiditi da questa grande squadra» già più volte detentrice del trofeo ma che non si presentava nell'occasione al meglio, ammetterà con qualche rimorso Anastasi anni più tardi, «loro erano abituati, noi purtroppo no».

 

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Anastasi (a sinistra) alle prese con l'inglese Todd del Derby County l'11 aprile 1973, nella semifinale di andata della Coppa dei Campioni.

 

Il centravanti tornò su alti livelli realizzativi dodici mesi più tardi, marcando 16 gol in campionato — mettendo a referto il 12 maggio 1974 la sua prima tripletta in casa bianconera, nella vittoria casalinga 3-1 sulla Fiorentina, ripetendosi la giornata successiva sul campo del Lanerossi Vicenza — e 23 totali che fecero dell'annata 1973-1974 la più prolifica della sua carriera, nonostante si concluse senza successi di squadra; non riuscì ad andare in gol nella Coppa Intercontinentale, cui i torinesi presero parte dopo la defezione dell'Ajax, sconfitti a Roma dagli argentini dell'Independiente.

Da capitano all'addio (1974-1976)

«Improvvisamente l'umiltà scomparve, lo sguardo di Pietruzzo si rabbuiò. Visse momenti tristi, molti lo capirono, altri lo consigliarono male. E venne il giorno del dissenso. Si sfogò [...], vide congiure di palazzo attorno alla sua figura di capitano senza macchia e senza paura. E, frattanto, non riusciva ad offrire alla squadra il rendimento delle stagioni passate. [...] Ci fu la separazione, irrimediabile e logica...»

(Angelo Caroli, 1977)

 

Stante il sopravvenuto ritiro di Salvadore al termine della precedente stagione, nell'estate 1974 Anastasi, ventiseienne, venne nominato capitano della Juventus dal presidente Boniperti e dal nuovo allenatore Carlo Parola, vincendo la concorrenza interna di Furino.

Nel campionato 1974-1975 arrivò per il neocapitano bianconero il terzo scudetto, con la squadra che ebbe la meglio del Napoli totale di Vinício e della Roma di Liedholm, e un buon cammino europeo con il raggiungimento della semifinale di Coppa UEFA, da cui i torinesi vennero estromessi per mano degli olandesi del Twente. Sul piano personale l'attaccante primeggiò, in virtù di 9 gol in 10 incontri, nella classifica marcatori della Coppa Italia, ma soprattutto fu autore di uno storico record in campionato, durante Juventus-Lazio (4-0) del 27 aprile 1975 quando, alzatosi dalla panchina a venti minuti dal fischio finale, dall'83' all'88' mise a segno tre reti nello spazio di cinque minuti: nessun giocatore subentrante aveva mai siglato prima una tripletta in Serie A, un exploit che sarà eguagliato nei decenni seguenti dai soli Kevin-Prince Boateng, Josip Iličić e Andreas Cornelius.

 

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Da destra: Anastasi, ormai divenuto capitano della Juventus, in azione contro l'Ajax il 27 novembre 1974 per l'andata degli ottavi di Coppa UEFA; dietro di lui il compagno di squadra Viola, l'olandese Mühren e l'altro bianconero Damiani.

 

Ma fu anche la stagione in cui nacquero i primi screzi con Parola, con cui mal convisse poiché convinto di essere preso di mira da parte di questi, per via delle sempre più frequenti esclusioni dall'undici titolare: «il primo scontro [...] ci fu nel dicembre 1974 in occasione della partita di Coppa UEFA in Olanda contro l'Ajax. Sono infortunato, lo certifica anche il nostro medico La Neve. Il tecnico mi dà del vigliacco, pensa che mi voglia risparmiare. Ma non è così. Morale della favola: sto fuori in campionato per tutto dicembre». Sul finire del torneo, nelle ore precedenti il succitato Juventus-Lazio, causa una nuova panchina il capitano bianconero fu una prima volta sul punto di lasciare definitivamente la sua squadra, abbandonando tale proposito solo dopo una telefonata di chiarimento con la moglie nel ritiro di Villar Perosa.

Una problematica situazione che si trascinò per tutta l'estate seguente, quando in sede di mercato Juventus e Bologna furono a un passo dal concretizzare uno scambio tra Anastasi e Giuseppe Savoldi, e che deflagrò nel torneo 1975-1976, perso dai bianconeri in un cocente rush finale contro i concittadini granata di Radice e del tandem Graziani-Pulici; un epilogo cui Anastasi, già reduce da un girone di andata non all'altezza, assistette impotente dall'esterno, ormai confinato fuori rosa per volontà di Parola: «tutto inizia nell'intervallo di Lazio-Juventus del 7 marzo 1976. Era una giornata no per me [...] Chiesi di essere sostituito, pensavo che avrebbe fatto bene alla squadra. [...] Quel gesto fu mal interpretato da Parola, che mi mise in panchina per la successiva gara contro il Milan, dandomi gli ultimi venti minuti». La settimana seguente si consumò la rottura definitiva quando, in vista della trasferta di Cesena, al giocatore venne ancora negata una maglia da titolare: «a quel punto chiedo spiegazioni, ero il capitano. [L'allenatore] mi risponde male. Ed io lo mando a quel paese. La partita con il Cesena la vedo dalla tribuna». Qualche giorno dopo, alla vigilia della stracittadina torinese, l'attaccante fece trapelare attraverso i giornali il suo malcontento «e dico chiaro e tondo che con Parola non voglio più avere niente a che fare. Finisco fuori rosa».

 

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Anastasi (a sinistra) e Capello, i due big che svestirono polemicamente la maglia juventina dopo il convulso epilogo della stagione 1975-1976.

 

Alla fine di un torneo in cui mise assieme 1 gol in 16 presenze, e di cui Anastasi ricordò che «esco di squadra con la Juve avanti di cinque punti sul Torino. Alla trentesima giornata i granata vincono lo scudetto. Se abbiamo perso un campionato già vinto, la responsabilità non è certo mia che sono rimasto fuori nelle ultime nove partite», Boniperti provò comunque a ricomporre la frattura tra il giocatore e l'ambiente, tuttavia divenuta ormai insanabile, con «i compagni stessi di squadra [che] lo rifiutarono, come per una brutale crisi di rigetto»: pur tra molti dispiaceri «ormai era troppo tardi. Non c'erano più le condizioni. Meglio chiudere» nonostante «con la società sono sempre rimasto in ottimi rapporti. Alla Juventus è dove mi sono trovato meglio e rimarrò sempre un tifoso juventino».

Anastasi concluse la sua lunga esperienza alla Vecchia Signora dopo otto stagioni, 205 partite e 78 reti in Serie A, e complessivamente 303 presenze e 130 gol tra campionati e coppe; della squadra juventina detiene i record di reti (12) e marcature multiple (2) in Coppa delle Fiere, e tuttora il primato di gol in Coppa Italia (30). Rimasto a distanza di decenni tra i calciatori più popolari tra la tifoseria juventina, e riconosciuto dal club piemontese come uno dei più importanti della sua storia, dal 2011 è tra i cinquanta bianconeri omaggiati nella Walk of Fame allo Juventus Stadium.

Inter

«Il furbo Boniperti non si era sbagliato: Anastasi ha ormai finito la benzina. [...] Mazzola si danna l'anima pur di restituire fiducia al compagno che aveva atteso per otto lunghe stagioni: inutile, tutto inutile. Lentamente ma inesorabilmente, Pietruzzu si intristisce.»

(Leo Turrini, 2007)

 

Dopo essere finito ai margini della squadra torinese per questioni disciplinari, e additato da una parte degli osservatori, assieme a Capello (anche lui al passo d'addio in bianconero), tra i capri espiatori del fallimentare finale di stagione 1975-1976 in casa juventina, nell'estate seguente Anastasi venne messo sul mercato; Giampiero Boniperti si diede da fare per cercare una nuova sistemazione al giocatore, il quale da par suo si limitò a chiedere «di essere ceduto a una squadra che non doveva lottare per rimanere in A».

 

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Anastasi (a destra) e Boninsegna, protagonisti nell'estate 1976 di uno dei più famosi scambi di mercato nella storia del calcio italiano.

 

Fu a questo punto che nella carriera dell'attaccante rifece capolino l'Inter di Ivanoe Fraizzoli — per il quale Anastasi rappresentava un vecchio pallino fin dal blitz di otto anni addietro da parte dell'Avvocato Agnelli —, a sua volta alle prese con un esubero in avanti, quello di Roberto Boninsegna ormai considerato avulso dal gioco nerazzurro: i due presidenti raggiunsero quindi l'accordo per uno scambio tra le loro punte, con un conguaglio di circa 800 milioni a favore della Juventus data la più giovane età del siciliano. L'operazione di mercato destò non poco scalpore tra addetti ai lavori e tifosi, sia perché interessante due bandiere di nerazzurri e bianconeri, sia per la storica rivalità in essere tra i due club, rimanendo da allora negli annali del calcio italiano.

A proposito di quella trattativa, quarant'anni più tardi, da una parte Boninsegna parlerà della «sensazione che Mazzola c'entrasse qualcosa con quella cessione, perché guarda caso uno a uno erano andati via tutti i grandi tranne lui», mentre dall'altra Anastasi ricorderà di come sia stata «durissima. Venivo da otto anni di Juventus, andavo in una rivale come l'Inter. Non l'avrei mai voluto. [...] se si dice Anastasi si pensa alla Juventus. E se si dice Boninsegna si pensa all'Inter». Ciò nonostante, almeno inizialmente sembrava essere proprio il catanese ad averci guadagnato nel trasferimento, e di riflesso il club nerazzurro avendo messo sotto contratto un ancora ventottenne Pietruzzu al posto di un trentaduenne Bonimba considerato dai più ormai sul viale del tramonto. Tra le poche voci contrarie ci fu quella di Gianni Brera, il quale sentenziò: «Anastasi è finito e se non fosse stato finito la Juventus non l'avrebbe dato via»; una previsione, quella del decano del giornalismo sportivo italiano, che si rivelerà quantomai esatta.

 

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Anastasi all'Inter, tra il compagno di squadra Mazzola (a sinistra) e il milanista Rivera (a destra), prima della finale di Coppa Italia 1976-1977.

 

Come in parte suggerito da Boninsegna, l'approdo dell'ex bianconero a Milano fu avallato da Sandro Mazzola: con questi divenuto centravanti arretrato in coincidenza con l'ultima sua stagione da calciatore, nell'undici nerazzurro Anastasi andò ad agire da ala destra, in coppia con l'altro nuovo arrivato, il giovane Muraro. Ma le premesse estive vennero presto disattese, con l'attaccante che mal si integrò negli schemi di Giuseppe Chiappella, finendo per perdere dall'oggi al domani la verve sottorete e, peggio ancora, non riuscendo mai più, da qui in avanti, a ripetersi sui livelli del passato, andando incontro a un rapido declino; una situazione resa ancora più frustrante per Anastasi dal dover assistere, inversamente, a un Boninsegna «improvvisamente ringiovanito» a Torino, a dispetto di prematuri giudizi ancora «integro e competitivo», e che alla Juventus vincerà da protagonista campionati e coppe vestendo la sua maglia bianconera numero nove.

Il 10 ottobre la punta trovò la sua prima rete meneghina, sbloccando il risultato nel 2-1 interno al Catanzaro, cui tuttavia ne seguirono solamente altre tre in tutto il campionato 1976-1977, inutili per l'Inter ai fini dell'obiettivo-scudetto. La stagione seguente, anche per via della maggiore efficacia del giovane neoacquisto Altobelli, «il deludente rendimento di Pietro Anastasi, sempre più lontano dalle prodezze dei tempi juventini, che in nerazzurro gli riescono solo nelle partitelle infrasettimanali» si limitò a 3 centri in 19 presenze in A, precludendo nuovamente alla Beneamata, nel frattempo passata nelle mani di Eugenio Bersellini, ambizioni tricolori. Anastasi rimase a Milano per un biennio nel quale, a dispetto di campionati «così così» raggiunse comunque due finali consecutive di Coppa Italia, sollevando l'unica della sua carriera al termine dell'edizione 1977-1978 cui contribuì con 4 reti in 9 gare — «c'è gente che è stata molti anni più di me in nerazzurro senza vincere nulla», sottolineerà lo stesso attaccante circa quel successo —; rimarrà l'unico acuto di un'esperienza interista, globalmente, incolore.

Ascoli e Lugano

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Anastasi (a destra) all'Ascoli nella stagione 1978-1979, mentre esce dal campo assieme al napoletano Savoldi.

 

All'età di trent'anni, nell'estate 1978 Anastasi tornò dopo due lustri in provincia passando all'Ascoli, nell'ambito dell'operazione che portò Pasinato in Lombardia e lo stesso Pietruzzu, con Gasparini, Trevisanello e Ambu, nelle Marche. Con i bianconeri del presidentissimo Costantino Rozzi militò in Serie A per altre tre stagioni, segnando 9 gol, e perdendo il posto da titolare solamente nell'ultima complice anche un serio infortunio che lo tenne lontano dai campi per cinque mesi.

L'annata migliore si rivelò la seconda, 1979-1980, quando con 25 presenze e 5 centri contribuì al sorprendente quarto posto in campionato — il migliore piazzamento della loro storia — degli ascolani di Giovan Battista Fabbri, il quale schierò il catanese come seconda punta, alternandolo a Pircher, a supporto del giovane Iorio. Fu questo il torneo in cui Anastasi festeggiò il traguardo della centesima rete in massima serie, realizzata il 30 dicembre 1979 a Torino proprio alla sua Juventus, aprendo le marcature nel successo marchigiano per 3-2 — «dopo otto minuti batto Zoff con un colpo di testa e tutto il Comunale mi applaude. Come se non fossi mai andato via» —; oltreché quello in cui siglò l'ultimo gol nel campionato italiano, arrivato l'11 maggio 1980 e anche stavolta contro una sua ex squadra, nel 4-2 inflitto a domicilio all'Inter neoscudettata.

 

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Anastasi esulta in maglia ascolana per il suo gol numero 100 in Serie A, siglato il 30 dicembre 1979 a Torino alla sua ex Juventus.

 

La sua militanza ad Ascoli Piceno coincise con quello che fu, a posteriori, il maggiore periodo di gloria della provinciale bianconera, grazie anche a due prestigiosi trionfi arrivati nei primi anni 1980: la vittoria nel Torneo di Capodanno del 1981, durante la sosta di calendario dettata dalla partecipazione azzurra al Mundialito, in cui i marchigiani primeggiarono superando in finale ancora l'ex squadra di Anastasi, la Juventus, era stata preceduta dal successo nella Red Leaf Cup, organizzata in terra canadese nel 1980 e vinta contro quotati rivali quali Botafogo, Nancy e Rangers; si trattò, in questo ultimo caso, del primo, storico trionfo internazionale per la formazione del Picchio.

Disputò infine un'annata in Svizzera, dove dopo un periodo di prova si aggregò da svincolato, nell'ottobre 1981, al Lugano. Qui, ormai trentaquattrenne, nel 1981-1982 tornò in doppia cifra con 10 reti in 14 partite della Lega Nazionale B, l'allora seconda serie elvetica, prima di appendere ufficialmente gli scarpini al chiodo. Nell'immediato tentò comunque una breve avventura nel soccer statunitense partecipando, senza tuttavia troppa convinzione, a un torneo indoor che rappresentò l'ultima sua esperienza da calciatore, prima del definitivo addio all'agonismo.

Nazionale

Tra il 1967 e il 1968 Anastasi ebbe le prime esperienze in azzurro, vestendo le maglie di rappresentative nazionali quali l'Under-21 — con cui vinse la medaglia d'oro ai Giochi del Mediterraneo di Tunisi 1967 — e l'Italia B, e mettendo a referto, rispettivamente, 6 presenze e 2 reti con gli azzurrini, e 4 partite e 2 gol con i cadetti.

 

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Anastasi (a destra) e Riva in nazionale, al termine della vittoriosa ripetizione della finale del campionato d'Europa 1968, decisa dai due con un gol a testa.

 

Del 1968 fu l'approdo in nazionale A, dove, per via della giovane età, inizialmente «venivo considerato la mascotte del gruppo». Ciò nonostante, l'esordio arrivò già l'8 giugno dello stesso anno, allo stadio Olimpico di Roma, quando scese in campo da titolare, a vent'anni da poco compiuti, nella finale del campionato d'Europa 1968 contro la Jugoslavia finita in parità — «eravamo nello spogliatoio, mi chiama Valcareggi e mi fa: "Picciotto, tocca a te!" E non aggiunge altro» —; confermato in squadra nella ripetizione giocata due giorni dopo, stavolta segnò con una mezza rovesciata dal limite dell'area — «De Sisti mi passò il pallone che compì uno strano rimbalzo: tirai senza sapere dove l'avrei indirizzato e ne venne fuori un gran gol» — il definitivo 2-0 che valse agli azzurri il primo titolo continentale: «ci nominarono Cavalieri della Repubblica. Per me, che [...] non ero ancora maggiorenne (all'epoca la maggiore età era ai ventuno anni), fecero un'eccezione». Nel 2014 l'UEFA, in occasione del proprio sessantenario, inserirà quella rete tra le 60 più belle nella storia del calcio europeo.

Stabilmente nel giro azzurro a cavallo degli anni 1960 e 1970, fu inizialmente incluso nella rosa italiana per la spedizione al campionato del mondo 1970 in Messico ma, durante la preparazione al torneo, a causa di un colpo al basso ventre datogli per scherzo da un massaggiatore, fu costretto a operarsi ai testicoli e a saltare la competizione iridata; al suo posto furono chiamati due attaccanti, Boninsegna e Prati, con conseguente esclusione dalla rosa del centrocampista Lodetti. Dopo aver mancato con la nazionale la qualificazione al campionato d'Europa 1972, ha poi fatto parte dei convocati per il campionato del mondo 1974 in Germania Ovest, scendendo in campo da titolare nelle tre partite disputate dall'Italia prima dell'eliminazione al primo turno, e siglando il definitivo 3-1 ad Haiti nella sfida d'esordio del 15 giugno.

Il deludente mondiale tedesco segnò de facto la fine per una generazione azzurra scossa da nervosismi interni ormai irreparabili oltreché arrivata, causa ragioni anagrafiche, al naturale epilogo di un ciclo: il rinnovamento seguente la débâcle coinvolse anche Anastasi il quale farà un'ultima apparizione in nazionale nel novembre di quell'anno, nella sconfitta 1-3 di Rotterdam contro i Paesi Bassi, in un match valevole per le qualificazioni al campionato d'Europa 1976. Chiuse così la sua esperienza in azzurro, con 25 partite giocate e 8 reti segnate.

Dopo il ritiro

Una volta ritiratosi dal calcio giocato, Anastasi conseguì a Coverciano il patentino di allenatore di Terza e Seconda Categoria, «poi mi sono fermato perché non mi interessava salire più in alto», motivando ciò con la volontà di non allontanarsi da Varese e dalla famiglia. Nel corso degli anni 1980 lavorò quindi alcune stagioni per le giovanili della locale formazione varesina, prima di passare a gestire una scuola calcio presso l'oratorio di Pagliera, a Lainate.

In seguito è divenuto opinionista, dapprima per la pay TV Telepiù e poi, come ex calciatore di fede juventina, in ambito locale per il canale Telelombardia e la syndication 7 Gold.

 

Palmarès

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Da destra: Anastasi, Haller, Morini, Marchetti e il medico sociale La Neve festeggiano il 20 maggio 1973, negli spogliatoi dell'Olimpico di Roma, il quindicesimo scudetto della Juventus.

Club

Competizioni nazionali

Competizioni internazionali

Nazionale

Individuale

Onorificenze

Medaglia d'argento al valore atletico - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'argento al valore atletico
  «Campione europeo» — Roma, 1968.

 

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1812998900_juventus1931.jpg.4d6974dfacfbfb5d44987920afc5aef1.jpg PIETRO ANASTASI

 

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Dissero subito: «Come calciatore è un paradosso». Avevano ragione: la lacuna più evidente finiva per essere la sua arma segreta; risolveva i problemi creati dal palleggio incerto con uno scatto e una velocità impressionante. Lo stop appariva sempre o quasi, approssimativo, ma lui riusciva a raggiungere la palla prima degli avversari. È stato un centravanti importante sia per la Juventus, che per la Nazionale e, a lungo, ha rappresentato un modello per i giovani del più profondo Sud alla ricerca di quell’affermazione sportiva che, ogni tanto, diventa vero riscatto sociale.
Nasce a Catania il 7 aprile 1948, la famiglia non è ricca: «Sette persone in due stanze», ha raccontato un giorno. Come per altri ragazzi, il suo primo problema fu la scuola, poiché non gli piaceva. Un giorno in classe e un altro in piazza con una palla fra i piedi spesso nudi per non rovinare le scarpe.
Poi il calcio diventò la sua ragione di vita. La carriera fu rapida e, naturalmente, il successo arrivò presto. Due anni nella Massiminiana (girone F della Serie D) e trasferimento al Varese nel 1966.
Due stagioni in Lombardia e poi la Juventus che vinse la serrata concorrenza dell’Inter: fu pagato un prezzo record, 660 milioni.
È il 1968, un anno magico per il calcio italiano. In Italia si disputa il Campionato d’Europa e, per la Nazionale è l’occasione per tornare fra le grandi potenze del calcio.
La sera di sabato 8 giugno, allo Stadio Olimpico, l’Italia è in finale contro la Jugoslavia. Anastasi esordisce in azzurro, ma non si distingue in una squadra che non soddisfa.
Il pareggio 1-1 è un premio immeritato per i nostri colori ma due giorni più tardi, nella finale bis, c’è una prova d’orgoglio degli italiani. È il trionfo: goal di Riva e, bellissima, in mezza rovesciata, la replica di Pietruzzo.
Molto intuito, nel gioco di questo calciatore, molto genio e, purtroppo, anche molta sregolatezza: sarà il suo limite: «Le mie qualità migliori erano lo scatto, la velocità e l’altruismo. E seppur scendessi in campo, anche in Nazionale, con la maglia numero nove, spesso mi posizionavo sulla sinistra, per effettuare dei cross a favore del compagno di reparto. Insomma, ero un uomo d’area che sapeva anche manovrare».
Due anni più tardi, è atteso con curiosità al Mundial messicano. È in gran forma, ma uno stupido incidente lo costringe al forfait poche ore prima della partenza. Lo sostituisce Roberto Boninsegna che, più tardi, prenderà il suo posto anche nella Juventus.
Partecipa anche al Mondiale del 1974 ma, a quel punto, la carriera di Pietro è già verso l’epilogo. In Nazionale giocherà 25 gare e in totale realizzerà 8 volte.
Quando, per la prima volta, arriva in Galleria San Federico, sede juventina, è senza cravatta, e il presidente di allora, Vittore Catella, lo avverte: «Quando si presenta in sede sarà bene, d’ora in avanti, che si vesta con regolare camicia e cravatta».
Ma il contratto è buono e la cifra concordata anche. L’allenatore è Heriberto Herrera, il Ginnasiarca, uno che non cerca e non concede simpatia.
Ad Anastasi, che in allenamento non riesce a interpretare uno dei tanti schemi, una volta urla, davanti a compagni, giornalisti e tifosi: «Tonto, stia a guardare, perché lei non capisce niente!».
È un rapporto, questo con la Juventus, che non sarà mai sereno.
Quando torna a segnare con una certa continuità, allo stadio compare uno striscione: “Anastasi, il Pelé bianco”.
Le cifre: 302 partite e 129 goal, il 1971-72 è l’anno del suo primo scudetto, subito bissato l’anno seguente. Il terzo tricolore lo conquista nel 1974-75, sempre in bianconero, naturalmente.
Lascia la Juventus per l’Inter, nel 1976-77, poi l’Ascoli e l’addio ai campi di calcio con un bilancio brillante.
Anni dopo disse: «Andai via, perché ebbi un litigio con Parola, dopo una trasferta in Olanda, ma con la società sono sempre rimasto in ottimi rapporti. Alla Juventus è dove mi sono trovato meglio e rimarrò sempre un tifoso juventino».

VLADIMIRO CAMINITI
Anastasi fu ingaggiato da Catella, previo interessamento dell’avvocato Gianni al patron dei frigoriferi Giovannone Borghi, un uomo doppio, ma soltanto nel fisico, mento doppio, sopraccigli doppi, pancia se vogliamo tripla; però, una persona lastricata di buone intenzioni, Borghi aveva quasi raggiunto l’accordo con l’Inter per l’osannato centrattacco del suo Varese, ma all’ultimo momento fu galeotta una questione di compressori per frigoriferi e Anastasi passò alla Juventus, dopo che aveva già indossato in amichevole la maglia neroazzurra.
I benpensanti si scandalizzarono. In realtà, il trasferimento fu solo rinviato di alcuni anni, i migliori della carriera del picciotto, di pelle quasi scura, due occhi balenanti, una tosta furbizia, due svelte gambe di levriero.
Alla Juventus trova il fustigatore dei costumi Heriberto Herrera, che aveva nell’arcaico grandissimo Gipo Viani uno dei suoi pochi veri estimatori in un paese calcistico schiavo della pigrizia tecnica: «La Juventus sta praticando il gioco più moderno del mondo, è finita l’epoca degli specialisti; io faccio solo il goal, io difendo e basta».
Diceva il Ginnasiarca prima dell’inizio del campionato, deludente per la Juventus, non per Pietruzzu, il cui bottino fu di 14 goal, rivelando tutta la sua astuzia istintiva e di volo un destro sciabolatore che levati.
Furbo, ghiotto di tutto, soprattutto di popolarità, colpisce che non ami parlare nel dialetto di Meli. Si esprime in compìto italiano, insomma, e va a miracol mostrare del suo stile impolverato (i primi calci li ha dati scalzo, sui terreni aridi della periferia di Catania) già in questo primo campionato juventino: 1968-69.
La fama gli dà subito un po’ alla testa. Con i cronisti, anche con me, ha rapporti difficili. Nello spogliatoio qualche compagno, ad esempio Furino, non ci andrà mai d’accordo. Voglio dire che ha spesso atteggiamenti spocchiosi.
Pure, la Juventus ha cambiato il modo di vivere il calcio; è datato Heriberto Herrera il rinnovamento tecnico che prosegue clamoroso proprio alla fine di questo campionato, quando avanza sulla scena monsù Rabitti e la squadra ripiglia confidenza con le vittorie strappa applauso.
L’Avvocato ha già richiamato Boniperti come amministratore delegato; presto lo farà presidente, e sarà il primo presidente anche tecnico nella storia del nostro calcio. Nascerà la Juventus ineguagliata e ineguagliabile del collettivo in campo e fuori campo.
Anastasi ha tutto il tempo, sono sei anni di gioie e di rabbuffi, di goal maiuscoli e di sensazionali strafalcioni, per lasciare un’impronta. Non si era mai visto un centravanti come lui. L’istinto s’incarnava in uno scatto abbagliante come le onde del mare etneo al suo sole infuocato. Arrivando in bianconero, è famoso; in maglia azzurra si è laureato a Roma campione europeo.
Paragonato ai centravanti tradizionali, è un misto di Gabetto e Lorenzi, ha più estro che tecnica, più possesso fisico dell’azione che senso tattico; caccia il goal come uno stallone la femmina.
Quando al povero Picchi subentra Vycpálek mal gliene incoglie, perché Cesto è bonario ma caustico, ama le posizioni chiare, la lealtà. Anastasi ha atteggiamenti da divo in uno spogliatoio, dove legifera il collettivo.
Ma subito per me diventa Pietruzzo, gioca partite stupefacenti e segna molti goal decisivi.
Forse il campionato del primo scudetto bonipertiano (1971-72) è pure il suo più efficace, il suo apporto è trascinante, per supplire, insieme a tutti, all’assenza nevralgica di Bettega ammalatosi.
«Quel campionato rappresentò il primo traguardo della mia carriera e dell’esperienza juventina. Arrivai al Nord che ero davvero un ragazzino e presto diventai uomo, anche in virtù dell’aria che si respirava in società: erano i tempi di Catella, Giordanetti, Allodi e, soprattutto, Boniperti».
Un campionato tormentoso e per Cesto drammatico che si risolve in volata, con un bel 2-0 al Comunale inflitto al Vicenza. E si può ben dire che questa Juventus di Anastasi si riallaccia alla migliore tradizione della società, vince con una sola lunghezza (43 a 42) su Milan e Torino (che un sardo di nome Giagnoni pilota con demagogica sciarpa), ma è come sta scritto nel suo stemma, la vittoria del forte che ha fede.
Anastasi vincerà altri due scudetti, quello numero 15 in cui assopirà un tantino il suo vulcanico talento.
C’è qualcosa che non va nei costumi atletici del catanese? Ha qualche problema privato? Si può rispondere, senza indugio: quel suo gioco tutto istinto, i suoi scatti a ripetizione, lo logorano; senza la forza fisica rapinosa di un Chinaglia, non è meno rapinoso il suo gioco che siede i portieri.
Rivivrà diversamente, com’è diversa Catania da Palermo, il mare etneo dal mare di Mondello, questo scatto in Schillaci.
Alla conquista del suo terzo scudetto, campionato 1974-75, Anastasi arriva in coppia con Damiani, nove goal a testa, uno in meno l’eterno Altafini.
Lapilli e scaglie dorate del suo scatto inimitabile sono oramai cenere; con un colpo di genio Boniperti, nell’estate del 1976, lo scambia con l’anziano Boninsegna. Il Pelé Bianco naufragherà nelle nebbie di Milano.

ALBERTO FASANO, “HURRÀ JUVENTUS” DELL’APRILE 1981
Anastasi, detto Pietruzzo è stato forse il caposcuola, il pioniere dei calciatori che dal Sud sono arrivati al Nord per fare fortuna.
Non tutti sanno che a determinare il destino di Pietro Anastasi fu, probabilmente, una donna incinta presentatasi all’aeroporto di Catania e supplicando che la lasciassero partire, anche se non aveva un posto sull’aereo, perché doveva assolutamente recarsi a Milano.
Quel gentiluomo che era Casati, allora general manager del Varese, le concesse il suo posto, accettando di partire la sera dopo. Lunedì pomeriggio Casati si recò al Cibali per assistere a una partita tra squadre ragazzi; in una di quelle squadrette giocava un certo Pietro Anastasi. Casati lo osservò attentamente e l’affare fu concluso in poche ore. Pietruzzo si comprò una giacca nuova e una valigia fiammante per salire al Nord.
Divenne famoso a suon di goal, iniziando la carriera proprio nelle file del Varese. D’acchito il picciotto vinse la propria battaglia, quella contro il mostro del Nord, cioè il gelo, l’indifferenza, l’incomunicabilità. Vinse senza mai sottrarsi al pericolo di certe battaglie, ma affrontandole a viso aperto anche quando sapeva di rischiare grosso.
Doveva finire all’Inter ma Gianni Agnelli soffiò il giocatore a Fraizzoli e lo vestì in bianconero quando già era stato fotografato in neroazzurro per la gioia illusoria dei tifosi interisti.
Alla Juve fece fortuna e fu idolatrato dalla folla: era il centravanti che nelle iperboli tifose si vide etichettare come Superpietro, Pelé Bianco o cose simili.
La sua figura s’installò in paradossali “ex voto” sportivi e fu ripetuta per centinaia di pose fotografiche in alloggi torinesi, in case siciliane, dietro il letto, sulla porta della cucina, alla sommità di cassettoni e credenze.
Allo Stadio Comunale, in maglia bianconera, cominciò non la vita, ma la leggenda popolare di Pietruzzo. Robusto, seppur piccolo, veloce e sgambettante, carico di fantasie da cortile, un acrobata istintivo: questo il giocatore. Come ragazzo era simpatico, ingenuo, modesto, con qualche improvvisa punta d’orgoglio.
Quando nel 1968 arrivò alla Juventus, aveva solo vent’anni e tanto entusiasmo. Lo gelarono subito, anche se si era in piena estate: il presidente Catella, piemontese di stampo antico, lo strigliò subito per aver osato presentarsi al raduno senza cravatta. Così lui, che era arrivato al primo appuntamento con la Vecchia Signora timido e sorridente, se ne andò con gli occhi rossi. Né quelle lacrime furono le ultime.
A settembre, la lezione tattica di Heriberto Herrera gli gonfiò di nuovo gli occhi di pianto. Per fortuna, quando era sul campo tutto filava a gonfie vele: 28, 14 goal, tre in più che la stagione precedente nel Varese.
Nemmeno la gloria (con tanto di maglia azzurra della Nazionale e un titolo di Campione d’Europa) è stata un passaporto sufficiente per l’amicizia: si sentiva scartato, isolato e così si chiudeva sempre più in se stesso.
La sua ombrosità, logica conseguenza della difficoltà di comunicazione, era scambiata per selvatichezza e qualcuno ci ricamava sopra, sino all’insulto.
La stagione successiva le faccende calcistiche andarono ancora meglio: ventinove partite, quindici goal. A fine campionato la fortuna gli voltò le spalle: alla vigilia della partenza della squadra nazionale per il Messico, dove erano in programma i Campionati del Mondo, Pietro fu colto da violenti dolori. Fu ricoverato in clinica e operato. Addio Nazionale, addio Mondiali.
La sfortuna continuò poi a perseguitarlo, non ritrovò più per la successiva stagione lo smalto dei giorni migliori, segnò soltanto 6 reti, perdendo anche quei pochi amici di passaggio che era riuscito a racimolare.
La straordinaria forza di volontà lo tenne a galla, in attesa di giorni migliori, del successo definitivo. Fu proprio allora che Anastasi iniziò un processo irreversibile, quello che fece di lui un autentico uomo, un personaggio di successo.
L’introverso picciotto, ex raccattapalle del Cibali, egoista in campo, scontroso fuori, aveva finalmente imparato a comunicare, dentro e fuori del calcio, fino a diventare un protagonista: Campione d’Italia, uno dei migliori, un autentico leader.
Pietro ricorda ancora quel periodo: «Sì, me lo dicevano tutti e anch’io dovevo constatare il cambiamento, il miglioramento. Ma una ragione precisa non c’era, al di là del fatto che con gli anni ero un po’ maturato. Quando ero arrivato alla Juventus, diffidavo di tutti, dei giornalisti in particolare. In campo pensavo solo a mettermi in luce, al tornaconto personale. Poi diventò tutto diverso e mi accorsi che contava prima la Juventus e poi Anastasi; per la squadra ero disposto a fare qualsiasi sacrificio».
Sicuramente gli giovò molto il matrimonio, placandone la scontrosità e regolandone gli eccessi gastronomici: «A me piacevano i cibi piccanti, la cucina siciliana; molti miei periodi non positivi furono determinati da una pessima condizione fisica, conseguenza di disturbi intestinali. Un giorno decisi di abolire salumi e salse piccanti; la salute tornò e la condizione tecnica ne trasse giovamento».
Poi la moglie, Anna Bianchi, gli regalò due figli e altri importanti equilibri furono conquistati. Fu quello il periodo migliore della sua carriera, quello in cui riuscì a riconquistare stabilmente il posto in Nazionale, arrivando poi a collezionare ben 25 gettoni di presenza.
Vinse lo scudetto al termine della stagione 1971-72 (giocando tutte e 30 le partite) e fece il bis nel 1972-73, giocando 27 gare su 30; il terzo titolo di Campione d’Italia arrivò al termine della stagione 1974-75, anno in cui Pietro giocò 25 partite.
Il divorzio dalla Juve avvenne nel corso della stagione 1975-76. Ritenendo di essere stato preso di mira dall’allenatore Parola, il picciotto si lasciò andare a roventi e polemiche dichiarazioni nella settimana precedente un delicatissimo derby con il Torino.
La Juventus era stata sconfitta a Cesena e stava preparandosi a disputare l’incontro con il Torino. Anastasi, dopo un allenamento al Combi, improvvisò una conferenza stampa, nel corso della quale vuotò, come si suol dire, il suo sacco, pieno di livore e incomprensioni. Un attacco preciso verso l’allenatore Parola e certi compagni di squadra.
Com’è nel proprio stile, la Juventus tolse di squadra Anastasi il quale, nella stagione successiva, fu ceduto all’Inter in cambio di Boninsegna.
Tutti i tifosi bianconeri ricordano ancora le notizie sensazionali apparse sui giornali di quel 9 luglio 1976. La Juventus annunciava il trasferimento di Anastasi alla società neroazzurra che cedeva ai bianconeri il centrattacco Boninsegna, con l’aggiunta di 750 milioni.
Contemporaneamente Capello era ceduto al Milan e la Juve aveva in cambio Benetti più 100 milioni. Un’operazione sensazionale che portava la Juve sulla strada di altri trionfi.
Anastasi, dopo l’Inter, approdò ad Ascoli. Forse era anche il traguardo cui Pietruzzo anelava, dopo aver perso la gloria della casa bianconera. Ascoli ha rappresentato la tranquilla città di provincia, dove il Pelé Bianco sta oggi per terminare la sua lunga e tormentata carriera.
Abbiamo visto recentemente Anastasi e abbiamo parlato dei tempi felici in cui guizzava come un fulmine verso la rete avversaria e mandava in delirio i suoi fan con i goal più pirotecnici e brasiliani.
Anastasi ricorda tutto e tutti, la sua amicizia con Bettega, l’unico che seppe in certo qual modo sgelarlo dal mondo di diffidenza e incomprensione in cui era vissuto per molti anni.
Della città di Torino, in fondo al cuore, ha una certa nostalgia. Forse si rivede ragazzo, correre disperatamente dietro ad un pallone, su un prato d’erba ispida, sotto il cocente sole di Sicilia.
Forse ricorda il giorno in cui sbarcò a Torino e la leggenda si colorì con i toni di una ballata da cantastorie. Nel formicolio delle mansarde, degli agglomerati umidi delle periferie abitate dalla gente della sua terra, il Pelé Bianco riuscì a portare lume con le sue acrobazie e con il suo nerissimo ciuffo di capelli.
La gloria arrivò presto e lo sistemò su un solido piedistallo. Pietro sa che la gloria aveva un nome: Juventus. Per questa ragione non ha mai dimenticato la società bianconera e i tifosi che dalla Curva Filadelfia urlavano il suo nome: “Pietro, Pietro!”.

NICOLA CALZARETTA, “GS” DEL MAGGIO 2015
La cosa che più colpisce in Pietro Anastasi, nato a Catania il 7 aprile 1948, sono gli occhi. Scuri, scintillanti, vivi. E il sorriso. Solare e malinconico allo stesso tempo.
Ci troviamo a casa sua, a Varese, la città di sua moglie Anna. «Devo tutto a questa donna – dice subito Pietruzzo, così come lo ribattezzò il conterraneo Vladimiro Caminiti – mi ha fatto da equilibratore. Quando tendevo a esaltarmi, mi riportava con i piedi per terra. Quando andavo giù di corda, sapeva scuotermi per risalire».
Sono insieme da una vita, da quando il diciottenne Anastasi si trovò catapultato al Nord dopo gli straordinari esordi con la Massiminiana in Serie D. Stagione 1966-67, la prima a Varese, allora in Serie B.
Il matrimonio nel 1970, due figli, e dal 1993 per lui la meritata pensione tra un po’ di scuola calcio, i commenti tecnici in televisione e gli impegni con le leggende bianconere.
Eh già, perché se siamo qui è per ricordare soprattutto le 8 stagioni con la maglia della Juventus. Dal 1968 al 1976, tre scudetti, oltre 300 presenze e 130 goal.
Numeri che danno l’esatta misura di un attaccante che in campo non si è mai risparmiato e che per i tantissimi tifosi meridionali della Juventus, in quel primo scorcio di anni ‘70, ha rappresentato la possibilità del riscatto.
Numeri di un centravanti che quarant’anni fa stabilì un record tuttora imbattuto: tre goal realizzati da subentrante.
Vogliamo partire proprio da quello Juventus-Lazio del 27 aprile 1975? «Quart’ultima partita del campionato. Siamo primi con tre punti sul Napoli e per me, che sono anche il capitano, si profila un’altra panchina. Già la domenica precedente con il Cagliari non ero partito titolare. Ma stavolta non ci sto. E quando il tecnico Carlo Parola legge la formazione, io gli dico che me ne torno a casa».

Questo quando succede? «La mattina prima della partita, nel ritiro di Villar Perosa».
Poi ha cambiato idea. «Chiamo mia moglie e le dico quel che sta succedendo. Lei mi suggerisce di accettare le decisioni dell’allenatore, ma io non voglio sentire ragioni. Poi durante la passeggiata, ecco l’avvocato Agnelli, al corrente dei fatti. E anche lui mi invita a non fare stupidaggini. Ma sono ancora ferito. Decisiva è la seconda telefonata con Anna. A quel punto mi faccio buono buono e mi metto a disposizione dell’allenatore».
Numero tredici, seduto in mezzo a Piloni e Spinosi. «Fino al 70’. Stiamo vincendo 1-0, ma anche il Napoli è in vantaggio. Occorre mettere al sicuro il risultato. E così, quando mancano venti minuti alla fine, Parola mi dice di entrare al posto di Bettega. In cinque minuti, dall’83’ all’88’, realizzo una tripletta. Nessun subentrante era mai riuscito nell’impresa prima e, per quel che mi risulta, neppure dopo nel campionato italiano. A quel punto, sul 4-0, il risultato è più che in cassaforte. Missione compiuta».
Se li ricorda quei tre goal? «Il primo di destro in scivolata ad anticipare il difensore su cross basso dalla destra. Il secondo di sinistro al volo a mezza altezza su centro dalla sinistra. Il terzo dopo una traversa di Viola: sulla ribattuta colpisco il palo, la riprendo e segno. In quell’occasione, Felice Pulici fece come l’orso nei giochi della fiera: a ogni sparo, cambiava direzione, senza capirci più nulla».
Sarà stato un record anche per lui prendere tre goal in cinque minuti. «Credo di sì. Ero una furia, non mi importava chi avessi di fronte in quel momento. Avevo così tanta rabbia in corpo che se la partita fosse durata ancora avrei continuato a segnare. Pulici o non Pulici».
È vero che la mattina dopo chiamò l’Avvocato? «Sì. Mi disse: “Ha visto che avevo ragione io quando le dicevo di non fare stupidaggini?”. Gli diedi corda, non ebbi cuore di dirgli che in verità il merito era tutto di mia moglie».
Le ultime tre gare le ha giocate tutte dall’inizio. «A quel punto sarebbe stata dura per l’allenatore giustificare un’esclusione. Ripresi la numero nove, la fascia azzurra di capitano e nell’ultima gara contro il Vicenza segnai il goal del momentaneo 3-0, vivendo una delle emozioni più forti della mia carriera in bianconero. Sul 2-0 per noi tutto lo stadio aveva iniziato a chiamare il mio nome. L’urlo si era fatto sempre più forte e insistente. I tifosi volevano un mio goal, che in effetti arrivò al 36’. Allora ci fu un boato e a me vennero le lacrime agli occhi dalla commozione».
Con i tifosi c’è sempre stato un legame particolare, vero? «Ancora oggi è così, nonostante siano passati molti anni. Di me il tifoso bianconero ha sempre apprezzato la generosità e l’impegno. Non ho mai giocato al risparmio: per la maglia della Juventus ho dato il massimo».
E poi c’è la questione meridionale. «Per i tanti lavoratori che venivano dal Sud e che si facevano il mazzo in fabbrica sono diventato un simbolo, anzi ero uno di loro, quello che aveva avuto la buona sorte di giocare a pallone. Ricordo che mi fermavano fuori dello stadio e mi dicevano di farmi valere anche per loro. Mi rendeva orgoglioso».
Qualcuno all’epoca sosteneva che non fosse un caso che la Juventus avesse molti giocatori del Sud. «Di vero c’è solo che eravamo in diversi: oltre a me c’era Furino, anche se lui fin da piccolo abitava a Torino. Poi Causio, Cuccureddu, Longobucco, anche Spinosi volendo, che era di Roma. Ma per stare alla Juve non bastava certo essere meridionali. Occorreva ben altro. Come abbiamo dimostrato in quegli anni dominando in Italia, con il pallone ci sapevamo fare».
Lei forse meglio degli altri, visto lo striscione che a un certo punto apparve nei distinti. «“Anastasi Pelé bianco”. Comparve nei primi anni alla Juve. Mi fece un certo effetto, accidenti. Poi però mi dissi: “Chissà cosa ne pensa Pelé!”».
E Carlo Parola, invece, di lei cosa pensava? «Non so cosa avesse con me. Non mi vedeva bene, cose che capitano. La mia permanenza alla Juve è stata pregiudicata dal rapporto non proprio idilliaco con lui. Però le confesso che mi trovo un po’ a disagio a parlare di una persona che non c’è più».
Possiamo parlare dei fatti e delle sue sensazioni. «Parola arrivò nel 1974. Dopo il secondo posto dietro la Lazio, Boniperti decise di sostituire Vycpálek con cui avevamo vinto due scudetti. Vycpálek era un uomo molto legato al presidente, sapeva di calcio, buono, con un fare molto paterno. Con lui era difficile non andare d’accordo. Il primo scontro con Parola ci fu nel dicembre 1974 in occasione della partita di Coppa Uefa in Olanda contro l’Ajax. Sono infortunato, lo certifica anche il nostro medico La Neve. Il tecnico mi dà del vigliacco, pensa che mi voglia risparmiare. Ma non è così. Morale della favola: sto fuori in campionato per tutto dicembre. Rientro a gennaio con la Ternana».
Quindi c’è la panchina con la Lazio di aprile. «Era successo anche la domenica prima. In quel caso esagerai. C’era un rapporto molto teso tra di noi, che non giovava a nessuno e che è poi scoppiato clamorosamente l’anno dopo, costandoci uno scudetto già vinto. Tutto inizia nell’intervallo di Lazio-Juventus del 7 marzo 1976. Era una giornata no per me, capitano partite dove non ti viene bene nulla. Chiesi di essere sostituito, pensavo che avrebbe fatto bene alla squadra. E così fu, al mio posto entrò Bobo Gori. Quel gesto fu mal interpretato da Parola, che mi mise in panchina per la successiva gara contro il Milan, dandomi gli ultimi venti minuti. La rottura vera si consumò la settimana dopo. Si gioca a Cesena e il mister mi rimette fuori. A quel punto chiedo spiegazioni, ero il capitano».
E lui? «Mi risponde male. Ed io lo mando a quel paese. La partita con il Cesena la vedo dalla tribuna. Quindi qualche giorno dopo sbotto e dico chiaro e tondo che con Parola non voglio più avere niente a che fare. Finisco “fuori rosa”. Esco di squadra con la Juve avanti di cinque punti sul Torino. Alla trentesima giornata i granata vincono lo scudetto. Se abbiamo perso un campionato già vinto, la responsabilità non è certo mia che sono rimasto fuori nelle ultime nove partite. I colpevoli sono quelli che pensavano di avere già vinto».
E Boniperti in tutta questa storia? «Avrebbe potuto intervenire in mia difesa, se avesse voluto. Invece mi disse: “Facciamo finire il campionato, poi ne parliamo”. Anche lui era sicuro dell’esito finale. Alla fine della stagione, ci vedemmo. Mi chiese di rimanere, lo fece più volte anche il dottor Giuliano, il suo braccio destro. Ma ormai era troppo tardi. Non c’erano più le condizioni. Meglio chiudere».
È stato un addio amaro? «Senza dubbio. Chiesi solo di essere ceduto a una squadra che non doveva lottare per rimanere in A».
Lasciò così la Juve dopo otto anni. Una curiosità: com’era arrivato in bianconero? «Il mio acquisto nel 1968 era stato rocambolesco. Ero già dell’Inter. Dopo il mio primo campionato in A con il Varese nel 1967-68, in cui avevo segnato undici goal, si fece avanti la società neroazzurra con Italo Allodi. Lui era molto amico di Casati, il Direttore Sportivo del Varese. Si figuri: andavano anche in vacanza insieme con le famiglie. Si strinsero la mano e chiusero l’affare».
Contento? «Felicissimo! A vent’anni andavo in una grande squadra, e poi Milano era vicina a Varese, dove abitava Anna con cui mi ero intanto fidanzato. Ci fu un’amichevole di fine stagione tra Inter e Roma. I neroazzurri chiesero il permesso al Varese di potermi far giocare. Nell’intervallo mi venne incontro Mario Brogini, un amico fotografo di Varese, che era venuto per fare le prime foto con la nuova maglia. Fu lui a darmi la notizia della Juventus».
Le svelò anche i particolari? «Non mi ricordo se accadde in quell’occasione. Si misero d’accordo direttamente l’avvocato Agnelli e il presidente del Varese Borghi. Oltre ai soldi (660 milioni di lire, ndr), nell’affare entrò anche la fornitura di compressori di frigoriferi per la Ignis, l’azienda di Borghi. So che Allodi si arrabbiò con Casati, ma lui non avrebbe potuto certo andare contro il suo principale».
E lei in tutto questo? «Rimasi frastornato. Un po’ mi dispiaceva non andare all’Inter, perché voleva dire allontanarsi da Varese. Ma ero al settimo cielo perché vestivo la maglia della squadra di cui sono sempre stato tifoso, e lo sono tuttora. Nel portafoglio conservo ancora la foto fatta al Cibali con il grande Charles. Si avverava un sogno».
Dai campi polverosi della Sicilia alla Juve. «Il pallone è sempre stato in cima ai miei pensieri. Ero il più piccolo di quattro fratelli, c’era la scuola, mi piaceva il mare, ho fatto piccoli lavori come il garzone di macelleria o lo stagnino. Ma il sogno era diventare calciatore e indossare la maglia bianconera».
Quali sono state le tappe fondamentali? «Gli inizi all’oratorio San Filippo Neri di Catania. Per tutti ero Pietro “U turcu” perché d’estate diventavo nero come la pece. Poi la Trinacria e infine la Massiminiana. Devo tutto a Renzo Vellutini, che convinse i fratelli Massimino a prendermi nel 1964: a sedici anni debuttai in Serie D. Due anni dopo ero già in B».
E il Varese com’è che la scova in Sicilia? «Per caso. Il Direttore Sportivo varesino Casati era al Cibali per assistere a Catania-Varese. Sarebbe dovuto ripartire con la squadra, ma lasciò il posto in aereo a una donna incinta. Il rinvio del volo di ritorno gli consentì di seguire il giorno dopo, sempre al Cibali, Massiminiana-Paternò. Anche se finì 0-0, mi vide e prese nota. Ero felice perché andavo in B a diciotto anni, avrei avuto una bella vetrina e qualche soldo in più. Ma avevo paura, perché andavo lontano per un’avventura che avrebbe potuto finire subito. A Varese mi accompagnarono i genitori. Al momento del saluto, piansero. Riuscii a trattenere le lacrime, anche perché fin dal primo impatto ho avuto la sensazione di essere in una famiglia. Poco dopo conobbi Anna, la quale certamente ha agevolato tutto. I due anni a Varese sono stati splendidi. Anche per i risultati sportivi, ovviamente».
Ce li ricorda? «Il primo anno conquistammo la promozione in A. L’anno dopo il Varese fece un campionato eccezionale, battendo molte grandi. Eravamo una buona squadra con campioni come Armando Picchi, gente di esperienza come Sogliano, Da Pozzo, Maroso e giovani come il sottoscritto e Franco Cresci. L’allenatore era Bruno Arcari: a me ha insegnato tanto, soprattutto a come muovermi in attacco».
Insegnamenti utili, visti gli undici goal finali. «Per me è stata una stagione fantastica. La ciliegina sulla torta fu la tripletta nel 5-0 alla Juventus, un risultato entrato nella storia del Varese. E poi il regalo più bello: la chiamata in Nazionale per l’Europeo. Successe tutto in fretta. Il passaggio rocambolesco alla Juve, la maglia azzurra. Ero al settimo cielo, un sogno essere lì con Zoff, Rivera, Mazzola, Gigi Riva».
Nella finale con la Jugoslavia in attacco c’è lei, all’esordio. «Eravamo nello spogliatoio, mi chiama Valcareggi e mi fa: “Picciotto, tocca a te!” E non aggiunge altro. Gioco in coppia con Prati. La Jugoslavia è più forte e pareggiamo, grazie a una punizione di Domenghini nel finale. I regolamenti a quel tempo prevedevano la ripetizione della gara. Si rigioca due giorni dopo, Valcareggi cambia mezza squadra. Io sono confermato e accanto a me c’è Gigi Riva».
Riva sblocca e lei, alla mezzora, realizza un goal in semirovesciata spettacolare: tutto voluto? «È stato sempre detto che sbagliai lo stop. Può darsi, non ricordo. So che feci una rete bellissima e che non stavo nella pelle dalla gioia. Ancora oggi quella notte romana con l’Olimpico illuminato dalle fiaccole mi fa venire la pelle d’oca. Vincemmo l’Europeo, l’unico nel nostro albo d’oro, e ci nominarono Cavalieri della Repubblica. Per me, che avevo vent’anni e non ero ancora maggiorenne (all’epoca la maggiore età era ai ventuno anni, ndr), fecero un’eccezione».
Torniamo allo stop “sbagliato”: talvolta la critica ha sottolineato certe presunte lacune tecniche. «La risposta migliore l’ha data Boniperti. Lui diceva che io ero troppo veloce. Spesso capitava che anticipassi il pallone. Però rimaneva li, tra i miei piedi. Ed io, a quel punto, potevo fare la giocata desiderata».
Da un punto di vista tattico, invece, si è sempre considerato un centravanti? «Ho spesso giocato con il nove, ma il centravanti non l’ho mai fatto. Mi piaceva allargarmi, spaziare, servire i compagni. Il famoso goal di tacco di Bettega a San Siro, nasce da un mio assist dopo un dribbling in area. Sono stato un falso nove. Mi rivedo molto in Tévez, che viene fuori a prendere il pallone e gioca spesso come trequartista».
Chiudiamo la parentesi azzurra con il suo forfait al Mondiale di Messico 1970. «È ancora oggi uno dei miei più grandi rimpianti. E tutto per una sciocchezza. Stavo scherzando con il nostro massaggiatore Spialtini. Lui era seduto sul divano, io ero dietro. A un certo punto lui, spazientito e dopo avermi detto già diverse volte di smetterla, mi dà un colpo con il dorso della mano e mi colpisce ai testicoli. Dolore immediato, ma la cosa finisce lì. Durante la notte, ero in camera con Furino, non ce la faccio più dal dolore, mentre il testicolo colpito si è gonfiato paurosamente. Il Dottor Fini mi dà un calmante, ma dobbiamo andare di corsa in ospedale. La situazione è grave, posso correre il rischio di un’amputazione se non mi operano all’istante per assorbire il versamento interno. Eravamo alla vigilia della partenza per il Messico. Non ce la potevo fare. Ma lì la combinarono grossa, chiamando al mio posto due attaccanti, Boninsegna e Prati e mandando via Lodetti che ancora mi maledice. Fu una stupidaggine, oltretutto Prati non giocò mai. Io poi ho fatto ancora un po’ di Nazionale. Ero anche a Monaco nel 1974, ma lì la squadra non c’era».
È il momento di tornare a parlare della Juventus. Ci siamo fermati al racconto dell’acquisto. «Il primo impatto con il mondo bianconero fu istruttivo. Era estate e andai in sede a incontrarmi per la prima volta con i nuovi dirigenti non pensando alla forma. Avevo una maglietta e un normale paio di pantaloni. Il presidente Catella mi disse: “La prossima volta si presenti in giacca e cravatta”».
E sul campo come andò? «L’esordio fu eccezionale. A Bergamo, contro I’Atalanta, facciamo 3-3. Io segno una doppietta e uno dei due goal credo sia uno dei più belli realizzati con la Juve. Doppio pallonetto agli avversari e sinistro potente prima che la palla tocchi terra, tutto a grandissima velocità».
Allenatore quell’anno, stagione 1968-69, era Heriberto Herrera. «Un uomo molto rigido, maniacale. Incuteva timore, specie davanti alla bilancia. Dava multe a chi sgarrava con il peso. Ricordo che Haller e Piloni erano tra i più terrorizzati perché tendevano a ingrassare anche mangiando pochissimo. Durante uno dei primi allenamenti mi trattò malissimo davanti ai compagni. Stavamo facendo una seduta tattica, io non ero abituato a certi metodi. A un certo punto mi dice: “Basta, cono (stupido, ndr), vada fuori”. Mi mandò via e fece entrare al mio posto Zigoni per farmi vedere come andava fatto il movimento. A me vennero le lacrime agli occhi dalla rabbia».
L’anno dopo ci fu il breve regno di Luis Carniglia. «Aveva il vizio di parlare male di noi giocatori alle nostre spalle. Non ho un buon ricordo di lui. Ma nemmeno la società, visto che lo licenziò quasi subito. Al suo posto chiamarono Ercole Rabitti, che allenava le giovanili. Da lì le cose iniziarono a girare per il meglio, anche se quella era una Juve che non lottava per lo scudetto».
La svolta ci fu nell’estate del 1970. «Furono gettate le basi della Juventus che ha poi dominato nei successivi quindici anni. Furono acquistati molti giovani, alcuni come Causio e Bettega rientrarono dai prestiti. Boniperti, il quale non era ancora ufficialmente presidente ma aveva già compiti direttivi, e Italo Allodi furono gli ideatori del progetto».
E come allenatore fu scelto il giovane Armando Picchi, suo compagno di squadra a Varese. «Allodi lo conosceva benissimo, sapeva che aveva tutte le qualità per guidare una squadra giovane e importante come la Juventus. Nell’anno a Varese, ero rimasto stupito dalla grinta, dalla lucidità di pensiero e dal grande carisma, oltre che dalle qualità umane. Trovarmelo come allenatore fu un piacere».
Nessun imbarazzo? «No, anche se in privato gli davo del tu e in pubblico del lei. Peccato che il destino con lui sia stato così cattivo. Noi sapevamo tutto, fu molto dura in quei mesi continuare a pensare al pallone. Fu bravo Cestmír Vycpálek, il nuovo allenatore, a tenere unito il gruppo e fu molto importante la presenza di Italo Allodi, un grande dirigente».
Un po’ dimenticato, vero? «Molto dimenticato, ma questo è il vecchio vizio del nostro mondo. Senza nulla togliere a Boniperti, Allodi ha avuto grandi meriti nella rinascita della Juve. Quando le cose non andavano bene o c’era da cementare il gruppo, lui organizzava delle cene, spesso con le famiglie. Una volta accadde dopo la papera di Carmignani contro il Cagliari (il numero uno bianconero si fece sfuggire di mano un pallone innocuo, ndr). Tutti a cena e lui che regala al portiere una pinza. Geniale. Intervenne sui premi. Alla Juve gli ingaggi non erano migliori di altre squadre, ma se si vinceva, allora arrivavano tanti soldi. A quel tempo per ogni punto davano 80.000 lire a giocatore. Bene, lui arrivò e disse: “Se battete il Milan, ci sono 800.000 lire per ognuno”. Sia chiaro: lo sportivo vuole sempre vincere, ma certi stimoli sono molto importanti».
Le strategie di Allodi hanno funzionato, nel 1972 la Juve vince il campionato. «Il mio primo scudetto, quello a cui sono più legato. Anche perché dopo la malattia che colpi Bettega e che lo tenne fuori per metà stagione, io mi sentii molto più responsabilizzato. Verso la fine della stagione ci fu anche il grave lutto di Vycpálek, che perse suo figlio vittima di un incidente aereo».
Quel campionato vide un grande Torino come vostro avversario. Ha dei ricordi particolari? «Il ricordo più importante me lo ha lasciato Cereser, che mi diede un calcio sulla mano destra, all’altezza del metacarpo anulare, che di fatto è rincalcato verso l’interno. Lui da dietro mi diede la zampata».
L’anno dopo, stagione 1972-73, fate il bis. «Vincemmo lo scudetto all’ultima giornata. La scossa vera ce la diede il Verona che stava battendo il Milan capolista. Anche noi a Roma eravamo sotto di un goal. Nell’intervallo, dentro lo spogliatoio, ci guardammo negli occhi. Nessun discorso, solo la consapevolezza che ce la potevamo fare. Anzi, che dovevamo farcela. Andò così, 2-1 per noi e alla fine altro tricolore».
Su quella partita non sono mancate le chiacchiere. «Ma lasciamo stare! Noi sapevamo che per arrivare al traguardo dovevamo solo vincere. Lo stimolo decisivo sono state le notizie dal Bentegodi. E poi, se andiamo a vedere i goal, cosa c’è che non va? La difesa giallorossa poteva fare diversamente sul colpo di testa di Altafini? E sulla bomba di Cuccureddu all’incrocio dei pali? Fu una vittoria solare. Semmai c’era un altro problema. Riguardava Vycpálek. Prima della trasferta romana, anche per smorzare la tensione, qualcuno di noi disse: “Mister, domenica non possiamo vincere: non ce la faremmo a portarla in trionfo”. E lui: “Ma io domenica sarò leggero come una libellula”».
Prima ha nominato Altafini, che proprio in quella stagione venne alla Juve: come fu preso il suo arrivo? «Bene, veramente. José era un vero campione, capace di essere decisivo anche giocando poco. Si inserì benissimo in squadra e poi quello lì era un gruppo veramente solido e caratterizzato da grandi personalità».
Ha qualche episodio curioso che le torna alla memoria? «Penso a Helmut Haller, un tedesco napoletano, giocherellone e scherzoso. A volte portava con sé quel palloncino che sedendoci sopra emette rumori simili alle puzzette. Era uno dei suoi divertimenti preferiti. Senza dimenticare le sfide all’ultima moda tra Causio e Damiani. Li facevamo sfilare nello spogliatoio e poi davamo i voti».
Il 1973 è anche l’anno della finale della Coppa dei Campioni persa dalla sua Juventus contro l’Ajax. «Un gran peccato. Loro erano sicuramente più forti. Noi andammo in ritiro per troppo tempo. In più, ci fu anche un cambio di formazione che non ci convinse. Fuori Cuccureddu e dentro Altafini. Ma la cosa che ci fece più male fu vedere come loro trattarono la Coppa una volta saliti sul pullman. La buttarono lì, sui sedili, come fosse un trofeo qualsiasi».
Nel 1975 arriva il suo terzo scudetto, poi l’anno dopo l’addio. «Andai all’Inter. Due campionati così così, ma alla prima stagione conquistammo la Coppa Italia. C’è gente che è stata molti anni più di me in neroazzurro senza vincere nulla».
Infine c’è l’Ascoli e soprattutto una data: 30 dicembre 1979. «E chi se la scorda? Giochiamo a Torino contro la Juventus. Prima della partita mi viene a salutare l’avvocato Agnelli, un grandissimo onore per me. Io sono alla caccia del mio centesimo goal in Serie A. Sembra una maledizione, me ne hanno già annullati un paio nelle giornate precedenti. Dopo otto minuti batto Zoff con un colpo di testa e tutto il Comunale mi applaude. Come se non fossi mai andato via».

 

https://ilpalloneracconta.blogspot.com/2008/04/pietro-anastasi.html

Modificato da Socrates

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File:Serie A 1970-71 - Juventus vs Napoli - Roberto Bettega e Pietro  Anastasi.jpg - Wikipedia

 

Una grande coppia di attaccanti: Roberto Bettega e Pietro Anastasi

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Petruzzu e Bettega: quell'1-4 in Milan-Juventus  cambiò il corso della Storia del calcio quando le milanesi sembravano avviate a soppiantare la Juventus. L'imbattibile difesa di Nereo Rocco fu devastata da questi giovanissimi attori bianconeri.

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Moglie Anastasi racconta ultimi momenti drammatici di vita e l'addio al  figlio su Skype - ITA Sport Press

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Ricordiamo Pietro Anastasi che oggi avrebbe compiuto 76 anni

 

Kan een afbeelding zijn van 2 mensen, mensen die voetbal spelen, mensen die volleyballen en de tekst 'BORN ON THIS DAY Vietro Anastasi APRIL 1948 J'

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