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Fabrizio Ravanelli - Calciatore E Allenatore Giovanili

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Joined: 31-May-2005
141 messaggi
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Classe 1968, un fisico da lottatore sormontato da una chioma precocemente imbiancata. Ha già giocato per parecchie squadre, prima di esplodere nella Reggiana. È un idolo dei tifosi granata, ma quando viene acquistato dalla Juventus e lasciato in parcheggio a Reggio Emilia per una stagione, è accusato di tirare indietro la gamba e, aspramente contestato, lascia una cattiva immagine di sé. Lo chiamano “venduto”: «Non potevano dirmi una cosa più offensiva! Io ho sempre dato il massimo, ho cercato di segnare come in tutte le altre stagioni. Il fatto è che non appena le cose si sono messe male, certa gente ha dato tutte le colpe al sottoscritto». Quando arriva alla Juventus, in molti lo paragonano a Bettega, per il colore dei capelli; Ravanelli arriva come bomber di scorta, in una squadra che schiera Vialli e Roberto Baggio, Möller e Casiraghi. Prospettive di maglia sicura ridotte al minimo, ma uno con la grinta di quest’umbro giramondo non può arrendersi per così poco.«Essere arrivato alla Juventus è il massimo, mi sento realizzato sia come uomo, sia come calciatore. La Juventus è il massimo e quelli che ne parlano male, lo fanno solo per invidia. Sin da bambino sono tifoso bianconero; abitavo a Perugia e, tutte le volte che la Juventus giocava dalle parti dell’Umbria, chiedevo a mio padre di accompagnarmi allo stadio, per seguire i miei beniamini».Fabrizio è mancino, ha un buon tiro, sa colpire di testa, ma le movenze appaiono sgraziate e si ha la netta la sensazione che debba migliorare enormemente, anche nei fondamentali. Il Trap è un ottimo maestro e capisce che il ragazzo ha voglia di crescere, di sfondare e comincia a metterlo sotto torchio. Ad autunno inoltrato comincia a giocare qualche spezzone di partita e la sua prima rete in maglia bianconera, il 13 dicembre 1992 a Foggia, passa quasi inosservata: il suo goal, su rigore, infatti, non evita la sconfitta (1-2) a una Juventus in giornata di scarsa vena. Il ghiaccio è rotto, i tifosi ne apprezzano la strenua volontà di lottare e il 13 febbraio del 1993, in un Juventus-Genoa che sembra destinato allo 0-0 la sua zampata è di quelle che lasciano il segno. Ne segna altri, compresi alcuni decisivi per la conquista della Coppa Uefa, che gli valgono la riconferma. La stagione successiva è promosso a prima riserva, dopo la cessione di Casiraghi alla Lazio, e crescono le presenze e le reti.Penna Bianca è sempre più nel cuore dei tifosi e sempre meno lontano dal modello originario, Bobby-gol Bettega, appunto; non ha certamente la stessa classe, ma in area sa farsi rispettare e vede la porta come pochi altri. «Spero che non sia solamente una somiglianza fisica, ma questo paragone mi riempie di soddisfazione».La svolta avviene la stagione successiva. Si chiude il ciclo “trapattoniano” e inizia quello di Lippi. Ancora una volta è una sconfitta a Foggia che cambia il destino di Ravanelli. Lippi vara il 4-3-3 e gli attaccanti sono Vialli e Ravanelli, con Roberto Baggio e il giovanissimo Del Piero a supporto. È una formula molto spregiudicata, gli attaccanti devono sacrificarsi; nasce, così, un Ravanelli a tutto campo, capace di colpire e arretrare a coprire. Sta nascendo un campione universale, adatto a tutte le fasi della partita e questo coincide con la nascita di una Juventus entusiasmante, vincente e convincente: «La prima volta che ho incontrato Boniperti ero emozionatissimo, impacciato. Lui ha cercato di mettermi a mio agio e mi ha chiesto: “Allora, vieni o no alla Juventus?” Io, ancora più rosso del solito, gli ho risposto: “Non vedo l’ora di entrare nella sua famiglia”».Il ricordo dell’Avvocato: «L’avvocato Agnelli era il simbolo della Juventus. È stato il punto di riferimento sia per i giocatori sia per i dirigenti. Dopo aver approfondito la sua conoscenza, ho avuto modo di carpire le sue qualità umane. Sapeva metterti a tuo agio, l’Avvocato. Ricordo anche le sue telefonate mattutine, come ad esempio quella legata al mio addio, o alla prestazione memorabile di Liverpool, quando andai in Inghilterra. Credo proprio che non lo dimenticherò mai. Mi legano a lui troppi ricordi».La Juventus “lippiana” è travolgente: terza giornata, prima grande impresa in trasferta, 2-0 a Napoli con goal di Fabrizio e la prima perla, che lo renderà famoso, di Alessandro Del Piero. Padova-Juventus, 27 novembre, sarebbe un deludente pareggio se Ravanelli, partito dalla panchina, non siglasse nel finale un goal bello e impossibile. Ma c’è una data, in questa stagione, che segna il passaggio da normale attaccante a campione consacrato; Parma, 8 gennaio 1995, sfida al vertice. Il Parma passa in vantaggio con l’ex Dino Baggio, poi la Juventus pareggia e infine dilaga con Ravanelli. Il goal del 2-1 è da antologia, un colpo di testa in tuffo, come faceva Bobby-gol, che applaude in tribuna e commenta: «Roba che riesce solo a chi ha i capelli bianchi».Alla fine della stagione trionfale, con scudetto e Coppa Italia, il contributo di Ravanelli è straordinario: solo in campionato è andato a segno sedici volte, oltre a quattordici reti che ha collezionato nelle coppe: «Eravamo diciotto marines, all’epoca. Remavamo tutti nella stessa direzione. Non ci sono mai stati screzi e in questo aiutammo molto Lippi».Logico che anche la Nazionale si accorga di lui; alla fine saranno ventidue presenze con otto goal. Ma l’obiettivo principale della Juventus è la Champions League, che richiede un duro lavoro di avvicinamento. A segno nelle sfide iniziali contro Steaua Bucarest e Rangers, Penna bianca si astiene nei quarti e in semifinale, conservando la stoccata per l’occasione più importante. Roma, 22 maggio 1996, finale con l’Ajax: «Sicuramente, quella rete e quella partita, rimarranno indelebili nella storia. Anche perché Gianni Agnelli teneva molto a quella vittoria, considerando i fatti di Liverpool. Chiese di vincerla quella finale. E noi lo accontentammo con una grande vittoria. Quella rete rappresenta la mia carriera bianconera».Un goal per la storia ed anche per l’addio: «Fui venduto senza spiegazioni. Dentro di me, per tale ragione, c’è molta amarezza. Fossi rimasto, sarei stato lieto di far ancora parte di quell’organico di campioni. Ma a volte, si è costretti cambiare strada. Penso di aver ricevuto meno di quanto ho dato alla Juventus. Io, ero il vice capitano e portai la fascia al braccio nel ventre di un Bernabéu stracolmo, contro il Real Madrid. Mi sentivo il futuro di quella squadra. Fui persino chiamato nell’ufficio del dottor Umberto Agnelli. Mi parlò di tutti i capitani della gloriosa storia bianconera, indicandomi come uno di quelli futuri, mostrandomi tutti i trofei vinti in bacheca. Rimanemmo a parlare per molte ore. Sono in pochi a sapere questo aneddoto, ma andò proprio così».Lascia la Juventus per cercare altra gloria prima in Inghilterra e in seguito in Francia, e la lascia da trionfatore. 160 partite e sessantotto reti, di cui diciotto nelle coppe europee. In bacheca, uno scudetto, una Coppa Uefa, una Champions League e una Supercoppa italiana. «Non aver giocato la Coppa Intercontinentale è il mio rimpianto più grande. Anche se, lo dico con sincerità, la sento mia, quella Coppa che fu il frutto dei sacrifici della stagione precedente, con me e Vialli in campo. E per me, andare via dalla Juventus, non fu facile. Io, sono un bianconero vero. Però, la vita è questa e alcune cose, possono anche non andare per il verso giusto».

 

NICOLA CALZARETTA, “GS” SETTEMBRE 2014

Estate intensa per Fabrizio Ravanelli, classe 1968. Soprattutto sulle due ruote. La bicicletta è il suo nuovo amore sportivo. Non solo come attività di diporto, utile antiruggine per muscoli e giunture, da praticarsi nei weekend su comode piste ciclabili. Da qualche anno, infatti, il nostro Penna Bianca altrimenti detto Old Fox, partecipa a gare di livello, anche in alta montagna. Corse amatoriali, ma fino a un certo punto. «Una delle ultime che ho fatto è la Maratona delle Dolomiti a luglio. Una fatica pazzesca, con otto passi dolomitici. Da quando mi sono operato di ernia al disco, ho preso sempre più passione per la bici. Sarei stato un bel passista, se non avessi fatto il calciatore».Parla e si tocca la fronte, che porta i segni di una recente caduta. Il rosso del mercurio cromo crea un curioso contrasto con il bianco della pelle e dei capelli. Ma il pallone? Quello c’è sempre, per carità. La sua vita, il suo mondo, i suoi desideri hanno come centro di gravità la panchina. La scorsa stagione, dopo un paio di annate di tirocinio nelle formazioni giovanili della Juventus, ha allenato per alcuni mesi l’Ajaccio, nella Ligue 1, la Serie A francese. Una buona occasione, conclusa prima del previsto con un esonero a novembre. «Non è andata bene, ma è stata comunque un’esperienza utile. Sono pronto per la prossima occasione. Mi sento allenatore».Qual è il bravo tecnico di oggi? «Idee precise sul modulo, senza essere troppo rigido; saper entrare nella testa dei giocatori, per creare una mentalità vincente. Tutto questo sulla base delle motivazioni e della fame di vittorie».Bello, questo quadretto mi ricorda un certo Marcello Lippi. «Vero. Non a caso Lippi è uno dei tecnici più apprezzati al mondo: bravo e soprattutto vincente».Tu lo conosci bene: vent’anni fa vi siete incrociati per la prima volta. «Io ero alla Juve già da due anni. Ma in pochi mesi, primavera del 1994, cambiò tutto per il passaggio di consegne tra Gianni Agnelli e suo fratello Umberto. Tra le novità ci fu anche quella dell’allenatore. Ecco Marcello Lippi, che aveva fatto bene a Napoli, ma che non aveva mai allenato una grande».Cosa ricordi dei primi tempi con lui? «Il discorso che fece alla squadra il primo giorno di ritiro. Riunì tutti in mezzo al campo e parlò in maniera schietta e diretta. Il messaggio fu chiaro: la Juventus non avrebbe dovuto dipendere più da nessuno».Qualcuno tradusse il discorso con: “Non voglio una squadra Baggio-dipendente”. «Non c’era niente contro Baggio. Il messaggio era un altro: tutti eravamo sullo stesso piano e dovevamo sentirci protagonisti. Fu una scossa: fece sentire ciascuno di noi importante e decisivo, senza alcuna differenza».Nemmeno riguardo a Luca Vialli? «Loro si conoscevano da tanti anni. Si davano del tu. Ma anche in quel caso il mister fu molto chiaro e leale con il gruppo. Fece presente a tutti la particolarità del loro rapporto e noi lo accettammo con serenità».A proposito di lavoro, tra i nuovi arrivi c’era anche quello del preparatore atletico Ventrone. «Gianpiero, che ho voluto con me all’Ajaccio, aveva collaborato con Lippi a Napoli. Introdusse carichi di lavoro pazzeschi. In ritiro ci si alzava alle sette e facevamo tre sedute di allenamento, anche dopo cena. Pressa, bilanciere, addominali. Una volta, nell’intervallo di un’amichevole a Chatillon, i giocatori sostituiti fecero otto volte il chilometro sui tapis roulant, una prova di resistenza allucinante».Eravate convinti dell’utilità di tutta quella fatica o vi sembrava eccessiva? «Ricordo Marocchi vomitare dalla fatica. Di Livio che qualche volta “tagliava”. Ma c’erano mister Lippi, e soprattutto Ciro Ferrara, che facevano da garanti».Con tutta quella mole di lavoro, nessuno ha mai preso nulla? (Sorriso amaro) «Eccola qua. Tutte le volte ritorna ‘sta storia. Nessun aiuto, te lo garantisco. Fatica, sacrificio, allenamento. Hanno cercato di tirare fuori cose che non esistono. Tutto falso. Non c’è mai stato doping, tant’è vero che l’accusa che hanno poi fatto alla Juve è stata “abuso di farmaci”».Non mi sembra poco. «Negli anni che sono stato io alla Juve, non ho mai visto niente di sospetto o di particolare. L’ho detto anche ai giudici. La crescita della massa muscolare nasce dall’enorme lavoro in palestra».Zeman non la pensava così, specie riguardo a Vialli. «Ma Luca era grosso già prima di Lippi e Ventrone! Fu uno dei motivi per cui Trapattoni non lo vedeva più come attaccante. Non ho mai avuto l’occasione di parlare con Zeman. Mi piacerebbe farlo, però».Torniamo al campo e al lavoro. Tu come eri messo? «Molto bene. Spesso ero il primo nei test. Per me l’avvento dell’accoppiata Lippi-Ventrone è stato il massimo, perché sono state valorizzate le mie caratteristiche: la resistenza, la generosità, la corsa. E lo spirito di squadra. Pur essendo attaccante, non ho mai avuto l’ossessione del goal. Come certi colleghi che ho sempre mal sopportato».Ti riferisci a Inzaghi? «Niente di personale. Io vedo il calcio così. Nel mio ipotetico “undici”, uno come lui non lo vorrei. Così come non vorrei chi, ad esempio, dopo che la sua squadra ha perso per 3-1 è contento per il goal che ha fatto».Ma gli attaccanti si valutano dal peso dei goal fatti. «Lo so, io comunque mi sono difeso bene con i numeri. Tuttavia, credo che un calciatore debba mettere se stesso al servizio della squadra. Compresa la sua fame di vittorie e la voglia di arrivare».A proposito: alla Juventus, nell’estate 1992, come ci sei arrivato? «Mi hanno visionato. So che a Reggio Emilia c’erano spesso a vedermi il Direttore sportivo della Juve Nello Governato e Sergio Brio, vice di Trapattoni».La svolta quando c’è stata? «Una notte, quando verso l’una suonò il telefono di casa. Al mio povero babbo. Carlo, per poco non venne un infarto. Era Boniperti. Convocò lui e mio fratello Andrea perché voleva conoscere la mia famiglia. Solo dopo che ebbe parlato con loro volle incontrare me».Per la firma del contratto? «Sì, alla Sisport. Mi disse che in quell’ufficio, prima di me aveva firmato solo Michel Platini. Bonetto, il mio procuratore, non entrò. La cifra la mise lui, 400 milioni, alla Reggiana ne prendevo 120. Io non ricordo se dissi qualcosa. Ero al settimo cielo e basta».Sogno che si avverava? «Decisamente. Tifavo Juve. Ero a Perugia allo stadio con mio padre quando nel 1976 perdemmo lo scudetto all’ultima giornata. Avevo otto anni, piansi tanto».E adesso eri un giocatore bianconero, pronto a scrivere la storia della “tua” squadra. «Il salto dalla B alla Juventus non è stato facile. I primi mesi ho fatto molta fatica. Solo lo stare a fianco di gente che fino al giorno prima avevo visto in televisione mi faceva girare la testa. In quei momenti è stato fondamentale Boniperti, una persona a cui vorrò sempre bene. E poi il Trap, che ha saputo aspettarmi. Un maestro eccezionale».Lavoro extra anche per te? «Mi è servito molto. Io ho capito che ci potevo stare a quel livello. Lui e la società hanno avuto conferma che avevano visto giusto con me. Ricordo come fosse oggi un episodio emblematico».Raccontacelo. «Il venerdì precedente la trasferta ad Ancona (28 marzo 1993, ndr) ebbi una colica renale e mi portarono in ospedale. Nel frattempo, avevo anche una caviglia gonfia. Mi dissero, però, che la mia presenza era fondamentale. Mi vennero a prendere con il pullman direttamente all’ospedale. Prima della partita, infiltrazione alla caviglia, poi feci tutti i novanta minuti».Giocasti abbastanza in quella prima stagione, nonostante la Panini non ti avesse messo nell’album. «Non lo sapevo. Per me contava era essere lì. La concorrenza era di altissimo livello: Vialli, Baggio, Möller, Platt. Eppure io feci ventidue partite in campionato, debuttai in Coppa Uefa e segnai nove goal».L’esame con il calcio che conta era superato. «Un esame difficile, bastava guardare il livello e la qualità degli avversari: Baresi, Costacurta. Tassotti. E poi Pietro Vierchowod, uno che se lo saltavi una volta, subito dopo ti era nuovamente davanti. Senza dimenticare Maldini o la coppia Benarrivo-Di Chiara, che dovevi rincorrere per tutta la partita».Quel tuo primo anno in bianconero si chiuse addirittura con la conquista della Coppa Uefa. «Fu la ciliegina sulla torta di una stagione indimenticabile, in cui feci tre goal. Vincemmo la Coppa, trascinati da un fantastico campione: Roberto Baggio, che in quel 1993 vinse il Pallone d’Oro».Che voto gli dai? «Dieci, come il numero della sua maglia. Non nove e mezzo come disse una volta Platini. Era introverso, parlava poco. Sicuramente era meno appariscente rispetto ad altri. Ma era un fuoriclasse assoluto».Perché? «Tecnicamente era meraviglioso. E poi aveva sempre una soluzione di gioco: una dote che possiedono solo i grandissimi».E con Lippi come andò? «Tutti dicono che Lippi fece il miracolo convincendo Vialli a rimanere. Ma Luca era arrabbiato con il mondo e aveva una grande voglia di rivalsa. Il vero miracolo Lippi lo fece con Baggio, convincendolo a modificare il suo atteggiamento in campo in funzione del sistema di gioco della squadra».Come fece? (ride) «Lippi era furbo. Parlava a nuora (cioè a me o a Vialli) perché la suocera, Baggio, intendesse. Capitava che il mister venisse da me e dicesse ad alta voce: “Fabrizio, devi rientrare prima oppure corri di più...” Ma in realtà il vero destinatario del messaggio non ero io».Mi sembra sia arrivato il tempo per affrontare il tema del tridente. «Fu una scelta condivisa con mister Lippi. L’idea partiva dalla constatazione che, ceduto Dino Baggio, non avevamo centrocampisti abili nell’inserimento da dietro. Le tre punte potevano essere una buona soluzione, tenuto conto che era stata appena introdotta la regola dei tre punti a vittoria».Lippi dunque puntò su un 4-3-3 allo stato puro. «Esatto. Tre attaccanti veri, di ruolo. Vialli, il sottoscritto e Baggio o Alex Del Piero. Potevamo garantire molte soluzioni d’attacco ed eravamo i primi a difendere. Lippi voleva dieci giocatori dietro la palla in fase di non possesso. Noi tre dovevamo coprire tutto il fronte. Quando c’era Baggio, lui rimaneva centrale, mentre Vialli ed io ci allargavamo. Con Del Piero, era Luca a occupare il centro».L’idea è buona, ma gli inizi non sono incoraggianti. «La svolta fu dopo il 2-0 subito a Foggia alla sesta giornata. Il martedì ci riunimmo in palestra e Lippi fece un discorso molto chiaro. Si doveva cambiare mentalità e si doveva giocare in attacco. Il tridente da lì in poi non fu più messo in discussione».Per te cambiò qualcosa? «Lo schema con i tre attaccanti era perfetto per uno come me. Stavo bene, dopo i primi tempi in cui ero appesantito dalla preparazione: ricordo la fatica anche a fare un semplice passaggio di piatto. Mi sbloccai il 27 settembre 1994, con la cinquina in Coppa Uefa al CSKA. Durante il riscaldamento mi accorsi di sentirmi meglio. Chiamai Ventrone e Pezzotti, vice di Lippi, e dissi: “Stasera mi carico la squadra”».Sei stato di parola. «Cinque goal tutti assieme non mi era mai capitato di farli. Poi con la Juve, in Europa. Una serata fantastica. Quella prestazione fece bene a me e a tutto il gruppo».A proposito: che aria c’era nello spogliatoio? «Ottima. Eravamo veramente uniti, affamati di vittorie come Lippi. Secondo me, è stato l’elemento trainante. E poi tutti i giovedì si usciva a cena assieme. Talvolta veniva anche il mister o qualcuno del suo staff. Un gruppo meraviglioso, non c’è mai stato uno screzio».Nemmeno nelle partitelle durante la settimana? «Che c’entra? Nessuno ci stava a perdere. Ogni sconfitta costava 5.000 lire».Com’era strutturata la settimana di lavoro? «Il martedì e il mercoledì erano dedicati alla parte fisica. Giovedì partitella, con lo sparring partner schierato con il modulo della nostra prossima avversaria. Venerdì tattica: undici contro zero per provare la fase offensiva: undici contro undici o contro sette per quella difensiva e poi schemi per punizioni e corner. Il sabato classica rifinitura».Mi sembra che di tattica ne facevate il giusto. «È vero e mentalmente non eravamo appesantiti. Oggi, purtroppo, il tatticismo ha preso il sopravvento. Ma in campo c’era organizzazione, tutti sapevamo cosa fare. Lippi era veramente un passo avanti, compresa la capacità di lettura della partita».Il più grande difetto e il più grande pregio di Lippi? «La permalosità come difetto, lo riconosce anche lui. Tra i pregi, oltre alle cose già dette, la capacità di motivare al massimo le persone. Parlando a tutto il gruppo oppure con colloqui a tu per tu. In questo Lippi è stato il più grande in assoluto. E lo ha fatto con tutti».Anche con te? «L’episodio più eclatante avvenne nell’intervallo di Juventus-Napoli del 19 febbraio 1995. Siamo sullo 0-0. Lui invita alla calma, ci dice che stiamo giocando bene e che è convinto che la gara la risolverà un campione. E mi guarda. Al 78’ segnai proprio io».Ed è un goal che è entrato nella storia per la tua particolare esultanza. «Mi venne di coprirmi la faccia con la maglia. Non c’era premeditazione, puro istinto. L’uomo mascherato è nato quel giorno. Poi ho sempre festeggiato così».Passo indietro. Eravamo rimasti al dopo Foggia. «Le parole di Lippi fecero centro. La domenica dopo vincemmo a Cremona con il goal di Vialli in rovesciata, ma la prima spallata al campionato fu data la giornata successiva con la vittoria sul Milan. Dicevano che avremmo rinunciato al tridente. Vero niente. Giocammo alla grande e Baggio realizzò la rete decisiva addirittura di testa, in mezzo a Baresi e Costacurta».E arriviamo così all’8 gennaio 1995, in calendario c’è lo scontro diretto con il Parma che vi precede di un punto. «Una partita decisiva. Tornai in anticipo dalle vacanze natalizie e chiesi a Ventrone di potermi allenare. Avevo una voglia matta di giocare. Il primo tempo fu equilibrato. Quindi avanti loro con Dino Baggio e 1-1 di Paulo Sousa. Poi arriva il minuto settanta. Vialli da destra la mette in area, la palla è bassa. Io ci vado in tufo per impattarla di testa. È tutto istinto, come ai tempi dell’oratorio. Ci vuole coraggio, ho due difensori addosso. La giro alla perfezione all’angolo opposto. Il portiere non ci arriva. Mi alzo e ricordo ancora adesso Del Piero che mi dice: “Ma che cavolo di goal hai fatto?!”».Ti sei reso conto subito della prodezza? «Sì. Era veramente un momento di grazia. Tre giorni dopo è nato il  mio primo figlio. La domenica successiva feci altri due goal alla Roma, perché poi al Parma segnai il rigore del 3-1 definitivo. E poi ci furono le parole di Roberto Bettega: “Questi goal qui li fanno solo quelli con i capelli bianchi”».La precoce canizie ti ha mai pesato? «No, figurati. E un fattore ereditario. Ho iniziato a ingrigire a quattordici anni. La cosa suscitava curiosità, da ragazzo feci anche da testimonial per un fondo di investimento. Il parallelo con Bettega mi inorgogliva. Bettega è stato la storia della Juve, quella che ammiravo da bambino, per cui ho anche pianto. Con Giraudo e Moggi era uno dei membri della cosiddetta triade voluta da Umberto Agnelli. Tre fuoriclasse».Approfondiamo un po’ l’argomento? «Bettega era spesso al campo, ci dava consigli. Giraudo era una persona di grande intelligenza, bravissimo con i numeri. Luciano Moggi era il top dei dirigenti sportivi. Con lui la Juve è tornata ai livelli del passato. Poi è arrivato il ciclone di Calciopoli a spazzare tutto».Tu che idea ti sei fatto? «Mai avuto l’impressione che Giraudo e Moggi avessero in mano il calcio italiano. È emerso che il malcostume c’era, ma non posso credere che siano stati i soli. Mi sembra che alla fine abbiano pagato per tutti, soprattutto Moggi, verso il quale la mia stima rimane».Dopo la vittoria a Parma, la Juve conquistò la vetta e per te arrivò anche il debutto in Nazionale. «25 marzo 1995, qualificazioni agli Europei, a Salerno: Italia-Estonia. Mi chiamò Arrigo Sacchi. Giocai dall’inizio e segnai il 4-1. Ho fatto una ventina di gare con l’Italia, realizzando otto goal. L’unico rammarico è non aver disputato il Mondiale 1998 per infortunio».Nel frattempo la Juve marciava decisa verso il traguardo finale: altra tappa, sabato primo aprile 1995. «Trasferta a San Siro contro il Milan: 2-0. Aprii io di testa dopo aver saltato con un pallonetto Sebastiano Rossi, alto quasi due metri. All’84’ raddoppio di Vialli e i tifosi rossoneri abbandonarono lo stadio».In realtà ci furono anche delle clamorose sconfitte interne, Padova e Lazio per esempio. «Non ci hanno condizionato. Non siamo mai stati in difficoltà. Sono stati episodi. Ricordo che Cravero, dopo lo 0-3 della Lazio, disse: “Ho paura di uscire dallo stadio per come abbiamo rubato il risultato”».Da dove nasceva la graniticità di quella squadra? «Da Lippi, dalla voglia di arrivare. E poi dalla qualità dei singoli. Paulo Sousa era il nostro Pirlo, e poi Ferrara, Kohler, Conte. Senza dimenticare Tacchinardi, uno dei giovani più forti con cui abbia mai giocato, e Deschamps, a lungo infortunato ma determinante».In porta c’era Angelo Peruzzi. «Una bestia, tra i pali imbattibile, aveva un’esplosività incredibile. I piedi, invece, erano di legno». (ride)Intanto si avvicina il momento topico: lo scontro diretto con il Parma, il 21 maggio 1995. «Con tre giornate di anticipo potevamo vincere lo scudetto. Loro erano a sette punti. Eravamo carichi, motivati. L’unica nota stonata era la Coppa Uefa sfuggita proprio contro i gialloblu. Ce la siamo giocata male. Ah, dimenticavo: eravamo in finale di Coppa Italia, sempre contro la squadra allenata da Scala».Come hai vissuto la vigilia della sfida decisiva? «Non ho dormito. Tutta la notte in bianco. La mattina dopo mi vide Bettega, gli dissi che non avevo chiuso occhio. Lui mi fulminò: “Non è una bella cosa”».Per fortuna in campo le cose andarono bene. «Fu una domenica bellissima. Con tanto sole. Vincemmo 4-0, due goal miei. Un trionfo. I gavettoni a Lippi, la gioia in campo, la soddisfazione della mia famiglia e la festa di sera a casa di Umberto Agnelli. Avevamo riportato lo scudetto a Torino dopo nove anni».Tu avevi contribuito alla grande. «Giocai più di tutti, cinquantadue partite complessive. Feci trenta goal, l’ultimo nella finale di ritorno della Coppa Italia, che vincemmo. E l’anno dopo c’era la Champions».Era quello l’obiettivo primario del 1995-96? «Sì. C’era il desiderio di volerci affermare in Europa. Venivamo da due finali e la Coppa Uefa di vent’anni fa era un torneo altamente qualitativo. Ci sentivamo attrezzati per l’impresa. Il cammino di avvicinamento fu emozionante, molti di noi erano all’esordio in Champions. Facemmo grandi partite e Del Piero tirò fuori quelle prodezze in serie che ci diedero forza».22 maggio 1996: un anno esatto dopo lo scudetto, ecco la grande occasione. «Ed io non dormo per quindici giorni. Eravamo in ritiro alla Borghesiana. Un giorno, sotto la doccia, ne parlai con Vialli. “Luca, non riesco a dormire. Tu che fai?” “Non dormo nemmeno io”, rispose. Era tormentato dal ricordo di quattro anni prima e dal terrore di sbagliare ancora goal decisivi come contro il Barcellona nel 1992».Finalmente arriva il giorno della finale contro l’Ajax, campione in carica. Tu ci sei. «Avevo saltato alcune partite del finale di campionato per infortunio. Ma adesso stavo bene. Giocai con il solito undici, per la prima volta sulla schiena c’era il nostro nome. Avevamo la divisa di riserva, blu con le stelle gialle sulle spalle. Una maglia meravigliosa».E fortunata: al 13’ porti in vantaggio la Juve. «A me è sempre piaciuto studiare gli avversari. Avevo notato che i due fratelli De Boer spesso erano leggerini, per non dire presuntuosi, quando giocavano con il portiere. Me lo sono ricordato quando vidi quel pallone in area. Con la suola del sinistro me lo sono portato avanti e ho calciato con il destro».Da posizione impossibile. «La porta era strettissima. Silooy tentò un salvataggio in scivolata, ma non servì. In quel momento non ho capito nulla. Ero in estasi, come chi vede esaudita una grazia. Corsi alla disperata, esultai nel solito modo».Lo stato di grazia si tramuta di colpo al 77’ quando Lippi ti sostituisce. «Mi giravano e parecchio. Volevo rimanere in campo. Non ero da sostituire. Anche in previsione degli eventuali rigori, visto che ero il rigorista della squadra e non mi sarei certo tirato indietro».E una frecciata a qualcuno? «No, i quattro che tirarono fecero centro. Non servì il quinto: non l’avrebbe tirato Vialli ma Del Piero».E bene quel che finisce bene! «Appena Jugović fece goal, scattammo tutti in campo: chi piangeva, chi si rotolava per terra, chi si abbracciava, chi saltava come un invasato. Alzare la Coppa dei Campioni è uno dei più bei regali della mia carriera».Anche qui la gioia si tramuta presto in delusione. «Successe tutto all’improvviso, dopo la finale. La Juventus aveva deciso di cedermi. Non ci potevo credere. Per me fu una pugnalata. Mi sono sentito tradito. Un giorno mi aveva chiamato Umberto Agnelli dicendomi che sarei stato il capitano del futuro. Ci accordammo con il Middlesbrough, che nel frattempo aveva raggiunto l’intesa con la Juve».Siamo all’ultima domanda. Ci sono un nome e un cognome: Andrea Fortunato. «Un grande dolore. Io ho perso un amico, il calcio un sicuro campione, la sua famiglia, che ancora oggi fa fatica, un figlio nel pieno della sua giovinezza. Quello che ho vinto alla Juve lo dedico a lui».

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Joined: 02-Jun-2005
11157 messaggi

quanti ricordi penna bianca....

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Joined: 13-Oct-2005
220410 messaggi

Bei tempi santo cielo... Se qualcuno mi chiedesse cosa sia per me Ravanelli, rispondo la mia infanzia.

L'esultanza, il poster in camera, la maglia numero 11, la doppietta al Parma mentre ero in viaggio. Brividi.

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Joined: 14-Jan-2007
860 messaggi

Penna bianca....uno che non aveva una tecnica eccelsa,ma che aveva due co*****i giganteschi.IDOLO!

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Joined: 07-Oct-2007
900 messaggi

quando penso a ravanelli la prima cosa che mi viene alla mente

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Joined: 28-Jun-2009
11 messaggi

Vi ricordate i 5 gol in Coppa Uefa contro il CSKA Sofia nel 94\95?

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Joined: 27-Sep-2006
518 messaggi
Bei tempi santo cielo... Se qualcuno mi chiedesse cosa sia per me Ravanelli, rispondo la mia infanzia.

L'esultanza, il poster in camera, la maglia numero 11, la doppietta al Parma mentre ero in viaggio. Brividi.

quoto tutto

avendo 28 anni, ravanelli

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Joined: 11-May-2007
35032 messaggi

il mio idolo della grande prima Juve di Lippi, Penna Bianca Ravanelli!

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Joined: 14-Nov-2006
82253 messaggi

Da piccolo era tra i miei giocatori preferiti gi

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Joined: 29-Oct-2009
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Nel mercato 96-97 Lucianone decise di cambiare l'impianto offensivo via Sousa dentro Zizou, via Vialli e Ravanelli dentro i pi

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Joined: 22-May-2006
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Nel mercato 96-97 Lucianone decise di cambiare l'impianto offensivo via Sousa dentro Zizou, via Vialli e Ravanelli dentro i pi

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Joined: 14-Oct-2005
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Grande Penna bianca, uno dei miei idoli da bambino... che cuore la prima Juve lippiana!!! @@

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Joined: 13-Feb-2009
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E chi se lo dimentica Fabrizio...Il gol in coppa italia contro il Parma, mi affacciai alla finestra e gridai:- gol di Ravanelliiiiiiii gol di Ravanelliiiiiiiiii! per avvisare mio fratello che era gi

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Ricordo anche una dichiarazione di Berlusconi, che lo paragon

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Joined: 19-Mar-2008
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Vi ricordate i 5 gol in Coppa Uefa contro il CSKA Sofia nel 94\95?

Una delle mie prime partite.

Eravamo svantaggiati dal passivo subito all'andata (mi pare subimmo 3 gol).

Al ritorno ne fece 5 Penna Bianca @@.

Grandissimo attaccante, quando si distendeva in contropiede era un treno.

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Joined: 27-Sep-2006
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mi viene da piangere a pensare a quei tempi...che giocatore, l'ho amato come mai nessun altro

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Joined: 29-May-2014
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  1. a Quei Tempi era il Mio Preferito ma nelle Prime Uscite Non Sembrava Molto Forte.. Dovevo Difenderlo dagli Amici ke lo Kiamavano il "Caprone Bianco" poi Li Ha Infilzati Uno dopo l' Altro.. Grande Fantomas :sventola:

    
    

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55062307_juve1989.png.0e751d8b023348d650bcfe17bd167d22.png   FABRIZIO RAVANELLI

 

Juventus versloeg Ajax in 1996 op epo' | Het Nieuwsblad Mobile

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Fabrizio_Ravanelli

 

 

Nazione: Italia 20px-Flag_of_Italy.svg.png
Luogo di nascita: Perugia
Data di nascita: 11.12.1968
Ruolo: Attaccante
Altezza: 188 cm
Peso: 84 kg
Nazionale Italiano
Soprannome: Penna Bianca - Silver Fox

 

 

Alla Juventus dal 1992 al 1996

Esordio: 27.08.1992 - Coppa Italia - Juventus-Fidelis Andria 4-0

Ultima partita: 22.05.1996 - Champions League - Ajax-Juventus 1-1

 

160 presenze - 69 reti

 

1 scudetto

1 coppa Italia

1 supercoppa italiana

1 champions league

1 coppa Uefa

 

 

 

Fabrizio Ravanelli (Perugia, 11 dicembre 1968) è un allenatore di calcio ed ex calciatore italiano, di ruolo attaccante.

Dopo diverse esperienze tra Serie C2, C1 e B, salendo alla ribalta con le maglie di Perugia e Reggiana, ha vissuto la fase più brillante della propria carriera tra le file della Juventus, club in cui ha vinto una Coppa UEFA, uno scudetto, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e una Champions League. Trasferitosi al Middlesbrough prima e all'Olympique Marsiglia poi, è rientrato in Italia nel 2000, ingaggiato dalla Lazio, dove ha nuovamente conquistato scudetto, Coppa Italia e Supercoppa nazionale. Ultratrentenne, ha vestito le casacche di Derby County, Dundee e nuovamente Perugia, con cui ha chiuso la carriera nel 2005.

Soprannominato Penna Bianca o Silver Fox a causa del candore precocemente assunto dalla sua capigliatura, viene ricordato anche per la particolare esultanza dopo ogni suo gol, da lui personalmente inventata, che consisteva nel coprirsi la testa con la maglia di gioco e continuare a correre con le braccia divaricate.

È stato candidato al Pallone d'oro nel 1995 e nel 1996, classificandosi rispettivamente 12º e 16º.

 

Fabrizio Ravanelli
Fabrizio Ravanelli 2011.jpg
Ravanelli nel 2011
     
Nazionalità Italia Italia
Altezza 188 cm
Peso 84 kg
Calcio Football pictogram.svg
Ruolo Allenatore (ex attaccante)
Termine carriera 2005 - giocatore
Carriera
Giovanili
1983-1986   Perugia
Squadre di club
1986-1989   Perugia 90 (41)
1989-1990   Avellino 7 (0)
1990    Casertana 27 (12)
1990   Avellino 0 (0)
1990-1992   Reggiana 66 (24)
1992-1996   Juventus 160 (69)
1996-1997   Middlesbrough 35 (17)
1997-1999   Olympique Marsiglia 64 (28)
1999-2001   Lazio 27 (4)
2001-2003   Derby County 50 (14)
2003-2004   Dundee 5 (0)
2004-2005   Perugia 39 (9)
Nazionale
1995-1998 Italia Italia 22 (8)
Carriera da allenatore
2011-2012   Juventus Esordienti
2012-2013   Juventus Giov. Reg.
2013   Ajaccio  
2018   Arsenal Kiev

 

Caratteristiche tecniche

Giocatore

220px-Champions_League_1995-96_-_Ajax_vs
 
Ravanelli nella sua iconica esultanza a testa coperta e braccia divaricate, qui dopo aver aperto le marcature nella vittoriosa finale di UEFA Champions League 1995-1996.

 

Mancino, ma abile anche con il destro, pur non vantando una grande eleganza nei movimenti — era caratteristica la sua corsa con «quella schiena un po' curva» — spiccava sul terreno di gioco per carattere, dinamismo, forza fisica e senso del gol, oltreché per una notevole propensione alla fase difensiva grazie a costanti ripiegamenti. Agiva generalmente da seconda punta, ruolo in cui era solito fare da «torre» per i compagni di reparto — sebbene il colpo di testa non fosse il pezzo migliore del suo repertorio —, risultando altresì efficace nella finalizzazione. A queste doti unì progressivi miglioramenti nella tecnica di base: già molto abile nel dribbling, talvolta si incaricava anche della battuta dei calci di punizione, prediligendo una traiettoria a effetto.

Carriera

Giocatore

Club

Perugia, Casertana e Reggiana
170px-Serie_C2_1987-88_-_Perugia_vs_Mart
 
Un giovane Ravanelli al Perugia nel 1987

 

Cresce nelle giovanili del principale club della sua città, il Perugia, con cui debutta in prima squadra nella stagione 1986-1987, in Serie C2, guadagnandosi sempre più spazio nella parte finale del campionato grazie alla fiducia del tecnico Mario Colautti. L'annata seguente, neanche ventenne, s'impone tra i protagonisti di una compagine ricordata tra le migliori della storia biancorossa, per via dei numerosi record societari stabiliti: in questo contesto Ravanelli mette a segno 23 reti che ne fanno il capocannoniere del campionato, dando un notevole apporto nella vittoria del girone e annessa promozione dei grifoni in Serie C1.

Nel triennio iniziale in Umbria, in cui ha peraltro tra i suoi rifinitori un altro promettente giovane, Angelo Di Livio, che ritroverà in seguito nei vittoriosi anni juventini, l'attaccante realizza un totale di 41 gol, cifra che desta le attenzioni dell'Avellino, in Serie B, dove approda nell'estate 1989. L'esperienza con gli irpini non è però delle più positive: all'inizio della stagione 1989-1990 ha modo di collezionare appena 7 presenze in maglia biancoverde prima di venire ceduto in prestito, in ottobre, alla Casertana dove ritrova parzialmente il feeling con la rete mettendo a referto 12 reti nel campionato di C1.

 

170px-Fabrizio_Ravanelli_-_AC_Reggiana_1
 
Ravanelli in azione alla Reggiana nel 1991

 

Tornato ad Avellino nell'estate 1990, si ritrova nuovamente chiuso tra le file dei campani con cui gioca soltanto il precampionato e due gare di Coppa Italia, sicché a settembre è acquistato dai pari categoria della Reggiana. Qui emerge perentoriamente disputando due buoni campionati di Serie B, in particolar modo il primo, 1990-1991, dove con 16 centri porta gli emiliani a sfiorare quella che sarebbe stata una storica promozione in Serie A, al tempo mai raggiunta prima dal club granata.

Le prove offerte a Reggio Emilia fanno convergere su Ravanelli le attenzioni della Juventus che cerca di portarlo in Piemonte già sul finire del 1991, rimandando poi il trasferimento all'anno seguente anche per la prospettiva di prelevarlo da svincolato, negli anni immediatamente precedenti la sentenza Bosman, con un minor esborso economico. Tale querelle di mercato finisce tuttavia per porre il giocatore in aperto contrasto con la tifoseria della Regia, influendo negativamente anche sul rendimento in campo nell'annata 1991-1992, in cui dimezza il bottino sottoporta.

Juventus
1992-1994

Nell'estate 1992 Ravanelli approda come da programmi alla Juventus, squadra per cui ha sempre tifato fin da bambino, che lo acquista per 3 miliardi di lire portandolo così a esordire in Serie A. Inizialmente relegato dall'allenatore bianconero Giovanni Trapattoni a quinta scelta in un parco attaccanti che gli vede davanti elementi quali Roberto Baggio, Casiraghi, Möller e Vialli, nella sua prima stagione a Torino ha comunque modo di contribuire con gol importanti alla vittoria della Coppa UEFA, conquistata dopo aver sconfitto nella doppia finale i tedeschi del Borussia Dortmund. Ciò gli vale la riconferma per l'annata seguente in cui, anche sfruttando la sopravvenuta cessione di Casiraghi, aumenta via via minutaggio e reti pur senza riuscire, fin qui, a convincere appieno l'ambiente juventino che lo vede ancora come un «buon gregario» e nulla più.

 

220px-Perugia_vs_Juventus_%281994%29_-_L
 
Ravanelli (a destra) alla Juventus nella primavera 1994, in occasione di un'amichevole nella natìa Perugia, insieme a Luciano Gaucci, suo futuro presidente negli ultimi anni di carriera.

 

La svolta avviene nell'estate 1994 quando sulla panchina dei piemontesi, nel frattempo profondamente rinnovatisi a livello societario e di organico, arriva Marcello Lippi. Il nuovo tecnico, in coincidenza con l'inizio del primo torneo di massima serie a vedere assegnati i tre punti a vittoria, sceglie di varare un offensivo modulo a tre punte: «l'idea partiva dalla constatazione che, ceduto Dino Baggio, non avevamo centrocampisti abili nell'inserimento da dietro. Le tre punte potevano essere una buona soluzione [...] Tre attaccanti veri, di ruolo. Vialli, il sottoscritto e Baggio o Alex Del Piero». Tale impostazione tattica, che prevede grande dispendio atletico e spirito di sacrificio — «potevamo garantire molte soluzioni d'attacco ed eravamo i primi a difendere» —, esalta le doti del «panzer» umbro il quale si afferma definitivamente ad alti livelli, confermando il suo altruismo a tutto campo ma riscoprendosi anche prolifico sottorete.

1994-1996

La stagione 1994-1995, la più usurante della carriera con 53 partite giocate, lo vede sfondare quota 30 gol, bottino che aiuta la Vecchia Signora a fare proprio il double composto dallo scudetto, tornato sulle casacche bianconere dopo nove anni, e dalla Coppa Italia; l'attaccante è assoluto protagonista nelle sfide contro il Parma, nel dualismo sportivo che monopolizza il calcio italiano ed europeo dell'annata, siglando loro in campionato una doppietta sia all'andata sia al ritorno — gara, quest'ultima, che il 21 maggio 1995 consegna matematicamente ai bianconeri il tricolore —, e realizzando un'altra rete ai ducali il successivo 11 giugno, nella finale di ritorno che porta i torinesi a fregiarsi della coccarda tricolore.

 

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Roberto Baggio, Ravanelli e Gianluca Vialli, il tridente d'attacco dei bianconeri campioni d'Italia 1994-1995.

 

Con la Juventus raggiunge inoltre nel 1995 la sua seconda finale di Coppa UEFA, stavolta persa contro i rivali parmensi, competizione nella quale il 27 settembre 1994 mette a referto una cinquina nel 5-1 interno ai bulgari del CSKA Sofia, record per un giocatore bianconero nelle coppe europee e, all'epoca, 8º di sempre a timbrare un pokerissimo nella storia della manifestazione.

L'annata successiva, l'ultima delle quattro trascorse a Torino, Penna Bianca è ormai uno dei senatori dello spogliatoio juventino, indossando all'occorrenza anche la fascia di capitano ogni qual volta non è in campo Vialli (come «nel ventre di un Bernabéu stracolmo, contro il Real Madrid», nei quarti di Champions League); sempre a livello personale, sintomo di una sopraggiunta notorietà ormai internazionale, sul finire dell'anno solare si classifica inoltre al 12º posto nel Pallone d'oro della rivista francese France Football e al 9º nel World Player of the Year dell'inglese World Soccer.

 

220px-Champions_League_1995-96_-_Juventu
 
Da destra, in primo piano: Ravanelli, vicecapitano juventino, e Alessandro Del Piero festeggiano il gol di Antonio Conte ai Rangers nella Champions League 1995-1996; sullo sfondo, accorre Angelo Di Livio.

 

Nel gennaio 1996 partecipa alla vittoria della Supercoppa italiana, l'ultimo trofeo nazionale che ancora mancava alla bacheca bianconera, conquistata nuovamente a spese del Parma. Soprattutto, a fine stagione è tra i protagonisti della squadra vincitrice della Champions League: nella finale di Roma contro i detentori del trofeo, gli olandesi dell'Ajax, Ravanelli realizzò da «posizione impossibile» il gol del momentaneo vantaggio — «avevo notato che i due fratelli De Boer spesso erano leggerini, per non dire presuntuosi, quando giocavano con il portiere. Me lo sono ricordato quando vidi quel pallone in area. Con la suola del sinistro me lo sono portato avanti e ho calciato con il destro. [...] La porta era strettissima. Silooy tentò un salvataggio in scivolata, ma non servì» —, poi pareggiato da Litmanen, in una partita infine vinta dai piemontesi ai tiri di rigore.

Alla fine di questa stagione, che gli varrà una seconda candidatura al Pallone d'oro (16º), avviene tuttavia la brusca interruzione del rapporto con la squadra torinese: «successe tutto all'improvviso, dopo la finale. La Juventus aveva deciso di cedermi. Non ci potevo credere. Per me fu una pugnalata. Mi sono sentito tradito [...] Penso di aver ricevuto meno di quanto ho dato [...] Mi sentivo il futuro di quella squadra». Ravanelli sveste la maglia bianconera dopo 160 partite e 69 reti, e aver messo in bacheca tre titoli nazionali e due internazionali.

Middlesbrough e Olympique Marsiglia
220px-Middlesbrough_FC_-_1996_-_Ravanell
 
Da sinistra: Ravanelli in allenamento al Middlesbrough nel precampionato 1996-1997, mentre discute con i compagni di squadra Emerson e Branco.

 

Nell'estate 1996, per la somma di 18 miliardi di lire, pur con qualche titubanza iniziale Ravanelli si trasferisce in Inghilterra, nell'ambizioso Middlesbrough di Bryan Robson, dove l'italiano, in quel momento il calciatore più pagato della Premier League, va a formare un'affiatata coppia d'attacco con il brasiliano Juninho Paulista. Questo tandem offensivo contribuisce a portare il Boro a traguardi mai toccati nei precedenti centoventi anni di storia del club, raggiungendo nella stagione 1996-1997 le finali delle due coppe nazionali, la League Cup e la FA Cup, tuttavia perse, rispettivamente, contro il Leicester City (alla ripetizione, dopo che Ravanelli aveva aperto le marcature nei supplementari della prima finale, rete resa vana dal pari di Heskey) e il Chelsea.

Le succitate fatiche infrasettimanali si ripercuotono negativamente sul cammino in campionato dove, inaspettatamente, il Middlesbrough retrocede nonostante i 16 gol in 33 partite dell'attaccante italiano — compresa la tripletta nella prima giornata al Liverpool, il 19 agosto 1996, che gli varrà poi, nel 2008, il premio di miglior esordio nella storia della Premier League da parte del tabloid The Sun —; sul piano personale è la miglior annata sottoporta per Fabulous Fab il quale, con altri 15 centri nelle coppe, raggiunge le 31 reti totali.

 

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Ravanelli (a sinistra) e il tecnico Rolland Courbis festeggiano per la qualificazione dell'Olympique Marsiglia alla finale di Coppa UEFA 1998-1999.

 

Con i rossi di North Yorkshire relegati in First Division, i rapporti fra il club e Ravanelli si raffreddano sicché, anche per ottenere maggiore visibilità in chiave azzurra causa il prossimo campionato del mondo 1998, nell'ottobre 1997 il giocatore approda in Francia, nelle file dell'Olympique Marsiglia che lo acquista per 15,5 miliardi di lire. In Provenza ha un avvio turbolento causa incomprensioni con la classe arbitrale e ancor più con l'ambiente calcistico d'Oltralpe, tifosi e mass media, che gli affibbiano la poco edificante nomea di «simulateur» dopo la vittoriosa sfida di cartello dell'8 novembre 1997 al Parco dei Principi contro il Paris Saint-Germain (2-1), in cui si guadagna un calcio di rigore apparso inesistente: l'episodio è ricordato tra i più discussi nella storia del Classique.

Ciò nonostante Ravanelli fa presto dimenticare il tutto disputando un buon biennio iniziale in maglia biancazzurra, in cui spicca in particolare la stagione 1998-1999 quando le 13 reti dell'italiano, inserito dal tecnico Rolland Courbis in un tridente d'attacco che vede anche Dugarry e Maurice, portano i marsigliesi a sfiorare la vittoria in Division 1: in un epilogo thrilling di campionato che vede, all'ultima giornata, lo scontro diretto al vertice contro il capoclassifica Bordeaux, l'OM è virtualmente campione di Francia sino all'89' quando il pareggio dei girondini consegna a questi il titolo. Nel 1999 raggiunge inoltre la sua terza finale di Coppa UEFA (in cui tuttavia è costretto a saltare l'atto conclusivo per la squalifica rimediata nella semifinale di ritorno a Bologna), persa a Mosca contro il Parma. Negativa è invece l'annata seguente, con la squadra impantanata nella bagarre della zona retrocessione e Ravanelli che fa le valigie nella sessione invernale di mercato, lasciando Marsiglia dopo 84 presenze e 31 reti.

Lazio, Derby County e Dundee
170px-Fabrizio_Ravanelli_-_SS_Lazio_1999
 
Ravanelli esulta con la maglia della Lazio nella stagione 1999-2000

 

Nel dicembre 1999, sia per ragioni tecniche come lo scarso rapporto con il successore di Courbis sulla panchina dell'OM, Bernard Casoni, sia per motivi familiari, l'attaccante fa ritorno in Italia accasandosi alla Lazio. Pur non facendo parte dell'undici titolare, al termine della stagione 1999-2000 contribuisce ai trionfi dei capitolini di Sven-Göran Eriksson, che nello spazio di pochi giorni dapprima tornano a laurearsi campioni d'Italia dopo ventisei anni — approfittando nell'ultima giornata dell'esito dello scontro proprio fra due ex club di Ravanelli, Perugia e Juventus —, e poi sollevano la Coppa Italia superando nella doppia finale l'Inter. Dopo il secondo double nazionale della carriera, all'inizio dell'annata seguente arriva per Ravanelli anche la seconda Supercoppa italiana personale, vinta dalla Lazio ancora ai danni dei nerazzurri.

Quella del 2000-2001 è una stagione che lo vede tuttavia ai margini della rosa biancoceleste, chiuso in avanti da elementi quali Simone Inzaghi e Salas nonché dai neoacquisti Claudio López e Crespo. Al termine della stessa, dopo 10 reti nei diciotto mesi trascorsi a Roma, lascia quindi da svincolato il club capitolino per far ritorno in Gran Bretagna. Oltremanica milita dapprima per gli inglesi del Derby County, dove rimane per una stagione e mezza senza riuscire a evitare, nel 2002, la retrocessione della squadra in First Division, e poi per gli scozzesi del Dundee, con cui spende gli ultimi mesi del 2003 prima di veder risolto il proprio contratto causa i gravi problemi economici della società. Nella sua seconda e ultima esperienza nel calcio britannico Ravanelli colleziona 16 reti con i Rams e 3 con i Dees, queste ultime consistenti in un hat-trick al Clyde in una sfida di Scottish League Cup.

Ritorno a Perugia
220px-Fabrizio-Ravanelli-Perugia.jpg
 
L'ultima maglia da calciatore di Ravanelli, quella del Perugia nella stagione 2004-2005.

 

Nel gennaio 2004 Ravanelli torna nella natìa Perugia per chiudere la carriera con la maglia del club che l'aveva lanciato, anche per tenere fede a una promessa fatta al padre da poco scomparso: «ricordo che quando entravo in campo istintivamente mi giravo verso la curva per salutarlo, poi mi veniva in mente che non c'era più».

Sotto la guida di Serse Cosmi il Perugia sta affrontando un campionato difficile, relegato al fondo della classifica, tanto che il presidente biancorosso Luciano Gaucci, avvezzo a decisioni fuori dagli schemi, sarebbe tentato di affidare a Ravanelli anche la panchina della squadra, nel doppio ruolo di player manager; tuttavia è lo stesso attaccante a far desistere Gaucci dai suoi intenti. Grazie ai gol e alla leadership di Ravanelli, cui vengono affidati anche i gradi di capitano, nella seconda parte di stagione gli umbri riescono contro ogni pronostico a risalire la china e a raggiungere l'insperato spareggio interdivisionale contro la Fiorentina, che però li vede sconfitti, tra molte recriminazioni della piazza perugina, e retrocessi in Serie B.

Nella stagione 2004-2005 l'attaccante rimane ancora nel Perugia che, al termine della stessa, fallisce il ritorno in massima serie dopo aver perso la finale play-off contro il Torino. L'estate seguente la squadra biancorossa, caduta preda di guai finanziari, va incontro alla rifondazione e alla conseguente ripartenza dalla Serie C1, sicché all'età di 36 anni Ravanelli decide di ritirarsi dal calcio giocato.

Nazionale

220px-Italia_vs_Lituania_%28Reggio_Emili
 
Ravanelli in maglia azzurra nel 1995, alle prese con la retroguardia lituana nel corso delle qualificazioni al campionato d'Europa 1996.

 

Il primo approccio di Ravanelli con la maglia azzurra avviene il 27 aprile 1988 nella sua Perugia, tra le file della nazionale Under-21 di Serie C, in occasione di un'amichevole contro i pari età della Bulgaria.

Per il debutto in nazionale maggiore deve attendere il 25 marzo 1995, quando il commissario tecnico Arrigo Sacchi gli affida una maglia da titolare per la gara di qualificazione al campionato d'Europa 1996 contro l'Estonia, trovando subito la rete sul terreno di Salerno; prende poi parte alla fase finale della succitata competizione continentale in Inghilterra, scendendo in campo in 2 delle 3 partite dell'Italia.

 

220px-Italia_vs_Polonia_%28Napoli%2C_199
 
Ravanelli (a sinistra) in nazionale nel 1997, mentre festeggia con Di Livio (a destra) un gol di Baggio (al centro) nelle qualificazioni al campionato del mondo 1998.

 

Terminata la gestione Sacchi, Ravanelli resta nel giro azzurro anche sotto la guida di Cesare Maldini, il quale ne fa tra i punti fermi della squadra per tutte le qualificazioni al campionato del mondo 1998 (compreso il decisivo play-off contro la Russia), convocandolo poi per la fase finale in Francia; l'attaccante è tuttavia impossibilitato a prendervi parte, poiché nel frattempo colpito da una broncopolmonite di origine batterica, venendo così sostituito a pochi giorni dal via — in quello che rimarrà «il più grande rimpianto della mia carriera» — da Enrico Chiesa.

L'amichevole pre-mondiale del 2 giugno 1998, una sconfitta per 1-0 contro la Svezia, rimane dunque la sua ultima apparizione in maglia azzurra, con cui ha totalizzato 22 presenze e 8 reti.

Allenatore

Al termine dell'attività agonistica, intraprende con alterne fortune quella di allenatore. Nel 2005 è supervisore tecnico nel vivaio del Perugia, per poi passare alle giovanili della Juventus, dove nella stagione 2011-2012 ricopre il ruolo di tecnico della formazione Esordienti, e nella successiva dei Giovanissimi Regionali.

 

170px-Fabrizio_Ravanelli_maggio_2012.jpg
 
Ravanelli tecnico delle giovanili juventine nel 2012

 

Nell'estate 2013 viene ingaggiato come tecnico della prima squadra dai francesi dell'Ajaccio, club di Ligue 1; nonostante un avvio promettente, una crisi di risultati lo porta a essere sollevato dall'incarico il successivo 2 novembre, lasciando la squadra al diciannovesimo posto in campionato.

Dopo un lustro d'inattività, in cui si dedica prettamente ad ambassador delle Juventus Legends, nel giugno 2018 viene chiamato ad allenare l'Arsenal Kiev, neopromosso nella massima serie ucraina. Anche questa esperienza è però di breve durata: lamentando una difficile situazione ambientale dettata da gravi problemi economici in seno alla società, che si ripercuote negativamente sull'andamento della squadra, si dimette dall'incarico il successivo settembre, con la squadra ultima in classifica.

Dopo il ritiro

Al termine dell'attività agonistica, contemporaneamente alla carriera in panchina inizia a collaborare come opinionista televisivo, per canali sportivi come Mediaset Premium o Fox Sports. Fa inoltre parte delle selezioni di Juventus Legends e Azzurri Stars composte, rispettivamente, da ex giocatori del club bianconero e della nazionale italiana, volte a portare avanti progetti di solidarietà.

Causa riabilitazione dopo un intervento chirurgico alla schiena, dal 2005 ha iniziato ad appassionarsi al ciclismo, partecipando dal 2008 con successo a varie gare di granfondo — si è laureato, fra le altre cose, campione provinciale perugino di cicloturismo — e creando assieme ad altri amici una vera e propria squadra, l'Umbria Cycling Team.

Nella seconda metà degli anni 2000 è stato testimonial per Dirk Bikkembergs.

Record

  • Unico giocatore nella storia della Juventus ad aver segnato, nelle coppe europee, 5 gol in una sola partita.

Palmarès

Giocatore

220px-Fabrizio_Ravanelli%2C_Juventus%2C_
 
Ravanelli solleva la Coppa UEFA 1992-1993.
220px-Juventus_FC_-_Champions_League_199
 
Ravanelli, tra Moreno Torricelli (a sinistra) e Michele Padovano (a destra), stringe la UEFA Champions League 1995-1996.

Club

Competizioni nazionali
Competizioni internazionali

Individuale

 

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Fabrizio Ravanelli exclusive | Second part - Juventus TV

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