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Beniamino Vignola

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grande vignola

lo ricordo sempre come uno dei miei preferiti

chiuso da un certo platini,giocatore di qualit

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Joined: 09-Nov-2007
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Devo anche a lui il mio essere gobbo.

Da piccolissimo, sento il cronista esultare al gol di Vignola (credo quello in finale contro il Porto).

Guardo la tv, vedo mio padre esultare e, colpito da quella stupenda maglia con i colori della mia citt

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Joined: 14-Jun-2008
11014 messaggi

BENIAMINO VIGNOLA

IO, LA RISERVA CHE DAVA ORDINI ANCHE A PLATINI!

«Ero già d’accordo con la Fiorentina invece andai alla Juve e conquistai scudetto e coppe. Nel mio ruolo era Michel il titolare, ma spesso giocavamo insieme e così lui poteva stare più vicino alla porta. Si fidava: gli davo informazioni su chi doveva marcarlo e consigli su come battere le punizioni. E lo spronavo: oggi devi farci vincere tu»

di NICOLA CALZARETTA (GUERIN SPORTIVO | FEBBRAIO 2017)



Da anni ormai fa l’imprenditore. Così lo qualifica anche Wikipedia aggiungendo che è anche un ex calciatore di ruolo centrocampista. Scrive che è nato a Verona il 12 giugno 1959 e che si chiama Beniamino Vignola. Non ci dice però, perché non lo sa, che in famiglia e per gli amici è Franco. «E’ il mio secondo nome, anche se non ce l’ho sui documenti. Ma fin da piccolo mi hanno sempre chiamato così. E Franco sono anche per Nicoletta, mia moglie e per i ragazzi che lavorano con me in azienda». L’azienda è la Vetrauto, fondata dal papà di Nicoletta 50 anni fa, di cui è amministratore insieme al cognato. «Quando ho smesso con il pallone, ho colto l’opportunità che mi offriva mio suocero. Operiamo nel campo dell’after-market. Ricambi e riparazioni dei vetri delle vetture. Ci sono entrato in punta di piedi e grazie agli insegnamenti di chi mi ha preceduto ho imparato il mestiere». L’azienda è cresciuta, adesso c’è anche la Vetrocar, con decine di filiali in tutta Italia. «Nel lavoro ho messo un po’ delle mie esperienze sportive: il gioco di squadra, l’importanza del gruppo. Ci sono anche le multe simboliche per chi arriva tardi o le brioches da portare al sabato per chi fa qualche danno». E’ allegro e sorridente Vignola. Seduto alla sua scrivania, alle spalle un collage di immagini del calcio perduto che lo ha visto protagonista dal 1979 al 1992 con Verona, Avellino, Juventus, Empoli e Mantova. Le ultime consegne di lavoro, poi telefono silenziato, mentre da una busta ecco comparire una maglia bianconera: scudetto sul petto e numero dieci. La mostra con orgoglio. E’ una cosa preziosa, al pari di una perla. E non a caso la sede della sua azienda è in Via del Perlar, l’albero delle perle, per l’appunto.
«Erano anni che non la riprendevo tra le mani. E’ una bella sensazione. E’ l’unica maglia che ho conservato. L’altra, quella gialla con il numero 7 con cui ho conquistato la Coppa delle Coppe nel 1984, l’ho donata al Museo della Juventus. E tutte le volte che penso che qualcosa di mio è in un Museo mi vengono i brividi».

Sei d’accordo che la perla più preziosa delle tue stagioni alla Juve è il gol di Basilea del 16 maggio 1984?
«Sì. Segnare una rete in una finale internazionale, penso sia il sogno di tanti. Se poi è anche quella che ha contribuito alla vittoria finale, beh, diciamo che è proprio una bella perla».

Ci racconti l’azione?
«Fu un gol strano. Ricevo palla da Platini, sono sulla trequarti avversaria e punto verso la porta, allargandomi leggermente a sinistra. Attendo il movimento dei miei compagni, però più avanzo, più non vedo “gialli” da servire. Quindi mi allargo ancora un po’ e, a quel punto, dal limite carico a tutta forza il sinistro per incrociare al massimo il tiro. Il portiere non si tuffa nemmeno, mentre il pallone accarezza il palo e finisce in rete».

Sono passati 13 minuti, 1-0 per la Juve. Segue tua esultanza.
«Non stavo nella pelle, non mi sembrava vero. Alzo le braccia e poi mi metto in ginocchio. Il primo ad arrivare è Cabrini che mi sventola davanti il pugno, mi abbraccia e mi tira su insieme a Boniek».

C’è il tuo zampino anche nel 2-1 finale siglato dal polacco.
«Il lancio in verticale per Zibì era uno schema ricorrente in quella Juve. La mia imbucata fu suggerita dal suo perfetto inserimento in area. Poi ancora oggi non so come fece a beffare portiere e difensore con quel tocchetto di destro in anticipo su tutti (sorride)».

Al 90’ la Coppa delle Coppe è bianconera.
«E Trapattoni, che mi aveva appena tolto, mi stringe il viso con le sue mani e poi mi abbraccia con tutta la sua forza, euforico. Poi la gioia dei miei compagni, quasi tutti reduci dalla grandissima delusione di Atene dell’anno prima. C’era voglia di rivalsa, di rivincita immediata. Sembra impossibile, ma quello fu soltanto il secondo successo internazionale della Juve dopo la Coppa Uefa del 1977».

E tu che cosa provasti?
«Volavo su una nuvola. Alla mia prima stagione alla Juve, dopo aver vinto anche lo scudetto, non potevo chiedere di più. Ma come sempre accade, nel momento non riesci a cogliere appieno tutte le emozioni. Comprendi ciò che ti è successo dopo, col tempo, con i ricordi, riparlandone come stiamo facendo adesso».

Sapevi di giocare dal primo minuto?
«Sì. Nella parte finale della stagione il Trap mi aveva utilizzato spesso dall’inizio al posto di Penzo. Da lui ho ereditato il “sette”, che poi era l’unico numero libero (ride). Evidentemente l’idea del mister era proprio quella di partire con me anche nella finale secca con il Porto dove c’era più bisogno di copertura a centrocampo e magari di qualche inventiva in più».

Torniamo indietro di alcuni mesi: estate 1983. Come sei arrivato alla Juventus?
«In maniera rocambolesca. Anche perché, in pratica, ero già della Fiorentina. Dopo i tre anni ad Avellino, il mio nome è gettonato e il presidente vuole fare giustamente cassa. Sono a Verona, a casa. Mi chiama la società, mi dice che è tutto fatto con la Fiorentina. “Quando vieni giù fermati a Firenze per parlare con il direttore generale della società Allodi e con l’allenatore De Sisti”».

Quindi?
«Ci incontriamo, parliamo, tutto bene. Non c’è nulla di firmato, ma mi sento un giocatore della Fiorentina. Riprendo la macchina e arrivo ad Avellino. Mi vedo con il presidente Sibilia, gli riferisco tutto e lui mi fa: “Anche noi abbiamo chiuso. Ma con la Juventus. Questo è il numero di Boniperti, aspetta una tua telefonata. Ho chiamato. “Sei contento di venire alla Juve?”. Gli rispondo di sì, ma che non me l’aspettavo. E lui: “Vieni su a Torino, fai le visite e si parte”. Vado, faccio le visite, presentazione, ritiro. Tutto bello, ma nel frattempo del contratto nulla».

E quando ne avete parlato?
«A Villar Perosa, come tradizione. Il primo giorno faceva i big. Il secondo i giovani. Firma in bianco e la speranza di vincere molto perchè c’erano dei bei premi, ma belli davvero».

Sinceramente: eri contento di essere andato alla Juve o avevi qualche dubbio di avere pochi spazi?
«Chiaro che andavo in una squadra di fuoriclasse. Nel mio ruolo poi c’era Michel Platini, il “Professore”. Però avevo 24 anni e la possibilità di giocare in una delle società più prestigiose del mondo. Per la prima volta potevo competere per lo scudetto e le coppe, invece che giocare per la salvezza».

Come è stato il tuo impatto con il mondo bianconero?
«Sono entrato in punta di piedi, con il massimo rispetto. Ho osservato molto. Ho cercato di capire. E ho visto una squadra composta da grandi campioni da prendere ad esempio per la serietà e l’impegno. E un gruppo di ragazzi veramente eccezionale che mi ha accolto con molta amicizia e altrettanto rispetto. Ho impiegato pochissimo tempo ad integrarmi».

Facile, eri sponsorizzato da Platini!
(sorride) «Michel aveva dichiarato che Vignola era uno dei giovani più interessanti del campionato. Certo, con una candidatura così la strada per arrivare alla Juve si è fatta più in discesa. A parte le battute, al di là di tutto c’erano anche dei motivi tecnico-tattici alla base delle preferenze di Platini».

Che erano?
«Da un lato la mie qualità tecniche. E per gente come Platini che amava il palleggio era sicuramente più piacevole giocare. Tatticamente la mia presenza gli consentiva di poter stare più avanti, più vicino alla porta. Cosa che lui amava moltissimo, non solo per segnare di più, ma anche per non doversi preoccupare della marcatura».

Chi era Michel Platini?
«Un fuoriclasse. Senza se e senza ma. A fine allenamento ci si fermava per tirare in porta dal limite dell’area. Io a destra e lui dall’altra parte. Calciava forte, collo pieno, con la palla ferma. La traiettoria era perfetta e andava dove voleva lui, con effetto o senza. Gli chiedevo come facesse a tirare in quel modo. E lui, candido: “Calcio il pallone!”. Con me aveva un rapporto particolare, una volta gli detti anche un suggerimento per le punizioni».

Di che si tratta?
«Gli dissi: “Ormai tanti ti conoscono, il portiere si prepara a tuffarsi sul lato coperto dalla barriera e, magari, fa in anticipo un passo verso il centro della porta. Prova a tirarla bassa, sul suo palo”. Mi ascoltò e qualche domenica dopo beffò così Castellini, numero uno del Napoli».

Si fidava molto di te.
«C’era molta stima. E complicità. Spesso mi chiedeva informazioni su chi lo avrebbe marcato. E allora gli dicevo, questo è tosto, quest’altro non ti molla mai, oppure questo qui è uno che ti lascia giocare. Ma di lui, in realtà, c’è un aspetto che pochi conoscono».

Quale sarebbe?
«Pare impossibile, ma era uno che aveva bisogno di essere rincuorato, rasserenato, talvolta incoraggiato. Succedeva spesso e capitò anche nella finale di Basilea. Guarda le immagini: squadre schierate a centrocampo, si vede che lui si gira verso di me e parliamo. Era in cerca delle ultime rassicurazioni ».

E tu cosa gli hai detto?
«Michel, questa partita ce la devi far vincere tu».

Era già capitato di avergli dato questo “ordine”?
«Successe nel derby di ritorno del campionato 1983-84. Eravamo sotto di un gol, allora io e Bonini ci avvicinammo a lui e glielo dicemmo: “Ora ci devi portare alla vittoria”. Così fu, due gol, di cui il primo di testa da vero centravanti».

Guarda caso dopo una manciata di minuti dal tuo ingresso in campo.
«Era una soluzione a cui Trapattoni ricorreva spesso. Ero realmente il dodicesimo titolare, partivo dalla panchina, ma ero quasi sicuro che avrei giocato. Il mister mi vedeva bene, sia quando la partita meritava una svolta, sia quando c’era da aumentare il numero a centrocampo. Col Toro si doveva recuperare la partita. Entro io e Platini gioca più avanti. Quella volta uscì Prandelli, ma spesso era una punta a lasciarmi il posto. E Paolo Rossi e Boniek non erano per niente felici di uscire. Pablito si accigliava, e magari sbottava in differita. Zibì, invece, si incazzava in tempo reale con corredo di parolacce».

Come facevi a entrare subito nel vivo della partita?
«Intanto non avevo bisogno di molto riscaldamento. Poi c’è il fattore mentale: andavo in panchina carico e concentrato, come se fossi già in campo. In più avevo una certa facilità di lettura della gara, il che mi aiutava molto. Infine ero alla Juve e con certi compagni a fianco è molto più semplice giocare, anche se si entra a partita in corso. Con una terminologia moderna, direi che sono stato il primo “intenso” nella storia del calcio in Italia (ride)».

Adesso ti butto lì una data: 1 aprile 1984, al Comunale si gioca Juventus-Fiorentina.
«Ed io quel giorno ho il dieci sulle spalle. Ed era la prima volta. Il “Professore” aveva la febbre. Timori? Beh, insomma. Sostituire Michel non è semplice. Sentivo di avere la fiducia di tutti. Fu molto bella l’intervista nel prepartita di Tardelli. Giampiero Galeazzi gli fa notare che alla Juve manca Platini e lui risponde: “C’è Vignola”».

Cosa ricordi di quella domenica primaverile?
«Ricordo tutto, in particolare quello che successe all’ultimo minuto sullo 0-0. Contatto in area tra Pecci e Boniek. Zibì cade e l’arbitro fischia il rigore. Non so perché, ma prendo subito il pallone in mano e lo poggio sul dischetto. E’ un gesto istintivo, di pancia. Adesso, mi vengono i brividi al pensiero della responsabilità che mi presi. Va detto che intorno a me non c’era la fila per battere il rigore. E sì che in campo c’era gente come Cabrini, Paolo Rossi, lo stesso Boniek».

Andiamo avanti.
«Non ho pensato all’esecuzione. Ad Avellino i rigori li tiravo io, insomma, mi presi un bel rischio, ma non ero certamente sprovveduto, anche se Boniek si tiene le mani nei capelli».

Dunque?
«Rincorsa, collo interno, forte a incrociare. Giovanni Galli da una parte e pallone dall’altra. Un boato. Viene giù lo stadio, mentre io corro verso la curva. E’ il gol che vale la partita e consolida il nostro primato in classifica».

Continuiamo il gioco delle date: 21 aprile 1984, Juventus-Udinese, giornata numero ventisette.
«Ero in panchina quella domenica. Vantaggio nostro con Paolo Rossi. Verso la fine del primo tempo ci fu l’uno-due dell’Udinese. Prima Mauro e poi Zico, 2-1 per loro in un minuto. Nell’intervallo Trapattoni mi dice di prepararmi, esce Boniek. Fa caldo, io sono già pronto. Sto veramente bene e sento la fiducia di tutti. Sono momenti magici, difficile dire di più. Segno due volte, è la prima doppietta con la Juventus. Il gol del controsorpasso lo faccio addirittura di destro. Si rivince e si vola a più quattro sulla Roma quando mancano tre giornate alla fine. Per lo scudetto manca solo la matematica».

La slot machine della date si ferma al 6.5.84.
«Una domenica fantastica. Giochiamo in casa contro il mio Avellino. A noi basta un punto e quello arriva. Sono felici anche i miei ex compagni che con il pareggio sono salvi. E poi c’è l’omaggio a Beppe Furino che entra a fine gara e conquista così il suo ottavo scudetto. Per me è invece il primo, e sono il ritratto della felicità».

Dieci giorni dopo c’è il trionfo di Basilea.
«Una doppietta fantastica, come accadde nel 1977. Ma dal giorno dopo iniziammo a pensare solo alla Coppa dei Campioni».

E tu che pensieri avevi: credevi di essere tra i primi undici o no?
«Ci speravo. La Juve acquistò Briaschi al posto di Penzo. Partì benissimo, il tandem con Paolo Rossi funzionava a meraviglia. Il Trap mi voleva fisso a centrocampo, e per questo, complici anche alcuni infortuni dei nostri difensori, spostò Tardelli come terzino destro. L’esperimento non durò. Marco non sposò mai l’idea, i risultati non furono incoraggianti e per me ci fu un passo indietro».

L’andamento incerto in campionato costò il posto anche al tuo amico Tacconi.
«Ci si conosceva bene. Dopo i tre anni di Avellino, siamo passati tutti e due alla Juventus. Portiere fortissimo, carattere spavaldo, ma dietro alla maschera di guascone, c’era più di un pensiero. Specie il primo anno alla Juventus si sentiva osservato, sempre sotto esame. La maglia di Zoff pesava e avrebbe schiacciato chiunque».

Condividevi la camera con lui?
«Sì, da sempre. E i sabato notte erano un tormento. Si parlava, ci scambiavamo emozioni. Mi fumava addosso non so quante sigarette. E ogni tanto si placava con qualche “amaro”. Non ti dico il periodo in cui è stato fuori squadra. Una lotta».

Se ne uscì anche con critiche verso la dirigenza e l’allenatore.
«Che gli costarono anche tanti bei soldi di multe. Era fatto così. Era il compagno più veloce a fare la doccia. Così poi usciva e andava incontro ai giornalisti. Sai quante volte gli ho detto, Stefano, aspetta, stai buono qui nello spogliatoio. Niente».

Per la finale di Coppa dei Campioni il Trap gli ridà la maglia da titolare.
«Tacconi era un portiere di avvenire e un capitale per la società. L’unico grande dispiacere, non solo mio, ma di tutta la squadra, fu il ritorno di Bodini in panchina. Era un peccato, perché ci aveva comunque portati lui alla finale. Grande Luciano, il fratellino di Gaetano Scirea».

Mi dici la tua sull’Heysel?
«Una tragedia assurda. Sbagliammo anche noi giocatori. Certi atteggiamenti andavano evitati. Una pagina veramente triste e dolorosa per tutti».

Perchè nell’estate del 1985 vai a Verona?
«Mi chiamò Mascetti con cui avevo giocato a inizio carriera. Mi ero sposato da poco con Nicoletta, alla Juventus mi sentivo un po’ chiuso, insomma il ritorno nella mia città mi parve una cosa buona. Invece fu un flop. La carica positiva dell’anno prima che aveva condotto allo scudetto si era quasi esaurita. A fine stagione c’erano i Mondiali in Messico, magari per qualcuno è stato anche un condizionamento. Nel mio ruolo poi c’era Di Gennaro e anch’io, onestamente, non ho dato il massimo. Peccato perché pensavo che l’aria di casa mi avrebbe dato una spinta in più».

A che età sei entrato nel vivaio del Verona?
«A 11 anni. Con in tasca il sogno di diventare calciatore. La scuola mi ha sempre appassionato poco, anche se il diploma di geometra alla fine l’ho preso. Andavo allo stadio accompagnato da mio padre che lavorava in Comune e che faceva la “maschera” al Bentegodi».

Le prime scarpette vere quando le hai avute?
«Me le hanno date lì a Verona. Poi me le feci fare da un artigiano e le portai fino a che non si bucarono».

Tacchetti fissi o intercambiabili?
«I tredici fissi di gomma di una volta. La scarpa era più morbida, sentivi meglio il pallone. Anche Platini le preferiva. Ricordo sempre le incazzature del Trap, specie quando si attraversava il corridoio all’interno del Comunale: “Voglio sentire il rumore dei tacchetti!”. Ma per quello c’erano i difensori: Gentile, Cabrini, Brio: loro avevano sempre i tacchetti in alluminio».

Di quale squadra eri tifoso?
«Del Milan e di Gianni Rivera. Ovvio, tenevo anche per il Verona. Tra l’altro ero in gradinata quel 20 maggio 1973, il giorno del famoso 5-3, con la grande delusione del popolo rossonero per lo scudetto della stella sfuggito all’ultima giornata. Ci rimasi male anch’io, ma fui contento per l’Hellas».

E’ stata dura debuttare in Prima Squadra?
«Il fisico non mi ha aiutato, nonostante la tecnica fosse molto buona. L’allenatore della svolta è stato Ferruccio Valcareggi, che nei suoi anni a Verona, dava un occhio anche al settore giovanile. Mi ha valorizzato, mi ha fatto fare allenamenti specifici per irrobustire la muscolatura. Gli devo molto».

E finalmente nel ’78-79 il tuo debutto in A con il Verona.
«La prima partita fu Perugia-Verona 1-1 del 7 gennaio 1979, poi feci altre 5 gare, compresa quella contro il Milan a San Siro. Finito il primo tempo, eravamo in vantaggio 1-0. Segnò Calloni, ex con il dente avvelenato. I rossoneri si stavano giocando lo scudetto, noi praticamente eravamo già retrocessi».

Successe qualcosa di strano?
«Nell’intervallo ci vennero a bussare. Io ero alle prime armi, ero in disparte, ma questa cosa mi disorientò. Alla fine vinse il Milan 2-1 e in me è rimasta una sensazione sgradevole».

L’anno dopo rimani a Verona, in B.
«E faccio una buona stagione. Gioco titolare e divento un punto fermo della squadra. Ho anche la mia prima figurina Panini e quando viene il fotografo, io sfacciato, gli chiedo un album dei “Calciatori” completo. E fui accontentato».

A Verona sei una pedina fondamentale.
«E i miei compagni, vista la mia struttura fisica, prendono le mie difese per tutelare ginocchi e caviglie. E’ Adriano Fedele il mio angelo custode principale. Era agli ultimi anni di carriera, giocava dietro di me sulla fascia sinistra. “Tu vai e non ti preoccupare di niente. In tutti i sensi”».

Estate 1980. Da Verona all’Avellino che parte da -5: perché?
«Perché alla società davano, come hanno dato, un miliardo e mezzo, molti soldi in più rispetto a Como, Bologna e Inter che erano interessate a me. Io ci vado perché l’Avellino fa la Serie A e capisco che posso giocare titolare».

Immagino fosse la prima volta che ti muovevi da casa.
«Sì. Mia madre nemmeno sapeva dove si trovasse Avellino. Avevo 21 anni e un bel po’ di incoscienza. Tanto che dico che certe scelte vanno fatte a quella età lì, perché dopo non le fai più. Col senno di poi feci bene ad accettare Avellino. Sono arrivato che sapevo dare solo di fioretto. Sono ripartito che ho imparato anche a usare la sciabola».

A pochi mesi dal tuo arrivo in Irpinia, hai vissuto l’esperienza del terremoto.
«23 novembre 1980. A me andò bene, la palazzina dove vivevo tremò e basta. Ma per il resto fu un dramma incredibile. Il Partenio, fu trasformato in una tendopoli. Noi riuscimmo a dare alla gente un sorriso con le nostre prestazioni. Al Sud il calcio si vive in maniera totalitaria. Nelle condizioni in cui si trovarono molti dei nostri tifosi, la partita diventò ancora più importante come momento di distrazione».

Anche ad Avellino avevi il tuo angelo custode?
«Ce ne erano diversi. Da capitan Di Somma a Cattaneo, quindi Beruatto, Valente. Gente tostissima. Io ebbi la fortuna di partire alla grande tra amichevoli, Coppa Italia e prime giornate di campionato. Allora i dubbi su di me svanirono e diventai il passerottino da proteggere. Ma Avellino era veramente un ambiente ai confini della realtà».

Ossia?
«A parte il fatto che il campo, prima delle partite, veniva sempre bagnato. Il terreno era pesantissimo. Questo sfavoriva le squadre più tecniche, ma anche me. Poi c’era quel corridoio sotterraneo, stretto e lungo, che collegava gli spogliatoi al campo. Ogni tanto, chissà perché, si spegnevano le luci. Ricordo ancora di un giocatore dell’Inter, espulso, che attese la fine della partita per tornare nello spogliatoio insieme ai compagni».

A completare il quadro c’era poi il presidente Antonio Sibilia.
Ma è vero che una volta ti ha preso a schiaffi?
«Ci ha provato, ho tentato di scansarmi e comunque non mi ha mai chiesto scusa».

Perché tutto ciò?
«Non stavamo giocando bene. Ci fu un faccia a faccia. Lui imprecava contro di me. Io gli risposi: “Se non le vado bene, mi dia i soldi che avanzo e mi venda”. Mi dette una sberla che tentai di schivare. Gli mancai di rispetto, secondo lui. Boh, forse sbagliai a pormi in quel modo. Di certo oggi non lo rifarei».

Cosa altro non rifaresti?
«Non ritornerei alla Juventus nel 1986. Non c’era più Trapattoni, ma mister Marchesi. Platini era al suo ultimo anno, ma aveva già staccato. Anch’io avevo perso un po’ di magia. La fiamma si era spenta. E nell’autunno 1988 eccomi a Empoli in B, per poi finire in C1 la stagione seguente».

E allora lì che succede?
«Prendi atto che devi cambiare rotta. Anche se mi erano arrivate proposte, perfino dal Canada, ti metti a sedere con la famiglia e decidi per il futuro. Per Nicoletta acquistiamo una farmacia che è poi anche il presente delle nostre figlie Chiara e Giulia. E io metto i ricordi in bacheca e accetto la proposta di mio suocero di lavorare per la sua azienda».

Ti sei mai chiesto il perchè del tuo precoce declino?
«No. Forse ho pagato tutto il “bello e subito” della mia prima stagione alla Juventus. Ma guarda, io sono più che contento così. Non ho rimpianti. Anzi, sono felice di aver lasciato il segno alla Juventus e di essere ancora oggi un “beniamino” del popolo bianconero».

2017-00-00_GUERINO_VIGNOLA_01.png

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 885602372_juve1982.png.b419a187132b25b4f39285a8797f7cd6.png  BENIAMINO VIGNOLA

 

Che fine ha fatto Vignola, il piccolo Platini

 

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Beniamino_Vignola

 

 

Nazione: Italia Italia
Luogo di nascita: Verona
Data di nascita: 12.06.1959

Ruolo: Centrocampista
Altezza: 172 cm
Peso: 64 kg

Nazionale Italiano Under-21
Soprannome: -

 

 

Alla Juventus dal 1983 al 1985 e dal 1986 al 1988

Esordio: 21.08.1983 - Coppa Italia - Perugia-Juventus 1-0

Ultima partita: 23.05.1988 - Spareggio Uefa - Torino-Juventus 0-0

 

128 presenze - 18 reti

 

1 scudetto

1 coppa dei campioni

1 coppa delle coppe

1 supercoppa Uefa

 

 

Beniamino Vignola (Verona, 12 giugno 1959) è un imprenditore ed ex calciatore italiano, di ruolo centrocampista.

 

 

Beniamino Vignola
Beniamino Vignola - US Avellino 1980-81.jpg
Vignola all'Avellino nel 1980
     
Nazionalità Italia Italia
Altezza 172 cm
Peso 64 kg
Calcio Football pictogram.svg
Ruolo Centrocampista
Termine carriera 1992
Carriera
Giovanili
1975-1978   Verona
Squadre di club1
1978-1980   Verona 43 (2)
1980-1983   Avellino 88 (16)
1983-1985   Juventus 76 (16)
1985-1986   Verona 19 (2)
1986-1988   Juventus 52 (2)
1988-1990   Empoli 68 (12)
1991-1992   Mantova 28 (5)
Nazionale
1984 Italia Italia U-21 5 (2)
Palmarès
 
Transparent.png Europei di calcio Under-21
Bronzo 1984

 

Caratteristiche tecniche

Fu una mezzala molto tecnica, dal fisico minuto, inizialmente paragonato a Gianni Rivera.

Carriera

Giocatore

Club

220px-Serie_A_1984-85_-_Cremonese_v_Juve
 
Vignola (a sinistra) in azione alla Juventus nel 1984, inseguito dal cremonese Pancheri.

 

Cresciuto calcisticamente nella squadra della sua città, il Verona, esordì in Serie A nelle file degli scaligeri nel 1978. L'anno dopo passò all'Avellino, con cui giocò per tre stagioni consecutive mettendosi in luce assieme ad altri elementi, quali Tacconi e Favero, che ritroverà poi alla Juventus.

Nell'estate 1983 fu infatti acquistato dal club bianconero, su suggerimento di Michel Platini del quale divenne la prima riserva: «Temevo di marcire in panchina, ma riuscii lo stesso a graffiare. [...] mi godo il ricordo di essere stato il vice-Platini e di averci più volte giocato assieme. Non è poco».

Nonostante le gerarchie prestabilite, sul finire della stagione 1983-1984 divenne titolare contribuendo alla conquista di scudetto e Coppa delle Coppe; contro l'Udinese siglò una doppietta, e fu assoluto protagonista nella finale di coppa disputata il 16 maggio a Basilea contro il Porto, vinta 2-1 grazie alla sua iniziale segnatura nonché al suo successivo assist per il decisivo gol di Boniek.

Vestì la maglia bianconera fino al 1988, eccetto una parentesi ai campioni d'Italia in carica del Verona nell'annata 1985-1986, che lo acquistarono per 4,8 miliardi di lire. Con i bianconeri vinse nel 1984 il succitato double continentale, nonché una Coppa dei Campioni e una Supercoppa UEFA l'anno successivo. Si accasò quindi all'Empoli, in Serie B, retrocedendo in C1 al termine del campionato 1988-1989.

Chiuse la carriera professionistica nel 1992, in Serie C2, con la maglia del Mantova, squadra per la quale diventò poi direttore sportivo nel corso della stagione 1993-1994. Dopo il fallimento della squadra lombarda e un'esperienza da calciatore-allenatore nel San Martino Buon Albergo, squadra dilettantistica veronese, lasciò definitivamente il calcio.

Nazionale

220px-Italia_Under-21_-_Europeo_1984.jpg
 
Vignola (accosciato, secondo da sinistra) in nazionale per la fase finale del campionato europeo Under-21 1984

 

Vanta cinque presenze e due reti in nazionale Under-21, con la quale partecipò al torneo olimpico di Los Angeles 1984 chiuso dagli azzurri al quarto posto.

Dopo il ritiro

Terminata l'esperienza calcistica, si è dedicato, assieme al cognato, a due ditte avviate dal suocero, specializzate nel commercio di vetri per auto e veicoli commerciali.

Palmarès

Club

Competizioni nazionali

Competizioni internazionali

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Joined: 04-Apr-2006
130542 messaggi

 885602372_juve1982.png.b419a187132b25b4f39285a8797f7cd6.png  BENIAMINO VIGNOLA

 

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«Ad Avellino sono maturato ed ho acquisito esperienze in quello che è il mio ruolo specifico e, cioè, di centrocampista che ordina e inizia il gioco. Sono, in pratica, un regista in vecchio stile, se mi è concesso di usare ancora questo termine. Sono arrivato alla Juventus per giocare, questo è assodato, ma mi basterebbe lottare alla pari con gli altri per un posto da titolare».
 
GIANNI GIACONE, “HURRÀ JUVENTUS” DELL’OTTOBRE 1983
Dice Stefano Tacconi, l’erede di maglia del grande Dino e compagno d’avventura e di viaggio del veronese, che Beniamino Vignola ha tenuto in piedi, da solo, e per tre anni, la squadra chiamata Avellino, e che lo ha fatto dall’alto di una gran classe.
Dice ancora Tacconi, che ha lingua sciolta e concetti chiari quanto essenziali, che Vignola predilige il sinistro, ma che sa trattare benone la palla anche col destro, e che insomma migliore affare la Juve proprio non poteva combinare, aggiudicandosi le prestazioni dell’amico.
Ora, i fatti sono noti e lineari. La Juve, che già tiene Platini e Boniek, cioè il meglio del meglio, ad amministrare la zona nevralgica del campo, dove si inventa e si finalizza il gioco, ha fortemente voluto anche Beniamino Vignola, veronese di nascita e avellinese di gloria calcistica. Segno che di questo Vignola ritiene di avere massimamente bisogno, nonostante la tremebonda concorrenza dei succitati compari.
Il problema, semmai, è di stabilire se Vignola verrà buono subito o più tardi, magari in alternativa a qualcuno dei nuovi rodomonte. E parte proprio di qui la nostra chiacchierata con Beniamino, ragazzo estremamente a modo, con uno stile e una educazione d’altri tempi. 
– Beniamino, la domanda è scontata. Che cosa ti aspetti da questa squadra che è un po’ il punto di arrivo di tutti i ragazzi che scelgono il calcio come professione? Non ti spaventa di dover fare i conti con autentici fuoriclasse che fatalmente ti sottraggono spazio e opportunità per metterti in mostra?
«Premetto che alla Juve sono arrivato provando una gioia enorme. Credo che non sia solo un modo di dire il definire questa squadra, questa società, un punto di arrivo nella carriera di un calciatore. Certo, ho capito subito che avrei dovuto fare i conti con il meglio del meglio, nel mio ruolo. Avere sulla propria strada Platini significa che sei “chiuso”, che devi aspettare il tuo momento. Ma poi mi sono chiarito le idee, e ho capito che a fianco di questi “mostri” ci posso stare anch’io, che non c’è nessuna incompatibilità. In fondo, mi sono detto, se mi hanno preso non è certo per scaldare in pianta stabile la panchina».
– La Juve, acquistando Vignola, ha pensato al futuro: così è stato detto e scritto...
«Non so chi l’abbia detto: la cosa, da un lato mi fa piacere, ma dall’altro mi sta bene fino a un certo punto. Vignola è qui, adesso, e fa la sua parte. Segno che serve adesso, a prescindere dal futuro. Guarda, la cosa è semplice: la stagione è lunga, gli impegni sono tanti, tra campionato e coppe. In questa squadra c’è posto per tutti. Infatti, non ho ancora avuto modo di scaldarla troppo, la panchina».
– Qualcuno, nel passato più o meno recente, ti ha avvicinato, per caratteristiche tecniche, a Beccalossi e persino a Gianni Rivera: tu che ne dici?
«Credo che nel calcio questo genere di paragoni lasci il tempo che trova. Capisco la necessità di scrivere sempre qualcosa di nuovo, di stimolare la fantasia dei tifosi, e riconosco anche di avere qualche punto di affinità con i due campioni che hai citato, ma vado avanti per la mia strada, senza lasciarmi suggestionare. Vorrei essere soltanto... Vignola, con i suoi pregi e i suoi difetti, magari eliminando fin dove è possibile questi ultimi. La Juve, anche sotto questo aspetto, è una scuola ideale».
– Fuori del campo, che fai, come passi il tuo tempo libero?
«Ho una vita tranquilla e assolutamente normale. Studio, sono al terzo anno di Università, facoltà di Economia e Commercio, prima o poi mi laureerò, non c’è fretta. Quindi, passo parecchio tempo in casa, a studiare, o a leggere libri e giornali. Non mi dispiace neppure guardare la TV. Insomma, niente di particola re».
– A una prima occhiata, sembri il tipo giusto al posto giusto. Il tuo stile di vita si sposa molto bene col cosiddetto «stile Juventus». A proposito, che cos’è, per te, questo «stile» tanto chiacchierato (e invidiato)?
«Per me è stato, sin dal primo momento, trovare un ambiente particolare, perfetto, dove hai tutto da guadagnare a esprimerti al massimo, e dove esistono le condizioni per dare il massimo. E tutto esattamente come me lo aspettavo, e non posso che rallegrarmene. “Stile Juventus” secondo me, si riassume in tre parole: signorilità, eleganza, organizzazione».
– Torniamo a questioni tecniche. In Italia è raro trovare giocatori che concludono da lontano. Eppure, esistono molti buoni tiratori. Da che cosa dipende, e come mai tu sei un po’ una eccezione?
«Pochi tirano da lontano per paura di sbagliare. In effetti, c’è il rischio talvolta di mandare il pallone... in tribuna, e questo condiziona tanta gente. Personalmente, accetto spesso il rischio e cerco di sfruttare il tiro che mi ritrovo. Devo dire che, fin qui, mi è andata piuttosto bene».
Le domande e le risposte finiscono qui. Beniamino Vignola, che conosce e rispetta il valore del rodomonte, si candida in questa Juve per un ruolo niente affatto secondario. Rivive in maglia bianconera, con questo biondino dal faccino tosto e dal sinistro che incanta, la sobrietà di un compare irlandese che tutti ricordiamo molto bene, essendo impresse le sue gesta nella storia più recente della Signora. Alludiamo, si capisce, a Liam Brady.
Ora, Vignola è Vignola, non c’è dubbio, e i paragoni contano un fico secco. Ma vedendo giocare il ragazzo che ha illuminato per tre stagioni l’Avellino salta all’occhio l’affinità, fin la somiglianza fra i due. La Juve, scegliendo questo talento giovane e in piena esplosione, ha pensato al futuro arricchendo, e di molto, il proprio presente.
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In bianconero vive il suo miglior momento nella seconda parte della stagione 1983-84 nella quale il fantasista, con i suoi gol, è decisivo nella favolosa accoppiata scudetto e Coppa delle Coppe. Da ricordare il gol su rigore all’ultimo minuto contro la Fiorentina o la doppietta al Comunale contro l’Udinese; soprattutto, resta nella memoria quel bellissimo gol al Porto, nella finale di Coppa delle Coppe. A Torino si ferma anche per la successiva stagione, caratterizzato dalla conquista della Coppa dei Campioni. Viene ceduto al Verona nell’estate 1985, per poi tornare alla Juventus l’anno successivo, ma il fuoco è ormai spento per cui lentamente, ma inesorabilmente, si chiude il sipario. Alla fine totalizza 127 presenze con 18 gol.
 
NICOLA CALZARETTA, “GUERIN SPORTIVO” DEL FEBBRAIO 2017
Da anni ormai fa l’imprenditore. Così lo qualifica anche Wikipedia aggiungendo che è anche un ex calciatore di ruolo centrocampista. Scrive che è nato a Verona il 12 giugno 1959 e che si chiama Beniamino Vignola. Non ci dice però, perché non lo sa, che in famiglia e per gli amici è Franco. «È il mio secondo nome, anche se non ce l’ho sui documenti. Ma fin da piccolo mi hanno sempre chiamato così. E Franco sono anche per Nicoletta, mia moglie e per i ragazzi che lavorano con me in azienda».
L’azienda è la Vetrauto, fondata dal papà di Nicoletta cinquanta anni fa, di cui è amministratore insieme al cognato. «Quando ho smesso con il pallone, ho colto l’opportunità che mi offriva mio suocero. Operiamo nel campo dell’after-market. Ricambi e riparazioni dei vetri delle vetture. Ci sono entrato in punta di piedi e grazie agli insegnamenti di chi mi ha preceduto ho imparato il mestiere».
L’azienda è cresciuta, adesso c’è anche la Vetrocar, con decine di filiali in tutta Italia. «Nel lavoro ho messo un po’ delle mie esperienze sportive: il gioco di squadra, l’importanza del gruppo. Ci sono anche le multe simboliche per chi arriva tardi o le brioches da portare al sabato per chi fa qualche danno».
È allegro e sorridente Vignola. Seduto alla sua scrivania, alle spalle un collage di immagini del calcio perduto che lo ha visto protagonista dal 1979 al 1992 con Verona, Avellino, Juventus, Empoli e Mantova. Le ultime consegne di lavoro, poi telefono silenziato, mentre da una busta ecco comparire una maglia bianconera: scudetto sul petto e numero dieci. La mostra con orgoglio. È una cosa preziosa, al pari di una perla. E non a caso la sede della sua azienda è in Via del Perlar, l’albero delle perle, per l’appunto. «Erano anni che non la riprendevo tra le mani. È una bella sensazione. È l’unica maglia che ho conservato. L’altra, quella gialla con il numero sette con cui ho conquistato la Coppa delle Coppe nel 1984, l’ho donata al Museo della Juventus. E tutte le volte che penso che qualcosa di mio è in un museo mi vengono i brividi».
– Sei d’accordo che la perla più preziosa delle tue stagioni alla Juve è il gol di Basilea del 16 maggio 1984?
«Sì. Segnare una rete in una finale internazionale, penso sia il sogno di tanti. Se poi è anche quella che ha contribuito alla vittoria finale, beh, diciamo che è proprio una bella perla».
– Ci racconti l’azione?
«Fu un gol strano. Ricevo palla da Platini, sono sulla tre-quarti avversaria e punto verso la porta, allargandomi leggermente a sinistra. Attendo il movimento dei miei compagni, però più avanzo, più non vedo “gialli” da servire. Quindi mi allargo ancora un po’ e, a quel punto, dal limite carico a tutta forza il sinistro per incrociare al massimo il tiro. Il portiere non si tuffa nemmeno, mentre il pallone accarezza il palo e finisce in rete».
– Sono passati tredici minuti, 1-0 per la Juve. Segue tua esultanza.
«Non stavo nella pelle, non mi sembrava vero. Alzo le braccia e poi mi metto in ginocchio. Il primo ad arrivare è Cabrini che mi sventola davanti il pugno, mi abbraccia e mi tira su insieme a Boniek».
– C’è il tuo zampino anche nel 2-1 finale siglato dal polacco.
«Il lancio in verticale per Zibì era uno schema ricorrente in quella Juve. La mia imbucata fu suggerita dal suo perfetto inserimento in area. Poi ancora oggi non so come fece a beffare portiere e difensore con quel tocchetto di destro in anticipo su tutti (sorride)».
– Al 90’ la Coppa delle Coppe è bianconera.
«E Trapattoni, che mi aveva appena tolto, mi stringe il viso con le sue mani e poi mi abbraccia con tutta la sua forza, euforico. Poi la gioia dei miei compagni, quasi tutti reduci dalla grandissima delusione di Atene dell’anno prima. C’era voglia di rivalsa, di rivincita immediata. Sembra impossibile, ma quello fu soltanto il secondo successo internazionale della Juve dopo la Coppa Uefa del 1977».
– E tu che cosa provasti?
«Volavo su una nuvola. Alla mia prima stagione alla Juve, dopo aver vinto anche lo scudetto, non potevo chiedere di più. Ma come sempre accade, nel momento non riesci a cogliere appieno tutte le emozioni. Comprendi ciò che ti è successo dopo, col tempo, con i ricordi, riparlandone come stiamo facendo adesso».
– Sapevi di giocare dal primo minuto?
«Sì. Nella parte finale della stagione il Trap mi aveva utilizzato spesso dall’inizio al posto di Penzo. Da lui ho ereditato il “sette”, che poi era l’unico numero libero (ride). Evidentemente l’idea del mister era proprio quella di partire con me anche nella finale secca con il Porto dove c’era più bisogno di copertura a centrocampo e magari di qualche inventiva in più».
– Torniamo indietro di alcuni mesi: estate 1983. Come sei arrivato alla Juventus?
«In maniera rocambolesca. Anche perché, in pratica, ero già della Fiorentina. Dopo i tre anni ad Avellino, il mio nome è gettonato e il presidente vuole fare giustamente cassa. Sono a Verona, a casa. Mi chiama la società, mi dice che è tutto fatto con la Fiorentina. “Quando vieni giù fermati a Firenze per parlare con il direttore generale della società Allodi e con l’allenatore De Sisti”. Ci incontriamo, parliamo, tutto bene. Non c’è nulla di firmato, ma mi sento un giocatore della Fiorentina. Riprendo la macchina e arrivo ad Avellino. Mi vedo con il presidente Sibilia, gli riferisco tutto e lui mi fa: “Anche noi abbiamo chiuso. Ma con la Juventus. Questo è il numero di Boniperti, aspetta una tua telefonata”. Ho chiamato. “Sei contento di venire alla Juve?” Gli rispondo di sì, ma che non me l’aspettavo. E lui: “Vieni su a Torino, fai le visite e si parte”. Vado, faccio le visite, presentazione, ritiro. Tutto bello, ma nel frattempo del contratto nulla».
– E quando ne avete parlato?
«A Villar Perosa, come tradizione. Il primo giorno faceva i big. Il secondo i giovani. Firma in bianco e la speranza di vincere molto perché c’erano dei bei premi, ma belli davvero».
– Sinceramente: eri contento di essere andato alla Juve o avevi qualche dubbio di avere pochi spazi?
«Chiaro che andavo in una squadra di fuoriclasse. Nel mio ruolo poi c’era Michel Platini, il “Professore”. Però avevo ventiquattro anni e la possibilità di giocare in una delle società più prestigiose del mondo. Per la prima volta potevo competere per lo scudetto e le coppe, invece che giocare per la salvezza».
– Come è stato il tuo impatto con il mondo bianconero?
«Sono entrato in punta di piedi, con il massimo rispetto. Ho osservato molto. Ho cercato di capire. E ho visto una squadra composta da grandi campioni da prendere ad esempio per la serietà e l’impegno. E un gruppo di ragazzi veramente eccezionale che mi ha accolto con molta amicizia e altrettanto rispetto. Ho impiegato pochissimo tempo a integrarmi».
– Facile, eri sponsorizzato da Platini!
(sorride) «Michel aveva dichiarato che Vignola era uno dei giovani più interessanti del campionato. Certo, con una candidatura così la strada per arrivare alla Juve si è fatta più in discesa. A parte le battute, al di là di tutto c’erano anche dei motivi tecnico-tattici alla base delle preferenze di Platini. Da un lato le mie qualità tecniche. E per gente come Platini che amava il palleggio era sicuramente più piacevole giocare. Tatticamente la mia presenza gli consentiva di poter stare più avanti, più vicino alla porta. Cosa che lui amava moltissimo, non solo per segnare di più, ma anche per non doversi preoccupare della marcatura».
– Chi era Michel Platini?
«Un fuoriclasse. Senza se e senza ma. A fine allenamento ci si fermava per tirare in porta dal limite dell’area. Io a destra e lui dall’altra parte. Calciava forte, collo pieno, con la palla ferma. La traiettoria era perfetta e andava dove voleva lui, con effetto o senza. Gli chiedevo come facesse a tirare in quel modo. E lui, candido: “Calcio il pallone!”. Con me aveva un rapporto particolare, una volta gli detti anche un suggerimento per le punizioni. Gli dissi: “Ormai tanti ti conoscono, il portiere si prepara a tuffarsi sul lato coperto dalla barriera e, magari, fa in anticipo un passo verso il centro della porta. Prova a tirarla bassa, sul suo palo”. Mi ascoltò e qualche domenica dopo beffò così Castellini, numero uno del Napoli».
– Si fidava molto di te.
«C’era molta stima. E complicità. Spesso mi chiedeva informazioni su chi lo avrebbe marcato. E allora gli dicevo, questo è tosto, quest’altro non ti molla mai, oppure questo qui è uno che ti lascia giocare. Ma di lui, in realtà, c’è un aspetto che pochi conoscono. Pare impossibile, ma era uno che aveva bisogno di essere rincuorato, rasserenato, talvolta incoraggiato. Succedeva spesso e capitò anche nella finale di Basilea. Guarda le immagini: squadre schierate a centrocampo, si vede che lui si gira verso di me e parliamo. Era in cerca delle ultime rassicurazioni».
– E tu cosa gli hai detto?
«Michel, questa partita ce la devi far vincere tu».
– Era già capitato di avergli dato questo “ordine”?
«Successe nel derby di ritorno del campionato 1983-84. Eravamo sotto di un gol, allora io e Bonini ci avvicinammo a lui e glielo dicemmo: “Ora ci devi portare alla vittoria” Così fu, due gol, di cui il primo di testa da vero centravanti».
– Guarda caso dopo una manciata di minuti dal tuo ingresso in campo.
«Era una soluzione a cui Trapattoni ricorreva spesso. Ero realmente il dodicesimo titolare, partivo dalla panchina, ma ero quasi sicuro che avrei giocato. Il mister mi vedeva bene, sia quando la partita meritava una svolta, sia quando c’era da aumentare il numero a centrocampo. Col Toro si doveva recuperare la partita. Entro io e Platini gioca più avanti. Quella volta uscì Prandelli, ma spesso era una punta a lasciarmi il posto. E Paolo Rossi e Boniek non erano per niente felici di uscire. Pablito si accigliava, e magari sbottava in differita. Zibì, invece, si incazzava in tempo reale con corredo di parolacce».
– Come facevi a entrare subito nel vivo della partita?
«Intanto non avevo bisogno di molto riscaldamento. Poi c’è il fattore mentale: andavo in panchina carico e concentrato, come se fossi già in campo. In più avevo una certa facilità di lettura della gara, il che mi aiutava molto. Infine ero alla Juve e con certi compagni a fianco è molto più semplice giocare, anche se si entra a partita in corso. Con una terminologia moderna, direi che sono stato il primo “intenso” nella storia del calcio in Italia (ride)».
– Adesso ti butto lì una data:1 aprile 1984, al Comunale si gioca Juventus-Fiorentina.
«Ed io quel giorno ho il dieci sulle spalle. Ed era la prima volta. Il “Professore” aveva la febbre. Timori? Beh, insomma. Sostituire Michel non è semplice. Sentivo di avere la fiducia di tutti. Fu molto bella l’intervista nel pre-partita di Tardelli. Giampiero Galeazzi gli fa notare che alla Juve manca Platini e lui risponde: “C’è Vignola”».
– Cosa ricordi di quella domenica primaverile?
«Ricordo tutto, in particolare quello che successe all’ultimo minuto sullo 0-0. Contatto in area tra Pecci e Boniek. Zibì cade e l’arbitro fischia il rigore. Non so perché, ma prendo subito il pallone in mano e lo poggio sul dischetto. È un gesto istintivo, di pancia. Adesso, mi vengono i brividi al pensiero della responsabilità che mi presi. Va detto che intorno a me non c’era la fila per battere il rigore. E sì che in campo c’era gente come Cabrini, Paolo Rossi, lo stesso Boniek. Non ho pensato all’esecuzione. Ad Avellino i rigori li tiravo io, insomma, mi presi un bel rischio, ma non ero certamente sprovveduto, anche se Boniek si tiene le mani nei capelli. Rincorsa, collo interno, forte a incrociare. Giovanni Galli da una parte e pallone dall’altra. Un boato. Viene giù lo stadio, mentre io corro verso la curva. È il gol che vale la partita e consolida il nostro primato in classifica».
– Continuiamo il gioco delle date: 21 aprile 1984, Juventus-Udinese, giornata numero ventisette.
«Ero in panchina quella domenica. Vantaggio nostro con Paolo Rossi. Verso la fine del primo tempo ci fu l’uno-due dell’Udinese. Prima Mauro e poi Zico, 2-1 per loro in un minuto. Nell’intervallo Trapattoni mi dice di prepararmi, esce Boniek. Fa caldo, io sono già pronto. Sto veramente bene e sento la fiducia di tutti. Sono momenti magici, difficile dire di più. Segno due volte, è la prima doppietta con la Juventus. Il gol del controsorpasso lo faccio addirittura di destro. Si rivince e si vola a più quattro sulla Roma quando mancano tre giornate alla fine. Per lo scudetto manca solo la matematica».
– La slot machine delle date si ferma al 6.5.84.
«Una domenica fantastica. Giochiamo in casa contro il mio Avellino. A noi basta un punto e quello arriva. Sono felice anche i miei ex compagni che con il pareggio sono salvi. E poi c’è l’omaggio a Beppe Furino che entra a fine gara e conquista così il suo ottavo scudetto. Per me è invece il primo, e sono il ritratto della felicità».
– Dieci giorni dopo c’è il trionfo di Basilea.
«Una doppietta fantastica, come accadde nel 1977. Ma dal giorno dopo iniziammo a pensare solo alla Coppa dei Campioni».
– E tu che pensieri avevi: credevi di essere trai primi undici o no?
«Ci speravo. La Juve acquistò Briaschi al posto di Penzo. Partì benissimo, il tandem con Paolo Rossi funzionava a meraviglia. Il Trap mi voleva fisso a centrocampo, e per questo, complici anche alcuni infortuni dei nostri difensori, spostò Tardelli come terzino destro. L’esperimento non durò. Marco non sposò mai l’idea, i risultati non furono incoraggianti e per me ci fu un passo indietro».
– L’andamento incerto in campionato costò il posto anche al tuo amico Tacconi.
«Ci si conosceva bene. Dopo i tre anni di Avellino, siamo passati tutti e due alla Juventus. Portiere fortissimo, carattere spavaldo, ma dietro alla maschera di guascone, c’era più di un pensiero. Specie il primo anno alla Juventus si sentiva osservato, sempre sotto esame. La maglia di Zoff pesava e avrebbe schiacciato chiunque».
– Condividevi la camera con lui?
«Sì, da sempre. E i sabato notte erano un tormento. Si parlava, ci scambiavamo emozioni. Mi fumava addosso non so quante sigarette. E ogni tanto si placava con qualche “amaro”: Non ti dico il periodo in cui è stato fuori squadra. Una lotta».
– Se ne uscì anche con critiche verso la dirigenza e l’allenatore.
«Che gli costarono anche tanti bei soldi di multe. Era fatto così. Era il compagno più veloce a fare la doccia. Così poi usciva e andava incontro ai giornalisti. Sai quante volte gli ho detto, Stefano, aspetta, stai buono qui nello spogliatoio. Niente».
– Per la finale di Coppa dei Campioni il Trap gli ridà la maglia da titolare.
«Tacconi era un portiere di avvenire e un capitale per la società. L’unico grande dispiacere, non solo mio, ma di tutta la squadra, fu il ritorno di Bodini in panchina. Era un peccato, perché ci aveva comunque portati lui alla finale. Grande Luciano, il fratellino di Gaetano Scirea».
– Mi dici la tua sull’Heysel?
«Una tragedia assurda. Sbagliammo anche noi giocatori. Certi atteggiamenti andavano evitati. Una pagina veramente triste e dolorosa per tutti».
– Perché nell’estate del 1985 vai a Verona?
«Mi chiamò Mascetti con cui avevo giocato a inizio carriera. Mi ero sposato da poco con Nicoletta, alla Juventus mi sentivo un po’ chiuso, insomma il ritorno nella mia città mi parve una cosa buona. Invece fu un flop. La carica positiva dell’anno prima che aveva condotto allo scudetto si era quasi esaurita. A fine stagione c’erano i Mondiali in Messico, magari per qualcuno è stato anche un condizionamento. Nel mio ruolo poi c’era Di Gennaro e anch’io, onestamente, non ho dato il massimo. Peccato perché pensavo che l’aria di casa mi avrebbe dato una spinta in più».
– A che età sei entrato nel vivaio del Verona?
«A undici anni. Con in tasca il sogno di diventare calciatore. La scuola mi ha sempre appassionato poco, anche se il diploma di geometra alla fine l’ho preso. Andavo allo stadio accompagnato da mio padre che lavorava in Comune e che faceva la “maschera” al Bentegodi».
– Le prime scarpette vere quando le hai avute?
«Me le hanno date lì a Verona. Poi me le feci fare da un artigiano e le portai fino a che non si bucarono».
– Tacchetti fissi o intercambiabili?
«I tredici fissi di gomma di una volta. La scarpa era più morbida, sentivi meglio il pallone. Anche Platini le preferiva. Ricordo sempre le incazzature del Trap, specie quando si attraversava il corridoio all’interno del Comunale: “Voglio sentire il rumore dei tacchetti!”. Ma per quello c’erano i difensori: Gentile, Cabrini, Brio: loro avevano sempre i tacchetti in alluminio».
– Di quale squadra eri tifoso?
«Del Milan e di Gianni Rivera. Ovvio, tenevo anche per il Verona. Tra l’altro ero in gradinata quel 20 maggio 1973, il giorno del famoso 5-3, con la grande delusione del popolo rossonero per lo scudetto della stella sfuggito all’ultima giornata. Ci rimasi male anch’io, ma fui contento per l’Hellas».
– È stata dura debuttare in Prima Squadra?
«Il fisico non mi ha aiutato, nonostante la tecnica fosse molto buona. L’allenatore della svolta è stato Ferruccio Valcareggi, che nei suoi anni a Verona, dava un occhio anche al settore giovanile. Mi ha valorizzato, mi ha fatto fare allenamenti specifici per irrobustire la muscolatura. Gli devo molto».
– E finalmente nel 1978-79 il tuo debutto in A con il Verona.
«La prima partita fu Perugia-Verona 1-1 del 7 gennaio 1979, poi feci altre cinque gare, compresa quella contro il Milan a San Siro. Finito il primo tempo, eravamo in vantaggio 1-0. Segnò Calloni, ex con il dente avvelenato. I rossoneri si stavano giocando lo scudetto, noi praticamente eravamo già retrocessi. Nell’intervallo ci vennero a bussare. Io ero alle prime armi, ero in disparte, ma questa cosa mi disorientò. Alla fine vinse il Milan 2-1 e in me è rimasta una sensazione sgradevole».
– L’anno dopo rimani a Verona, in B.
«E faccio una buona stagione. Gioco titolare e divento un punto fermo della squadra. Ho anche la mia prima figurina Panini e quando viene il fotografo, io sfacciato, gli chiedo un album dei “Calciatori” completo. E fui accontentato».
– A Verona sei una pedina fondamentale.
«E i miei compagni, vista la mia struttura fisica, prendono le mie difese per tutelare ginocchi e caviglie. È Adriano Fedele il mio angelo custode principale. Era agli ultimi anni di carriera, giocava dietro di me sulla fascia sinistra. “Tu vai e non ti preoccupare di niente. In tutti i sensi”».
– Estate 1980. Da Verona all’Avellino che parte da -5: perché?
«Perché alla società davano, come hanno dato, un miliardo e mezzo, molti soldi in più rispetto a Como, Bologna e Inter che erano interessate a me. Io ci vado perché l’Avellino fa la Serie A e capisco che posso giocare titolare».
– Immagino fosse la prima volta che ti muovevi da casa.
«Sì. Mia madre nemmeno sapeva dove si trovasse Avellino. Avevo ventuno anni e un bel po’ di incoscienza. Tanto che dico che certe scelte vanno fatte a quella età lì, perché dopo non le fai più. Col senno di poi feci bene ad accettare Avellino. Sono arrivato che sapevo dare solo di fioretto. Sono ripartito che ho imparato anche a usare la sciabola».
– A pochi mesi dal tuo arrivo in Irpinia, hai vissuto l’esperienza del terremoto.
«23 novembre 1980. A me andò bene, la palazzina dove vivevo tremò e basta. Ma per il resto fu un dramma incredibile. Il Partenio, fu trasformato in una tendopoli. Noi riuscimmo a dare alla gente un sorriso con le nostre prestazioni. Al Sud il calcio si vive in maniera totalitaria. Nelle condizioni in cui si trovarono molti dei nostri tifosi, la partita diventò ancora più importante come momento di distrazione».
– Anche ad Avellino avevi il tuo angelo custode?
«Ce ne erano diversi. Da capitan Di Somma a Cattaneo, quindi Beruatto, Valente. Gente tostissima. Io ebbi la fortuna di partire alla grande tra amichevoli, Coppa Italia e prime giornate di campionato. Allora i dubbi su di me svanirono e diventai il passerottino da proteggere. Ma Avellino era veramente un ambiente ai confini della realtà. A parte il fatto che il campo, prima delle partite, veniva sempre bagnato. Il terreno era pesantissimo. Questo sfavoriva le squadre più tecniche, ma anche me. Poi c’era quel corridoio sotterraneo, stretto e lungo, che collegava gli spogliatoi al campo. Ogni tanto, chissà perché, si spegnevano le luci. Ricordo ancora di un giocatore dell’Inter, espulso, che attese la fine della partita per tornare nello spogliatoio insieme ai compagni».
– A completare il quadro c’era poi il presidente Antonio Sibilla. Ma è vero che una volta ti ha preso a schiaffi?
«Ci ha provato, ho tentato di scansarmi e comunque non mi ha mai chiesto scusa. Non stavamo giocando bene. Ci fu un faccia a faccia. Lui imprecava contro di me. Io gli risposi: “Se non le vado bene, mi dia i soldi che avanzo e mi venda”. Mi dette una sberla che tentai di schivare. Gli mancai di rispetto, secondo lui. Boh, forse sbagliai a pormi in quel modo. Di certo oggi non lo rifarei».
– Cosa altro non rifaresti?
«Non ritornerei alla Juventus nel 1986. Non c’era più Trapattoni, ma mister Marchesi. Platini era al suo ultimo anno, ma aveva già staccato. Anch’io avevo perso un po’ di magia. La fiamma si era spenta. E nell’autunno 1988 eccomi a Empoli in B, per poi finire in C1 la stagione seguente».
– E allora lì che succede?
«Prendi atto che devi cambiare rotta. Anche se mi erano arrivate proposte, perfino dal Canada, ti metti a sedere con la famiglia e decidi per il futuro. Per Nicoletta acquistiamo una farmacia che è poi anche il presente delle nostre figlie Chiara e Giulia. Ed io metto i ricordi in bacheca e accetto la proposta di mio suocero di lavorare per la sua azienda».
– Ti sei mai chiesto il perché del tuo precoce declino?
«No. Forse ho pagato tutto il “bello e subito” della mia prima stagione alla Juventus. Ma guarda, io sono più che contento così. Non ho rimpianti. Anzi, sono felice di aver lasciato il segno alla Juventus e di essere ancora oggi un “beniamino” del popolo bianconero».
 

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