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Carlo Parola - Calciatore E Allenatore

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Joined: 31-May-2005
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La prima passione di Carlo Parola fu la bicicletta; suo padre (scomparso prematuramente per una crisi cardiaca) ne costruì una per il figliolo, un autentico gioiello di tecnica e leggerezza. Parola abitava vicino al Motovelodromo ed imparò a solo otto anni a tenersi in equilibrio sulle curve in cemento ed a provare qualche sprint. Nell’intervallo tra una prova di velocità ed una di mezzofondo, Carletto inforcava la sua bicicletta ed inanellava tre o quattro giri in piena velocità, tra gli applausi della folla divertita e stupita. Dalla pista alla strada il passo fu breve ed in una corsa Torino-Bardonecchia e ritorno, in due tappe, fece cose strepitose, classificandosi primo nella tappa con arrivo a Bardonecchia, terzo in quella con arrivo a Torino, e secondo in classifica generale.
Racconta: «Andavo veramente forte in salita, peccato che non fossi altrettanto bravo in discesa. Ma a rendermi prudente era stata una brutta caduta, piombando a valle da Pino Torinese, con serie conseguenze, la frattura di un braccio. Fu il calcio che spuntò nei miei orizzonti qualche anno dopo la morte di mio padre. Abitavo a Cuneo, dove non c’era il Velodromo, ma dove esisteva il campo sportivo: e fu là che presi confidenza con la sfera di cuoio e mi convertii a quello che giudico ancora oggi il più bel gioco del mondo. Quando tornai a Torino, insieme ad alcuni amici appassionati, fondai una squadretta che, dal nome del corso adiacente al prato sul quale si giocava, venne chiamata Brianza. Avevo appena dieci anni, ma ricordo che in quella compagine feci di tutto, dal difensore al centravanti, dal mediano all’ala e persino il portiere. La nostra squadretta non tardò a farsi un proprio nome ed ebbe anche i suoi tifosi che, domenicalmente, la seguivano, spingendosi in audaci trasferte magari fino a “Porta Susa”».
La prima vera squadra in cui giocò Carlo Parola fu il Vanchiglia, nel 1935; Parola aveva notevoli qualità e non poteva non essere notato anche dai numerosi osservatori dei grandi club, fra i quali la Juventus. Carletto si trasferì alla squadra del Dopolavoro Fiat e di qui alla Juventus, dopo che Umberto Caligaris aveva portato ai dirigenti juventini referenze molto positive sul conto del giovane centromediano. Caligaris era l’allenatore della Juventus ed uno dei problemi più grossi era la sostituzione di Luisito Monti, che aveva lasciato il club bianconero. Berto provò Varglien II, un talento calcistico molto adattabile a qualsiasi ruolo, ma la soluzione non soddisfò molto l’allenatore, anche se la Juventus concluse il campionato 1939/40 al terzo posto, dietro al Bologna ed all’Ambrosiana campione.
Carletto Parola, per interessamento di Sandro Zambelli, venne trasferito dal Fiat alla Juventus; quello che sarebbe diventato uno dei più grandi terzini centrali sistemisti del mondo, un classico nel suo ruolo, giocava mezzala, se non addirittura centravanti. Poi le necessità di squadra lo arretrarono in seconda linea, ruolo nel quale esordì in campionato, il 3 dicembre 1939. Quella domenica la Juventus ospitava il Novara e Caligaris decise di far debuttare Carletto, diventato ormai il suo pupillo. Parola giocò una buona partita, scatenando gli applausi a scena aperta dei tifosi bianconeri e l’entusiasmo dei propri tifosi personali, la cosiddetta “Banda della Brianza”, che tentò addirittura di invadere il campo per festeggiare il giocatore.
Il triste giorno della morte di Caligaris, Parola provò un dolore incredibile; non aveva perso solo l’allenatore, ma un secondo padre. Viri Rosetta non se la sentì di raccogliere l’eredità del suo grande amico scomparso ed allenatore diventò Felice Borel, l’ineguagliabile centrattacco della Juventus del quinquennio. I rapporti tra Farfallino e Parola non furono perfetti, perlomeno all’inizio; il primo era un assertore convinto del sistema, il difensore, invece, era fedele al metodo e le differenze tattiche tra i due moduli di gioco erano fondamentali per il ruolo del centromediano. Carletto, da persona intelligente quale era, non ci mise molto tempo a capire i concetti basilari del sistema, adattandosi al nuovo modo di giocare.
Carlo Parola va considerato come uno dei più grandi stopper del calcio europeo moderno; la classe e l’intelligenza del giocatore non potevano di certo sfuggire a Vittorio Pozzo che schierò il bianconero nella Nazionale giovanile, contro l’Ungheria. Lo stopper titolare di quella formazione era Todeschini, ma Pozzo convocò ugualmente Parola e gli affidò la maglia numero quattro. La partita venne giocata a Torino il 6 aprile 1942 e furono gli azzurrini ad imporsi con il risultato di 3-0. Il 6 gennaio 1943, in occasione di un successivo incontro con la Nazionale giovanile croata, Pozzo schierò Parola nel suo ruolo naturale.
Il salto nella Nazionale maggiore avvenne a Zurigo, la prima gara dopo la fine della guerra, contro la Nazionale elvetica. Pozzo scelse il blocco del Torino, ad eccezione di Sentimenti IV° in porta, Parola stopper, Biavati all’ala destra e Piola centravanti. La partita terminò con l’inconsueto risultato di 4-4.
La sua fama internazionale di Parola aumentò notevolmente qualche anno dopo quando si volle organizzare il match del secolo, il 10 maggio 1947 a Glasgow tra la Gran Bretagna e la rappresentativa d’Europa. A rappresentare il calcio europeo vennero mandati in campo: Da Rui (Francia), Peterson (Danimarca), Steffen (Svizzera), Carey (Eire), Parola (Italia), Ludl (Cecoslovacchia), Lambrechts (Belgio), Gren (Svezia), Nordhal (Svezia), Wilkes (Olanda), Præst (Danimarca). Il “Resto d’Europa” fu sconfitto per 4-1, ma i giudizi dei critici di tutto il mondo furono unanimi nel complimentarsi con Parola per l’ottima partita. Dal giorno, Carletto, si meritò l’appellativo di “Carletto l’Europeo”.
«Per me fu un grande onore e cosi penso, per il calcio italiano. Le altre nazioni europee indugiavano nel riprendere i contatti con noi: la guerra aveva lasciato il segno anche nello sport. I selezionatori mi videro all’opera a San Siro nella mia seconda prova in azzurro. L’11 novembre 1945 a Zurigo avevo esordito contro la Svizzera: il 1° dicembre dell’anno successivo Pozzo mi confermò contro l’Austria che battemmo per 3-2 (con la Svizzera avevamo fatto 4-4). Io giocai abbastanza bene, feci una delle mie rovesciate, ma in quell’occasione ci fu una grandissima partita da parte di Maroso che avrebbe meritato di giocare nella selezione europea. Scelsero soltanto me cosi partii tutto solo per la Olanda. Ci allenammo a Rotterdam, dove conobbi Wilkes, asso del calcio locale, eppoi Nordhal, Præst e così via dicendo. Il 7 maggio giocammo a Glasgow in uno scenario indimenticabile. Gli stadi sudamericani dovevamo ancora scoprirli e quelli italiani erano piuttosto piccoli: Glasgow, invece, conteneva 150.000 spettatori, una cosa impressionante, cosi come restò indimenticabile quella partita contro i campioni britannici. Ricordo che nello stesso anno, la Juventus andò a giocare in Svezia contro una squadra di cui non ricordo il nome. Ricordo bene, invece, il nome di un’ala sinistra che ci fece impazzire: si chiamava Liedholm, era giovanissimo, due anni dopo sarebbe venuto in Italia assieme ad altri fuoriclasse del suo paese. “Però”, commentammo alla fine dell’incontro “quell’ala non stonerebbe in Italia”. Più avanti ci fu l’invasione straniera, arrivarono in tanti, anche per la Juventus. Nordahl fu ingaggiato dalla Juventus, se non che venne poi smistato al Milan in cambio di Ploeger. Peccato, perché i nostri due scudetti potevano essere con lui almeno cinque. Perché fu Nordhal successivamente ad indicare alla sua società i nomi di Liedholm e di Gren ed a farli venire in Italia dopo avere constatato di persona che nel nostro paese si stava bene. Pensate se quei tre fossero finiti alla Juventus: un attacco composto da Boniperti, Gren, Nordhal, Liedholm e Præst avrebbe fatto almeno 150 goal!»
In Italia, invece, gli fu affibbiato il soprannome di Nuccio Gauloises riferito alla marca di sigarette che solitamente fumava, ma la consacrazione definitiva avvenne quando la famiglia Panini decise di utilizzare una fotografia di Carletto che effettua in perfetto stile una rovesciata, come simbolo del proprio album di figurine. Per tutti i bambini italiani, Parola diventò “quello della rovesciata”.
Appesi gli scarpini al chiodo, un uomo tanto competente e tanto esperto di calcio decise continuare il suo rapporto con la Juventus, in qualità di tecnico. Parola diventò per la prima volta allenatore (con Cesarini direttore tecnico) nel campionato 1959/60 e venne riconfermato per due stagioni successive (1960/61 e 1961/62) prima con Gren e poi da solo. Carlo tornò poi alla Juventus all’inizio del campionato 1974/75 conquistando lo scudetto e concludendo al secondo posto la stagione successiva.


INTERVISTATO NEL FEBBRAIO 1972
Quali sono i tre migliori ricordi della mia lunga stagione bianconera? Il mio esordio nella Juventus, il mio primo scudetto, la mia partita nella selezione del Continente. Era il 1939, a quei tempi ero iscritto alla scuola allievi Fiat. Lavoravo, studiavo e giocavo a calcio, naturalmente, nella squadra ragazzi del Fiat: ero centravanti, segnavo moltissimi goal. Gli osservatori della Juventus mi seguivano con interesse e quell’anno su indicazione di Zambelli finii nelle file del club che sognavo giorno e notte. Portavo a casa 18 Lire al mese: pensate quando andarono da mia madre e le chiesero se mi avrebbe lasciato giocare per 750 Lire al mese! Mi guardò e mi chiese: «Ma è proprio vero?»
Seppi più tardi che ero costato alla Juventus qualcosa come 60.000 lire una bella cifra indubbiamente. Mi misi al lavoro con tutto l’entusiasmo possibile, avevo diciotto anni ed una gran voglia di sfondare. Mi cambiarono subito di ruolo: da centravanti passai dalla parte opposta, cioè nel ruolo di chi controllava i goleador. Forse fu anche per questo che affrontai sempre gli ex colleghi con una certa attenzione. Tremavo al pensiero che un giorno avrei potuto sostituire un certo Monti, io che avevo diciotto anni e che davo del “voi” ai Foni, ai Rava ed ai Gabetto. Un giorno accadde: esordii nella Juventus, in serie A. Proprio contro la mia attuale squadra, il Novara; vincemmo per 1-0 e fu una giornata bellissima, indimenticabile, io, ragazzino, in mezzo a tanti campioni! Come stopper metodista, mi difesi abbastanza bene ed in seguito presi sempre più confidenza con il mio ruolo fino ad impormi come titolare.
Passare dai ragazzi Fiat alla grande Juventus fu una cosa meravigliosa: penso che per ogni giocatore sia la stessa cosa, anche se sovente l’esordio è talmente infarcito di emozioni che si finisce con il perdere il senso della realtà. Fu dieci anni dopo che vincemmo lo scudetto, subito dopo la scomparsa del “Grande Torino”. Noi continuammo la tradizione che voleva il titolo appannaggio dei club torinesi. Fu una stagione meravigliosa: pensate che segnammo la bellezza di cento goal. Il presidentissimo Agnelli aveva acquistato Martino, Hansen, Præst ed altri campioni, avevamo Carver come allenatore. Il suo italiano era ancora incomprensibile per cui la tattica nasceva in campo a seconda delle necessità.
Fu allora che inventammo il libero anche se pochi se ne accorsero. Alcuni mesi fa parlando in proposito con Gianni Brera gli chiesi: «Ma non ti ricordi in che posizione giocavo io?»
E lui, ripensandoci, mi diede ragione. In effetti. senza che lo stesso Carver se ne accorgesse, Karl Hansen fungeva da mediano, Mari si piazzava sul centravanti avversario ed io stavo in ultima battuta alle sue spalle, proprio come succede al giorno d’oggi. Allora però non si parlava tanto di tattiche: si giocava, si pensava a segnare il maggior numero possibile di goals ed a subirne il meno possibile. Con questo non è che rinunciassimo ad attaccare anzi lo facevamo con quattro punte. Era il nostro gioco elastico a centrocampo a permetterci queste possibilità, tattica alla quale si richiamano anche oggi molte società. Avevamo grandi avversari. come il Milan del trio Gre-No-Li, eppure vincemmo in bellezza. Parlando di quella formazione con Boniperti, concordammo in una giornata dedicata ai ricordi, che quella forse fu la formazione più completa del dopoguerra.
Vincemmo il campionato con diversi punti di vantaggio. Era la mia decima stagione nella Juventus (complessivamente ho giocato in bianconero 15 campionati) la più bella, indubbiamente; anche lo scudetto successivo non fu cosi ricco di soddisfazioni.


VLADIMIRO CAMINITI
Non esiste un altro, nella storia del calcio nostro, che emuli Parola nel suo modo di essere campione. È vero, c’era stato Rosetta, ma con Parola l’esercizio virtuoso diventa stile. Con Parola, il calcio parla al mondo, quel mondo di un’Italia ancora sbigottita se non disfatta che sgrana gli occhi su tutto, non ci sono più ideali, ogni valore è stato frantumato in un mare di sangue, ma si riaprono gli stadi e Parola esegue la sua rovesciata per tutti gli umili e diseredati, disegna l’illusione con la sua acrobazia meditata; la sua rovesciata, in Italia, contende alla pizza napoletana il primato della popolarità.
Parola nasce in una famiglia che è un grumo di ristrettezze. Torino non è solo piazza San Carlo, ed i Savoia sono da tre anni in esilio, nel 1949, quando Parola è celebre. L’Italia è una Repubblica, Parola è l’alfiere di una Juventus che gioca un calcio stellare, non troppo istintivo. con un ragazzo biondo che abbaglia per i suoi goal freddi e poetici (Boniperti). Il papà di Carlo, detto Nuccio, è morto precocemente, vittima di un suo stesso vizio: si era accoppato ingurgitando tabacco pur di non andare soldato.
Il ragazzo si trovò presto a sostentare una famiglia. Al dopolavoro Fiat, sgobbava come garzone e nel tempo libero giocava a calcio, senza sapere che un singolare tipo di osservatore da qualche tempo, Parola aveva già diciassette anni, veniva a osservarlo; l’orecchiuto compare Sandro Zambelli, detto Zambo, il cantore dell’altra Juventus, quello delle dame patronesse e dei signori in frac. Ora la Juventus, è il 1939, aspetta di ridarsi una verginità. Dopo la morte di Edoardo, gli Agnelli si sono messi da parte. Gianni è ragazzo. La presidenza viene affidata al conte dottor Emilio De La Forest de Divonne. Non si saprà mai nulla di questo patrizio. La storia dice che c’è la sua firma sul primo contratto di calciatore di Carlo Parola.
Parola nel campionato 1939/40 entra nei ranghi, è utilizzato in vari ruoli. Ha piedi morbidi ed il suo calcio detta legge. Tanto è giovane, tanto è bravo. La guerra frenerà anche il suo cammino, ma è ancora in tempo per farsi amare. L’esordio è avvenuto contro il Novara, il 3 dicembre 1939, poi è tutta una scalata. Finisce la guerra, la ripresa è ilare e tormentata, a Zurigo l’11 novembre 1945 Parola è in campo contro la Svizzera, 4-4, non è un falco sul vecchio Amadò che segna 3 goal, non è proprio la sua giornata. Certi critici, secondo me maldestri, opinano che Parola non sia mai stato un combattente. Non è esattamente così.
Nelle sue tante partite in bianconero, nelle sue 10 presenze azzurre, Parola è sempre Parola, parla il calcio, vuole essere mai restrittivo. sempre evocativo di libertà. È il simbolo della libertà recuperata, non concepisce le strettezze di una marcatura assillante, in cui sono più bravi Rigamonti e Tognon. Ma nessuno lo vale per il gesto stilistico, per la capacità di giungere primo sulla traiettoria, annichilendo nei giorni di vena anche bisonte Nordahl sull’anticipo. Gioca nella Juventus fino al 1954, quando con John Hansen emigra nella Lazio.
E forse l’allenatore non è stato pari al giocatore, ma il mondo va così, e salendo sull’erta che ricorda quell’ameno sito che è Ceriale, col suo mare strabiliante, Parola mi dava questa spiegazione del suo quasi fallimento come tecnico: «Sono stato un giocatore troppo grande per essere anche un allenatore troppo grande».

 

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IL PRIMO GRANDE DIFENSORE MODERNO

Nella Juventus vince due scudetti e, titolare in nazionale, gioca i mondiali del 1950.
Acrobatico difensore, la sua rovesciata viene immortalata sulle figurine Panini.

 

Carlo Parola - Eeuwig Zwevend

La famosa rovesciata, fotografata in Fiorentina-Juventus del 1950

 


Rimane uno dei più grandi centrocampisti sistematici del dopoguerra. Carlo Parola passa alla storia del calcio per tanti motivi. In prima battuta ricordiamo la sua eccelsa classe che lo rese il primo e il più forte libero dellera moderna, quella della sua Juventus che in Italia adotta il sistema. Grazie ad una forte personalità crea il nuovo ruolo del difensore; non più ultima barriera prima del portiere secondo la concezione del metodo, ma dinamico calciatore pronto ad anticipare lavversario e creando con lanci lunghi e precisi azioni che, dando respiro al suo reparto, lanciavano un nuovo attacco.

Ogni domenica era lui il migliore in campo grazie anche alle sue notevoli doti acrobatiche; le sue rovesciate con le quali anticipava lattaccante di turno, lo vedono letteralmente volare sulla testa degli avversari. Una di quelle, fotografate nel massimo momento dellelevazione e del contemporaneo tocco di palla, sarà per sempre immortalata sulle bustine delle figurine Panini, come eterno simbolo del perfetto calciatore. La sua è una storia che nasce con la guerra, giocando inizialmente nella G.S. Fiat nel campionato 1939-40 per passare bianconero lanno dopo.

La formazione della Juventus è in attesa di vincere uno scudetto da anni; ormai lultimo tricolore e quello del famoso quinquennio, troppo lontano da ricordare: prima la guerra e poi il grande Torino fermano le ambizioni di Parola e dei suoi compagni. Per Carlo le prime grandi soddisfazioni arrivano nel periodo post bellico ed infatti debutta in azzurro nella prima partita giocata al termine del conflitto. E una squadra che vede parecchi debuttanti, campioni ormai maturi che solo la guerra ha fermato ma pronti a ritornare al vertice con la maglia azzurra; in quella partita giocano per la prima volta in azzurro Sentimenti IV, Ballarin, Maroso e Castigliano. La squadra pareggia con la Svizzera e Parola viene confermato anche nei successivi incontri vincenti.

Ormai il suo modo di interpretare il ruolo moderno del difensore lo rendono uno dei calciatori più interessanti anche a livello internazionale al punto che il tecnico austriaco Rappan lo convoca per la selezione mondiale che deve incontrare il 10 Maggio 1946 la selezione della Gran Bretagna. Un'autentica consacrazione nel calcio internazionale.

Intanto il grande Torino cerca un derby anche in azzurro e Rigamonti diventa per Vittorio Pozzo l'alternativa al nostro Carlo. Purtroppo la disgrazia di Superga interromperà quella nuova lotta per la maglia da titolare. Nella stagione 1949-50 arriva finalmente il tanto atteso scudetto che rivede Carlo Parola giocare sempre a grandissimi livelli; per Pozzo nessun dubbio, nonostante che Tognon del Milan sia una grande alternativa nel ruolo di stopper.

Pozzo lo porta ai mondiali del 1950 in Brasile, formando anche in nazionale la già collaudata coppia portiere - difensore con Sentimenti IV. La sconfitta iniziale con la Svezia, ricca di futuri campioni, ci elimina subito, concludendo in azzurro la carriera di Parola ma anche quella mitica di Vittorio Pozzo.

La Juventus comunque è sempre una squadra che lotta per il vertice e di grande tecnica guidata da Boniperti. Per Parola ancora uno scudetto nella stagione 1951-52. Giocherà nella Juventus ancora due anni, dove collezionerà in quindici campionati 318 presenze con 10 reti.

Concluderà la carriera nella Lazio l'anno successivo. Il grande amore per la "vecchia Signora" continuerà anche sulla panchina quasi venti anni dopo, quando creerà la Juventus degli anni settanta sostituendo nel 1974 Vycpalek, vincendo uno scudetto e lasciando poi il posto a Trapattoni. Rimarrà sempre nella società come osservatore. Parola si spegne a Torino il 22 maggio 2000 a 78 anni.

GolCalcio.it

 

 

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1953 | Carlo Parola | C. G. Juventus | Flickr
 
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Carlo Parola

 

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Parola

 

 

Nazione: Italia Italia
Luogo di nascita: Torino
Data di nascita: 20.09.1921

Luogo di morte: Torino

Data di morte: 22.03.2000
Ruolo: Difensore
Altezza: -
Peso: -

Nazionale Italiano
Soprannome: Nuccio Gauloises - Mister Rovesciata - Carletto

 

 

Alla Juventus dal 1939 al 1954

Esordio: 03.12.1939 - Serie A - Juventus-Novara 1-0

Ultima partita: 16.05.1954 - Serie A - Atalanta-Juventus 3-2

 

339 presenze - 11 reti

 

2 scudetti

1 coppa Italia

 

Allenatore della Juventus dal 1959 al 1962 e dal 1974 al 1976

 

218 panchine - 127 vittorie - 39 pareggi - 52 sconfitte

 

3 scudetti

2 coppe Italia

 

 

Carlo Parola (Torino, 20 settembre 1921  Torino, 22 marzo 2000) è stato un allenatore di calcio e calciatore italiano, di ruolo difensore; da allenatore fu tecnico di varie squadre, tra cui la Juventus, nella quale crebbe e in cui trascorse gran parte della sua carriera di calciatore, affermandosi tra i più grandi difensori del XX secolo.

 

Carlo Parola
225px-Carlo_Parola_%281974%29.jpg

 

Parola all'aeroporto di Amsterdam nel 1974 in

occasione dell'ottavo di finale di Coppa UEFA

tra Ajax e Juventus

     
Nazionalità Bandiera dell'Italia Italia
Calcio 25px-Football_pictogram.svg.png
Ruolo Allenatore (ex difensore)
Termine carriera 1955 - giocatore
1976 - allenatore
Carriera
Giovanili
1936-1939   Juventus
Squadre di club
1939-1954   Juventus 339 (11)
1954-1955   Lazio 7 (0)
Nazionale
1945-1950 Bandiera dell'Italia Italia 10 (0)
Carriera da allenatore
1955-1956   Lazio Vice
1956-1959   Anconitana  
1959-1961   Juventus  
1961-1962   Juventus  
1962-1963   Prato  
1963-1964   Chieri  
1965-1966   Livorno  
1967   Livorno  
1968-1969   Napoli  
1969-1974   Novara  
1974-1976   Juventus

 

Biografia

Rimasto orfano di padre all'età di sette anni, all'indomani si trasferì con la madre a Cuneo dove iniziò a giocare a pallone. Tornò quindi nella natìa Torino dove, contemporaneamente all'attività nella Juventus, «ai tempi in cui anche giocare a calcio in Serie A veniva considerato un divertimento», lavorò come operaio in FIAT.

 

Fuori dal campo, con il collega Pietro Rava mise in piedi un'azienda per la produzione di palloni da calcio; inoltre nel 1948 comparve, insieme ad altri calciatori, nel film 11 uomini e un pallone diretto da Giorgio Simonelli, nella parte di se stesso.

 

Morì settantottenne, dopo una lunga malattia e in povertà, lasciando la moglie e un figlio; venne inumato nel cimitero Parco di Torino.

Caratteristiche tecniche

Giocatore

220px-Rovesciata-Parola.jpg
 
La celebre rovesciata di Parola

 

Emerso come centravanti, negli anni alla Juventus l'allenatore Felice Borel, grande seguace del sistema inglese, lo dirottò a centromediano con compiti a metà tra quelli di uno stopper e un libero – marcatura dell'attaccante avversario e, una volta riconquistato il pallone, impostazione della ripartenza –, facendone di fatto l'erede in maglia bianconera di Luis Monti. Nonostante l'iniziale ritrosia di Parola verso questo cambiamento, la nuova posizione in campo e le conseguenti prestazioni gli daranno risalto a livello internazionale.

 

La sua notorietà è dovuta soprattutto a un caratteristico gesto tecnico, la rovesciata, che il giocatore fu il primo a utilizzare con frequenza nel calcio italiano. La più famosa "rovesciata di Parola" nacque il 15 gennaio 1950, all'80' di Fiorentina-Juventus, così rappresentata dalle parole di Corrado Banchi, giornalista freelance, autore di una memorabile fotografia:

 

«[...] Parte un lancio di Magli verso Pandolfini. Egisto scatta, tra lui ed il portiere c'è solo Carlo Parola; l'attaccante sente di potercela fare ma il difensore non gli dà il tempo di agire. Uno stacco imperioso, un volo in cielo, una respinta in uno stile unico. Un'ovazione accompagna la prodezza di Parola.»

 

Quella rovesciata è stata pubblicata in oltre 200 milioni di copie con didascalie in greco e cirillico, arabo e giapponese, ed è puntualmente riproposta ogni anno sugli album Calciatori delle figurine Panini.

Carriera

Giocatore

220px-AC_Milan_v_Juventus_%28friendly_ma
 
Parola (a sinistra) capitano della Juventus nel 1950, a quattrocchi col centravanti milanista Nordahl.

 

Si dedicò al calcio dopo un breve periodo da ciclista. Esordì diciottenne in Serie A con la Juventus, club di cui diverrà una bandiera, alla fine degli anni 1930, proveniente dal Dopolavoro FIAT; il giornalista e scrittore Giovanni Arpino lo ribattezzò ben presto "Nuccio Gauloises" per via del suo unico vizio, un pacchetto giornaliero di sigarette. vinse una Coppa Italia (1941-1942) e due scudetti (1949-1950 e 1951-1952), collezionando in tutto 339 presenze. Nel 1954 fu ceduto alla Lazio, squadra con cui chiuse la carriera calcistica dopo aver disputato sette partite.

 

Per dieci volte indossò la maglia della Nazionale. Fu il solo italiano che a Glasgow, il 10 maggio 1947, prese parte alla sfida tra Regno Unito e Resto d'Europa, organizzata per l'adesione delle Federazioni dell'isola alla FIFA; malgrado la pesante sconfitta (1-6) e un suo autogol, la prestazione di Parola piacque ai club britannici che, senza esito, tentarono di offrirgli un ingaggio.

Allenatore

Una volta conclusa l'attività agonistica, intraprese immediatamente la carriera da tecnico facendo da vice a Luigi Ferrero sulla panchina della Lazio nel campionato 1955-1956. Successivamente ebbe un'esperienza triennale come tecnico dell'Anconitana, portando nella stagione 1957-1958 la compagine marchigiana a raggiungere la promozione in Serie C.

 

Nel 1959 fece un primo ritorno alla Juventus dove rimase per le successive tre stagioni, allenando la squadra affiancato, come direttore tecnico, dapprima da Renato Cesarini, poi da Gunnar Gren e infine da Július Korostelev. Quest'esperienza sulla panchina bianconera, molto positiva nel biennio iniziale grazie alla vittoria di due scudetti e due Coppe Italia – con il double nazionale del 1959-1960, il primo nella storia del club –, si concluse temporaneamente alla fine della stagione 1960-1961 per alcune incompensioni con la dirigenza, da cui Parola venne tuttavia richiamato pochi mesi dopo, all'inizio del campionato 1961-1962, dopo l'improvvisa partenza di Gren. La terza e ultima annata fu tuttavia fallimentare, chiusa dai torinesi al dodicesimo posto della classifica, il loro peggior risultato mai conseguito sul campo: il declino della squadra, orfana di Giampiero Boniperti ritiratosi l'anno precedente, minata dai guai fisici di John Charles e dai pessimi rapporti tra l'asso rimasto, Omar Sívori, e Parola stesso, ritenuto troppo permissivo e di poco polso, furono considerati tra le cause del cattivo rendimento.

 

220px-Juventus_FC_1974-75_squad.jpg
 
Parola (estrema destra) allenatore della Juventus campione d'Italia nella stagione 1974-1975

 

Nel 1962 passò ad allenare il Prato, al posto della coppia Ferrero-Andreoli, vincendo il girone di Serie C e conquistando la promozione in cadetteria.

 

Quindi seguirono le panchine di Chieri, Livorno, Napoli, quest'ultima in qualità di preparatore, e Novara, ottenendo con i gaudenziani nella stagione 1969-1970 una nuova promozione dalla Serie C e venendo premiato con il Seminatore d'oro quale miglior tecnico di quel campionato; riuscì poi a mantenere i piemontesi in Serie B per un quadriennio contrassegnato da risultati che la compagine non otterrà più per decenni. A Novara scoprirà e valorizzerà, tra gli altri, due giocatori destinati a laurearsi di lì a breve campioni d'Italia, il portiere Felice Pulici e il centrocampista Renato Zaccarelli.

 

Nel 1974 rientrò per la seconda e ultima volta alla Juventus, chiamato dall'ex compagno di squadra Boniperti, diventato nel frattempo presidente della società. Sostituì Čestmír Vycpálek e, al comando di una squadra collaudata e in ascesa, rivinse subito lo scudetto. Rimase un'altra stagione in bianconero, iniziata in testa e terminata al secondo posto a seguito di contrasti all'interno dello spogliatoio, specialmente tra Fabio Capello e Pietro Anastasi e il gruppo capeggiato da Giuseppe Furino e Roberto Bettega, che Parola non riuscì a sedare; la sconfitta, corrispondente all'unico titolo italiano conseguito dal Torino dopo la tragedia di Superga, convinse Boniperti al cambio in panchina, a fine stagione, con Giovanni Trapattoni. Per alcuni anni fece ancora l'osservatore per il club bianconero.

 

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La sua consacrazione definitiva avvenne quando la famiglia Panini decise di utilizzare una fotografia di Carletto che effettua in perfetto stile una rovesciata, come simbolo del proprio album di figurine. Per tutti i bambini italiani, Parola diventò quello della rovesciata.
«In bicicletta andavo veramente forte in salita, peccato che non fossi altrettanto bravo in discesa. Ma a rendermi prudente era stata una brutta caduta, piombando a valle da Pino Torinese, con serie conseguenze, la frattura di un braccio. Fu il calcio che spuntò nei miei orizzonti qualche anno dopo la morte di mio padre. Abitavo a Cuneo, dove non c’era il Velodromo, ma dove esisteva il campo sportivo: e fu là che presi confidenza con la sfera di cuoio e mi convertii a quello che giudico ancora oggi il più bel gioco del mondo.
Quando tornai a Torino, insieme ad alcuni amici appassionati, fondai una squadretta che, dal nome del corso adiacente al prato sul quale si giocava, venne chiamata Brianza. Avevo appena 10 anni ma ricordo che in quella compagine feci di tutto, dal difensore al centravanti, dal mediano all’ala e persino il portiere. La nostra squadretta non tardò a farsi un proprio nome ed ebbe anche i suoi tifosi che, domenicalmente, la seguivano, spingendosi in audaci trasferte magari fino a Porta Susa.
A quei tempi ero iscritto alla scuola allievi Fiat. Lavoravo, studiavo e giocavo a calcio, naturalmente, nella squadra ragazzi del Fiat: ero centravanti, segnavo moltissimi goal. Gli osservatori della Juventus mi seguivano con interesse e quell’anno su indicazione di Zambelli finii nelle file del club che sognavo giorno e notte. Portavo a casa 18 lire al mese: pensate quando andarono da mia madre e le chiesero se mi avrebbe lasciato giocare per 750 lire al mese! Mi guardò e mi chiese: “Ma è proprio vero?”.
Seppi più tardi che ero costato alla Juventus qualcosa come 60.000 lire, una bella cifra indubbiamente. Mi misi al lavoro con tutto l’entusiasmo possibile, avevo 18 anni e una gran voglia di sfondare. Mi cambiarono subito di ruolo: da centravanti passai dalla parte opposta, cioè nel ruolo di chi controllava i goleador. Forse fu anche per questo che affrontai sempre gli ex colleghi con una certa attenzione. Tremavo al pensiero che un giorno avrei potuto sostituire un certo Monti, io che avevo 18 anni e che davo del “voi” ai Foni, ai Rava e ai Gabetto. Un giorno accadde: esordii nella Juventus, in serie A. Proprio contro la mia attuale squadra, il Novara; vincemmo per 1-0 e fu una giornata bellissima, indimenticabile, io, ragazzino, in mezzo a tanti campioni! Come stopper metodista, mi difesi abbastanza bene e in seguito presi sempre più confidenza con il mio ruolo fino a impormi come titolare.
Passare dai ragazzi Fiat alla grande Juventus fu una cosa meravigliosa: penso che per ogni giocatore sia la stessa cosa, anche se sovente l’esordio è talmente infarcito di emozioni che si finisce con il perdere il senso della realtà. Fu 10 anni dopo che vincemmo lo scudetto, subito dopo la scomparsa del Grande Torino. Noi continuammo la tradizione che voleva il titolo appannaggio dei club torinesi. Fu una stagione meravigliosa: pensate che segnammo la bellezza di 100 goal. Il presidentissimo Agnelli aveva acquistato Martino, Hansen, Præst e altri campioni, avevamo Carver come allenatore. Il suo italiano era ancora incomprensibile per cui la tattica nasceva in campo a seconda delle necessità.
Fu allora che inventammo il libero anche se pochi se ne accorsero. Senza che lo stesso Carver se ne accorgesse, Karl Hansen fungeva da mediano, Mari si piazzava sul centravanti avversario ed io stavo in ultima battuta alle sue spalle, proprio come succede al giorno d’oggi. Allora però non si parlava tanto di tattiche: si giocava, si pensava a segnare il maggior numero possibile di goal e a subirne il meno possibile. Con questo non è che rinunciassimo ad attaccare anzi lo facevamo con 4 punte. Era il nostro gioco elastico a centrocampo a permetterci queste possibilità, tattica alla quale si richiamano anche oggi molte società.
Avevamo grandi avversari, come il Milan del trio Gre-No-Li, eppure vincemmo in bellezza. Parlando di quella formazione con Boniperti, concordammo in una giornata dedicata ai ricordi, che quella forse fu la formazione più completa del dopoguerra. Vincemmo il campionato con diversi punti di vantaggio. Era la mia decima stagione nella Juventus (complessivamente ho giocato in bianconero 15 campionati) la più bella, indubbiamente; anche lo scudetto successivo non fu così ricco di soddisfazioni».

SERGIO DI BATTISTA, DA “LA STORIA DELLA JUVENTUS” DI PERUCCA, ROMEO E COLOMBERO
Nel Louvre del calcio è immortalato il suo capolavoro: la rovesciata. È una delle immagini più famose nella iconografia del pallone, fissata per caso da un fotografo fiorentino che impellenti necessità avevano spinto nella trincea che una volta esisteva dietro le porte. La sagoma di Parola si staglia nella lieve foschia di una fredda domenica di sole. Sospeso nel vuoto, sorretto da invisibili fili, le braccia distese ad accompagnare, quasi a offrirlo alla platea, un gesto stilisticamente perfetto, la gamba sinistra piegata a sveltire il movimento, la destra tesa come una lancia: il pallone, colpito di pieno collo, vola via. Gli è vicino Egisto Pandolfini detto «motorino», che sta frenando la sua corsa, resa ormai vana dalla prodezza dell’avversario. Sullo sfondo si riconoscono il mediano Giacomo Mari e più indietro un altro attaccante della Fiorentina, il calvo Sperotto.
Era il gennaio del 1950. Parola aveva già 29 anni e stava per vincere il primo scudetto di una carriera non sempre pari alla classe, Della sua rovesciata si parlava ormai da un pezzo, da quando l’aveva esibita la prima volta a San Sito nella partita contro l’Austria, sotto gli occhi di giornalisti, tecnici, dirigenti accorsi da tutta Europa per vedere cosa restasse, dopo i disastri della guerra, dei campioni del mondo e della famosa scuola danubiana. Da allora quell’estroso esercizio acrobatico era diventato il suo grande numero, un colpo a effetto. «La sua battuta melodrammatica, il suo do di piede» scrisse Bruno Roghi. E lui, taciturno, quasi a schermirsi: «No, una disperata azione di salvataggio». Sarebbe comunque rimasta nella memoria dei gesti epici, come la sforbiciata di Caligaris, il gol a invito di Meazza, il passo doppio di Biavati.
Era un asso autentico, un vero «classico», uno dei maggiori prodotti in assoluto del nostro calcio. E stato per anni il giocatore più popolare della squadra più popolare d’Italia, il più famoso del mondo, con quelli del Grande Torino. Secondo maestro Brera – che lo vedeva troppo isolato in difesa – sarebbe stato un grandissimo centromediano metodista. «Si sentiva attaccante, dovette trasformarsi in difensore. Elegantissimo di stile, batteva pulito con i due piedi, aveva doti acrobatiche eccezionali. Non era un grande incontrista, non rischiava molto il tackle. I suoi diretti avversari segnavano un po’ troppo, questo sì».
Sentite Nordahl, che fu uno di quelli: «Giocare contro di lui era esaltante: non si poteva fare a meno di eguagliarlo in bravura». E un altro critico, Ettore Barra: «È il nostro più grande centromediano sistemista, il più grande d’Europa, ma al sistema è giunto senza entusiasmo. Avrebbe anche potuto essere il miglior centromediano metodista». Erano i tempi del grande dibattito tra metodo e sistema, delle infinite discussioni sulla fantasia di una tattica di gioco e sulla pragmatica disciplina dell’altra. Lui metteva tutti d’accordo. «I metodisti superstiti ringraziano Parola per non averli dimenticati» scriveva il poeta Roghi. «Talvolta evade, parte a lunghe falcate come se andasse a prendere una boccata d’aria, C’è sempre un calcolo nel suo gioco, nulla viene fatto a caso, in ogni azione di difesa c’è sempre urto spunto di iniziativa, un invito al compagno, una proposta». Non era l’uomo dei corpo a corpo, delle giornate tempestose, ma, si diceva, dell’estro, della manovra che supera l’avversario in prontezza e intelligenza.
La sua storici personale è, in un certo modo esemplare: da dipendente Fiat a campione d’Italia della Juve, non è capitato a molti nonostante i noti legami tra quella e questa. C’è poi qualche sfumatura in stile gozzaniano che non guasta, a uso degli agiografi. La perdita del padre quando è ancora un bambino, gli entusiasmi per il ciclismo e i motori (un giorno, già campione celebre, chiederà invano di partecipare alla Mille Miglia, al volante, come Ascari). Poi il trasferimento a Cuneo dove non c’è il velodromo e alla bicicletta è preferibile il pallone, i primi calci in periferia, la prima squadretta che fa accorrere ammiratori dai dintorni. Alla Fiat entra poco dopo aver finito le elementari, in tempi ancora lontani dalla scuola dell’obbligo.
Aiuto meccanico: il suo contributo, in quella famigliola mutilata dal destino, è un salario di 250 lire al mese. Fa parte della squadra dopolavoristica e in una partita di allenamento contro la Juventus gli capita di affrontare Borel. Deve cavarsela bene perché gli offrono di passare in bianconero e chi ne caldeggia l’acquisto è nientemeno che Caligaris. La trattativa non è così facile come potrebbe sembrare. Il presidente del Gruppo Sportivo Fiat è, per vocazione solo in apparenza contraddittoria, torinista e vorrebbe Parola in maglia granata. Risponde no. Deve intervenire, con una spicciativa telefonata, il giovane Gianni Agnelli.
Così Parola diventa l’anello ideale tra due epoche juventine. Arrivato pochi mesi dopo l’addio di Monti, ha tra i compagni Gabetto che lo informa sui segreti della rovesciata e poi, negli spogliatoi, gli regala due dita di brillantina; più tardi, già famoso, dovrà vedersela con un nuovo arrivato, un biondino di Barengo, tal Boniperti, che al primo allenamento gli farà un tunnel, ricambiato con un’entrata dura sulla caviglia perché impari subito, il ragazzino, a rispettare i grandi.
Giocò la prima partita in serie A sull’erba di casa, lui torinese, a Torino contro il Novara. Aveva come compagni di linea Depetrini e Varglien I, la Juventus vinse con un gol dell’altro Varglien. Sul giornale si lesse che il «giovane Pirola» aveva fatto un discreto debutto. Poi, nel commento del martedì un autorevole critico azzardò un giudizio più impegnativo scrivendo che «a dispetto di chi lo riteneva intempestivo, Caligaris ha mostrato una volta ancora di saper misurare i tempi: il debutto del giovane Parola è stato veramente confortevole e ha detto chiaramente come la Juventus stia preparando un nuovo, grande centromediano».
Diventò titolare due campionati più tardi al centro di un trio che vecchi tifosi ricordano – spesso capita alle formazioni del calcio – come una filastrocca infantile o il refrain di una canzone della gioventù, un’occasione di nostalgia: Depetrini, Parola, Locatelli. Con Parola il gioco della Juve aveva ritrovato una caratteristica che era tipica ai tempi di Monti: sapeva «servire lungo» e furono quei lanci e quei rifornimenti a permettere agli attaccanti di segnare tanti gol in una stagione che comunque non fu vittoriosa. A dominare la scena si era infatti presentata una nuova squadra: il Torino.
I campioni granata Parola li ebbe come avversari in campionato e come compagni in Nazionale, dove Vittorio Pozzo a volte gli preferiva Rigamonti, che aveva meno classe ma più grinta. Nacque l’idea che quel grandissimo «classico» non fosse altrettanto grande come incontrista, non amasse molto rischiare con il tackle, non fosse abbastanza «cattivo». Spesso le buscava. «Il limite di Parola – è l’opinione di Boniperti – era solo di una certa fragilità ossea, o forse di pura sfortuna, per cui l’avevo definito il Coppi del calcio». Di 10 partite in Nazionale la metà furono sconfitte, l’ultima – quella del mesto e precoce addio – in Brasile ai mondiali del 1950 quando la Svezia eliminò gli azzurri. Parola finì infortunato per un calcio di Jeppson. Con un altro centravanti svedese, Gunnar Nordahl, aveva avuto una brutta storia pochi mesi prima in campionato, una grigia domenica di febbraio. Quell’incredibile pomeriggio del 7 a 1 contro il Milan a Torino. I nervi a fior di pelle per lo straripare dei milanisti e la sfortuna degli juventini (proprio Parola aveva centrato un palo quando la squadra era in vantaggio), un’entrata scorretta, un calcio di ripicca: «Mi espulsi io, prima ancora che l’arbitro mi cacciasse». Commento di Gianni Agnelli che quel giorno soffriva in tribuna: «È l’unica cattiva azione di tutta la sua vita».
Questo era Parola, detto anche «Carletto l’europeo» per la più inutile, accademica ma anche famosa delle sue partite, quella del 1947 a Glasgow tra la Gran Bretagna e una rappresentativa che allineava incautamente le grandi stelle del calcio continentale. Era finita 6 a 1 per i britannici, due gol del centravanti Lawton, un autogol di Parola. Poi, al di là del risultato e delle apparenze, quei commenti che avrebbero celebrato una leggenda. «Ce Soir»: «Fortunatamente c’era Parola. Un Parola che ha fatto una partita straordinaria in condizioni delicatissime, in mezzo a una difesa quasi sempre scardinata e spremuta all’estremo. L’italiano sopportò validamente il confronto con i suoi più valenti avversari e ciò era più che una prodezza». Di analogo tenore i commenti dei giornali inglesi. Non poco per l’ex aiuto-meccanico del Gruppo Sportivo Fiat.
«Per me fu un grande onore e così penso, per il calcio italiano. Le altre nazioni europee indugiavano nel riprendere i contatti con noi: la guerra aveva lasciato il segno anche nello sport. I selezionatori mi videro all’opera a San Siro nella mia seconda prova in azzurro. L’11 novembre 1945 a Zurigo avevo esordito contro la Svizzera: il primo dicembre dell’anno successivo Pozzo mi confermò contro l’Austria che battemmo per 3-2. Io giocai abbastanza bene, feci una delle mie rovesciate, ma in quell’occasione ci fu una grandissima partita da parte di Maroso che avrebbe meritato di giocare nella selezione europea. Scelsero soltanto me cosi partii tutto solo per l’Olanda. Ci allenammo a Rotterdam, dove conobbi Wilkes, asso del calcio locale, e poi Nordahl, Præst e così via dicendo. Il 7 maggio giocammo a Glasgow in uno scenario indimenticabile. Gli stadi sudamericani dovevamo ancora scoprirli e quelli italiani erano piuttosto piccoli: Glasgow, invece, conteneva 150.000 spettatori, una cosa impressionante, cosi come restò indimenticabile quella partita contro i campioni britannici. Ricordo che nello stesso anno, la Juventus andò a giocare in Svezia contro una squadra di cui non ricordo il nome. Ricordo bene, invece, il nome di un’ala sinistra che ci fece impazzire: si chiamava Liedholm, era giovanissimo, due anni dopo sarebbe venuto in Italia assieme ad altri fuoriclasse del suo paese. “Però”, commentammo alla fine dell’incontro “quell’ala non stonerebbe in Italia”. Più avanti ci fu l’invasione straniera, arrivarono in tanti, anche per la Juventus. Nordahl fu ingaggiato dalla Juventus, se non che venne poi smistato al Milan in cambio di Pløger. Peccato, perché i nostri 2 scudetti potevano essere con lui almeno 5. Perché fu Nordahl successivamente ad indicare alla sua società i nomi di Liedholm e di Gren e a farli venire in Italia dopo avere constatato di persona che nel nostro paese si stava bene. Pensate se quei tre fossero finiti alla Juventus: un attacco composto da Boniperti, Gren, Nordahl, Liedholm e Præst avrebbe fatto almeno 150 goal!».

VLADIMIRO CAMINITI
Non esiste un altro, nella storia del calcio nostro, che emuli Parola nel suo modo di essere campione. È vero, c’era stato Rosetta, ma con Parola l’esercizio virtuoso diventa stile. Con Parola, il calcio parla al mondo, quel mondo di un’Italia ancora sbigottita se non disfatta che sgrana gli occhi su tutto, non ci sono più ideali, ogni valore è stato frantumato in un mare di sangue, ma si riaprono gli stadi e Parola esegue la sua rovesciata per tutti gli umili e diseredati, disegna l’illusione con la sua acrobazia meditata; la sua rovesciata, in Italia, contende alla pizza napoletana il primato della popolarità.
Parola nasce in una famiglia che è un grumo di ristrettezze. Torino non è solo piazza San Carlo, e i Savoia sono da tre anni in esilio, nel 1949, quando Parola è celebre. L’Italia è una Repubblica, Parola è l’alfiere di una Juventus che gioca un calcio stellare, non troppo istintivo, con un ragazzo biondo che abbaglia per i suoi goal freddi e poetici (Boniperti). Il papà di Carlo, detto Nuccio, è morto precocemente, vittima di un suo stesso vizio: si era accoppato ingurgitando tabacco pur di non andare soldato.
Il ragazzo si trovò presto a sostentare una famiglia. Al dopolavoro Fiat, sgobbava come garzone e nel tempo libero giocava a calcio, senza sapere che un singolare tipo di osservatore da qualche tempo, Parola aveva già 17 anni, veniva a osservarlo; l’orecchiuto compare Sandro Zambelli, detto Zambo, il cantore dell’altra Juventus, quello delle dame patronesse e dei signori in frac. Ora la Juventus, è il 1939, aspetta di ridarsi una verginità. Dopo la morte di Edoardo, gli Agnelli si sono messi da parte. Gianni è ragazzo. La presidenza viene affidata al conte dottor Emilio De La Forest de Divonne. Non si saprà mai nulla di questo patrizio. La storia dice che c’è la sua firma sul primo contratto di calciatore di Carlo Parola.
Parola nel campionato 1939-40 entra nei ranghi, è utilizzato in vari ruoli. Ha piedi morbidi e il suo calcio detta legge. Tanto è giovane, tanto è bravo. La guerra frenerà anche il suo cammino, ma è ancora in tempo per farsi amare. L’esordio è avvenuto contro il Novara, il 3 dicembre 1939, poi è tutta una scalata. Finisce la guerra, la ripresa è ilare e tormentata, a Zurigo l’11 novembre 1945 Parola è in campo contro la Svizzera, 4-4, non è un falco sul vecchio Amadò che segna 3 goal, non è proprio la sua giornata. Certi critici, secondo me maldestri, opinano che Parola non sia mai stato un combattente.
Non è esattamente così. Nelle sue tante partite in bianconero, nelle sue dieci presenze azzurre, Parola è sempre Parola, parla il calcio, vuole essere mai restrittivo, sempre evocativo di libertà. È il simbolo della libertà recuperata, non concepisce le strettezze di una marcatura assillante, in cui sono più bravi Rigamonti e Tognon. Ma nessuno lo vale per il gesto stilistico, per la capacità di giungere primo sulla traiettoria, annichilendo nei giorni di vena anche bisonte Nordahl sull’anticipo. Gioca nella Juventus fino al 1954, quando con John Hansen emigra nella Lazio.
E forse l’allenatore non è stato pari al giocatore, ma il mondo va così, e salendo sull’erta che ricorda quell’ameno sito che è Ceriale, con il suo mare strabiliante, Parola mi dava questa spiegazione del suo quasi fallimento come tecnico: «Sono stato un giocatore troppo grande per essere anche un allenatore troppo grande».

 

https://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/09/carlo-parola.html

 

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Jesse Carver born #OnThisDay in 1911 - Juventus

 

Corte de bicicleta fez Carlo Parola virar hit em álbum da Panini -  Calciopédia

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