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Socrates

Enrico Paulucci

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Paulucci, bianconero a colori - La Stampa

 

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1912438436_juve1905.png.edd74d21257de249be6713de9807373b.png   ENRICO PAULUCCI   

 

Foot-Ball Club Juventus 1919-1920 - Wikipedia

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Paulucci

 

 

Nazione: Italia 20px-Flag_of_Italy.svg.png
Luogo di nascita: Genova
Data di nascita: 13.10.1901

Luogo di morte: Torino

Data di morte: 22.08.1999
Ruolo: Portiere
Altezza: -
Peso: -
Soprannome: Gatto

 

 

Alla Juventus dal 1918 al 1921

Esordio: 22.06.1919 - Amichevole - Livorno-Juventus 0-1

Ultima partita: 12.06.1921 - Amichevole - Reggiana-Juventus 2-3

 

0 presenze - 0 reti subite

 

 

Enrico Paulucci o Paulucci delle Roncole (Genova, 13 ottobre 1901  Torino, 22 agosto 1999) è stato un pittore italiano, uno dei componenti del Gruppo dei Sei di Torino. In gioventú ha giocato a calcio nel ruolo di portiere della Juventus.

 

 

Biografia

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Senza titolo, bozzetto per mosaico (19555-1959), Collezione Mosaici Moderni della Pinacoteca di Ravenna

 

Figlio del generale marchese Paolo Paulucci Delle Roncole (o Paolucci delle Roncole) e di Amalia Mondo, originaria di Montegrosso, Enrico Paulucci da adolescente si trasferì a Torino al seguito della famiglia e qui compì gli studi classici, si laureò in scienze economiche e in legge. Durante gli anni del liceo mostrò già la sua inclinazione per la pittura e mentre seguiva i corsi universitari cominciò a esporre nelle mostre locali, partecipando anche per brevi periodi al movimento futurista.

Negli anni 1927-1928 cominciò a frequentare i pittori più noti dell'area torinese. In questi anni strinse amicizia con Felice Casorati, e in seguito con Lionello Venturi ed Edoardo Persico. Nel 1928 si recò a Parigi, dove approfondì la conoscenza della pittura francese, dall'Impressionismo in poi, e si interessò all'opera di Pablo Picasso, Henri Matisse, Raoul Dufy, e Georges Braque.

Il Gruppo dei Sei pittori di Torino

Nel 1929 tornò a Torino, dove si unì agli amici Gigi Chessa, Carlo Levi, Nicola Galante, Francesco Menzio e Jessie Boswell, e con loro costituì il Gruppo dei Sei di Torino, sostenuto da Lionello Venturi e Edoardo Persico. Il gruppo guarda alla pittura francese postimpressionista (Cézanne, Derain, Matisse, Bonnard, Dufy). Il Gruppo dei Sei parlava di libertà e d'Europa in un clima in cui l'arte era minacciata dal nazionalismo e da ripiegamenti autarchici. La prima mostra del gruppo fu tenuta in un magazzino prima adibito a deposito di tappeti nella centralissima Galleria Lombardi. Altre mostre si tennero anche a Genova e a Milano. Il gruppo si sciolse nel 1931, ma Paulucci, Menzio e Levi esposero ancora insieme nel 1931-1932 a Parigi, Londra e Roma.

Paulucci e Casorati

A Torino Paulucci fondò insieme a Felice Casorati lo studio Casorati-Paulucci, dove organizzò molte mostre d'avanguardia, tra cui la prima mostra italiana d'arte astatta del gruppo milanese del Milione. Insieme a Casorati diresse anche lo studio La Zecca. Nel 1938 fondò e diresse il Centro delle Arti, che presenta mostre di artisti ancora poco conosciuti a Torino.

L'insegnamento

Nel 1939, Paulucci fu chiamato alla cattedra di pittura dell'Accademia Albertina, di cui divenne anche direttore nel 1955. Il suo insegnamento era libero da pregiudizi accademici, e perciò segnò l'inizio di un orientamento più attuale degli studi.

I suoi primi allievi furono Mario Davico e Mattia Moreni, che diventò poi uno dei maggiori interpreti del naturalismo astratto italiano. Paulucci cercò subito di stimolare e aprire gli occhi ai giovani, ai quali prima di allora erano ignoti persino Cézanne e l'Impressionismo.

Rielaborazione dopo la guerra

Durante la guerra, Paulucci si trovò lo studio e la scuola distrutti, perciò fu costretto a trasferirsi a Rapallo, dove si costruì uno studio. Con la fine della guerra, tornò a Torino e la sua pittura cominciò a subire una rielaborazione, lenta ma continua, da cui nacque la prima mostra delle "Barche" alla Bussola. Nel 1947 ottenne il secondo premio all'unica edizione del Premio Iseo, nel 1952 viene premiato al concorso della città di Sestri Levante e l'opera "Lungomare a Sestri Levante" (olio su compensato) è tutt'ora proprietà del Comune, mentre nel 1955 divenne direttore dell'Accademia Albertina; venne poi nominato membro dell'Accademia di San Luca a Roma, e in seguito anche membro dell'Accademia Clementina di Bologna e dell'Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze. Nel 1958 vinse il Premio Michetti, che andò ad aggiungersi a quelli della Spezia, di Villa San Giovanni e al premio da lui ottenuto alla II Quadriennale di Roma del 1935 (su 9 partecipazioni) partecipa inoltre alla Biennale Internazionale d’Arte di Venezia nel 1954 e nel 1966 edizioni in cui ottiene il riconoscimento di una sala personale (aveva gia partecipato alla mostra di Venezia del 1930 con 18 opere).

Dopo il 1960

Dopo il 1960 sono da ricordare: la mostra “I Sei di Torino” del 1965 alla Galleria civica d'arte moderna e contemporanea di Torino; nel 1966 la sala personale alla XXXIII Biennale di Venezia; nel 1979 l'antologica alla Promotrice delle Belle Arti di Torino; nel 1980, la personale al Palazzo Pianetti Tesei di Jesi; nel 1983, la personale a Palazzo Bianco e Palazzo Rosso di Genova; nel 1986, l'esposizione “Astratto-Concreto” allo Studio d'Arte Le Immagini di Torino; nel 1987, la mostra antologica del Comune di Acqui Terme (Palazzo Robellini); nel 1988, la mostra “Primo Tempo” allo Studio d'Arte Le Immagini di Torino; nel 1989, l'antologica al Palazzo dei Leoni di Messina; nel 1990, la personale al Palazzo dei Congressi di Alba; nel 1992 e nel 1994, le personali all'Antico Castello sul Mare di Rapallo. Nel 1993 Paulucci ricevette il Premio Pannunzio a Torino, nel 1994 la medaglia d'oro della Presidenza della Repubblica per i Benemeriti della cultura e dell'arte e, nel 1995, il Premio Cesare Pavese. Nel 1996, venne inaugurata la mostra “Omaggio a Paulucci” alla Fondazione Palazzo Bricherasio a Torino, ripresa poi nel 1997 al Palazzo delle Nazioni Unite di Ginevra.

Attività all'estero

Paulucci ebbe un'attività intensa anche all'estero. Sono da ricordare: nel 1930 l'esposizione alla Bloomsbury Gallery di Londra, nel 1931 quella alla Jeune Europe di Parigi, nel 1937 alla Akademie der Künste di Berlino, nel 1942 a Linz, nel 1946 a Londra, nel 1949 a Praga e al Cairo, nel 1951 ai Musées di Nizza, nel 1951 e nel 1953 alla I e alla II Biennale di San Paolo del Brasile, nel 1955 al Nationalmuseum di Stoccolma e alla Biennale Hispanoamericana di Barcellona, nel 1957 a New York (Columbia University), nel 1961 a Copenaghen, Oslo, Göteborg, nel 1963 a Skopje, nel 1979 in Finlandia.

Ultimi anni

Paulucci muore il 22 agosto del 1999, a quasi novantotto anni, al terzo piano di un palazzo ottocentesco in Piazza Vittorio Veneto, nel centro storico di Torino. Oggi il suo appartamento ospita un archivio che documenta l'esperienza artistica del pittore. Tale archivio fu curato con dedizione da Federico Riccio, di nobile e antica famiglia astigiana, impeccabile stile, vecchia signorilità torinese, per trent'anni gallerista con la moglie Laura Ferrero, caro amico e importante collezionista di Enrico Paulucci, fondatore e direttore dal 2000 dello Studio Paulucci Archivi e Documentazioni, che fu una fucina di idee, mostre, iniziative e, soprattutto, un luogo in cui si catalogavano memorie e bellezza. L'appartamento è stato sede, fino al 16 giugno 2001, di una mostra che raccoglieva quarantacinque ritratti eseguiti da Carlo Levi, compagno di Paulucci nell'avventura pittorica dei Sei.

Il pittore aveva voluto, da tempo, che il luogo della sua ultima dimora fosse Montegrosso d'Asti, il paese in cui nacque la madre. Lì aveva fatto costruire la tomba di famiglia e l'aveva arricchita componendo un mosaico giocato su una infinita tonalità di blu, azzurro e turchese raffigurante una nave che solca il mare (forse) dell'Eternità. Ora riposa accanto alla moglie Gita Maccagno, alla madre Amalia, al padre Paolo e alla sorella Maria.

Paulucci e la Liguria

Per Paulucci la Liguria rappresentò sempre il luogo in cui ritirarsi; mantenne sempre infatti il legame con la sua città d'origine, Genova, che lui aveva amato e conosciuto da bambino fino ai dodici anni. Questo legame era condiviso anche dagli altri componenti del gruppo dei Sei di Torino: Gigi Chessa per esempio passò un periodo di convalescenza a Nervi (Genova). Per Paulucci la Liguria fu anche un importante luogo di incontri con altri intellettuali: qui infatti incontrò lo spezzino Pietro Maria Bardi, presso la Galleria del quale a Milano in via Brera Persico portò il gruppo dei Sei di Torino a battesimo. Un altro incontro importante avvenuto in Liguria è l'incontro con Enrico Sacchetti, che nelle estati a Santa Margherita Ligure esortava Paulucci a dipingere i paesaggi liguri.

Paulucci, inoltre, tra il 1950 e il 1955, espose quattro volte al Premio di pittura Golfo della Spezia: nel 1950, poi nel 1951, anno in cui ricevette il premio insieme a Augusto Magli, Renzo Grazzini e Giulio Turcato, in seguito nel 1952, e infine nel 1955.

«La Liguria è tutta variamente stupenda, nelle spiagge di Ponente o nelle rocce a strapiombo di Levante; ma anche straordinariamente bella e piena di inattese e nascoste meraviglie per poco che ci si addentri nelle sue vallate aspre, dove l'ulivo cede al pino e al castagno, e dove ancora resistono lontano dalle unghie dei nuovi barbari antiche tracce e nobili rovine barbaresche e splendori barocchi, ed esemplari spontanee architetture aggrappate alle schiene dei monti. Ma poi da sempre amo la Liguria perché da sempre consumo in lei i miei giorni più belli, giorni d'estate, quelli di una ancor possibile felicità in un mondo di incontri stimolanti, di stimolanti accensioni della fantasia, di fronte al mare che da sempre porta con sé il sapore della libertà e dell'avventura.»

(Enrico Paulucci, 1979)

Per omaggiare Paulucci, a dieci anni dalla sua scomparsa, l'Istituzione per i Servizi Culturali del Comune della Spezia tramite il Centro di Arte Moderna e Contemporanea della Spezia ha organizzato una mostra monografica, in collaborazione con l'Archivio Paulucci di Torino e l'Associazione Culturale "Lerici Pea", che documenta l'attività dell'artista dalla fine degli anni venti fino agli ultimi lavori. La rassegna raccoglie circa cento opere di Paulucci e si articola in diverse sezioni relative ai principali nuclei tematici del suo lavoro pittorico: Paesaggi (liguri, piemontesi e romani), Barche e marine, Figure e ritratti, Nature morte, Astratto/Concreto. Contiene poi una sezione di inediti riguardanti gli studi di design (Paulucci fu, tra l'altro, fondatore della rivista Casabella) e bozzetti per scenografie teatrali e cinematografiche. Centrale al senso di questa mostra è l'ininterrotto rapporto di Paulucci con la Liguria che si è espresso in moltissime opere, con una costante presenza del Golfo del Tigullio accompagnata da incontri intellettuali di primissimo piano, con legami con gli artisti e i critici liguri, con premi ricevuti e con tantissime mostre a lui tributate. Proprio perché Paulucci è stato il principale pittore dei paesaggi liguri del Novecento, la mostra è stata inserita a pieno titolo nel cartellone culturale della prima Festa della Marineria promossa dal Comune della Spezia dell'11 al 16 giugno 2009.

Attività artistica

I soggetti raffigurati nelle opere sono: paesaggi, figure, marine, nature morte. Le tecniche principali sono: olio, gouache; cura molto anche la grafica (penna, matita, litografia, acquaforte).

Paulucci si è dedicato, oltre all'attività di incisore, a quella di grafico pubblicitario, e a quella di scenografo teatrale e cinematografico collaborando con Mario Soldati, Carlo Levi, Alessandro Blasetti, Alberto Moravia, Bosio, Pavolini, e Giorgio Strehler con rappresentazioni alla Fenice di Venezia e in altri maggiori teatri italiani. L'ultimo film girato negli studi di Torino, "La duchessa di Parma" di Blasetti, si gira negli ambienti da lui disegnati.

Inoltre, Paulucci, sollecitato da Gigi Chessa e da Persico, si concentra con una notevole produzione di studi critici anche sull'architettura, scrivendo saggi innovativi e di grande spessore.

L'artista cerca di rendere comprensibile il suo percorso non solo con le opere ma anche con gli scritti che accompagnano la sua produzione, portando così avanti in contemporanea sia il lavoro di pittore che quello di scrittore.

La fortuna critica del pittore

Nel libro "Enrico Paulucci, se non dipingo non sono" (a cura di Laura Riccio, Marzia Ratti, Pia Spagiari, saggi e contributi di Antonio Del Guercio, Adriana Beverini, Marzia Ratti, Laura Riccio, Pia Spagiari, Milano, Silvana Editore Spa, 2009) troviamo diverse opinioni sul conto di Paulucci:

  • «Paulucci ricostruisce un mondo che è vero solo perché è inventato, ma dove il mosaico cromatico non lascia di un filo la sicura consistenza delle cose; l'innesto lirico non trascura l'amore del concreto e ne ritrasmette felicemente la misura. Un esempio di pittura civile, come ancor oggi si può volere: che la vita abbia tutte le libertà tranne quella di non essere più vita e la pittura tutte le fantasie meno quella di non essere più pittura.» (Federico Riccio, 1980)
  • «Nel pittore Paulucci una cosa che mi piace(ed è a nostro vedere precipuo per l'artista vero) è la sincerità che nei grandi va spesso accompagnata con un'altra dote: la spontaneità, l'immediatezza, una sorta di infallibilità meravigliosa, ma che è sempre lodevole.» (Filippo de Pisis, 1943)
  • «Per essere calata dentro una realtà storica cui risponde evento per evento, la pittura di Paulucci, nonostante lo scintillio non mai messo a tacere dal suo cubo-fauvismo, non è immobile. Si snoda anzi attraverso una serie di svolte significative: la più importante, a mio avviso, quella del '47, con la rinunzia alla tavolozza impastata del decennio precedente e la riscoperta di un grafismo luminoso e secco. E felicissimo nei guazzi, dove il pennello vibra tracciando contorni serpentati, profili ad allegri festoni. Aveva certo ragione Persico: la pittura di Paulucci non è frivola; ma Persico aveva torto quando le negava di essere "decorativa". È ben vero che i valori della decorazione li abbiamo riscoperti da poco, e da poco riparliamo liberamente di mestiere pittorico, senza scandalo per gli intellettuali benpensanti.» (Rossana Bossaglia, 1979)
  • «Non fu mai, Paulucci, pittore identificabile con un particolare luogo o situazione. Ricco invece del nomadismo intellettuale che privilegia il genio, il mondo viaggia con lui, le sue radici traslocano ed attecchiscono rapidamente in ogni nuova occasione: Torino, Roma e Rapallo sono situazioni straordinariamente consimili per una personalità poliedrica, caratterizzata da una forza portentosa, capace di catalizzare gli influssi piegandoli e temperandoli in funzione di un unico scopo: la sua arte. Il suo sogno, il suo ideale, la sua vita. La sua tavolozza di pittore si arricchisce via via di colori splendenti e pastellosi, lievi ed aciduli, rosati e vermigli, viola, aranci ed azzurri, gialli e verdi; i lampi di Matisse ed i lucori di Derain, la stesura piana di Braque e la svirgolata prospettiva di Cézanne, la nitidezza di Dufy, il tocco angelico di de Pisis e un pizzico ancora della polvere vellutata di Felice Carena, in una sintesi di spazio e luce, dove oggetti e colline, vele ed alberi galleggiano su superfici nuvoleggianti, annotate di macchie, ora d'aria ora di cielo. Con un dono innato: la leggerezza, l'impalpabilità, l'ironia, l'apparente disordine del volo di una farfalla o di un cardellino, che riassumono in una purezza quasi astratta una summa di sapienza antica, di gioia equilibrata, di ammicchi al dandysmo e lo snob. Come in un canto, un fischiettare anzi, libero ed immediato. Per arrivare alla liricità dell'emozione con la straordinaria semplicità di una pittura che non complica, non discute, non illude.» (Gianfranco Schialvino)

Attività sportiva

Fu portiere della Juventus nella stagione 1920-1921, aiutandola a raggiungere il secondo posto nel torneo dell'Italia settentrionale.

Onorificenze

Medaglia d'oro per i benemeriti della cultura e dell'arte - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro per i benemeriti della cultura e dell'arte
   

 

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1912438436_juve1905.png.edd74d21257de249be6713de9807373b.png   ENRICO PAULUCCI   

 

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Le nuvole si sono addensate sulla città – racconta Emilio Fede su “Hurrà Juventus” del maggio 1965 – e cominciano a cadere le prime gocce di pioggia. «Fa perfino piacere sentirsi bagnati quando si dipinge questi scorci di paesaggio», dice Enrico Paulucci. Calza il suo berretto alla Sherlock Holmes, tutto quadrettoni grigi e azzurri ed è seduto su uno sgabellino. La tela fissa un angolo di Torino fra i più suggestivi: Piazza Vittorio e i Murazzi. «Preferisco il mare – aggiunge – questo lo sanno tutti. Ho quasi sempre dipinto barche e marine con l’azzurro come solo le riviere italiane possono offrire. I miei quadri più belli sono di tema marinaro. Tranne uno che purtroppo ho perduto: si chiamava “Mischia sotto la porta dei rossi”, era un momento del derby fra la Juventus e il Torino. Un ricordo degli anni in cui indossavo la maglia di difensore della squadra bianconera».
Enrico Paulucci, direttore dell’Accademia Albertina, titolare della cattedra di pittura, è stato infatti portiere della Juventus fino a metà del campionato 1925 quando cedette il posto a Combi. Pochi oggi ricordano nel distinto, austero pittore che è succeduto allo scomparso Felice Casorati nella direzione dell’Accademia Albertina, il ragazzo vivace e rompicollo che difese prima fra gli Allievi, poi in Prima Squadra la porta della squadra bianconera. «Ed ero anche bravo, anzi bravino per essere sinceri», precisa il professor Paulucci. Gli chiediamo perché di quel bravino forse dovuto alla modestia. Lui sorride «Avevo un difetto inammissibile per un portiere: ero distratto. Fra un’azione e l’altra pensavo ai miei problemi al di fuori del gioco oppure fissavo il pubblico per scoprire come avrei potuto dipingerlo in un quadro ad olio e scoprivo che mancava lo sfondo del mare. Un giorno, preso da queste distrazioni, mi accorsi solo all’ultimo momento che il centravanti avversario era a pochi metri dalla mia porta e aveva scoccato un tiro fortissimo. Feci un balzo felino e riuscii ugualmente a deviare il pallone in calcio d’angolo. Mi chiamarono gatto ma io sapevo che era stata fortuna se non avevo incassato il goal. A diciotto anni decisi di abbandonare il calcio, ma non la Juventus. Sono ancora un tifoso accanito».
Paulucci ha sessantatré anni, dipinge da oltre quarant’anni. I suoi quadri sono apparsi alle mostre più importanti sia nazionali che internazionali: dalla Biennale di Venezia, a Roma, San Paolo, Tokio. Egli fa parte del gruppo dei sei (Menzio, Paulucci, Carlo Levi, Chessa, Galante, Boswel) a capo della corrente moderna del figurativismo astratto che hanno fatto parlare di sé in tutto il mondo. Ritrovarlo oggi alla cattedra di pittura ironico e divertito, critico severo di se stesso e della propria arte costituisce un contrasto non indifferente con il lontano passato del quale ci vogliamo occupare: Paulucci portiere juventino. «Errore di gioventù – dice scherzando – che però ha rappresentato un momento fra i più belli della mia vita. Forse lo definisco errore per nascondere il rimpianto. Non ero tagliato per la carriera di calciatore ma ancora qualche anno avrei potuto restare nella Juventus. Avevo disputato due campionati riserve, vincendone uno; un campionato ero stato nei ragazzi che allora si chiamavano Boys. Poi ero stato chiamato in prima squadra, nel 1925. Ricordo la partita contro il Savona, contro la Lazio, a Roma, allo stadio Nazionale. Ero piccolo, magro e sembrava perfino impossibile che potessi alzarmi a toccare la traversa. Invece riuscivo a muovermi con una tale agilità che stupiva tutti. Non voglio dire di essere stato un gran portiere, ma il mio dovere lo facevo con scrupolo. Allora si giocava d’impeto, di volontà e per attaccamento ai colori della società. Non avevamo stipendio, non si pensava neppure al guadagno. Il fatto di indossare la maglia di una società come la Juventus era un premio sufficiente a compensare qualunque fatica».
Gli anni nella società bianconera portarono davvero fortuna al giovane Paulucci. Dopo le belle prestazioni con l’undici della Juventus fu chiamato anche in Nazionale: disputò alcune partite nella rappresentativa degli studenti, contro la Germania e la Romania. Sembrava quindi destinato alla carriera di calciatore. Ma i suoi genitori preferivano che studiasse. Suo padre, generale dell’esercito, gli consigliò di non perdere tempo a inseguire sogni di ragazzo, ma di dedicarsi agli studi. Enrico era combattuto fra la passione sportiva e la volontà del padre. I suoi compagni di squadra, Novo, Brenna, Bigatto, Marchi, Ferraris II, Sesia, Giriodi, Gallina insistevano perché restasse fra i pali, ma ben presto il gatto distratto si arrese alla famiglia. A metà del campionato (siamo nel 1925) fu sostituito da Combi. «Con un portiere come quello la gente non si è accorta nemmeno che io non facevo più parte della Juventus», commenta Paulucci con ironia non disgiunta da un certo tono di malinconia. Continuò ad allenarsi, a seguire, quando era libero da impegni di scuota, la squadra, ma oramai era un estraneo. Più tardi conseguì la laurea in legge, poi quella in scienze economiche e nel frattempo dipingeva quadri di ispirazione marinara.
Gli chiediamo cosa ne pensa della Juventus di oggi. «Sempre una grande squadra. Certo vorrei vederla in corsa per lo scudetto – dice – ma sono certo che questo avverrà il prossimo campionato. Molto è stato fatto quest’anno dal signor Herrera e molto si potrà fare in avvenire…
Ci dia un giudizio su Sivori? «Un bel giocatore. Quando lo vedo giocare mi entusiasmo. Direi che è uno dei pochi calciatori il cui stile è vicino alla mia pittura: astratta. Sembra un giocoliere più che un giocatore, un funambolo-acrobata. Ai miei tempi bisognava avere un gran fisico ed essere combattivi. Ricordo quel Valerio Bona che era un cannoniere tanto forte era il suo tiro. Ma il gioco io l’ho sempre visto alla maniera di Sivori. Lui dà spettacolo fragile e tecnico com’è quando trova la vena migliore. Insomma direi che è un bel tipo».
Cioè lei vorrebbe un gioco astratto? «Gioco no, ma giocatori sì. La nostra pittura viene definita astrattismo concreto. Così dovrebbe essere per i calciatori. Astratti nello stile, ma concreti nel gioco. Sembra assurdo, ma il pubblico deve essere libero di far lavorare la fantasia».
C’è qualcosa che rimpiange del suo lontano passato di atleta? «Il mio unico quadro dedicato al calcio: quella “Mischia sotto la porta dei rossi” che è andato perduto. L’avevo dipinto con tanto amore tradendo per una volta il mare. Era un’immagine così irreale che mi lasciava sognare e ricordare le ore passate a sgambettare sui prati verdi e fare balzi in mezzo ai pali. Non sono del resto il solo pittore che ha avuto un passato calcistico. Basti pensare a Durante e Sclavi. Il che dimostra che assieme ai pennelli abbiamo saputo manovrare anche un pallone».
Nel grande studio privato in Via Cavour le cui finestre si affacciano sui tetti della vecchia Torino che protendono verso il cielo grappoli di comignoli antichi, Enrico Paulucci conserva, fra gli oggetti che più gli sono cari, anche alcune fotografie che Io ritraggono nella formazione bianconera. La data è del campionato 1924-25, un anno legato a nomi di atleti che fanno ora parte della storia del nostro calcio migliore.


RACCONTAVA
La Juventus aveva un campo con la tribuna di legno e, sotto la tribuna, gli spogliatoi: eravamo quasi tutti ragazzi. Ci compravamo tutto: le scarpe, le magliette. Si giocava la domenica, gli spettatori potevano arrivare sì e no a duemila. Autorità presenti poche o nessuna, giornalisti sì. Il lunedì si correva a cercare le Gazzette. «Bravo il portiere Paulucci”!» Dopo di me venne Combi, gran portiere, non ho mai provato invidia per lui, era più bravo di me. Io mi tuffavo bene, ero un portiere “Plongeur”, ma il pallone qualche volta mi scappava di mano, i pennelli no, già li usavo per i miei primi quadri. Alle trasferte si andava per conto nostro, in treno, anche a Roma, dove sul campo il dischetto del rigore era un chiusino. E la sera a dormire qua e là nelle pensioncine. Avevamo un allenatore bravo, che si chiamava Armano e che poi sposò “Tota Bigiota” che teneva il buffet del campo. Ancora oggi, qualche volta, sogno che l’amico presidente della Juventus, venga a propormi di sostituire un portiere. Che gioia, corro a cercare le vecchie scarpe bullonate, la maglia bianca e nera. Quanti giocatori, tra settant’anni, sogneranno ancora la maglia che indossano oggi? Quanti avranno la mia nostalgia? Speriamo! Bello il gioco del calcio, specialmente come lo facevamo noi. Un’aria, un vento, un impeto di gioia.


ALESSANDRA BOCCI, “LA giornalaccio rosa DELLO SPORT” 7 DICEMBRE 1991
Paulucci, il portiere del piccolo calcio antico.
Il gatto distratto ha la memoria limpida. «Mi chiamavano così perché ero agile ma avevo spesso altro per la testa. Qualche volta vicino a me passava un pallone, dimenticavo perché ero lì e lo lasciavo scivolare in rete».
Enrico Paulucci, pittore, ha novant’anni e due lauree prese per confondere l’avversione del padre a tele e colori. Da ragazzo giocava nella Juventus, fra i pali ha vinto un campionato boys e uno con le formazioni delle riserve, ma ha giocato tante partite in prima squadra prima che arrivasse Combi a fargli ombra. Aveva vent’anni. «Combi era troppo più grande, più pesante e più potente di me, un bravo giocatore, forte e svelto. Smisi».
Dal pallone a Casorati, dall’amicizia col portierone bianconero a quella con Calvino e Montale: racconta, Paulucci, e quando parla dice football, come si usava allora in un calcio che non conosceva serie A e B, un calcio nel quale si vincevano solo medagliette, si viaggiava in seconda classe, si dormiva in alberghi di terz’ordine, e se si perdevano le maglie si poteva giocare anche in camicia. «Eppure in quella Juve c’erano cinque nazionali, e in quella di oggi neanche uno», dice lui sorridendo.
Lo studio sul Lungo Po torinese è luminoso nonostante la giornata grigia, pieno di tele da finire. Ma l’attenzione di Paulucci è concentrata su di una scatola di cartone che custodisce il suo passato di sportivo. «Il football allora era una cosa molto umana, giocata da studenti; ora è tecnologico, un grande spettacolo, più complicato, meccanico; lo vedo come il circo. Con ciò non voglio dire che non mi piace più: mi piace, ma è calcio postindustriale, adatto a questi tempi. Football fatto a macchina».
Ma non può dimenticare, l’amico di Combi («onesto, serio e la serietà è una bella cosa: oggi dicono di essere seri, ma cambiano con un miliardo in più»), il calcio fatto su erba vera, con alberi veri intorno, e delle volte un tombino al posto del dischetto di rigore. Allora la Juve giocava in mezzo ai pioppi, e l’artista in cerca di colori ricorda e ancora ama i campi aperti delle città povere.
Li ama, ma non li dipinge. «Una volta ho fatto un quadro sul calcio, si intitolava “Mischia sotto la porta rossa”. Era il mio periodo futurista, brevissimo. Quel quadro è finito sul fondo di una cassa che doveva servirmi a imballarne altri. Peccato. Comunque i colori del calcio sono belli, sarebbe interessante fare un quadro sul football solo a macchie di colore. Il calcio dal punto di vista pittorico è bellissimo, lo era allora più di adesso con le tettoie che rendono gli stadi dei salotti. Non mi piacciono niente, questi stadi: non si vede più il cielo, la stagione, il sole. Campi finti, prodigi di tecnica, però il calcio non è più così interessante dal punto di vista estetico, non c’è più il contatto con la natura. Perché io non ho dipinto calcio? L’arte moderna non è adatta alla cronaca».
E le tinte del football scompaiono di nuovo nel bianconero della memoria, davanti a foto di vecchia Juve, a diplomi e ritagli, Paulucci non vuole parlare di pittura; getta uno sguardo intorno, guarda le mani sporche di rosso («ho firmato un quadro, si vede che il colore sotto era fresco»), torna con la mente all’albergo di Roma «dove per allenarsi si faceva la corsa con le cimici», al treno che li portava a Livorno, seconda classe e tanta allegria, tanto che si scordarono le valigie nel vagone. «Eravamo senza maglie e sa cosa abbiamo fatto? Siamo andati al mercato e ci siamo comprati delle camicie bianche, di quelle senza collo come si usava allora. Abbiamo giocato così».
Nella capitale, durante le prime Olimpiadi universitarie italiane, aprile 1922, capitava di essere «alloggiati» sulla paglia dello zoo. Ma ci si divertiva, si incontravano squadre finite giù, Savona, Casale, Livorno, e lo stile Juve già esisteva. «Era lo stile di una squadra in fondo aristocratica. Erano regole di comportamento civile, dovevamo essere a posto anche se giocavamo in camicia; lo juventino non doveva mai essere uno sbracataccio che urlava. Ci voleva un certo riserbo, una certa signorilità. E a quei tempi mai più uno sarebbe passato da una squadra all’altra: c’era passione, la passione ci guidava. Ora c’è la passione del tifo ma è un’altra cosa. Ci sono gli sponsor, aveva ragione Pound: dove arriva il denaro non si è più sicuri di nulla».
L’artista confessa di «rimpiangere un po’ quel mondo. L’uomo tende a diventare un numero, e questo non mi piace tanto. Una squadra ha bisogno di un numero dieci, e va a pescare il dieci. Serve un uno, ecco l’uno. Non c’è più passione, solo spettacolo».
Perché questo è rimasto, lo spettacolo: più di prima, meglio di prima. «Quando vedo i portieri di oggi in tv schizzare come palle di gomma mi riempio di ammirazione, sono bravissimi».
Però che tristezza quei campi salotto, quell’erba finta che luccica in tv, quel vip che guarda il calcio in poltrona. «Sono rimasto tifoso della Juve, ma non mi va di andare in quella specie di palchi imperiali. E non mi piace la grande folla di tifosi diventati corpo compartecipe, una specie di coro greco. Non mi va, e poi sono vecchio. Fino a qualche anno fa ancora andavo allo stadio. Ogni tanto mi invitano, ma in fondo preferisco vedere il football in tv».
Luci sul Po. Fuori ora è buio, ma nell’aria dello studio brillano i colori dei quadri. «Chi l’avrebbe detto, che un giornale sportivo mi sarebbe venuto a cercare settant’anni dopo quelle partite – riflette Paulucci –. E io che credevo che solo l’arte restasse».

 

http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2011/05/enrico-paolucci.html#more

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