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Socrates

Heriberto Herrera - Allenatore

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Heriberto Herrera, il duro passato dalla Juve all'Inter: convinse Fraizzoli  a vendere Suarez e scatenò la rivolta | Primapagina | Calciomercato.com
 
1964–65 Coppa Italia - Wikipedia
 
Heriberto Herrera construiu Juventus 'operária' com mão de ferro e  estratégia revolucionária - Calciopédia
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1966–67 Juventus FC season - Wikipedia

 

Heriberto Herrera - Wikipedia

 

File:Juventus Football Club 1967-1968.jpg - Wikimedia Commons

 

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1377711846_juventus1931.jpg.53561822fe2c523a3eb4f9633473446a.jpg HERIBERTO HERRERA

 

El entrenador paraguayo campeón con la Juventus: ¿Quién fue Heriberto  Herrera? - Fútbol - ABC Color

 

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Heriberto_Herrera

 

 

Nazione: Paraguay Paraguay
Luogo di nascita: Guarambaré
Data di nascita: 24.04.1926

Luogo di morte: Asunción

Data di morte: 26.07.1996
Ruolo: Allenatore

 

 

Allenatore della Juventus dal 1964 al 1969

 

215 panchine - 100 vittorie - 73 pareggi - 42 sconfitte

 

1 scudetto

1 coppa Italia

 

 

 

Heriberto Herrera Udrizal (Guarambaré, 24 aprile 1926  Asunción, 26 luglio 1996) è stato un calciatore e allenatore di calcio paraguaiano, di ruolo difensore.

 

Tecnico dal carattere severo e inflessibile, nonché assertore di una rigida disciplina tattica e comportamentale, legò il suo nome al credo calcistico del movimiento — anticipando attraverso esso concetti poi portati alla ribalta dal calcio totale quali il pressing, l'assenza di posizioni fisse sul campo e il continuo movimento senza palla dei giocatori — che trovò la più fruttuosa applicazione nella cosiddetta Juve Operaia degli anni 1960.

 

Era colloquialmente soprannominato HH2 per distinguerlo dal più noto collega Helenio Herrera, quest'ultimo già famoso come HH; per il giornalista italiano Gianni Brera il paraguaiano era invece Accacchino, contrapposto all'Accaccone franco-argentino.

 

Heriberto Herrera
Heriberto Herrera, Juventus.jpg
Herrera alla Juventus negli anni 1960
     
Nazionalità Paraguay Paraguay
Calcio Football pictogram.svg
Ruolo Allenatore (ex difensore)
Termine carriera 1959 - giocatore
1982 - allenatore
Carriera
Squadre di club
19??-19??   Nacional  
1952-1959   Atlético Madrid 74 (0)
Nazionale
1953 Paraguay Paraguay 5 (0)
1957 Spagna Spagna 1 (0)
Carriera da allenatore
1959-1960   Rayo Vallecano
1960-1961   Tenerife
1961-1962   Granada
1962   Real Valladolid
1962-1963   Espanyol
1963-1964   Elche
1964-1969   Juventus
1967 Paraguay Paraguay
1969-1971   Inter
1971-1973   Sampdoria
1973-1975   Atalanta
1975-1976   Las Palmas
1976-1977   Valencia
1977-1978   Espanyol
1978-1979   Elche
1980 Paraguay Paraguay
1981-1982   Las Palmas
Palmarès
 
Transparent.png Copa América
Oro Perù 1953

 

Caratteristiche tecniche

Giocatore

Impiegato come difensore, si espresse al meglio nel ruolo di stopper.

Allenatore

«Il movimiento, così inviso al genio logoro e selvaggio di Omar Sívori, contemplava un'adesione globale alla manovra, assaggio del totalitarismo batavo. In assenza di tenori, ma quand'anche ce ne fossero stati, l'orchestra incarnava il fine ultimo, e non un dispotico vezzo. Heriberto, paraguagio di rigida lavagna, passò per pazzo. Viceversa, era in anticipo su convinzioni e convenzioni.»

(Roberto Beccantini, 2013)

 

220px-Juventus_FC_-_1964_-_Allenamento_%
 
Herrera e Sívori in bianconero nel 1964, a confronto in allenamento: il loro rapporto sarà breve e conflittuale.

 

Salì alla ribalta da tecnico come fautore del cosiddetto movimiento. Tra i precursori nel suo genere, si trattava di un sistema di gioco corale e votato alla difesa, una sorta di zona latinoamericana dove la corsa contava più della tecnica, con giocatori senza ruoli fissi in campo bensì con precisi movimenti da seguire, attaccando gli spazi e sfiancando gli avversari attraverso l'arma del pressing.

 

Per applicare al meglio tali dettami, Herrera aveva nella cultura del lavoro e nella rigida disciplina — sia tattica sia comportamentale — i suoi cardini, rifuggendo quindi dagli individualismi tipici di solisti o campioni; di fatto più preparatore atletico che allenatore, si guadagnò per questo gli appellativi di ginnasiarca democratico o sergente di ferro, scevro da privilegi e insubordinazioni che non tollerava tanto in allenamento quanto in partita, non lesinando quando necessario le maniere forti per «risolvere da uomini» i dissidi coi giocatori.

 

Una visione del calcio che lo porrà in aperto contrasto, durante la sua esperienza juventina, con uno dei maggiori fuoriclasse dell'epoca, l'irriverente Omar Sívori. In questo senso, passò agli annali una sua uscita davanti alla stampa, ovvero «Coramini e Sívori, per me sono uguali»; una massima che riassunse al meglio la filosofia heribertiana di squadra — il gruppo prima dei singoli —, paragonando uno sconosciuto ventenne delle giovanili bianconere al ben più famoso Cabezón.

Carriera

Giocatore

Herrera iniziò la sua carriera di calciatore in patria con il Nacional, per poi approdare in Spagna all'Atlético Madrid, dove giocò dal 1952 al 1959 prima di dover abbandonare l'attività agonistica a seguito di un incidente di gioco. In precedenza, con la maglia del Paraguay aveva contribuito nel 1953 alla vittoria finale in Copa América contro il Brasile, mentre in seguito disputerà anche una partita tra le file della Spagna, il 10 marzo 1957, contro la Svizzera.

Allenatore

«Non vorrei definirlo un dittatore ma quasi. Lui voleva sempre vincere e noi calciatori siamo tutti stronzi.»

(Gianfranco Zigoni, 2008)

 

220px-Juventus_FC_-_Serie_A_1966-67_-_Sa
 
Herrera festeggia, assieme agli juventini Salvadore e Favalli, la vittoria dello scudetto del 1967, conquistato in rimonta all'ultima giornata.

 

La carriera di Herrera in panchina prese il via dove aveva trovato conclusione quella da calciatore, in terra iberica, guidando nella prima metà degli anni 1960 compagini di secondo piano come il Rayo Vallecano, il Tenerife, il Granada, il Real Valladolid, l'Espanyol e soprattutto l'Elche, dove consolidò la sua crescente fama. I buoni risultati conseguiti nei campionati spagnoli ne agevolarono l'approdo in Italia, chiamato nel 1964 da una Juventus in cerca di un tecnico caparbio e dai modi intransigenti, per riportare disciplina in uno spogliatoio divenuto alquanto insubordinato.

 

Herrera rimarrà alla guida dei bianconeri fino al 1969, vincendo con una Juve Operaia priva di fuoriclasse lo scudetto dell'annata 1966-1967 — rimasto nella memoria per il sorpasso all'ultima giornata su una crepuscolare Grande Inter  e, in precedenza, la Coppa Italia della stagione 1964-1965, anch'essa a spese dei nerazzurri; portò inoltre i piemontesi alla finale di Coppa delle Fiere (1965) e, per la prima volta, in semifinale di Coppa dei Campioni (1968).

 

Tuttavia, col passare del tempo la piazza juventina si mostrò sempre più insofferente verso la visione di HH2, reo agli occhi dei tifosi di aver «democratizzato» l'aristocratico club sabaudo — non gli verrà perdonato, in particolar modo, l'avallo alla cessione di Omar Sívori, un capriccioso Cabezón per niente ligio alla disciplina richiesta dal paraguaiano —, sicché nel 1969 passò ai rivali dell'Inter, che allenerà fino agli inizi della stagione 1970-1971.

 

220px-Inter_FC_-_1970-71_-_Heriberto_Her
 
Herrera all'Inter nel 1970, a colloquio con Facchetti: il biennio in nerazzurro sarà minato da dissidi fra il tecnico e i senatori dello spogliatoio.

 

In nerazzurro Herrera ottenne un secondo posto nel campionato del 1969-1970, alle spalle del Cagliari di Gigi Riva, ma anche a Milano il rapporto con la squadra andrà presto a deteriorarsi, con una vera e propria «rivolta» a opera dei senatori interisti culminata in un esonero sul finire del 1970. La sua decennale esperienza italiana si chiuse con le panchine di Sampdoria e Atalanta, prima di un ritorno in Spagna che, nella seconda metà degli anni 1970, lo vide di nuovo a Barcellona ed Elche, oltreché alla guida di Las Palmas e Valencia.

 

Ci fu infine spazio anche per un breve interregno come commissario tecnico della nazionale paraguaiana, incarico peraltro già ricoperto fugacemente nel corso del quinquennio juventino, prima del definitivo ritiro.

Palmarès

Giocatore

Allenatore

 

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1377711846_juventus1931.jpg.53561822fe2c523a3eb4f9633473446a.jpg HERIBERTO HERRERA 

 

herrera.jpg

 

 

 

Non si può scindere Heriberto – scrive Vladimiro Caminiti – da un esclusivismo stoico, parente di remote tristezze. Un bambino mai troppo bambino, colpito in profondo chissà, vendicativo sul mondo, il quale si riversa nel mestiere, assumendo le tinte forti e spietate del sergente di ferro (una volta picchiò a sangue Dell’Omodarme), gli occhietti nerissimi imperativi, le mani nocchiute a strigliare, a torchiare, a pretendere che la gioventù soffrisse.
Arrivò per riportare la squadra alla disciplina e al lavoro. Sivori non ci stava e teneva conferenze sulla mania di quest’ultimo di volere imporre – a lui Sivori – di allenarsi. Però si allenò anche lui, maledicendo presenti ed assenti. Quell’uomo secco e forte li sfidava; se volevano fare a pugni ci stava. Ci stava in ogni modo, pur che la domenica rendessero, non mangiare grissini perché fanno male, non ascoltare i medici perché non capiscono un tubo, lui ne sapeva più dei medici, e non gli parlassero di quel poveretto di Spialtini il masseur, un ciarlatano.
Tutto spiegato in breve: noi italiani saremmo all’altezza di qualsiasi traguardo, ma non ci piace soffrire, non vogliamo allenarci. Sivori uguale Coramini. Non vince il «singulo», vince lo «equipo». Ecco il motivo per cui torchia Bercellino come Cinesinho. Per cui non accetta interferenze né consigli e procede, Favalli e Zigoni fanno in continuazione giri di campo, Bercellino si mette a giocare come non aveva giocato mai, lo smerigliato nasino di Sidney Cunha detto Cinesinho suda, la fatica è tremenda, ma se ne vedono i risultati la domenica, la squadra nomata Juventus viaggia a tutto campo, senza finezze o sofisticherie, aggredisce, romba, strappa con le unghie i risultati, il suo giocatore prototipo è Leoncini, il suo cuore ruggente è Del Sol. Come arriva lo scudetto ‘66-67 che per l’avvocato Agnelli che non stima gli allenatori è dovuto specialmente ad Heriberto? Arriva così. Lavorando tutti, lui per primo, in piedi davanti alla panchina in giacchetta nel freddo livido, stringendo i pugni e sbraitando, la truppa scatenatissima ad ottenere quei risultati di rendimento che le avrebbero consentito di sostituirsi all’Inter del presunto mago, all’Inter del boom consumistico e del petrolio.

PIERO MOLINO, “LA STORIA DELLA JUVENTUS” DI PERUCCA, ROMEO E COLOMBERO
Heriberto Herrera: così è se vi pare. Un personaggio originale. Per questo vale la pena di parlarne. Lo indicavano anche con una sigla che sapeva quasi di formula: HH2 per distinguerlo da HH1 che era Helenio Herrera, suo rivale dell’Inter. Molte cose sono state scritte su di lui, molte veritiere, altre di fantasia, ma di questo non si dispiaceva, lui che di fantasia non ne aveva molta. Non era uno sprovveduto, tutt’altro. Era il suo carattere intransigente fino alla caparbietà che gli impediva ogni cedevolezza. Sergente di ferro, lo dicevano, e sergente lo era stato all’Accademia militare di Asuncion, ed aveva giocato al calcio. Era bravo? Non lo era? Nessuno ha saputo precisare, e lui non ne parlava. Si sa che ben presto dovette abbandonare l’attività per un incidente di gioco. 
Ebbe fortuna invece in Spagna, dove si trasferì come allenatore dell’Elche e la consolidò quando fu invitato a Torino ad assumere le redini della Juventus. La scelta non fu casuale, ma determinata dalla società, perché la squadra torinese attraversava un momento poco propizio e denunciava una certa irrequietezza interna. Era necessario un allenatore di carattere che nulla concedesse ai capricci dei giocatori. E quello era l’uomo.
Militare nel pensiero, negli atteggiamenti, nel rigorismo mentale. Con sé stesso, prima che con gli altri. Gli raccomandarono al momento della sua assunzione di essere un duro, secondo le patenti che lo avevano preceduto: raccomandazione superflua, tanto che ad un certo momento qualcuno glielo rimproverò. A torto, considerando gli ordini ricevuti ed una certa difficoltà nella lingua, nuova per lui, che lo rendeva timoroso, fuori campo. A suo merito, la società si fregiò di un titolo di campione d’Italia e di una Coppa Italia, e bisogna riconoscergli che fece del suo meglio perché gli uomini a disposizione non abbondavano e il migliore era un fuoriclasse baciato dalla fortuna di godere del privilegio di svettare su tutti.
Grandissimo giocatore sulla faccia della terra Omar Sivori, perché di lui si tratta, non era uso ad ubbidire, ma a comandare. Sivori sapeva di poter contare sulla compiacenza dell’avvocato Gianni Agnelli, cui piacciono gli estrosi come l’argentino, capace di divertire la folla con le sue mirabolanti malizie. Giocava quando e come piaceva a lui: a suo vantaggio, però, segnava molti gol. Ma la disciplina non la conosceva, suscitando non soltanto le ire di Heriberto Herrera, ma anche quelle dei compagni di squadra, sui quali pesava il loro senso di inferiorità. E si venne alla lite, con la partecipazione dei comprimari. 
Il presidente era allora Umberto Agnelli, giovane manager industriale, meno romantico del fratello, del quale godeva tuttavia la massima fiducia e protezione, coadiuvato da dirigenti consapevoli delle sorti della società, ed Heriberto ebbe partita vinta. Fu lo stesso Avvocato che decise la partenza di Sivori verso i lidi partenopei: ma non ci si può nascondere che per l’allenatore fu una specie di vittoria di Pirro. Pur accreditandogli tutta la fiducia, nessuno gli perdonò il gesto di forza lo perseguitò un’ombra di rancore per aver privato la squadra del suo folletto.
Gli rimproverarono di aver democratizzato l’aristocratica Juventus, si accentuarono anche le critiche, appoggiate dai giornali, sul suo modulo di gioco, quel «movimiento» da lui praticato con successo in terra iberica, anche se non si trattava affatto di una novità. In uno dei primi libri sul calcio da me redatti, dal titolo «Rosetta insegna il calcio», il grande calciatore juventino, molti anni prima, già sosteneva che il giocatore non deve aspettare la palla ma spostarsi continuamente per trovarsi là dove può riceverla. Naturalmente a rigore della logica del gioco.
Durante i cinque anni di permanenza nella Juventus, alzi la mano chi vide Heriberto sorridere o cianciare col pubblico. Durante quel periodo dirigevo il mensile della Juventus ed ero addetto alle pubbliche relazioni, faticosissime anzichenò, perché oltre a seguire la squadra nelle sue peregrinazioni italiane ed estere dovevo, durante la settimana, occuparmi dei club bianconeri, che sono centinaia sparsi da un capo all’altro della Penisola, da Bolzano a Crotone (dove ha sede uno dei più eleganti club bianconeri). I club volevano essere ragguagliati sui giocatori, sulle loro abitudini, sui loro capricci, hobby, amori e dovevo, per fare un esempio, dare ragione del perché Favalli non era messo in campo dall’allenatore e perché questi preferiva Tizio piuttosto che Caio. Che cosa poteva rispondere il malcapitato che non aveva nessun rapporto con i giocatori e meno che meno con Herrera?
Heriberto era geloso dei suoi atleti come una chioccia con i pulcini. Non concedeva nessun giocatore da esibire nelle visite ai club, neppure se si trattava di una riserva, neppure se uno di essi doveva ricevere un premio destinatogli dai tifosi. Dovevo lavorare di fantasia, senza scostarmi troppo dalla realtà che immaginavo. Faceva sorvegliare i giocatori da persone di sua fiducia, sconosciuti a tutti, perché si ritirassero la sera alle 22, e quand’erano negli alberghi si può dire che li mettesse a letto come una brava mammina, per rifugiarsi poi nella sua stanza a sorbirsi il «mate», speciale bevanda sudamericana, rifiutando tè, caffè o liquori.
Un giorno che tentai di avviare un discorso con lui e che, al massimo dell’intraprendenza, osai dirgli che i gol erano pochi perché Anastasi in prima linea si sentiva troppo solo, mi rispose, sia pure gentilmente: «Perché non va a tenergli compagnia?».
Questo era Heriberto Herrera, e per questo e per altro del suo contegno non so chi mi confidò che era monaco trappista per cui la riservatezza e austerità erano più che comprensibili. Nulla infatti della sua vita privata trapelò mai. È facile pensarlo seduto sulla poltrona, a sorbirsi con la cannuccia il «mate», ascoltando musica folcloristica sudamericana (della quale era appassionato cultore), o a leggere libri di storia o di medicina (nella quale, a detta del medico della Juventus, era molto versato) e di dietologia. Un esempio: al termine di ogni incontro, quando i giocatori rientravano affaticati negli spogliatoi, non trovavano mai a disposizione liquidi, ma vassoi di frutta da mangiare per dissetarsi e vitaminizzarsi. 
Qualcuno si chiese a quel tempo quali erano i suoi rapporti con Helenio per il cognome che li univa. Dalla bocca di Heriberto non uscirono mai giudizi sconvenienti sul rivale, anche se l’altro gli buttava qualche volta l’esca. Chi frugò nella sua privacy per «chercher la femme», restò deluso. Un monaco trappista deve vivere in solitudine ed austeramente. È un ordine.

 

https://ilpalloneracconta.blogspot.com/2020/04/heriberto-herrera.html

 

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