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Massimo Carrera

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Joined: 01-Jun-2005
4225 messaggi

di G.B. Oli­vero · 17 mag 2025

 

 

Nell’estate del 2012 a Cha­til­lon, sede del ritiro estivo della Juve, fu orga­niz­zata una par­tita serale di cal­cetto tra lo staff di Anto­nio Conte e i gior­na­li­sti al seguito della squa­dra. Tra i ricordi più intensi di quell’oretta spen­sie­rata, l’evi­dente diver­ti­mento di Mas­simo Car­rera. D’altronde a 44 anni era ancora un cal­cia­tore pro­fes­sio­ni­sta in Serie C2 con la maglia della Pro Ver­celli: «Il segreto è la pas­sione. L’ultimo anno vivevo a Ber­gamo e gio­cavo a Ver­celli: facevo avanti e indie­tro tutti i giorni e tro­vavo ancora gli sti­moli. Mi pia­ceva con­fron­tarmi con le nuove gene­ra­zioni, volevo para­go­nare la men­ta­lità dei ragazzi con la mia, fatta di sacri­fi­cio, lavoro, ambi­zione. Io non ero un feno­meno, ma ho fatto una grande car­riera. Ho visto ragazzi che si accon­ten­ta­vano, che non ave­vano la luce negli occhi indi­spen­sa­bile per arri­vare in alto. E allora par­lavo con loro, cer­cavo di dare l’esem­pio e di tra­smet­tere qual­cosa che li aiu­tasse. Non avrei mai smesso, ma il fisico ha detto stop».
▶ Massimo, il percorso per arrivare alla Juve è stato lungo?
«Lungo e lineare. Ho debut­tato a 16 anni con la Pro Sesto in Pro­mo­zione mar­cando Pie­rino Prati, che si diver­tiva a fine car­riera nella Pader­nese. Poi Russi, Ales­san­dria, Pescara con Catuzzi che mi portò a Bari. In Puglia tre sta­gioni in B e due in A prima della squa­dra del mio cuore. La rea­liz­za­zione del sogno di bam­bino».
▶Era la Juve della restaurazione, post Montezemolo e Maifredi. Che atmosfera si respirava?
«L’atmo­sfera che ti aspetti: alla Juve si avverte sem­pre l’obbligo della vit­to­ria. Lì ho capito cosa signi­fica il peso della maglia. Il com­pi­tino non te lo puoi per­met­tere, anche negli alle­na­menti c’era ago­ni­smo. Erano gli anni del Milan di Capello, dif­fi­cile con­qui­stare lo scu­detto. Però vin­cemmo la Coppa Uefa dispu­tando alcune grandi par­tite».
▶ Con Trapattoni faceva il terzino destro, con Lippi si spostò in centro. Uomo o zona era lo stesso?
«Trap mi disse subito: “Tran­quillo, gio­chi con il 2”. Nel cal­cio di una volta signi­fi­cava che mi sarei dovuto appic­ci­care all’ala sini­stra avver­sa­ria. Tra­pat­toni chie­deva poche cose, ma chiare e sem­plici. Con Lippi pas­sammo alla zona e diven­tai un cen­trale. Noi della vec­chia guar­dia era­vamo avvan­tag­giati per­ché sape­vamo difen­dere a zona ma pote­vamo usare ciò che ave­vamo impa­rato in anni di mar­ca­tura a uomo. Per me era tutto abba­stanza facile, anche per­ché una volta si pren­deva l’uomo nella zona di rife­ri­mento. Adesso ci sono con­cetti diversi, si marca lo spa­zio. Non tutte le squa­dre però: alcune difen­dono come face­vamo noi».
▶ Più sorprendente lo scudetto 1994-95 (vinto in campo) o il 2011-12 (vissuto in panchina con Conte), entrambi arrivati dopo una lunga astinenza?
«Il secondo, anche per­ché i grandi nomi in campo non erano tanti. Anto­nio fu bra­vis­simo a por­tare la men­ta­lità vin­cente e a con­vin­cere il gruppo che era pos­si­bile strap­pare lo scu­detto al Milan. Pure Lippi aveva fatto un gran lavoro dal punto di vista psi­co­lo­gico: quello era il primo cam­pio­nato in cui la vit­to­ria frut­tava tre punti e noi inter­pre­tammo bene la novità pro­po­nendo un cal­cio aggres­sivo. E poi quello era un gruppo di amici, privo di gelo­sie».
▶ Il trionfo in Champions fu l’ultimo atto in bianconero. Perché in finale non andò nemmeno in panchina?
«Scelta tec­nica di Lippi. Mi dispiac­que, ma da bordo campo tifai come un pazzo. L’estate pre­ce­dente, pro­prio per vin­cere la Cham­pions, il club aveva acqui­stato Vier­cho­wod: avevo capito che avrei gio­cato meno, ma mi rita­gliai comun­que uno spa­zio impor­tante. A Roma guar­dai i rigori piaz­zan­domi die­tro alla porta».
▶All’Atalanta è stato un leader.
«Sette sta­gioni stu­pende. Mi calai in un ruolo nuovo, mi dedi­cai ai gio­vani, cer­cai di farli cre­scere con l’esem­pio. Biso­gna sem­pre dare tutto: puoi per­dere, ma non devi mai avere rim­pianti».

Con la Juventus da giocatore e poi da tecnico
▶Com’è stata l’esperienza nello staff di Conte?
«Bel­lis­sima. È stata la mia gavetta. Ho impa­rato tanto e non le dico la sod­di­sfa­zione quando in campo i gio­ca­tori repli­ca­vano quello che ave­vamo pro­vato in alle­na­mento».
▶Nel periodo della squalifica di Conte e del suo vice Alessio, lei ha guidato la Juve con un bilancio lusinghiero: 7 vittorie e 2 pareggi, coppe comprese.
«Ini­zial­mente sem­brava che in pan­china dovesse andare Baroni, che era l’alle­na­tore della Pri­ma­vera della Juve. In un’ami­che­vole a Salerno Anto­nio mi disse che avrei gui­dato io la squa­dra. Fu sod­di­sfatto e così pro­se­guimmo. A volte mi faceva diri­gere gli alle­na­menti, per met­termi a mio agio».
▶Perché lasciò Conte proseguendo da solo?
«Anto­nio doveva andare al Chel­sea, ma non poteva por­tare tutto lo staff. A me arrivò la pro­po­sta dello Spar­tak Mosca per entrare nel team di Ale­ni­chev. Conte non aveva ancora cer­tezze sul numero dei col­la­bo­ra­tori e allora andai. Ma sarei rima­sto tutta la vita con Anto­nio, anche se a Mosca ho vis­suto un’espe­rienza mera­vi­gliosa diven­tando primo alle­na­tore e vin­cendo uno scu­detto che man­cava da sedici anni. Mosca è mera­vi­gliosa, lì ho ancora amici che mi invi­tano. Fu bel­lis­simo vedere la città in festa».
▶Adesso cosa fa?
«Gioco a padel, guardo le par­tite, mi godo la fami­glia. Se arri­vasse qual­cosa di inte­res­sante tor­ne­rei in pan­china. Vor­rei costruire il gruppo che alleno, ho sem­pre preso in corsa squa­dre create da altri. La pas­sione non si spe­gnerà mai».
 

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