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Socrates

Antonello Cuccureddu - Giocatore E Allenatore Giovanili

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O versátil Antonello Cuccureddu foi um dos pilares da Juventus nos anos  1970 - Calciopédia

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La prima partita che vidi in vita mia al vecchio Comunale ovviamente vide in campo, mi pare fosse il 1972, Juventus-Genoa vinse la Juve 3-0 con due goal del Cuccu, uno si rigore ed uno su punizione, il terzo goal lo fece Capello. Come non ricordare quindi Cuccureddu con nostaglia, anche per gli anni che passano.

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Cuccureddu: è nella 'Walk of fame' della Juventus, oggi traccia le lin...

 

 

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ANTONELLO CUCCUREDDU

IN DIRETTA CON IL PASSATO

Riproponiamo un'intervista rilasciata al settimane l’Intrepido nel marzo del 1970
da Antonello Cuccureddu, all’epoca giovane difensore della Juventus.

 

Antonello Cuccureddu | Juventus, Calcio, Calciatori

 

 

 

D. - Di quale località è della Sardegna, caro Cuccureddu?

R. - Sono di Alghero, una splendida zona, una spiaggia diventata famosa in tutta Europa. Ma una cosa che pochi sanno è che il nostro dialetto è simile al catalano, in quanto un tempo la zona era un feudo del re di Spagna, che chiamò gli abitanti di questa zona “caballeros”, quindi siamo tutti nati “cavalieri”.

D. - Procediamo con ordine : lei inizia con i ragazzini dell’Alghero, e poi…

R. - Poi come centrocampista, perché questo era il mio ruolo, incominciai ad interessare ad una squadra sarda, la Torres. Mi comprarono, era il torneo 1966-67, per due milioni. Feci una stagione intensa in quella squadra e intanto ricordo che desideravo di poter presto giocare nel Cagliari, la squadra di Gigi Riva e di tanti campioni. Questo era il sogno di tutti i ragazzi della mia terra.

D. - Non fu accontentato?

R. - No in quanto l’anno dopo passai al Brescia, all’epoca in serie B. Fu una stagione così e così, dal punto di vista delle reti, perché non ne segnai neppure una. Ma il calcio è fatto anche di digiuni. Poi arrivò il 1969, l’anno del mio grande lancio, con il passaggio alla Juventus. Per me era un sogno, visto che da ragazzo facevo il tifo proprio per questa squadra, e adesso il mio sogno era a portata di mano.
Sono stato venduto per quattrocento milioni, un buon affare per il Brescia, ma io finalmente ero alla ribalta del calcio italiano.

D. - Nella Juventus è diventato subito titolare…

R. - Sono stato fortunato, l’ammetto! Avrei potuto fare tanta anticamera ed invece dopo solo due mesi di attesa sono entrato in prima squadra. Il motivo era legato alla partenza di Carniglia e per evitare l’indignazione dei tifosi che non hanno accettato questa situazione hanno messo mano ai giovani senza indugio. Così ho debuttato come titolare dopo poche settimane.

D. - Quante partite ha giocato in bianconero?

R. - Finora quindici, più tre in coppa. I miei gol sono stati quattro finora. Il primo, quello del “sacrilegio”, contro il Cagliari. Il secondo con il Torino, nel derby, vinto poi per tre a zero. Gli altri due sono contro il Vicenza, dove siglai una doppietta. L’ultima domenica ho poi realizzato … quasi un gol quando ho deviato di testa sulla linea un tiro di Mazzola che per l’Inter poteva significare la vittoria.

D. - Ci ricorda il gol contro il “suo” Cagliari?

R. - Scendendo in campo all’Amsicora, il campo del Cagliari, mi sono sentito una tremarella alle gambe. I miei compaesani erano venuti a vedermi, e anche loro, come il tutto il pubblico, erano incerti per chi dovevano tifare … per un sardo o per “i sardi”? Alla fine applaudirono il Cagliari ma applaudirono anche me e spesso sentii il grido "Forza Sardegna". Pareggiai in extremis il gol di Domenghini e la partita finì senza vinti ne vincitori.

D. - A proposito dei prossimo mondiali di calcio, che ne direbbe di una passeggiatina in Messico ?

R. - Non me ne parli, è il sogno di tanti giovani, il miraggio di tanti ragazzi che vogliono farsi notare. Ma la mia esperienza in nazionale è ancora insufficiente; ho giocato solo nella Under 21 per quattro volte segnando una rete, ma credo che sia troppo poco per i tecnici azzurri per darmi fiducia.

D. - Com’è la sua vita a Torino?

R. - E’ molto semplice, vivo insieme a Marchetti, un altro calciatore juventino, con il quale divido la stanza. Niente vita mondana, solo cinema, lettura e molti allenamenti.

D. - Un pronostico per questo campionato 1969-70?

R. - Mi sento molto in imbarazzo; se auguro lo scudetto al Cagliari, qui a Torino cosa succede? E se dico che lo vince la Juventus, che cosa mi faranno quando torno in Sardegna? Guardi che sto scherzando, i sardi sono persone più umoristiche di quello che si possa pensare. Del resto le due squadre in questo campionato sono proprio ai “ferri corti”! Nessun augurio, forse è meglio che lanci in aria una monetina, lasciando alla sorte un mio parere, ma, più semplicemente, dico “Vinca il migliore!”.

intervista tratta dall'Intrepido n.11 del marzo 1970.


GolCalcio.it

 

 

 

Arrestati Cuccureddu, ex giocatore della Juventus, e vice sindaco di  Alghero - Affaritaliani.it

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Il pallone racconta: Antonello Cuccureddu | AIC - Associazione Italiana  Calciatori

 

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Antonello_Cuccureddu

 

 

Nazione: Italia Italia
Luogo di nascita: Alghero (Sassari)
Data di nascita: 04.10.1949

Ruolo: Difensore/Centrocampista/Jolly
Altezza: 180 cm
Peso: 75 kg

Nazionale Italiano
Soprannome: Cuccu

 

 

Alla Juventus dal 1969 al 1981

Esordio: 12.11.1969 - Coppa delle fiere - Hertha Berlino-Juventus 3-1

Ultima partita: 09.06.1981 - Coppa Italia - Roma-Juventus 1-1

 

434 presenze - 39 reti

 

6 scudetti

1 coppa Italia

1 coppa Uefa

 

Allenatore della Juventus Primavera dal 1988 al 1990 e dal 1993 al 1995

 

1 Campionato Primavera

1 Coppa Italia Primavera

1 Torneo di Viareggio

 

Allenatore in seconda della Juventus 1990-1991

 

 

Antonello Cuccureddu (Alghero, 4 ottobre 1949) è un allenatore di calcio ed ex calciatore italiano, di ruolo difensore o centrocampista.

 

 

Antonello Cuccureddu
1975–76 Juventus FC - Antonello Cuccureddu.jpg
Cuccureddu alla Juventus nel 1975
     
Nazionalità Italia Italia
Altezza 180 cm
Peso 75 kg
Calcio Football pictogram.svg
Ruolo Allenatore (ex difensore, centrocampista)
Termine carriera 1985 - giocatore
Carriera
Giovanili
19??-19?? non conosciuta Rinascita
19??-1967   Fertilia
Squadre di club
1967-1968   Torres 34 (0)
1968-1969   Brescia 22 (0)
1969-1981   Juventus 434 (39)
1981-1984   Fiorentina 37 (0)
1984-1985   Novara 22 (0)
Nazionale
1969-1971 Italia Italia U-21 3 (0)
1975-1978 Italia Italia 13 (0)
Carriera da allenatore
1988-199?   Juventus Primavera
1990-1991   Juventus Vice
1997-1998   Acireale  
1998   Ternana  
1999-2001   Crotone  
2002-2003   Al-Ittihād  
2004-2005   Avellino  
2005-2006   Torres  
2006-2007   Grosseto  
2007-2008   Perugia  
2008   Perugia  
2009-2010   Pescara  
2013   Alghero DT
2013-2014   Grosseto

 

Biografia

Nato in una famiglia di umili origini, ha un fratello di qualche anno più giovane, Carmelo, anche lui cimentatosi come calciatore nello stesso periodo di Antonello, seppur con minore successo, avendo circoscritto la propria carriera alle categorie inferiori.

Caratteristiche tecniche

Giocatore

Calciatore molto eclettico, venne impiegato come jolly di difesa e centrocampo, svariando da mezzala — suo ruolo originario — a mediano, da terzino fluidificante a stopper. In questo senso, rimane singolare quanto accadde nella Serie A 1975-1976 quando, in un'epoca ancora lontana dalla numerazione fissa, Cuccureddu terminò quel campionato vestendo ben sette diversi numeri di maglia, con altrettanti ruoli ricoperti: il n. 2 (contro Napoli, Roma, Bologna, Sampdoria e Perugia), il n. 3 (Verona, Como, Fiorentina, Cagliari e Cesena), il n. 4 (Fiorentina), il n. 7 (Como), il n. 8 (Verona), il n. 10 (Inter e Ascoli) e il n. 11 (Torino).

 

220px-Mondiali_1978_-_Italia_vs_Argentin
 
Cuccureddu (a destra) in nazionale ai Mondiali 1978, mentre interviene in acrobazia sull'argentino Ortiz.

 

Nel corso della sua carriera, oltre a dinamismo e intelligenza tattica, rivelò ben presto delle spiccate attitudini offensive; a tal proposito, agli esordi in Serie A si guadagnò il paragone con Eusebio Castigliano, storico mediano del Grande Torino, tra i primi nel ruolo a specializzarsi anche nel cercare la battuta a rete. Dotato di un destro teso, potente e preciso, Cuccureddu lo mise a frutto con conclusioni da fuori area, calci piazzati e rigori: con 26 segnature nella massima divisione italiana, tutte maturate durante la sua militanza nella Juventus — ne siglò 39 in totale —, emerse come uno dei difensori-centrocampisti più prolifici di sempre in Serie A.

Allenatore

Come allenatore predilige utilizzare moduli di provata affidabilità, basati su una solida difesa a quattro elementi, vedi il classico 4-4-2 o il derivato 4-3-1-2.

Carriera

Giocatore

Club

220px-Associazione_Calcio_Brescia_1969-1
 
Cuccureddu (accosciato, primo da sinistra) al Brescia nel 1969

 

Iniziò a giocare a pallone in giovane età grazie al padre, presidente di una piccola formazione amatoriale della natìa Alghero, la Rinascita; andò in seguito al Fertilia con cui, ancora minorenne, vinse il campionato sardo di Seconda Categoria. La vera carriera calcistica iniziò per lui con la stagione 1967-1968, quando passò per 2 milioni di lire alla Torres di Sassari, in Serie C, dove venne impiegato come centrocampista puro.

Nell'annata 1968-1969, acquistato per 30 milioni, si trasferì al Brescia appena retrocesso in Serie B; nonostante la giovane età l'allenatore Silvestri gli concesse numerose presenze nel torneo cadetto, la maggior parte delle quali da titolare, facendo sì che Cuccureddu contribuisse attivamente all'immediato ritorno delle rondinelle in massima categoria. Iniziò la stagione seguente ancora nelle file della squadra biancazzurra, fin quando nel settembre 1969 destò le attenzioni della Juventus in occasione di un incontro di Coppa Italia a Torino, in cui il diciannovenne Cuccu marcò con successo l'esperto del Sol: la prova offerta convinse i piemontesi, di lì a un paio di mesi, a prelevarlo dai lombardi per la somma di 350 milioni, con il giocatore che andò così a indossare la maglia per la quale aveva sempre tifato.

 

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Cuccureddu alla Juventus nel 1973, alle prese con un avversario del Derby County nella semifinale di andata della Coppa dei Campioni.

 

Fece il suo debutto in bianconero il 12 novembre 1969, nella sfida di Coppa delle Fiere a Berlino Ovest contro l'Hertha Berlino; tuttavia l'esordio più ricordato è quello di quattro giorni dopo in Serie A, nella trasferta di Cagliari, in cui trovò anche la sua prima rete in massima divisione, quella dell'1-1 finale: «la Juventus era malmessa in classifica [...] ci trovammo sotto di un goal, la gente urlava "serie B, serie B". Nel finale mi giunse fra i piedi la palla buona ed infilai Albertosi. Quel goal rappresentò molto, fu una specie di trampolino [...]».

La rete più importante della sua carriera la segnò il 20 maggio 1973, durante l'ultima giornata del campionato 1972-1973. Mentre il Milan, in vantaggio di un punto rispetto ai bianconeri, perdeva 5-3 a Verona, la Juventus riusciva a recuperare lo svantaggio iniziale in casa della Roma, dapprima pareggiando con Altafini e poi vincendo 2-1 a tre minuti dalla fine, con un tiro da fuori area di Cuccureddu; questo successo consentì ai piemontesi di conquistare il loro quindicesimo scudetto. Il campionato successivo, 1973-1974, si rivelò tra i migliori sul piano personale, in particolar modo sotto l'aspetto realizzativo: chiuse infatti quel torneo a quota 12 gol, dopo esserne stato persino capocannoniere per lunghi tratti.

 

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Da sinistra: Cuccureddu, Daniel
Bertoni ed Eraldo Pecci alla Fiorentina
nella stagione 1981-1982

 

Cuccureddu giocò per dodici stagioni con la divisa della Juventus, emergendo come uno degli elementi più importanti dei plurititolati bianconeri degli anni 1970, passati sotto la guida di Vycpálek, Parola e Trapattoni: con la Vecchia Signora mise in bacheca sei titoli nazionali (1971-1972, 1972-1973, 1974-1975, 1976-1977, 1977-1978 e 1980-1981), la Coppa Italia 1978-1979 e, soprattutto, la Coppa UEFA 1976-1977, il primo importante trofeo internazionale del club torinese. Nell'estate 1981, trentunenne, si accasò alla Fiorentina dove, nel campionato 1981-1982, sfiorò un ennesimo scudetto dopo un lungo duello proprio contro la sua ex squadra. A Firenze chiuse con la Serie A nel 1984, a causa di vari infortuni alla schiena. Con l'annata 1984-1985 concluse poi definitivamente la carriera agonistica, in Serie C2, nelle file del Novara.

Nazionale

Dopo aver maturato tre presenze con la maglia della nazionale Under-21 nel biennio 1969-1971, furono 13 le partite di Cuccureddu in nazionale A, tutte sotto la gestione del commissario tecnico Enzo Bearzot: tra queste è compreso l'esordio del 26 ottobre 1975 a Varsavia contro la Polonia, e i 5 incontri disputati al campionato del mondo 1978 in Argentina (chiuso dagli azzurri al quarto posto) che ne fecero il primo calciatore sardo a scendere in campo nella fase finale di un Mondiale — eguagliato in seguito dai soli Zola nel 1994, e Sirigu nel 2014.

 

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Cuccureddu (in piedi, primo da sinistra) in azzurro nel 1978

 

L'ultimo incontro di Cuccureddu in nazionale risale al dicembre 1978, contro la Spagna; in generale, non riuscì mai a entrare stabilmente nel giro azzurro, da cui venne definitivamente estromesso all'indomani del mondiale argentino: «Non discuto le scelte di Bearzot: certamente avrà avuto le sue ragioni. Però un discorsino mi avrebbe fatto piacere. In fondo il mio contributo l'avevo dato».

Allenatore

Gli inizi

Intrapresa la carriera di allenatore una volta chiusa l'attività agonistica, nel 1988 eredita da Salvatore Jacolino la panchina della squadra Primavera della Juventus, incarico che manterrà fino alla metà del decennio seguente. A Torino vince nella stagione 1993-1994 il Campionato Primavera e il Torneo di Viareggio — due successi che mancavano alle giovanili bianconere, rispettivamente, da oltre venti e trent'anni —, e nell'annata seguente la prima Coppa Italia Primavera nella storia del club; contribuisce inoltre in questi anni alla crescita di una giovane promessa quale Del Piero, futura bandiera juventina.

 

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Cuccureddu (al centro) festeggia, assieme ai ragazzi della "Primavera" juventina, la vittoria nel campionato di categoria del 1993-1994.

 

A tale esperienza si affianca nella stagione 1990-1991 quella di vice della prima squadra durante la gestione tecnica di Luigi Maifredi, avendo anche l'occasione di debuttare in Serie A, sostituendo lo squalificato Maifredi, nella sfida casalinga del 30 settembre 1990 contro la Sampdoria (0-0).

Le serie minori

Nel 1997-1998 ottiene l'ottava posizione con l'Acireale, in Serie C1. Dopo una fugace esperienza alla guida della Ternana nel 1998-1999, in Serie B, dov'è sostituito da Luigi Delneri, nel 1999-2000 passa ad allenare il Crotone, sempre in C1, portando la squadra pitagorica, dopo un entusiasmante campionato, alla storica promozione in cadetteria con quattro giornate di anticipo. La separazione dai crotonesi avviene l'anno successivo, quando è esonerato dopo alcune giornate. Nel 2004-2005 guida l'Avellino in C1, ma a poche giornate dal termine viene sollevato dall'incarico, non potendo dunque partecipare attivamente alla promozione in cadetteria dei biancoverdi. Nella stagione 2005-2006 è sulla panchina della Sassari Torres che porta sino alle semifinali play-off, dove gli isolani vengono eliminati dal Grosseto.

 

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Cuccureddu al Pescara nel 2009-2010

 

Nel novembre 2006 diviene il nuovo allenatore proprio dei grossetani, e in sei mesi riesce a portare la squadra maremmana dai bassifondi della classifica alla prima posizione; il 13 maggio 2007 il Grosseto vince 1-0 a Padova e viene promosso, per la prima volta nella sua storia, in Serie B. Cuccureddu in Maremma ha ottenuto una delle migliori medie-punti di sempre tra gli allenatori biancorossi: 53 punti in venticinque match, pari a 2,12 punti a partita.

Nel giugno 2007 arriva la chiamata del Perugia, in C1, che con Cuccureddu punta alla promozione. Dopo una buona partenza la squadra accusa un calo e, a seguito di quattro sconfitte interne consecutive, viene esonerato: sarà richiamato dopo due sole partite, coincise con altrettante sconfitte.

Il 23 marzo 2009 viene chiamato dal Pescara, in sostituzione dell'esonerato Giuseppe Galderisi. Dopo aver centrato la salvezza diretta, viene confermato per altre due stagioni. Tuttavia nell'annata successiva, il 12 gennaio 2010, dopo una serie negativa di risultati e all'indomani della sconfitta in casa con la Cavese, viene sollevato dalla guida tecnica degli abruzzesi.

Il 30 settembre 2013 viene annunciato il suo ingaggio come direttore tecnico dell'Alghero, nel torneo regionale di Eccellenza, dimettendosi dopo un mese dall'incarico per divergenze sui programmi. Poche settimane dopo, il 26 novembre, in seguito all'esonero di Stefano Cuoghi, riassume la carica di allenatore del Grosseto, in Prima Divisione, da cui viene esonerato il 27 gennaio 2014 a seguito di altalenati risultati culminati nella sconfitta contro una sua ex squadra, il Perugia.

Dopo il ritiro

Dopo il ritiro fonda nella natìa Alghero una società calcistica dilettantistica, la "Antonello Cuccureddu 1969". Per quest'attività, nel giugno 2017 viene indagato dalla procura di Sassari con l'accusa di turbativa d'asta, finendo a processo nel gennaio 2020; nel maggio dello stesso anno la vicenda vede Cuccureddu ottenere parere favorevole da parte del tribunale amministrativo regionale.

 

Palmarès

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«Essere stati juventini è come aver fatto il bersagliere. Per tutta la vita resti tale. Perché una società come la Juventus non esiste, non ha riscontri come età, come ambiente, come tutto. Il suo stile, il rispetto reciproco, soprattutto l’impronta della famiglia Agnelli».
Scelse il più difficile, ma anche il più diretto modo di presentarsi alla Juventus. In una partita di Coppa Italia del settembre 1969 allo stadio Comunale torinese scese in campo con la maglia del Brescia e marcò così bene Luis Del Sol da impressionare la dirigenza bianconera. Era l’inizio della sua storia juventina che doveva portarlo a vincere, in dodici anni, sei scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa, totalizzando 434 presenze con trentanove goal. Un bottino che ricorda tuttora con affetto e gioia.
Terzino, mediano, mezzala, giocatore eclettico, alla Juventus arriva nella stagione 1969–70 ai tempi di Luis Carniglia, anche se a lanciarlo è Rabitti, dopo il licenziamento del tecnico argentino. Ricorda quel giorno come uno dei più belli: «La Juventus era malmessa in classifica, io debuttai a Cagliari, ci trovammo sotto di un goal, la gente urlava: “Serie B, Serie B”. Nel finale mi giunse fra i piedi la palla buona e infilai Albertosi. Quel goal rappresentò molto, fu una specie di trampolino per la Juventus che finì in bellezza il campionato».
Di goal importanti, comunque, ne ha realizzati tanti: Cuccureddu ricorda quello dello stadio Olimpico che consacrò la Juventus Campione d’Italia il giorno del disastro del Milan a Verona; i goal segnati contro il Magdeburgo in Coppa; un altro in Coppa Uefa l’anno del successo. In dodici anni passati alla Juventus, Cuccureddu ha avuto come tecnici: Carniglia, Rabitti, Picchi, Vycpálek, Parola, Trapattoni.
Ora ne parla, e allinea il povero Picchi a Trapattoni: «Non ci fu il tempo di valutarne appieno le doti e la personalità. Però una cosa è certa: Picchi era un allenatore giovane con idee nuove che capiva di calcio, che sapeva applicarlo, spiegarlo, che aveva un dialogo e, soprattutto, era pieno di umanità e sapeva esserti amico. Come Trapattoni, insomma, che non viveva all’ombra di Boniperti come sostengono i maligni. In primo luogo per una questione di personalità che Trapattoni ha e che ha sempre difeso, poi perché la Juventus non ha mai tolto e non toglie spazio a nessuno».
In Nazionale Cuccureddu gioca sedici volte: debutta a Varsavia contro la Polonia nel 1975, chiude in Argentina nella partita col Brasile per il terzo–quarto posto. Ancora oggi si domanda perché fu estromesso dal giro dopo il Mondiale del 1978. «Non discuto le scelte di Bearzot: certamente avrà avuto le sue ragioni. Però un discorsino mi avrebbe fatto piacere. In fondo il mio contributo l’avevo dato».
Il suo eclettismo, in fatto di ruoli e di compiti, lo sottolinea nella stagione 1975–76. Ricordava su “La giornalaccio rosa dello Sport” Beppe Conti, che nella Juventus che eguaglia o fallisce di un soffio record prestigiosi, c’è Antonello Cuccureddu in possesso di un primato perlomeno curioso. In quel campionato ha giocato, infatti, con ben sette differenti numeri di maglia. Il due (Napoli, Roma, Bologna, Sampdoria e Perugia), il tre (Verona, Como, Fiorentina, Cagliari e Cesena), il quattro (Fiorentina), il sette (Como), l’otto (Verona), il dieci (Inter e Ascoli) e l’undici (Torino).
Mentre Cuccureddu cambia maglia in continuazione, restava in tribuna elementi del calibro di Altafini, Spinosi, Gentile, Gori, Damiani e lo stesso Capello, ai quali l’allenatore di volta in volta preferisce il sardo. Il suo passaggio da terzino d’ala a centrocampista avviene in seguito ad un infortunio occorso a Bob Vieri dopo una trasferta in Germania per un impegno di Coppa Uefa: «Da quel giorno entrai in pianta stabile; la mia impostazione tattica venne cambiata. I dodici anni che ho passato a Torino sono indimenticabili anche per questo».
I difensori lo cercano non appena possono evitare la respinta casuale e lui serve l’interno oppure l’ala tornante in linea con lui, rilancia il compagno che sfrutta le fasce con secche battute di collo, invita il centravanti a scattare verso l’area avversaria e scatta, a sua volta, negli spazi. Quello che pratica Cuccureddu è un gioco moderno e valido per lo spettacolo e il risultato. Le partite di Antonello sono novanta minuti di corsa sul passaggio obbligato del gioco avversario. Filtrare e ricostruire: non esiste fatica più improba; correre, perché si vuole e rincorrere, perché si deve; il cuore a stantuffo e i polmoni a mantice. Il vigore fisico gli consente di reggere la fatica della partita, il talento gli scopre gli orizzonti della bella giocata; sa alternare, con estrema disinvoltura, l’intervento risoluto e l’azione sciolta ed elegante.
Una delle sue prerogative è il tiro a rete, forte, teso, imparabile. I suoi calci di punizione sono carichi di dinamite. Come tiratore puro è il più forte della compagnia. I suoi calci di punizione sono carichi di dinamite. Cuccureddu tira delle vere e proprie bordate; il pallone parte dritto e non cambia mai traiettoria. I tiri di Cuccu sono onesti, non cercano di ingannare il portiere. Niente “foglia morta”, “tiro a giro” o “cucchiaio”. Il pallone parte dritto per dritto e il portiere non può fare altro che raccogliere il pallone in rete. «Finiscila di minacciare la mia incolumità!». Gli grida scherzosamente Carmignani, durante gli allenamenti.
Due aneddoti: nel 1973 la Juventus (pur sconfitta nella finale di Coppa Campioni) ha, grazie alla rinuncia dell’Ajax, l’opportunità di disputare la Coppa intercontinentale. Si gioca a Roma, contro l’Independiente di Buenos Aires: Sullo 0–0, la Juventus usufruisce di un calcio di rigore a favore per un fallo subito dallo stesso Cuccu. Il sardo tira una delle sue proverbiali cannonate, ma la palla sorvola la traversa; a un minuto dalla fine, su passaggio di un ventenne che avrebbe fatto strada, Daniel Bertoni, Bochini infila il goal decisivo, portando la coppa in Argentina.
Campionato 1980–81: è il passo d’addio di Antonello, che sa di dover lasciare a fine stagione la casa tanto amata. La partita è Pistoiese–Juventus, Cuccu sblocca il risultato con un missile su punizione; non fa alcun gesto di esultanza, solo un mezzo sorriso (scriverà Giglio Panza: «Raramente ho visto tanta serenità esteriore in un giocatore dopo un goal»). Quel mezzo sorriso, quel commiato così sottovoce, con una tenerezza e un affetto enormi, dimostra tutto l’uomo in un piccolo gesto.
Rientra alla Juventus agli inizi degli anni Novanta, come allenatore della squadra Primavera, con la quale vince il prestigioso Torneo di Viareggio e lancia alcuni giovani promettenti: Cammarata, Dal Canto, Manfredini, Binotto, Squizzi e, soprattutto, Alessandro Del Piero.

VLADIMIRO CAMINITI
Era il 1969 quando il direttore di “Tuttosport” mi spediva a intervistare al volo Antonello Cuccureddu, che sbarcava alle dieci di una sera di novembre alla stazione di Porta Nuova a Torino, proveniente da Brescia. Detto e fatto, e scrissi in quel mio articolo sul quotidiano al quale ho dedicato trentadue anni di vita, che approdava in bianconero un giocatore con un cognome davvero strano: «Cuccureddu nome da uccello più che da calciatore», scrissi. E poi da Juventus! L’esordio in prima squadra avvenne subito, a Cagliari, l’allenatore della Juventus era il mite orgoglioso Rabitti, di nome Ercole, da me soprannominato il piccolo monsù. In realtà, era più che altro un grande allevatore e maestro di giovani (tra le sue scoperte Furino e Bettega), come allenatore dei grandi gli facevano difetto polso e tranquillità psicologica; era insomma il primo a perdere la testa, soprattutto a contatto con i media televisivi. Oramai il grande calcio era anche televisione, con annessi e connessi, Rabitti disponeva dei suggerimenti di Boniperti oramai rientrato nella Famiglia e in procinto di assumerne la presidenza, ma non ascoltava nessuno. Cagliari-Juventus finì 1–1, il figlio di Sassari a pochi secondi dalla fine di un match molto combattuto (erano i giorni del guerriero Riva) infilò il pallone del pareggio.
Di snella presenza, dalla corsa molto alacre, Cuccu avrebbe giocato 298 volte in campionato, sessantasei in Coppa Italia, settanta volte nelle Coppe europee, testimoniando un eclettismo razionale con sventole di destro possessive e perentorie che lo portarono a risolvere molte partite cruciali. Forte e sicuro come terzino, diventava un “half” in grado di assolvere felicemente alle più ardue consegne tattiche: fu, infatti, come jolly valorizzato da Enzo Bearzot, che lo convocò tra i ventidue azzurri di quella mancata sfolgorante vittoria del Mundial d’Argentina. Della Juventus destinata a vincere tutto, subito protetta dallo stellone per le doti di corsa e di tecnica del suo collettivo, ispirata al vertice da un presidente geniale e imperativo come Boniperti, Cuccu diventava dunque il perno così detto mobile, giocatore buono per molti usi, anche stopper, in qualche circostanza, tenace nella marcatura, puntiglioso quanto corretto, con momenti di recitativo ispirati al suo piede destro che senza esagerare si poteva definire ciclonico.
Alla fine del campionato 1980–81, Cuccureddu lasciava la sua Juventus per la Fiorentina. Una decisione motivata soltanto dal desiderio di poter guadagnare ancora qualcosina in vista del futuro che non si può mai programmare. Perché negli anni Settanta, la “bonipertiana” Juventus, giunta a vincere tutto, mica arricchiva i suoi campioni, mica li blandiva o vezzeggiava; essendo campioni e per giunta juventini, quindi uomini veri.

ANGELO CAROLI
Antonello era un ragazzo adorabile, ma ne aveva sempre una. Andavo allo stadio per intervistarlo, lo incrociavo nello spogliatoio mentre si faceva curare da De Maria. Gli chiedevo come stava e lui, diventando serio, quasi triste mi rispondeva: «Ho un dolorino qui giù, anzi quassù». De Maria mi guardava e rideva, aggiungendo: «Sono tutte storie». E Cuccureddu scendeva in campo regolarmente. Un giorno, l’anno in cui Zoff arrivò alla Juventus, Antonello voleva lasciare il ritiro di Villar Perosa. Era giovanissimo e si era innamorato di un’adolescente. Aveva la borsa pronta, ma fu bloccato dall’amico Scanu, sardo come lui, il quale gli assestò un ceffone, accompagnato da questa frase: «Se non hai capito cosa vuol dire la parola Juventus, vattene pure a Torino, ma una volta abbandonato il ritiro, ricordati, non sarai più degno della maglia che ti è stata affidata». Antonello pianse, chi non ha pianto nella vita! E non lasciò più la “Signora”, finché non prese la strada per Firenze.

NICOLA CALZARETTA, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL LUGLIO 2017
In dialetto sardo, il termine “Cuccuru” sta per “cima della montagna”, promontorio, colle. E Cuccureddu è il monte sul quale si adagia la cittadina di Villacidro, nel Sud della Sardegna. Per gli amanti del pallone, e per il popolo bianconero in particolare, Cuccureddu è solo e soltanto Antonello, protagonista di tanta Juventus, dal 1969 al 1981: 434 presenze e trentanove reti, sei scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa. Un mutante di qualità, per tredici volte azzurro d’Italia, Mondiale d’Argentina otto compreso. Nato in Sardegna, ad Alghero per l’esattezza, il 4 ottobre 1949, cresciuto nella Fertilia tra i Dilettanti, esploso a diciotto anni nella Torres in C, quindi emigrato in continente a Brescia tra i cadetti per la stagione 1968–69. L’immediata promozione in A, la prospettiva di continuare con le “Rondinelle” anche l’anno dopo e invece, l’improvvisa chiamata della Juventus a campionato iniziato. Dodici anni di fila con il bianconero tatuato sulla pelle, quindi l’addio, non voluto. Tre anni alla Fiorentina, prima di chiudere con il Novara in C2 nel 1984–85 e intraprendere la carriera di allenatore. Le giovanili bianconere come prima esperienza con tanto di scudetto Primavera e Viareggio vinto insieme a un giovanissimo Del Piero e poi molta Serie C tra Crotone, Perugia e Grosseto, con alcune storiche promozioni. Adesso, se ne sta ad Alghero, intento alla prossima apertura della sua scuola–calcio. Ma, sempre e comunque, con la Juventus nel cuore.
Quando è nato il tuo amore per la Juventus? «Fin da bambino. Raccoglievo le figurine dei giocatori bianconeri. Amavo Boniperti, Sivori, poi anche Haller, ma avevo un debole per chi correva in mezzo al campo, come Luis Del Sol».
È stato grazie a lui che sei arrivato alla Juventus? «In un certo senso sì. Lo marcai durante la partita di Coppa Italia tra Juve e Brescia giocata al Comunale di Torino il 7 settembre 1969. Avevo il numero dieci. Ero emozionatissimo, giocavo contro giocatori che avevo visto in TV fino a pochi giorni prima. Con Del Sol fu un gran duello. Per un po’ mi stette dietro anche lui, poi si arrese perché io correvo più forte».
Sognavi di indossare la maglia bianconera da bambino? «Sognavo di diventare un calciatore. Era la mia passione. La scuola in inverno e i classici lavori stagionali d’estate. Ma su tutto il calcio. Si giocava dappertutto, nei campi, per le strade, in mezzo ai palazzi. Con i muri a fare da sponda. Sapessi quante cose si imparano così. Poi ho seguito mio padre Pino che allenava la Rinascita. Quindi mi ha portato con sé alla Fertilia. Avevo sedici anni, fisicamente ero messo bene, giocavo a centrocampo e avevo già un bel destro. Si vinse il campionato, da imbattuti. E su di me si posarono diversi sguardi interessati».
La spuntò la Torres che ti pagò due milioni. Era il 1967. «La Torres faceva la Serie C. Non mi sembrava vero, non avevo ancora diciotto anni e avevo alle spalle una sola stagione tra i dilettanti. Ero felicissimo. Feci il mio primo contratto, 150.000 lire al mese».
Come hai affrontato il salto di categoria? «Con una determinazione pazzesca. Sono sempre stato serio, ho sgarrato poco. Mi sono applicato, ascoltavo i consigli, mi fermavo anche dopo l’allenamento a calciare in porta, L’allenatore, Colomban, mi ha dato i primi insegnamenti tattici».
E a Brescia come ci sei finito? «(sorride) La Sardegna aveva scarsa visibilità, nonostante il Cagliari stesse facendo molto bene. Si doveva andare in continente, c’era poco da fare. Devo tutto a un torneo di fine stagione che si disputò a Treviglio, il paese natale di Facchetti. Mi vollero lì in prestito. Fui uno dei migliori di quella competizione. E gli osservatori del Brescia mi segnalarono».
1968, diciannove anni da compiere e giochi in Serie B. «Non mi sembrava vero: due anni prima ero in seconda categoria. Andai a Brescia per firmare il contratto ed era la prima volta in vita mia che prendevo l’aereo. La squadra era appena retrocessa dalla A e puntava all’immediato ritorno. Abitavo vicino allo stadio, insieme al nostro terzo portiere Renzo Restani. C’erano giocatori esperti come Gigi Simoni e Virginio Depaoli. L’allenatore era Arturo Silvestri detto Sandokan. Mi ha insegnato tanto. Era stato calciatore, sapeva correggere l’errore. Meglio se non sbagliavi però (sorride)… Io feci ventidue partite su trentotto, quasi sempre schierato a centrocampo. Giocai anche con la De Martino insieme a Gigi Cagni e vincemmo lo scudetto di categoria. Adesso c’era la Serie A. Iniziamo il ritiro, quindi la Coppa Italia e poi è arrivata la partita contro la Juventus».
E dopo quella partita che succede? «Succede che non ci capisco più niente. Non gioco più. Mi alleno più che mai, ma la domenica sto fuori. Nessuno mi dice nulla. E intanto il tempo passa. Fino a quando la società mi comunica che la Juventus mi vuole subito, alla riapertura del mercato di novembre. Non ho giocato perché altrimenti il passaggio a stagione in corso non si sarebbe potuto fare, visto che tutte e due le squadre militano nella stessa categoria».
Sensazioni? «Impossibile spiegare cosa ti succede dentro. Sollievo, stupore, incredulità. Ma soprattutto gioia, tanta, tantissima. Andavo alla Juventus, la mia squadra del cuore. La realtà, stavolta, aveva superato anche il sogno».
Qualcuno ironizzò sul tuo cognome. «A Brescia mi proposero di cambiarlo. A Torino ricordo Vladimiro Caminiti che scrisse nel suo primo pezzo: “Cuccureddu nome da uccello più che da calciatore”: Con Caminiti poi ci fu tempo dopo un episodio curioso. Lui amava la Juve e stravedeva per i siciliani, Furino e Anastasi su tutti. Con me, nelle pagelle, era sempre molto severo. Una sera, ospiti comuni di un club di tifosi, glielo feci notare. Da quella volta i voti migliorarono sensibilmente».
Che ricordi hai del tuo primo giorno da juventino? «Mi vennero a prendere alla stazione. Il giorno dopo andammo allo stadio. C’era un gruppetto di tifosi e qualche altro dirigente della Juventus fuori ad aspettarmi. Raggiungemmo lo spogliatoio. Era finito l’allenamento da poco, vidi i miei nuovi compagni. Ricordo Zigoni allo specchio a sistemarsi i capelli. A un certo punto uno dei dirigenti indicando una poltroncina, mi disse: “Ecco, quello è il tuo posto”. Io, in tutta quella situazione, non riuscii a spiccicare parola. Facevo dei cenni con la testa, il sorriso stampato in faccia, mentre lo stomaco ribolliva di emozione».
Poi sei andato in sede a firmare il contratto. «E ho incontrato per la prima volta Giampiero Boniperti che era stato appena nominato amministratore delegato della Juventus. Io sono stato il suo primo acquisto».
E per te, chi è stato Boniperti? «Il mio presidente, prodigo di consigli e che mi ha tenuto con sé dodici anni. Più in generale lui era la Juve. In tutto e per tutto. La passione, lo stile, ma soprattutto, la fame di vittoria. Ci sono due episodi che danno il senso del personaggio: il primo è relativo all’estate del 1976. Siamo a Villar Perosa, in ritiro precampionato. È il giorno dei rinnovi dei contratti. Tocca a me, chiedo un ritocco e lui mi fa vedere la foto del Perugia dell’anno prima, la squadra con cui si perse all’ultima di campionato, regalando così lo scudetto al Torino. Come a dire: e hai anche il coraggio di chiedere un aumento?».
Il secondo? «Maggio 1977, abbiamo appena vinto la Coppa Uefa, il primo trofeo internazionale della storia della Juve. Siamo felicissimi. Ma non si festeggia. Boniperti ci dice bravi, ma subito dopo ci ricorda che quattro giorni dopo ci aspetta l’ultima di campionato contro la Sampdoria. Novanta minuti decisivi, visto che il Torino è a un punto».
Torniamo ai tuoi primi passi bianconeri in quel novembre 1969. «La Juventus era terzultima. Era stato addirittura esonerato l’allenatore Luis Carniglia. Al suo posto c’era Ercole Rabitti, che veniva dal settore giovanile. Io non ebbi tempo di pensare a nulla che il 12 novembre ero già in campo, in Coppa delle Fiere, contro l’Hertha Berlino. Avevo il numero due e ricordo che giocammo con la maglia bianca».
Il 16 novembre 1969 giochi la tua prima in Serie A: a Cagliari! «Neanche a farlo apposta. Allo stadio c’era mezza Alghero a vedermi, tra amici e parenti. Avevo il dieci, la maglia era quella bianconera».
Ma la cosa ancora più incredibile deve ancora venire. «(sorride) Stavamo perdendo 1–0. I tifosi di casa, invece, ci urlavano “Serie B. Serie B”. Mancava un minuto alla fine. Corner per noi, Un difensore respinge di testa e il pallone arriva a me che sono appostato all’altezza del dischetto del rigore, un po’ decentrato. Botta di destro al volo senza pensare ad altro. Pallone in rete, Albertosi nemmeno ha visto partire il tiro. È il goal del pareggio definitivo».
La realtà, ancora una volta, ha superato l’immaginazione. «Proprio così! Anche se il giorno sui giornali c’era scritto “Cuccureddu malufigliu”. Ma vabbè. A noi, invece, quel pareggio colto all’ultimo minuto contro la prima della classe, dette una bella spinta: dopo facemmo sette vittorie consecutive».
Ma era comunque una Juventus non più competitiva. «Infatti nell’estate del 1970 Giampiero Boniperti con l’aiuto di Italo Allodi, ringiovanì la rosa. Furono cedute alcune bandiere come Leoncini, Castano, Del Sol. Arrivarono molti giovani tra cui Causio, Bettega, Spinosi, Capello. In più c’eravamo io, Furino, Anastasi, Giampiero Marchetti, Francesco Morini, tutti under venticinque. Gli unici ultratrentenni rimasti furono Sandro Salvadore e Helmut Haller».
A guidare la Juve baby fu chiamato un giovane allenatore: Armando Picchi, trentacinque anni. «Fu una magnifica intuizione della società. Picchi era stato il capitano della Grande Inter, sapeva di calcio, aveva un grande carisma e, soprattutto, sapeva dialogare con i giocatori. Una persona straordinaria, un allenatore che avrebbe fatto una grande carriera, se il destino non fosse stato così crudele con lui».
Come hai vissuto la malattia di Picchi? «All’inizio ci avevano tenuto nascosto la verità. Poi abbiamo capito e saputo. È stata moto dura, eravamo tutti molto giovani e con lui ciascuno di noi aveva già instaurato un bel rapporto. Non è stato facile. Ci hanno aiutato la società e il nuovo allenatore Vycpálek. Un uomo di una bontà unica. Sarebbe stato bellissimo conquistare la Coppa delle Fiere per poter dedicare la vittoria a Picchi. Arrivammo in finale con il Leeds, ma ci fregò la regola dei goal in trasferta che valgono doppio».
Come era quella tua prima Juventus? «C’era molto entusiasmo e molta tecnica. Tanti bravi ragazzi, diversi già nel giro delle Nazionali. Gente seria. E su tutti c’era Boniperti».
Prima hai detto gente seria? Proprio tutti? «(sorride). Ogni tanto qualcosa succedeva. Haller era un po’ anarchico. Come in campo. Correva il giusto e spesso mi toccava marcare anche il suo avversario. Ma è stato bellissimo giocargli a fianco. Un genio, si passava il pallone dal destro al sinistro con una rapidità mai vista».
Quella Juventus dei primi anni Settanta aveva molti giocatori di origini meridionali: tu, Causio, Anastasi, lo stesso Furino. «Per giocare nella Juve non bastava essere nati da Roma in giù (ride). Diciamo che a Torino c’erano tanti operai della FIAT che venivano dal Sud, forse era giusto che anche la Juve avesse questa caratteristica. Rispecchiava meglio l’anima della città. E poi, noi giocatori del Sud, con le nostre storie di sacrifici e rinunce, forse rappresentavamo una sorta di riscatto per i giovani che dovevano lavorare in fabbrica».
Come era il rapporto con i tifosi? «Era ed è ancora meraviglioso. Ho fatto più di 400 partite con la Juve, la mia maglia è al Museo. Poi ho anche allenato. Quando giocavo era meraviglioso stare in mezzo alla gente. A Villar Perosa, per fare le poche centinaia di metri che separavano l’albergo dal campo, ci si metteva una vita. Durante la stagione, lo stesso succedeva nel breve tratto di strada che separava il Comunale (dove ci spogliavamo) e il campo Compi dove facevamo allenamento».
Hai qualche storia particolare da raccontare? «Vicino allo stadio avevo conosciuto un parrucchiere, sardo come me e tifoso della Juve. Siamo diventati amici. Allora spesso andavo da lui per farmi lisciare i capelli che avevo un po’ crespi. Questo perché un po’ andavano di moda, un po’ per far star buono il presidente».
E dell’avvocato Gianni Agnelli che mi dici? «Un uomo dall’enorme carisma, molto curioso e ironico. Prima della partita, scendeva nello spogliatoio, si metteva da solo da una parte a bere, senza dire una parola. Poi se ne andava in tribuna. Non è mai successo che si sia intromesso nelle questioni tecniche».
Nel 1972 arriva il tuo primo scudetto. «Giocai poco per colpa della pubalgia. Una brutta bestia. Mi rifeci l’anno dopo. Alla Juve erano arrivati Zoff e Altafini. Si puntava anche alla Coppa Campioni. In panchina c’era ancora Vycpálek, colpito duro nel maggio del 1972 dalla morte del figlio in un incidente aereo. Anche questa fu una pagina molto dolorosa della storia della Juventus. Boniperti, che era anche amico del mister, gli stette molto vicino, così come tutta la società. Noi gli abbiamo voluto ancora più bene. Lo scudetto vinto all’ultimo minuto dell’ultima giornata è stato un segnale importante».
E tu in quello scudetto ci hai messo la sigla finale. «Avevo giocato con più continuità rispetto all’anno prima. Quasi sempre a centrocampo. Mi sentivo parte integrante della squadra. Arrivammo all’ultima giornata in programma il 20 maggio 1973 con un punto in meno rispetto al Milan capolista che ne aveva quarantaquattro e a pari merito con la Lazio a quarantatré».
Il calendario vi fa giocare tutte in trasferta: il Milan a Verona, la Lazio a Napoli e voi a Roma. «Il segreto è che ci abbiamo creduto. Non abbiamo mai mollato. Il “fino alla fine” che è diventato adesso il motto della Juve, vuol dire questo. Noi lo mettemmo in pratica».
Però al 45’ eravate sotto di un goal. «La scossa decisiva è arrivata proprio nell’intervallo, quando abbiamo saputo che i rossoneri stavano perdendo per 3–1. Allora ci siamo guardati in faccia e abbiamo detto: “Proviamoci’: Vycpálek mise subito dentro Altafini per Haller. Josè quell’anno aveva segnato diversi goal pesanti partendo dalla panchina».
E, come da copione, Altafini al 61’ pareggia. «E noi prendiamo coraggio sempre di più. Il Milan era oramai naufragato, la Lazio stava pareggiando. A tre minuti dalla fine, dopo un nostro calcio d’angolo, vedo un pallone vagante al limite dell’area, gli vado incontro. Stoppo e tiro una sassata di destro a occhi chiusi. Quando li riapro, sono sommerso dagli abbracci dei miei compagni. È’ il goal del 2–1. È il goal dello scudetto. Il Milan ha perso. La Lazio pure. Siamo campioni d’Italia, Festeggiamo e andiamo tutti ad abbracciare Vycpálek».
Manca la finale di Coppa dei Campioni in programma a Belgrado il 30 maggio 1973. «Che io giocai solo per pochi minuti, alla fine. Fu una delusione immensa. Avevo disputato tutte le partite del torneo, quasi sempre da titolare. Non c’erano motivi perché dovessi stare fuori nella gara più importante. La decisione definitiva fu presa la sera prima della finale, a mezzanotte. Qualcuno convinse l’allenatore che si sarebbe dovuto giocare con tre punte. Non lo avevamo mai fatto, non era la soluzione tattica migliore, contro l’Ajax poi. E così, per far entrare un attaccante, fecero uscire me».
E tu quando hai saputo della novità? «La mattina seguente. Me lo disse Vycpálek. Era dispiaciuto, quasi più di me. Ed io me ne andai in camera e mi misi a piangere. Quella è stata una delle note più amare della mia esperienza juventina».
Nella stagione successiva segni dodici goal in campionato. «Haller non c’era più, giocavo stabilmente come mezzala, La porta era più vicina, in più calciavo le punizioni e i rigori, anche se quello più importante quell’anno lo sbagliai».
Ti riferisci al penalty in Juventus–Independiente? «Giocammo per l’Intercontinentale al posto dell’Ajax. Finale unica, a Roma, 28 novembre 1973. Sullo 0–0 rigore per noi. Tiro io, ma il pallone va altissimo, lo stanno ancora cercando. Poi loro fanno goal, vincono per 1–0 e si prendono la coppa».
Toglimi una curiosità: perché eri tu il rigorista? In quella squadra c’era gente come Anastasi, Bettega, Causio. «Ricordo che facemmo una gara durante il ritiro estivo, sui dieci a chi ne segnava di più. Vinsi io, Tiravo forte al centro, a mezza altezza. Mi allenavo durante la settimana, anche sulle punizioni. Sapessi quante volte ho fatto inca**are Zoff che mi diceva di tirare più piano!».
1974, alla Juve arriva Parola e tu diventi stabilmente terzino. «Parola era un altro juventino vero, in perfetta sintonia con Boniperti, un babbo per noi giocatori. All’inizio della stagione ci propose alcuni cambiamenti. Era arrivato Scirea. Non c’erano più Salvadore e Marchetti. Lui mise Gaetano libero. Spostò Spinosi da terzino a stopper. Dette la maglia numero due a Claudio Gentile e a me disse di fare il terzino sinistro visto che gli mancava un difensore esterno».
Ti convinse quello spostamento? «A parte che nella Juve pur di giocare avrei fatto anche il portiere. Un anno, nel 1975–76, ho indossato quasi tutte le maglie, e all’epoca al numero corrispondeva il ruolo. Comunque il cambio mi convinse, anche perché il mio modo di interpretare il ruolo era moderno, scendevo molto sulla fascia. Io e Gentile siamo stati la prima coppia di terzini fluidificanti. E poi da difensore sono arrivato in Nazionale. E da terzino in maglia azzurra ho un ricordo bellissimo: il duello, vinto, con Kevin Keegan, nella partita dì qualificazione ad Argentina 1978. Keegan a metà anni Settanta era uno dei top player mondiali, oltre che Pallone d’Oro».
In azzurro hai messo via tredici presenze di cui cinque ai Mondiali del 1978. «Eravamo nove juventini a quel Mondiale. Giocammo tutti insieme dall’inizio contro l’Olanda. Il blocco Juve è sempre stato una colonna delle Nazionali vincenti».
Torniamo al bianconero e facciamo un passo indietro, stagione 1976–77. «L’anno della doppietta campionato–Coppa Uefa. Parola fu sostituito da Giovanni Trapattoni, un allenatore giovane, brillante, con una grande fame di vittorie. Come tipo di operazione mi ricordò molto quella fatta nel 1970 con il povero Picchi. Il Trap poteva contare su una grande società e su una squadra formidabile e affiatata. Ci furono gli innesti di Benetti e Boninsegna. Lui poi avanzò Tardelli, che era arrivato l’anno prima, a centrocampo. Io e Gentile ci scambiammo le fasce, con Antonio Cabrini che iniziava a fare capolino. E venne fuori lo squadrone che vinse lo scudetto record dei cinquantuno punti e la prima coppa internazionale: 1–0 a Torino e 2–1 in Spagna e la Coppa Uefa è nostra».
Del trionfo europeo che ricordi conservi? «Il San Mamés, lo stadio dell’Atletico Bilbao. Una bolgia, il pubblico spagnolo che urla, noi che lottiamo con il coltello tra i denti e alla fine la liberazione, la gioia e l’entusiasmo per una coppa che meritavamo di vincere perché avevamo superato le migliori squadre europee».
In Spagna avete sofferto molto. «È la partita più intensa che abbia mai disputato. Specie nel secondo tempo eravamo in apnea. Ricordo che Benetti fece un fallo a centrocampo e fu circondato dagli avversari. Nessuno di noi ebbe la forza di andarlo a difendere: eravamo tutti a riprendere fiato».
La Juve di fine anni Settanta è una delle formazioni juventine più forti di sempre. Sei d’accordo? «Sì. E tutta italiana. Vincemmo ancora lo scudetto nel 1978 e la Coppa Italia nel 1979».
Il 1980–81 è il tuo ultimo anno alla Juventus. «Ho giocato uno dei migliori campionati in maglia bianconera. Con la Pistoiese realizzai il mio ultimo goal con la mia classica “cannonata” da trenta metri. Alla fine arrivò per me il sesto scudetto. Un numero che oggi suona giustamente come leggenda per la Juventus di Allegri. E poi l’addio».
Non te lo aspettavi. «No, credevo di chiudere la carriera alla Juve. Invece rimasi invischiato in una trattativa con la Fiorentina che avrebbe dovuto portare Vierchowod alla Juve, ma ciò non avvenne. E quando la dirigenza bianconera pretese il mio ritorno a Torino, da Firenze dissero di no».
Rimane lo spazio per un’ultima risposta. «Ed io lo sfrutto per ricordare: Romolo Bizzotto. Per anni è stato l’allenatore in seconda della Juve, soprattutto con Trapattoni. Una persona a modo che ha lavorato nell’ombra e in silenzio per il bene della squadra e dei giovani».

 

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Antonello Cuccureddu

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Fútbolismo ⚽️🌎🌍🌏⚽️ on Twitter: "Buon compleanno to Italian defender and  #Juventus legend Antonello #Cuccureddu who played for #Torres,  @BresciaOfficial(1968/69), @juventusfc (1969/81, winning 6 #SerieA titles),  @acffiorentina (1981–83) and ...

 

O versátil Antonello Cuccureddu foi um dos pilares da Juventus nos anos  1970 - Calciopédia

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