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Socrates

Zbigniew Boniek

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ERO IL BELLO DI NOTTE

Gennaio 1985, la Juventus vince la Supercoppa Europea: 2-0 al Liverpool con doppietta di Zibì

Boniek. «Fu l'Avvocato  Agnelli a darmi quel soprannome. Ma la domenica pomeriggio non ero

da meno. Io e Platini? Grandi amici, fatti uno per l'altro». Dopo trent'anni, i ricordi del polacco

di NICOLA CALZARETTA (GUERIN SPORTIVO | FEBBRAIO 2015)

Inizia presto la giornata di Zbignew Boniek. Alle 8.30 è già nel suo ufficio romano, ai Parioli: dalla finestra si intravede la parte alta della Basilica del Sacro Cuore di Piazza Euclide. È appena tornato dalla Polonia, ha una serie di appuntamenti a incastro. Ma non intende rinunciare all’intervista con il Guerino. Anche perché la nostra è stata una marcatura stretta. Dal direttore in giù. «Sono partito alle quattro di notte per essere qui puntuale» gli dico stringendogli la mano come se fossimo due capitani nel cerchio di centrocampo. «E hai fatto bene» replica lui con quel sorriso sornione sotto il baffo rossastro che lo accompagna da quasi quarant’anni. Iniziamo, lui seduto dietro la sua scrivania con smartphone e tablet che cinguettano. Anche il computer è acceso, come salva screen la foto del nipotino. È in grande forma Zibì, non solo fisicamente. Gli anni sono 58 abbondanti, una bella fetta dei quali trascorsi in picchiata verso la porta avversaria, in maglietta e pantaloncini. Dapprima nella sua terra: Zawisza Bydgoszcz, la squadra della sua città natale, quindi, a 19 anni, il Widzew Lodz, con cui vince due campionati da protagonista. Poi, nel 1982, l’Italia del connazionale Karol Wojtyla, che quattro anni prima era diventato Giovanni Paolo II. Tre stagioni fantastiche alla Juventus. Quindi altre tre con la Roma, la rivale storica dei bianconeri. In mezzo, molta Nazionale polacca, con il terzo posto al Mundial di Spagna ’82. Tanti i momenti felici di una carriera fatta finire presto. Tra questi, la Supercoppa Europea del 16 gennaio 1985 contro il Liverpool, detentore della Coppa dei Campioni. «Sono passati trent’anni, gli stessi di mio figlio Tomas, nato pochi giorni prima di quella partita. Un motivo in più per vincere».

La vigilia fu tremenda per il cattivo tempo.

«Cadde molta neve, il campo era messo male. Il rischio era di non giocare».

Ma Boniperti fece di tutto perché la partita ci fosse: perché?

«Innanzitutto perché voleva mettere un altro trofeo in bacheca. Sentiva di poter vincere, perché era consapevole che quella Juve era veramente forte, più forte del Liverpool. Poi c’era anche un motivo logistico: difficilmente si sarebbe trovata un’altra data per l’eventuale recupero. In quegli anni la Supercoppa Europea non aveva la considerazione che ha adesso.

In effetti non c’era nemmeno la coppa, ma una targa.

«Eppure molti avrebbero voluto quella targa nella propria sala dei trofei. Così Boniperti ingaggiò decine di spalatori che riuscirono a liberare il campo dalla neve».

Il terreno era comunque ghiacciato.

«Per me non c’era nessun problema. Ero abituato a giocare in quelle condizioni. In Polonia, nei mesi invernali, era normale. E comunque per quella serata pensai a un accorgimento».

E cioè?

«Limai i tacchetti per farli più appuntiti, così da attaccare meglio il ghiaccio. Mi misi da solo in un angolo dello spogliatoio, usando una limetta. Ci misi mezzora, ma alla fine con quel trucchetto sono riuscito a rimanere sempre in piedi. Paolo Rossi mi rimproverò: “Potevi dirlo anche a me, così mi organizzavo anch’io”».

Trucchetto lecito?

«Non proprio. Per non farmi scoprire, al momento dell’ingresso in campo sotto il tunnel, mi misi un altro paio di scarpe normali. Dopo il controllo dell’arbitro, cambiai le scarpette. Uno stratagemma utile. Anche se io con le squadre inglesi andavo a nozze».

Per via del loro consueto assetto difensivo?

«Non voglio fare lo sbruffone, ma con i difensori in linea e molto larghi tra loro, per un giocatore come me era veramente una pacchia. Ricordo ancora una partita giocata con il Widzew contro il Manchester City, in cui il mio marcatore Donachie fu espulso e avrebbe voluto uccidermi. Lo stesso capitò con Gordon McQueen del Manchester United».

I Red Devils li hai incontrati anche con la Juventus, anni dopo.

«Altra partita fantastica. Ritorno della semifinale di Coppa delle Coppe, 11 aprile 1984. Il gol dell’1-0 lo segno io. Lancio di Platini, mi infilo nel corridoio giusto, corro verso l’area palla al piede, tengo botta all’ultimo difensore che cade ai miei piedi e davanti al portiere basta un tocco sotto per fare gol».

Il 2-1 di Rossi al 90’ porta la Juve alla prima finale di Coppa delle Coppe.

«Giocammo a Basilea, contro il Porto, una squadra tignosa, buona tecnicamente. Si vinse con merito, peccato per le diverse occasioni sprecate nel secondo tempo. A Paolo Rossi feci un assist perfetto. Avremmo potuto vincere in maniera più larga. Ma alla fine la Coppa è arrivata comunque. Grande soddisfazione».

Nel cammino verso Basilea, incontrasti anche la squadra del Lechia Danzica.

«Nel primo turno. A Torino partimmo subito fortissimo. Alle fine del primo tempo eravamo già sul 4-0. Nello spogliatoio chiesi ai miei compagni di abbassare il ritmo. Ma non mi ascoltarono: nel secondo tempo ne facemmo altri 3, sbagliando anche un rigore».

E al ritorno?

«Lì fu una partita diversa. La Polonia viveva ancora sotto il regime comunista. A un certo punto, allo stadio apparve Lech Walesa, il leader di Solidarnosc. Lo stadio iniziò a gridare “Libertà, libertà”. Ci furono momenti di confusione, con i militari armati a bordo campo che non sapevano cosa fare. Mi ricordo che dagli altoparlanti si sentì la canzone “Felicità” di Al Bano e Romina per attutire le grida dei tifosi».

La partita finì 3-2 per la Juve e tu segnasti il gol decisivo.

«E che c’è di particolare? Io ero un giocatore della Juventus, il mio dovere era quello».

Nessuna sensazione strana?

«No, sul serio».

Nemmeno l’anno prima, quando giocasti contro la tua ex squadra del Widzew?

«Nemmeno in quel caso. A Lodz mi sono formato e affermato. È grazie ai campionati con il Widzew che ho conquistato la Nazionale e poi la possibilità di andare all’estero. Sono anche diventato presidente della società una decina di anni fa per salvarla dal fallimento. Ma quella sera (20 aprile 1983, ndr) in palio c’era la finale di Coppa dei Campioni. E io volevo solo quello».

L’obiettivo fu raggiunto, ma ad Atene accadde l’impensabile.

«Perdemmo. Quella con l’Amburgo è una delle due più grandi delusioni della mia carriera. L’altra è il 2-3 di Roma-Lecce nel 1986».

Cosa non funzionò in Grecia?

«Io arrivai solo tre giorni prima della partita perché ero impegnato con la Nazionale. Francamente non ebbi nessuna sensazione negativa. In campo, invece, non ci siamo stati. Molli, poco concreti, intimoriti».

Era la Juventus più forte di sempre?

«La mia Juve, quella che va dal 1982 al 1985, ha fatto quattro finali europee in tre anni. Dico che eravamo in grado di battere chiunque, anche il Barcellona di Guardiola e il Real di Cristiano Ronaldo. Dio solo sa cosa sarebbe successo se avessimo vinto ad Atene. Magari oggi racconteremmo di tre Coppe Campioni vinte consecutivamente».

Magari.

«Lo so, non è andata così e ancora oggi non so il perché. Certo non ci ha agevolato partire superfavoriti: inconsciamente tutti si sentivano la coppa in tasca, anche i tifosi. Ma ricorda: è dalle sconfitte che si ricavano gli insegnamenti migliori. Quando tornai negli spogliatoi, vidi molti dei miei compagni distrutti. Dissi che non c’era da essere abbattuti, ma che se veramente volevamo quella coppa, avremmo dovuto vincere lo scudetto l’anno dopo. E così avvenne».

Torniamo alla Supercoppa Europea 1985: come fu preparata la finale?

«Non ci furono accorgimenti particolari. Quella era una squadra che si autogestiva. Nel senso che era composta da così tanti campioni e da ragazzi intelligenti che ognuno sapeva benissimo cosa doveva fare in campo».

E Trapattoni allora?

«Il mister è stato fondamentale. Un grande maestro di calcio. Appassionato, concentrato, pragmatico. Ci teneva in pugno, ma all’epoca era più facile, le rose erano di 15-16 giocatori, compresi i giovani della Primavera. Noi gli abbiamo agevolato il compito perché eravamo un gruppo unito».

Non ci sono mai state discussioni sull’assetto tattico?

«A volte gli dicevamo che perdeva troppo tempo a pensare alla difesa. Ma aveva ragione, perché quella Juventus era molto offensiva e lui era attento agli equilibri. Protetta la difesa, si poteva giocare con più sicurezza in avanti».

Ma è vero che quando arrivasti avrebbe voluto farti giocare come tornante di destra?

«Ci provò. E tutto partì dal numero di maglia che era rimasto disponibile, il 7».

Spiegati meglio.

«A Lodz io giocavo con il 9. Non facevo il centravanti, piuttosto la mezzapunta con piena libertà di movimento su tutto il fronte. In uno dei primi incontri, il Trap mi disse che non avrebbe potuto darmi la maglia numero 9 perché ce l’aveva Rossi. L’11 era di Bettega, Tardelli aveva l’8 e Michel, ovviamente, il 10. Io gli dissi che non c’era nessuna problema, che il numero mi interessava fino a un certo punto».

E poi?

«Poi mi cominciò a parlare di Causio, di come giocava, dei movimenti che faceva. Io lo lasciai finire e poi gli dissi: “Mister, con tutto il rispetto per Causio che è un grandissimo, non se ne parla nemmeno. Io ho diritto di giocare come Boniek”».

Una bella rispostina.

«Onesta e vera. La Juve conosceva le mie caratteristiche. Non mi aveva preso per mettermi all’ala».

Quindi?

«Quindi nacque una Juve senza un vero tornante di ruolo, almeno inizialmente. Con Rossi e Bettega di punta e un centrocampo moderno composto da Furino, Tardelli, Platini e il sottoscritto. Una linea mediana mobile e duttile, difficile da arginare e marcare».

Era la Juventus 1982-83.

«La più forte di tutte. Lo so, è quella di Atene ed è quella che arrivò seconda dietro la Roma in campionato. I giallorossi erano più freschi. Noi avevamo fatto il Mondiale. I sei campioni, io e Platini eravamo stanchi e scontammo la minore brillantezza nella corsa per lo scudetto. Però gli scontri diretti li vincemmo tutti noi quell’anno».

Juve e Roma, un derby infinito. Ma è vero che nell’82 avresti dovuto vestire il giallorosso?

«Vero. Prima dei campionati del mondo in Spagna, era stato deciso dalla Federazione polacca che avrei potuto giocare all’estero. A quell’epoca non avevamo autonomia: né i giocatori, né le società. Decideva la Federazione».

Andiamo avanti.

«Fu fatto il prezzo. Due milioni di dollari per il mio cartellino. Il primo che si fece avanti fu Dino Viola, il presidente della Roma. Io ero contento, perché comunque il mio obiettivo era l’Italia».

E invece cosa successe?

«La Federazione voleva il pagamento della somma in un’unica soluzione al momento della firma del contratto. Viola era in difficoltà, la Roma proponeva un pagamento in tre anni. Le parti si allontanarono. Arrivarono nel frattempo anche proposte da squadre inglesi, ma a me interessava l’Italia».

Alla fine spunta la Juventus.

«Non so se dietro ci sia stata la Fiat. Quello che so è che a un certo punto si fece avanti la Juve che si disse disponibile a pagare l’intera cifra chiesta dalla mia Federazione. Io allora chiamai Viola. Ma lui mi rispose che non ce l’avrebbe fatta ad avere a disposizione i soldi necessari».

Come vi siete salutati?

«Con una promessa da parte mia. Che sarei andato alla Roma alla scadenza del contratto con la Juve».

Ma eri felice o no di indossare il bianconero?

«Chiariamo le cose. Al presidente Viola sentivo di essere riconoscente perché aveva fatto di tutto per avermi. Detto questo, io ero felicissimo di andare alla Juve e i miei tre anni in bianconero sono stati fantastici. Tra l’altro, l’avevo già incontrata due anni prima in Coppa Uefa. Segnai proprio io il rigore decisivo per l’eliminazione. Palla da una parte e Zoff dall’altra».

Era stato solo quello il tuo incontro con il calcio italiano?

«C’era stata anche l’amichevole di prestigio Argentina-Resto del Mondo nel 1979. Uno dei Ct del “Resto” era Bearzot e in quella squadra c’erano alcuni miei futuri compagni: Cabrini, Causio, Tardelli e Platini».

Come hai fatto a imparare la nostra lingua in breve tempo?

«Acquistai subito un dizionario polacco-italiano. Sarei venuto in Italia con compagni italiani e l’italiano sarebbe stata la lingua del mio spogliatoio. Era giusto e corretto che la conoscessi».

E come furono i tuoi primi giorni alla Juventus?

«Molto belli e positivi. Ci si studiava a vicenda con i compagni, ci osservavamo, con il massimo rispetto. La cosa più incredibile accadde nel ritiro di Villar Perosa, uno dei primi giorni. I tifosi spinsero Trapattoni a far giocare una partitella a tutto campo che non era in programma. Trap dice ok, ma solo venti minuti, raccomandandosi di andarci piano».

Invece che successe?

«Al pronti-via, il mio marcatore, Massimo Storgato, mi dà subito una bella stecca. Rotolo per terra e dentro di me dico: “O è stato casuale oppure voleva subito testarmi”. Nel dubbio, quando mi tornò nuovamente il pallone, me lo allungai, aspettai che mi venisse incontro e, vedendo che avrebbe cercato ancora una volta di colpirmi, lo anticipai e lo sdraiai io».

Non proprio un bel modo di darsi reciprocamente il benvenuto.

«Forse era anche il modo per vedere di che pasta eravamo fatti, sia io che Platini. Se c’era solo il nome oppure anche la sostanza».

E Platini in tutto questo?

«Con Michel ho stretto subito amicizia. Merito delle nostre mogli. La mia aveva studiato Filologia francese. Fu semplice per lei avvicinarsi a Christele, la moglie di Platini. Da lì è nata la nostra intesa anche fuori campo».

Sul rettangolo verde era uno spettacolo vedervi: qual era il vostro segreto?

«Nessun segreto. Soltanto la capacità e l’intelligenza di due giocatori che hanno saputo sfruttare al meglio le proprie caratteristiche. Tutto a vantaggio della squadra. Io sapevo che movimenti fare e Michel sapeva dove trovarmi. Aveva una incredibile facilità di calcio e io mi infilavo negli spazi anticipando gli avversari».

Lancio di Platini, sgroppata di Boniek: uno schema vincente.

«Ma non c’è stato solo quello. Anche i triangoli, l’uno-due in velocità. E poi anch’io ho fatto per lui un sacco di assist. Se ha vinto per tre volte consecutive la classifica dei cannonieri lo deve anche al suo amico Zibì».

Ma è vera la storia che Furino non passava il pallone a Platini?

«Ti dico di sì. All’inizio della stagione ’82-83 ci furono delle difficoltà. Michel aveva la pubalgia, non stava bene. In campo succedeva questo fatto strano e un po’ di malumori erano venuti fuori. Finché un giorno io e Platini non veniamo convocati da Boniperti».

Interessante.

«Ci accolse con una lavagna dove era schierata la squadra. Ogni giocatore, un numero. Parlò un po’ in generale, poi prese la lavagna e iniziò a spiegarci come avremmo dovuto giocare per migliorare le prestazioni della squadra e vincere. Io e Platini ci guardammo negli occhi. E gli dicemmo: “Guardi presidente, per cambiare le cose, va cambiato il numero 4”».

E così fu.

«Entrò Bonini, Platini cominciò a star meglio anche fisicamente e la Juve iniziò a brillare».

Certo, con Furino andaste giù pesante.

«Beppe è la storia della Juve, un compagno eccezionale, giocavamo a scopone insieme, è un amico. L’ho sempre ammirato, ma in quel momento era necessaria quella svolta».

Con te e Michel la Juventus finalmente acquisisce una nuova mentalità.

«Boniperti voleva la Coppa dei Campioni, non gli bastava più dominare in Italia. Credo che l’innesto mio e di Platini abbia aiutato tutta la squadra ad avere ancora più consapevolezza della propria forza».

Ok, questo sul piano psicologico. E su quello tattico?

«Anche lì c’è stata un’evoluzione. La partita chiave è stata l’andata dei quarti di finale a Birmingham, contro l’Aston Villa detentore della Coppa dei Campioni. Era il 2 marzo 1983. Andammo là per vincere, non per strappare il pareggio e giocarci la qualificazione al ritorno: 2-1 per noi, prima vittoria di un’italiana in Inghilterra».

Il gol decisivo lo segni tu a pochi minuti dal termine, uno dei più belli in maglia bianconera.

«Il più bello, dal punto di vista tecnico, è la mezza girata di sinistro al volo con l’Ascoli, alla prima di campionato del 1983-84. Quello di Birmingham viene a ruota: esterno destro rasoterra di prima intenzione di Platini, a tagliare il campo; io mi infilo tra i difensori, e di destro segno con una gran legnata. Una delle migliori combinazioni della ditta P&B».

Eravate molto uniti, vero?

«La nostra era ed è amicizia vera. Che veniva fuori in maniera incredibile nelle sfide con le squadre francesi. A Parigi nel 1983 e a Borderax due anni dopo, lo hanno trattato male. Io mi sentivo un po’ il suo paladino e l’ho difeso, a modo mio».

Partiamo con l’esultanza dopo il gol al Psg al Parco dei Principi, 19 ottobre 1983?

(ride). «Lo so, feci il gesto dell’ombrello. Ma da noi in Polonia quel gesto non è “volgare” come in Italia, è più un gesto di stizza, come mettere il dito davanti la bocca per dire “silenzio”. Comunque lo feci e lo rifarei».

E con il Bordeaux?

«Lì fu un gesto tecnico. Andata a Torino, 10 aprile 1985. Sul 2-0 per noi, entro in area in dribbling e vado verso la linea di fondo. Intravedo che Michel sta arrivando al centro, riesco a passargli il pallone. Michel calcia al volo, senza pensarci un secondo e segna il 3-0. Ma la cosa più bella la fa venendomi ad abbracciare. Io in ginocchio e lui che mi stringe: che emozione».

Ma è vero che si svegliava sempre prestissimo?

«Alle 7.30 era già a fare colazione. Io, invece, tiravo lungo, perché la notte prima delle partite facevo fatica a dormire. Era la voglia di andare subito in campo».

Successe anche alla vigilia della Supercoppa del 16 gennaio 1985?

«C’erano tutti i migliori presupposti per me. Squadra inglese, finale secca, campo ghiacciato e i miei tacchetti modificati. Noi eravamo in forma. Formazione tipo, con Bodini al posto di Tacconi. Un bravissimo portiere, Luciano. Fisico normale, ma tecnicamente perfetto».

Doppietta di Boniek, un gol per tempo e il trofeo è bianconero.

«Il primo fu un classico. Briaschi mi dette il pallone sulla trequarti e io allungai fino all’area di rigore. Sinistro a incrociare, in anticipo sul difensore che tenta la scivolata disperata, il pallone rosso in fondo la rete. Il secondo fu una deviazione sotto porta da centravanti vero, ancora di sinistro. Riguardando dei vecchi filmati, mi sono accorto di aver segnato tante volte con il piede mancino. Eppure io sono sempre stato un destro naturale».

“Due gol in picchiata, tutto il suo irripetibile talento”: così scrisse Vladimiro Caminiti a incorniciare la tua super prestazione.

«Caminiti mi voleva bene, invece Platini si incazzava con lui perché talvolta lo criticava. Erano anni così, in cui molti di noi aspettavano di vedere le pagelle del lunedì e, nel caso di insufficienze, non esitavano a discutere con il giornalista fuori dallo spogliatoio».

Due gol decisivi in una partita giocata in notturna: allora era vero che eri il “Bello di notte”?

«Fu l’Avvocato Agnelli a darmi quel soprannome. Lo fece durante una tournée negli Stati Uniti, presentando la squadra a Kissinger. Di Platini disse che era il “Bello di giorno” e quando arrivò a me, s’inventò l’altro nomignolo».

Cosa c’era di vero?

«Tutto e niente. Nel senso che nelle partite di coppa che solitamente si giocavano la sera, mi esaltavo. Le marcature erano meno asfissianti, per il mio modo di giocare, affrontare certi avversari era più semplice».

Questo è il tutto. E il niente?

«In campionato ero sempre io, il mio approccio alla partita non cambiava mai, che ci fosse in palio un trofeo oppure no. Credo di aver dimostrato le mie qualità anche nelle domeniche pomeriggio».

Ti ha dato fastidio il nomignolo?

«No, questo no. Me lo aveva dato l’Avvocato».

Che ricordi hai di Gianni Agnelli?

«Una persona di grandissima intelligenza, carismatica, magnetica. Era pazzo del pallone. Quando veniva a trovarci nello spogliatoio aveva la faccia di un bimbo che ha tra le mani il suo giocattolo preferito».

Hai qualche curiosità su di lui?

«Mi fece morire dal ridere quella volta che venne a salutarci dopo una gara-esibizione fra Europa e Resto del Mondo, nell’estate del 1982. Vide Oleg Blochin, l’asso della Nazionale sovietica, che metteva nella sua borsa tutte le saponette che aveva trovato nel bagno. E ne rimase stupito: “Ma cosa sta combinando quello lì?” domandò con il suo solito intercalare (l’imitazione di Zibì è perfetta, ndr)».

Vinta la Supercoppa, dopo quattro mesi la Juve ritrova il Liverpool a Bruxelles. Il tristemente famoso 29 maggio 1985.

«Il momento tanto atteso da tutti che si trasforma in tragedia. Noi non volevamo giocare, ce lo imposero per motivi di ordine pubblico. Un’assurdità, sembrava di essere in un campo di concentramento».

La partita è stata vera?

«Sì. E io mi rammarico di quel fallo di Whelan, che mi stese. Avrei segnato sicuramente e ne avrei fatti anche altri. Abbiamo vinto con il rigore di Michel nella notte più triste di sempre per lo sport».

Tu hai devoluto il tuo premio alle vittime.

«Un gesto sentito, fatto in piena libertà e coscienza».

Oltretutto, quella dell’Heysel è stata la tua ultima partita con la Juve.

«Era già tutto programmato da qualche mese: sarei andato alla Roma, come da promessa fatta a Viola. Con lui ci vedemmo a Firenze in primavera per discutere del futuro accordo e Platini mi prestò la sua Ferrari».

Ma la Juve non fece nulla per trattenerti?

«Boniperti ci provò, ma io avevo già deciso. Alla fine stappammo una bottiglia di champagne. Apprezzai molto quel gesto del presidente, era il segno della sua gratitudine per il mio contributo ai successi bianconeri: Coppa Italia nel 1983, scudetto l’anno dopo e soprattutto tre gol decisivi e un rigore procurato nelle tre finali europee vinte».

La stella allo Juventus Stadium te la saresti meritata.

«Questa è una storia incredibile. Andrea Agnelli il 19 ottobre 2010 mi invia una lettera con l’invito per il successivo 7 novembre alla festa per celebrare le 50 leggende bianconere scelte per dare il loro nome alle stelle. Io avevo la mia, oltretutto so che era una delle tre esaurite, visto che ogni tifoso poteva acquistare una quota della stella. Con la lettera mi arriva anche la maglia con nome e numero che conservo nel mio armadio. Ma il giorno della festa io sono malato, non riesco ad andare a Torino. E Andrea Agnelli si rimangia tutto».

Motivo?

«Bella domanda. Pare che io sia antijuventino. Ma sfido chiunque a trovare un articolo o altro in cui parlo male della Juve. Ho criticato certe persone, Moggi in primis. E sembra che i fatti mi abbiano dato ragione».

La stella di Boniek si spegne. Al suo posto c’è Davids. Dispiaciuto?

«Semmai deve dispiacere a loro. Io so cosa ho dato alla Juve e cosa ho ricevuto. E lo sanno anche i tifosi veri».

Hai smesso presto di giocare, perché?

«Ho chiuso nello stesso anno di Gaetano Scirea, un grande uomo. Avevo 32 anni, ero ancora in forma, ma avevo voglia di provare altro. Ho fatto anche l’allenatore, poi ho preferito dedicarmi all’imprenditoria».

Ultima domanda: perché giocavi con la maglietta abbottonata?

«Non mettevo la sottomaglia, quindi mi piaceva giocare con il colletto chiuso. E poi amavo la precisione. E se non c’era il bottoncino, mettevo un cerotto».

 

Per correttezza, riporto anche una nota opinabile apparsa nel numero successivo del GS

 

GUERIN SPORTIVO | MARZO 2015

UNA LETTERA DÀ RAGIONE A BONIEK

Caro Direttore, ho appena finito di leggere l’Amarcord dedicato a Boniek. Interessante, senza dubbio. Calzaretta ha fatto un buon lavoro, ma nella parte finale si è fatto “ammaliare” da Zibì. Lui dice di non essere antijuventino? Io ho forti dubbi. Non ha perso occasione di parlare male della Juventus e della società. Giusto che non abbia la stella allo Stadium. Cosa pretende? Ma la chicca è la storia della lettera di Agnelli. Calzaretta dov’era quando Boniek gli raccontava questa cosa? Se esiste veramente quell’invito, perché non viene fuori? Non rinnego quello che il “Bello di notte” ha fatto per la Juventus, ma lui dopo non ha mai dimostrato di voler bene alla maglia bianconera, deludendo i veri tifosi.

Marco Pastore - Bari

Risponde Nicola Calzaretta.

“Caro Marco, prendo atto della tua delusione che è quella di una certa frangia di tifosi che si sono sentiti traditi da Boniek. Sinceramente, credo che tutto il livore verso Zibì sia ingiustificato e, di sicuro, ingeneroso, tenuto conto di quel che il polacco ha fatto nei suoi tre anni alla Juventus. Non solo in termini di prestazioni e di gol, tra l’altro determinanti per la conquista dei trofei internazionali. Il suo arrivo (insieme a quello di Platini) ha contribuito a dare dimensione europea a una squadra che fino a quel momento aveva vinto solo una Coppa Uefa. Era un mistero buffo, un paradosso, ma era così. La Juventus, madre delle Nazionali di Argentina 78 e Spagna 82, pluriscudettata, in Europa smarriva la sua forza. E la Coppa dei Campioni, il grande sogno di Boniperti e di tutto il popolo juventino, svaniva sistematicamente. Nel corso dell’intervista, Boniek ha anche spiegato il perché è andato via dalla Juve e il motivo del suo trasferimento alla Roma. Con tanto di brindisi di ringraziamento di Boniperti, non proprio l’ultimo degli juventini. Insomma dalle sue dichiarazioni mi sembra che traspaia senza ombra di dubbio quanto Zibi si senta parte della storia bianconera, non esitando a definire la squadra di quelle sue stagioni come la più forte di sempre, capace di competere anche con le corazzate europee dei nostri tempi. Che poi, a un certo punto della storia, nella vita ormai da ex e da opinionista non banale, abbia espresso pensieri e parole critiche nei confronti della società bianconera, non per questo si può parlare di “antijuventinità”. Mi tornano a mente i casi di Bettega e Sivori, spesso criticati (e sto basso) da dirigenti e tifosi bianconeri, quando nelle loro vesti di opinionisti televisivi esercitavano il proprio diritto di critica. Anche duramente, talvolta forse lasciandosi trascinare dal Dna bianconero e, magari, arrivando a colpire anche la sensibilità dei calciatori. Moreno Torricelli, l’ex terzino della Juve dei primi Anni 90, dichiarò in un nostro vecchio “Amarcord” tutto il suo poco entusiasmo alla notizia dell’investitura di Bobby Gol nella primavera del 1994 come erede di Giampiero Boniperti alla guida della società. E stiamo parlando di Bettega. Boniek ha usato parole forti non contro la Juventus, quanto contro certe persone e personaggi. Antonio Giraudo e Luciano Moggi: questi sono stati gli obbiettivi degli interventi di Boniek, che ha preso bene la mira. Le vicende del 2006 sono sotto gli occhi di tutti. Inevitabile che gli attacchi del polacco abbiano riguardato anche l’attuale presidente Andrea Agnelli. Prima lo invita alla festa allo Juventus Stadium e poi fa marcia indietro, senza offrire una motivazione plausibile. Certamente sono sue opinioni. Di chi vede ancora un filo sottile che lega Andrea ai personaggi del passato. Sono opinioni, condivisibili o meno. Ma da qui a dipingere Boniek come antijuventino ce ne corre. Così come è assurdo lo “spegnimento” della sua stella allo Stadium. Un goffo pasticcio, consumato dietro al paravento di un sondaggio on line tra i tifosi. Diciamocela tutta: una pagina poco gloriosa per la Juve e per la sua dirigenza. Finisco: Marco mi chiede dove fossi io quando Boniek mi raccontava dell’invito a Torino da parte del presidente della Juventus nel 2010. Bene: ero di fronte a lui. E sulla sua scrivania c’era in bella vista proprio la lettera firmata in originale da Andrea Agnelli. La stessa che vedi riprodotta nella pagina accanto [in calce]” .

 

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Football Memories on Twitter: "Zbigniew Boniek in action for Juventus # Juventus #Juve https://t.co/XwlRN5qQC5" / Twitter

 

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Zbigniew_Boniek

 

 

Nazione: Polonia Polonia
Luogo di nascita: Bydgoszcz
Data di nascita: 03.03.1956

Ruolo: Centrocampista/Attaccante
Altezza: 180 cm
Peso: 76 kg

Nazionale Polacco
Soprannome: Zibí - Bello di notte

 

 

Alla Juventus dal 1982 al 1985

Esordio: 18.08.1982 - Coppa Italia - Catania-Juventus 1-1

Ultima partita: 29.05.1985 - Coppa dei campioni - Liverpool-Juventus 0-1

 

133 presenze - 31 reti

 

1 scudetto

1 coppa Italia

1 coppa dei campioni

1 coppa delle coppe

1 supercoppa Uefa

 

 

Zbigniew Kazimierz Boniek (IPA: [ˌzbʲignʲɛf kaˌʑiːmʲɛɹ̠ ˈbɔːnʲɛk]), detto Zibì (Bydgoszcz, 3 marzo 1956) è un dirigente sportivo, ex allenatore di calcio ed ex calciatore polacco, di ruolo centrocampista o attaccante, vicepresidente della UEFA.

Giocatore polifunzionale capace di svolgere ruoli principalmente sia da ala destra che da seconda punta, crebbe nel settore giovanile del Zawisza Bydgoszcz, squadra con cui debuttò nel calcio professionistico nel 1973, militando poi nel Widzew Łódź (1975-1982) con cui vinse i suoi primi trofei, i campionati nazionali nel 1981 e nel 1982. Nell'estate 1982 venne ingaggiato dalla Juventus, club dove andrà a comporre una coppia d'attacco di primo livello con Michel Platini, e dove otterrà i maggiori successi della propria carriera con un campionato di Serie A, una Coppa Italia, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa UEFA e una Coppa dei Campioni vinti tra il 1983 e il 1985; divenne il primo calciatore polacco a vincere una competizione confederale nonché uno dei primi provenienti dell'Europa orientale a farlo con una squadra non del proprio Paese d'origine. Nel 1985 si trasferì alla Roma dove rivinse una Coppa Italia e, infine, concluse l'attività agonistica due anni più tardi.

Con la nazionale polacca disputò 80 incontri tra il 1976 e il 1988, compresi 6 nel campionato del mondo 1982, torneo in cui giunse al terzo posto e venne ulteriormente inserito nella squadra ideale; segnando 24 reti.

Premiato due volte quale calciatore polacco dell'anno (1978 e 1982) e terzo classificato al Pallone d'oro 1982 — all'epoca la massima posizione raggiunta da un calciatore polacco nella manifestazione, che resistette per i successivi trentanove anni —, Boniek fu inserito dalla Federazione Internazionale di Storia e Statistica del calcio (IFFHS) e da diversi messi di comunicazione specializzata quali i britannici World Soccer e The Guardian, il brasiliano Placar e il francese France Football tra i migliori giocatori della storia dei mondiali e, più in generale, del calcio nel XX secolo; essendo ulteriormente inserito sia nel FIFA 100 nel 2004, unico polacco, che nella Hall of Fame FIGC nel 2019.

Allenò quattro club in Italia in diversi periodi tra il 1990 e il 1995 e la propria nazionale nel 2002 durante le qualificazioni al campionato europeo 2004, senza ottenere risultati di rilievo. Conclusa tale attività ha ricoperto diverse cariche dirigenziali nel proprio Paese, inclusa la presidenza della Federazione calcistica della Polonia (PZPN) dal 2012 al 2021.

 

Zbigniew Boniek
Zbigniew Boniek 1986.jpg
Boniek in nazionale nel 1986
     
Nazionalità Polonia Polonia
Altezza 180 cm
Peso 76 kg
Calcio Football pictogram.svg
Ruolo Allenatore (ex centrocampista, attaccante)
Termine carriera 1988 - giocatore
2002 - allenatore
Carriera
Giovanili
19??-19??   Zawisza Bydgoszcz
Squadre di club
1973-1975   Zawisza Bydgoszcz 11+ (10)
1975-1982   Widzew Łódź 172 (50)
1982-1985   Juventus 133 (31)
1985-1988   Roma 76 (17)
Nazionale
1976-1988 Polonia Polonia 80 (24)
Carriera da allenatore
1990-1991   Lecce
1991-1992   Bari
1993   Sambenedettese
1995   Avellino
2002 Polonia Polonia
Palmarès
 
Coppa mondiale.svg Mondiali di calcio
Bronzo Spagna 1982

 

Biografia

Fu soprannominato Bello di notte, appellativo attribuitogli dall'Avvocato Gianni Agnelli durante la sua militanza nella Juventus, in riferimento alle sue buone prestazioni in occasione delle partite di coppa dopo il calar del sole.

Stabilitosi prevalentemente in Italia al termine dell'attività agonistica, è suocero del tennista Vincenzo Santopadre.

Carriera

Giocatore

Club[

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Boniek capitano del Widzew Łódź nel 1980.

 

Considerato uno dei più rappresentativi calciatori polacchi nonché uno dei migliori dell'Europa Orientale nella storia dello sport, in patria giocò prima nel Zawisza Bydgoszcz, poi col Widzew Łódź. Arrivò in Italia nel 1982, diventando il primo giocatore polacco a giocare nel campionato di Serie A insieme al compagno di nazionale Władysław Żmuda (il quale nella stessa stagione venne tesserato dal Verona).

Le strade di Boniek e della Juventus si incrociano due volte prima del suo approdo in Italia. La prima a Buenos Aires nel 1979 quando Enzo Bearzot convoca il polacco nel “Resto del Mondo” per l'amichevole contro l'Argentina campione del mondo, al posto dell'infortunato Bettega e di Rummenigge e Blochin, che avevano rinunciato perché impegnati con le rispettive Nazionali. In questa occasione gioca con Tardelli, Cabrini, Causio, Paolo Rossi e Platini, col quale condivide la stanza. La seconda il 5 novembre 1980, quando la Juventus viene eliminata ai tiri di rigore nei sedicesimi di finale di Coppa UEFA dal Widzew Łódź, e proprio Boniek realizza il tiro decisivo. Approda a Torino due anni più tardi, dopo il campionato del mondo 1982.

Il suo arrivo alla Juventus è preceduto da un intrigo: infatti il calciatore aveva raggiunto un accordo con la Roma di Dino Viola, che non andò a buon fine per motivi economici, sicché il 30 aprile 1982 Zibì firmò a Varsavia il contratto per i bianconeri di Giampiero Boniperti. Per anni non aveva potuto lasciare il suo Paese perché il regolamento della Federazione non consentiva ai giocatori di espatriare, se non dopo una certa età, ma il patron juventino Gianni Agnelli riuscì a farlo arrivare in Italia prima del tempo grazie agli investimenti della sua FIAT in Polonia, anticipando così la Roma. Arriva a Torino e trova, oltre a sei campioni del mondo, anche Platini con il quale si consolida l'intesa nata tre anni prima. Boniek, pur non essendo un realizzatore prolifico come il francese (realizzò comunque 31 reti in 156 presenze in Serie A, delle quali 14 in 80 partite con la maglia bianconera), risultò sistematicamente decisivo nei grandi appuntamenti europei della formazione piemontese, tanto da guadagnarsi l'appellativo di Bello di notte pronunciato da Agnelli all'atto di presentarlo a Henry Kissinger.

 

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Boniek esultante alla Juventus, dopo la sua doppietta al Liverpool che decise la Supercoppa UEFA 1984.

 

Il 16 maggio 1984 a Basilea segna al 41' il gol-vittoria che consentì alla Juventus di battere il Porto e vincere la sua prima e unica Coppa delle Coppe. Il 16 gennaio 1985, a Torino contro il Liverpool campione d'Europa in carica, su di un campo ai limiti della praticabilità a causa della neve, segnò una doppietta che consentì ai padroni di casa di conquistare la loro prima Supercoppa UEFA.

Durante la finale di Coppa dei Campioni 1984-1985 contro i Reds, macchiata dalla strage dell'Heysel, Boniek, indirizzato verso la porta custodita da Grobbelaar, subì un fallo da Gillespie poco fuori dall'area, ma valutato dal direttore di gara – che si trovava a circa 22 metri dal luogo dell'azione – come dentro l'area, procurandosi così il calcio di rigore poi trasformato da Platini, che portò i bianconeri alla prima vittoria nel torneo. In seguito ai tragici fatti della serata, il polacco non ha mai sentito suo quel successo, e all'indomani della partita annunciò di voler devolvere il premio partita (circa 100 milioni di lire lordi) alle famiglie delle vittime.

 

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Boniek in azione alla Roma nella stagione 1985-1986

 

Nell'estate 1985 lascia la Juventus dopo tre anni per trasferirsi alla Roma, pagato 3 miliardi di lire. La prima stagione con la maglia giallorossa, 1985-1986, è caratterizzata dalla grande rincorsa ai danni proprio dei bianconeri; la squadra di Sven-Göran Eriksson recupera nove punti ai torinesi e Boniek è tra i protagonisti della stagione, giocando a suo dire «il calcio più bello e spettacolare della mia carriera». La rincorsa giallorossa si concluse il 20 aprile 1986, con la clamorosa sconfitta in casa per 2-3 con il già retrocesso Lecce, che preclude definitivamente ai capitolini il sogno tricolore; concluderà la stagione con 8 reti e la conquista della Coppa Italia. Lascerà la Roma, e soprattutto il calcio giocato, dopo altre due stagioni, nelle quali viene impiegato anche a centrocampo nonché da libero.

Nazionale

Ha esordito nella Polonia nel 1976; in totale ha segnato 24 reti su 80 presenze. Ha partecipato ai mondiali di Argentina 1978, di Spagna 1982 e di Messico 1986.

 

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Boniek (a sinistra) in maglia polacca nel 1984, in azione sotto lo sguardo dell'italiano Di Gennaro.

 

Tra di essi, l'edizione 1982 vede il centrocampista come uno dei "protagonisti" sul campo: infatti realizza quattro reti (delle quali una contro il Perù il 22 giugno, e tre nel solo match contro il Belgio del 28 giugno), che spingono la sua nazionale fino alla semifinale persa 0-2 contro l'Italia futura campione del mondo (8 luglio); a quest'ultima partita però il centrocampista non partecipa, per una squalifica cumulativa rimediata nei turni precedenti: infatti era stato ammonito sia nel precedente incontro con l'Italia nella prima fase a gironi, conclusosi sullo 0-0 (14 giugno), sia nella sfida contro l'Unione Sovietica (0-0) del 4 luglio.

Allenatore e dirigente

Dopo aver smesso l'attività da calciatore, Boniek tenta quella da allenatore, ma con scarsi risultati, iscrivendosi nella stagione 1989-1990 al supercorso di allenatori di Coverciano. Nel 1990-1991 è alla guida del Lecce in Serie A; la stagione si chiude con la retrocessione dei giallorossi in Serie B. Nella stagione 1991-1992 è alla guida del Bari, ancora in massima serie; anche in questo caso l'annata di Boniek si conclude con la retrocessione tra i cadetti. Nell'annata 1992-1993 è chiamato a guidare la Sambenedettese, in Serie C1, ma è esonerato prima della fine del campionato.

 

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Boniek (a destra), vicepresidente della federcalcio polacca, e il segretario generale dell'UEFA Gianni Infantino nel 2011, al sorteggio del campionato d'Europa 2012.

 

Nell'annata 1994-1995 viene chiamato in corsa alla guida dell'Avellino, ancora in Serie C1; la stagione si risolve positivamente: dopo la finale play-off con il Gualdo vinta ai tiri di rigore, la squadra irpina è promossa in Serie B. L'annata successiva è, tuttavia, amara: Boniek è esonerato dopo poche partite.

Nel luglio del 2002 Boniek assume l'incarico di allenatore della Polonia, ma dopo appena 5 gare (di cui 2 vinte, 1 pareggiata e 2 perse) nel dicembre dello stesso anno rassegna le dimissioni.

Dopo essere stato per un lungo periodo vicepresidente della Federazione calcistica della Polonia, il 26 ottobre 2012 diviene presidente della stessa. Lascia questo incarico il 20 aprile 2021, quando viene eletto alla vicepresidenza della UEFA, su indicazione del presidente Aleksander Čeferin, entrando contestualmente a fare parte del Comitato Esecutivo della stessa.

Dopo il ritiro

Nel 2004 fu inserito nella lista FIFA 100, che raccoglie i migliori calciatori viventi: è l'unico calciatore polacco a essere stato inserito in tale elenco. In Polonia è ancora molto noto al grande pubblico. È stato opinionista nelle partite della Confederations Cup 2009 assieme a Jacopo Volpi e Giampiero Galeazzi; assieme a questo ultimo, per la stagione 2009-2010 è stato commentatore calcistico nella trasmissione Replay. Nel 2010 è stato assieme a Paola Ferrari, Maurizio Costanzo e Giampiero Galeazzi a Notti Mondiali, in diretta da Piazza di Siena a Roma.

È opinionista televisivo per 90º minuto su Rai 2, dopo esserlo già stato nell'annata 2004-2005. Periodicamente è ospite, nelle vesti di opinionista, nella trasmissione di calcio La Signora in Giallorosso, condotta da Massimo Ruggeri, in onda sull'emittente locale T9. Nell'estate del 2012 è ospite delle varie trasmissioni tematiche della Rai per il campionato d'Europa 2012.

Inizialmente inserito tra i 50 giocatori omaggiati di una stella nella Walk of Fame bianconera allo Juventus Stadium, successivamente Boniek si è visto negare il riconoscimento: i tifosi della squadra piemontese non hanno gradito varie dichiarazioni del polacco sulla sua ex squadra, riassegnando la posizione di Boniek a Edgar Davids dopo una nuova votazione online.

 

Palmarès

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La Boniek Star a Władysławowo

Giocatore

Club

Competizioni nazionali
Competizioni internazionali

Individuale

  • FAI International Football Awards: 1 - 2012

Onorificenze

Croce di Cavaliere dell'Ordine della Polonia Restituta - nastrino per uniforme ordinaria Croce di Cavaliere dell'Ordine della Polonia Restituta
  — Varsavia, 1982.
Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana - nastrino per uniforme ordinaria Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana
  — Roma, 1997

 

 

 

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«Zibì cavallo dell’Est – racconta Caminiti – apparve subito quello che effettivamente era, un alieno, un anarchico votato alle imprese impossibili, il Bello di notte per l’Avvocato, giacché in campionato denunziava strani tentennamenti e comunque tutti si erano follemente invaghiti di monsieur Platini. Arrivarono insieme, salvo che la permanenza del polacco fu più breve, si ruppe d’improvviso l’incanto, e dopo tre campionati, la Juventus lo cedeva alla Roma. Si deve dire che Boniek aveva intanto smantellato anche lo scherzoso riferimento dell’Avvocato. Non era solo bello di notte, forse non era bello nemmeno di giorno, col suo baffo rossiccio, quegli occhi azzurri furbi sornioni, il gran fisico longilineo che ne faceva scattista intemerato, il più veloce, il più decisivo, il più scardinatore: l’uomo delle sgroppate titaniche e dei goal entusiasmanti. Non è  che segnasse tanti goal. Non è che partecipasse al gioco, rimanendo nel cuore del gioco. Stazionava in attesa di poter produrre il suo spunto esplosivo, galleggiava per così dire tra centrocampisti e attaccanti, in una Juventus che s’era votata allo spettacolo, sei mondiali e due fuoriclasse foresti, la squadra che finalmente corona il quasi secolare inseguimento di Madama agli scettri europei».

 
MIMMO CARRATELLI, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 9-15 GIUGNO 1982
Zbigniew Boniek va alla bandierina del corner, in questo stadio «Bailados» di Vigo, nord-est della Spagna, vento persistente dell’Atlantico, e sento che dall’area di rigore il suo pupillo Wlodzimierz Smolarek, detto «Smolòsc», gli grida: «Murzyn! Murzyn» per chiamargli la palla.  Che cosa significherà mai? Il diminutivo di Zbigniew è «Zbyszek», ma «Murzyn»? Si sta giocando da un’ora l’amichevole della Polonia contro il Celta di Vigo e non c’è niente di più interessante da chiedersi. Poi, nell’albergo sulla spiaggia con pineta di Samil, un po’ fuori città, Boniek mi spiega: «Murzyn in polacco significa N***o. Mi chiamano così perché sono terribilmente bianco».
Zbigniew Boniek, polacco di un paese chiamato Bydgoszcz, 250 mila abitanti, a metà strada tra Varsavia e il confine con la Germania est, effettivamente è uno di quei rossi di capelli che il buon Dio immerge nel latte prima di affidarli alle cicogne perché sia molto evidente che la loro carnagione è chiara, anzi come dice la pubblicità degli angeli «che più chiara non si può». Capelli sempre spettinati, una pretenziosa linea di baffi di colore arancione che tendono a calargli agli angoli della bocca, portafortuna d’osso al collo e, per tutta la breve tournée spagnola, una maglia a strisce orizzontali nere e azzurre: così si è presentato Boniek, tra una partita e l’altra, sotto la pioggia di Bilbao e la luna piena di Vigo. Un ragazzo tranquillo, disponibile, con un programma ben preciso.
Ventisei anni, sposato a una compagna di scuola (Wieslowa) oggi insegnante di lingue romanze, una figlia (Karolina) di cinque anni, Boniek proverà a giocarsi tre numeri sulla ruota di Torino: una coppa dei campioni, due bambine ancora per arricchire la famiglia, tre anni alla Juventus. Un, due, tre: quasi un gioco di prestigio. Tre numeri al lotto della vita di Zbigniew Boniek che ha sicurezze delicate. Mi dice: «Voglio ancora due bambine, le chiamerò Silvia e Monica, nasceranno a Torino». Rifiuta a Vigo l’interprete, che è la deliziosa Elvira Dominguez Alonso del Comitato organizzatore della Coppa del mondo, perché vuole sforzarsi di capire e parlare l’italiano, e assicura: «Imparerò la vostra lingua in due mesi e mi affiaterò coi giocatori della Juve in due giorni». Credo che di questo giocatore polacco possano essere ugualmente contenti Dante Alighieri e Giovanni Trapattoni.
Una cosa che gradirà molto a Torino sarà il Po. «Oh, un fiume», dice. «Sarà buono per pescare. Mi piace molto». Al paese dove è nato, Bydgoszcz, c’è un lago. Zbigniew ci va spesso con la canna da pesca. «E, con me, viene Smolarek. Giochiamo insieme nella stessa squadra di Lodz e insieme andiamo a pescare». Ecco un bel quadretto. «Smolarek è un caro ragazzo», dice Boniek. «Ed è un attaccante molto forte. Chissà che non venga anche lui a giocare in Italia. Dovrà aspettare, ha venticinque anni». Così Boniek ci parla della sua fortuna. «Di solito, la federazione polacca dà il nullaosta per i trasferimenti all’estero dopo che i giocatori hanno compiuto i trent’anni. Così è stato per Lato, Szarmarch, Deyna. Hanno fatto un’eccezione per me. E anche per questo, per la mia età, che la Juventus ha speso quanto gli altri club hanno pagato per avere tutti insieme Lato, Szarmach e Deyna».
Con la comitiva polacca c’è un giornalista di Varsavia. E Grlegorz Stànok che scrive per lo «Sport» di Katowice. Mi spiega: «Al tempo in cui Deyna era l’indiscusso campione della Polonia, si diceva che Boniek fosse il quinto giocatore polacco. Perché primo veniva Deyna, secondo era Deyna, terzo sempre Deyna, quarto naturalmente Deyna e solo quinto Boniek. Questa era la differenza». Oggi Deyna gioca negli Stati Uniti, è solo un ricordo o un rimpianto per la Polonia calcistica e Boniek ha preso il suo posto. Nessun rimpianto per il suo trasferimento in Italia? Nessun giornale ha protestato? «Mi sembra giusto che Boniek vada per la sua strada», dice Stànok. Anche per Platini, che lascia la Francia per trasferirsi alla Juve, un personaggio come Mitterand ha detto la stessa cosa, senza inutili sentimentalismi. La Juve è la vera grandeur.
Gli piacerebbe avere questo numero sulla maglia della Juventus. «Ho giocato col nove da ragazzino», mi dice Boniek che ha le sue fisime e le sue scaramanzie come tutti i campioni. Mi racconta, per esempio: «Rimango affezionato a un indumento che ho messo proprio il giorno in cui mi è capitato di vincere una partita importante. Se sono andato allo stadio col parapioggia perché pioveva e poi ho fatto una grande partita e ho vinto, non ho vergogna a ritornare allo stadio con lo stesso parapioggia per la partita seguente anche se è una giornata di sole». Il leggero baffo arancione vibra attraversato da questa line corrente di humour. «Il numero nove è un bel numero. Mi piacerebbe molto averlo alla Juve. Ora lo ha Rossi? Gli chiederò se per lui è importante quanto lo è per me. Ho giocato numero quindici in nazionale contro la Germania, l’Argentina e la Tunisia. Non era un bel numero e non sono state buone partite. Potrei giocare col dieci nella Juve? Preferirei il nove. Lo dirò a Rossi».
Ha avuto già un maestro per imparare Vitaliano. E Renato Rascel. «Con “Arrivederci Roma” ho imparato le prime vostre parole». Ecco una nuova versione del metodo Montessori, ma sembra anche una involontaria presa in giro per la Roma del presidente Viola che ha corteggiato inutilmente il fuoriclasse di Lodz. «Mi piacciono le vostre canzoni. Sono molto sentimentali. Non è solo per imparare l’italiano che le ascolto volentieri». E, così, tra i «libri di testo» di Zbigniew Boniek, studente di italiano, c’è anche Bobby Solo. Il doposcuola linguistico di Boniek si chiama Sanremo. Batte il piede destro, schiocca i pollici e i medi, e recita la lezione: «Tu stai tutto il giorno in piedi». Un motivetto che gli piace tanto. Formidabile. Zbigniew Boniek impara da Bobby Solo, Petrarca è un superato. Karolina, la figlia di cinque anni, avrà però una regolare scuola italiana, a Torino. «Lei imparerà molo seriamente la vostra lingua». Bobby Solo, evidentemente, ha dei limiti.
Verrà via della Polonia a ciglio asciutto. Non c’è «saudade» per Zbigniew Boniek, solo i brasiliani hanno di queste debolezze. Lodz? «È un po’ come Manchester. Ci sono molte fabbriche di maglieria». E un ragazzo, Boniek, che non scrive libri «Cuore». Così, la storia del padre che giocava al calcio. «Non ci ho mai giocato contro. A trent’anni lui smise ed io cominciavo appena». Figlio attaccante contro padre difensore. Sarebbe stata una bella storia. E Roman, il fratello che giocava meglio di lui? «Roman, oggi, fa il rappresentante di articoli sanitari. Anche mio padre fa questo lavoro». Un’altra bella storia che va in fumo: il fratello più bravo e sfortunato, tolto di mezzo da un grave infortunio a un ginocchio, tutti questi Boniek calciatori, il vecchio Joseph difensore, Roman l’artista, Zbigniew quasi un Cenerentolo. Boniek scuote la testa. Non è per niente una gran storia. E la mamma, una sportiva anche lei? Macché. Mamma Jadwiga è una tranquilla massaia. Tutto qui. Però, se vogliamo, Zbigniew può dirci qual è il suo attore preferito, il cantante che più gli piace, il colore che ama, il cibo di cui è più goloso, la bevanda che gradisce. Ormai ha imparato a memoria questo ritornello. È quello che ricorre, puntuale e immutabile, da quando, apprestandosi a trasferirsi nell’Europa occidentale, ha capito che da noi non si gioca solo a pallone ma anche a fare le interviste. E così ecco le benevoli risposte. È John Wayne l’attore che preferisce. È Claudia Cardinale l’attrice. Ama i Bee Gees. Il colore: verde, l’azzurro. È ghiotto di capretto. Non beve né birra, né vino; un whisky è meglio. Zbigniew Boniek è un buon ragazzo all’antica. I suoi desideri non sono spinti, le sue moderate preferenze sono anche piuttosto superate, fuori moda. E, naturalmente, ha in serbo un mestiere dolce, da vecchi tempi, che avrebbe voluto fare se non avesse fatto il calciatore. «Avrei voluto fare il maestro», dice dopo averci pensato un po’. Il caro, mansueto maestro di Bydgoszcz che è diventato invece un campione di calcio.
Rummenigge è il calciatore che più ammira. E come sarà la Juve con Boniek e Platini? «Si gioca in undici. Due giocatori non sono tutto. Certo, mi sembra una Juve forte. Sulla carta è forte. Sul campo vedremo. Brady era un grosso giocatore. Peccato che non ci sarà». Gira subito pagina. Arriva di fresco alla Juve e non vuole rilasciare sentenze. Si presta di più a fare la sua formazione ideale. Hellstroem o Zoff in porta. Difensori: Kaltz e Cabrini terzini, Pezzey stopper, Krol libero. Al centrocampo: Schuster, Breitner, Maradona. All’attacco: Rummenigge, Paolo Rossi e Blokhin. Ha pronto anche un uomo per la panchina: Zico, che diamine! Prende confidenza e mi dice: «Mi voleva anche il Barcellona. In febbraio, c’erano per me due richieste ufficiali. Una era della Juve, l’altra era del Barcellona. Ma avrebbero voluto avermi anche il Paris Saint Germain e il Wolverhampton». L’Italia ha vinto, forse anche per merito di Bobby Solo. «Giuliano è venuto fino a Lodz per concludere e Boniperti mi ha telefonato». Non c’è stato niente di grosso. La moglie, felice di venire in Italia? «Nessun problema. A lei devo molto. Andiamo dove è meglio per te, mi ha detto». Una coppia collaudata da sei anni di fidanzamento.
Ma, poi, questo Boniek, che tipo di giocatore ritiene di essere? La risposta è tranquilla, il giudizio su se stesso è misurato. «Non mi considero molto speciale. Voglio dire che non sono un giocatore che ha una tecnica particolare. Io gioco per il collettivo, non sono un individualista, sono un giocatore utile, ecco. Sono rapido, questa forse à la mia dote. E tiro con tutti e due i piedi. E non ho bisogno di lavorare molto per essere in forma». Poi aggiunge, cambiando registro: «Se serve, mi piace molto il gioco degli scacchi». Che, poi, è un suo hobby risaputo. Un cartellino rosso quattro anni fa, due cartellini gialli in tutta la carriera. «L’espulsione c’è stata perché protestai vivacemente per un gol in fuorigioco segnato da un giocatore del Pogon contro il Lodz nel nostro campionato. Mi dettero sei giornate di squalifica. Ero il “capitano”. Poi ne feci solo quattro». Altre storie inquiete: rifiuta i giornalisti sul torpedone della nazionale durante una trasferta in Olanda, i giornalisti ne fanno un «caso», scoppia una incredibile bagarre, Boniek con Lato e Szarmach si becca quattro mesi di squalifica; il c.t. polacco Ryszard Kulesza, che non è più c.t., fa fuori dalla nazionale il portiere Mlynarczyk: ha bevuto un bicchiere, il reo, Boniek ne prende le difese, dodici mesi di squalifica, poi ridotti a otto. Alla Juve non beve nessuno e i giornalisti vanno per conto loro. Boniek, a Torino, sarà un irreprensibile professionista. Col Widzew Lodz ha vinto due campionati e una Coppa di Polonia, ma il suo stipendio a Lodz era di sole settecentomila lire al mese. Ora sarà di duecentomila dollari (260 milioni di lire) all’anno. Più di 50 partite in nazionale e 18 gol figurano nel suo carnet.
Ricorda con piacere l’eliminazione della Juve in coppa Uefa ‘81 ad opera sua e del Widzew Lodz. Un souvenir che ora dovrà cancellare. «Col Saint Etienne di Platini, invece, fummo eliminati noi». Un ricordo spiacevole che non significa più nulla. Quando avrà fatto il suo, cioè tutto il suo possibile con la Juve, non ci sarà l’America come succede per molti campioni attratti da un viale del tramonto lastricato di dollari. Gli Stati Uniti? «Giammai», è stata la risposta. «Al calcio voglio giocare seriamente fino all’ultimo», è stata la spiegazione. Come giocherai nella Juve? «Io sono un centrocampista di attacco». Si presenta così. Il resto è mestiere di Trapattoni. Era il primo nella lista-acquisti della Juve, non ci saranno incomprensioni. Certo, una Juve così, con Boniek e Platini, dove non arriverà? Sulla terrazza dell’albergo davanti alla spiaggia di Samil, un po’ fuori Vigo, Boniek indossa la sua prima maglia bianconera e palleggia per il nostro fotografo. Boniek si è prestato al «provino» nelle prime ore del pomeriggio mentre il resto della nazionale polacca dormiva. Ha avuto questo pudore. «Si sta parlando troppo di me, e ci sono ancora i mondiali. Sono un nazionale della Polonia, non sono ancora un giocatore della Juve». Poi chiede per souvenir la maglia bianconera che ha appena indossato. «Ha il numero nove», dice. Ma Rossi non gliel’ha ancora data. «Me la darà», sorride accattivante. 
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Il feeling con la Juventus nasce a Buenos Aires nel ‘79, quando Enzo Bearzot convoca il polacco nel Resto del Mondo, al posto dell’infortunato Bettega e di Rummenigge e Blochin, che avevano rinunciato, perché impegnati con le rispettive Nazionali. C’è anche Michel Platini e, alloggiati nella stessa camera, non possono certo immaginare che un giorno sarebbero stati compagni di squadra.
Boniek, con un’ottima prestazione, non tradisce la fiducia del commissario tecnico azzurro, responsabile della rappresentativa mondiale che batte 2-1 l’Argentina “campeon” rinforzata dall’astro nascente Diego Maradona. Boniek entusiasma Tardelli, Cabrini, Causio, i tre juventini della formazione, con Rossi, bianconero in pectore e Giampiero Boniperti che lo vede in TV. «Sei fatto per la Juventus», gli dicono. Glielo ripete anche Gigi Peronace, il compianto “Public relations man” della Nazionale italiana. Boniek se ne convince, tanto da rimanere deluso quando la Juventus gli preferisce Liam Brady.
Zibì, approda a Torino due anni dopo, con Platini che lo segue a ruota; insieme vincono tutto, o quasi. Per entrambi, però, i primi tempi sono difficili e l’amicizia, nata a Buenos Aires, si cementa fra i due, così diversi come carattere, ma complementari l’uno dell’altro, sul campo. Genio e sregolatezza si fondono sia in campo che nella vita privata, dove si frequentano spesso, quasi a proteggersi vicendevolmente. Un’intesa, una complicità, un’amicizia destinate a durare nel tempo, oltre la Juventus. In coppia regalano a se stessi, ai tifosi e alla Juventus, una serie di trionfi storici.
«Giocare nel vostro campionato è l’esperienza più appassionante della mia vita. Mi figuravo molte difficoltà, ma lo sto trovando terribilmente difficile. Però, tutto ciò mi stuzzica, mentre mi esalta il giocare nella Juventus, cioè in una squadra di statura mondiale. Ho attraversato dei momenti in cui mi pareva di aver perso qualcosa, come il fatto di non essere più il numero uno incontrastato, come succedeva in Polonia, sia nella squadra di club che in Nazionale. Vorrei sempre vincere, ma ci sono anche gli avversari che, in Italia, non mollano nemmeno un metro di prato, davanti a te».
Boniek è, soprattutto, l’uomo di Coppa. «Quello che gioca bene di notte», disse l’avvocato Gianni Agnelli presentandolo a Henry Kissinger. Esprime il meglio di sé nelle competizioni internazionali, dove, con marcamenti meno asfissianti, le qualità di Boniek esplodono: scatto, prontezza di riflessi, potenza, classe, insomma è spesso irresistibile. Se Platini è Le Roi del gol per come li realizza o li confeziona per i compagni, Boniek è un formidabile contropiedista, tanto che Maradona lo definisce il migliore al mondo, nel suo genere.
In campionato, invece, Zibì fatica a essere protagonista: nel primo anno juventino è relegato sulla fascia destra e la manovra ne risente parecchio. Basta, infatti, che gli avversari stiano attenti a Cabrini sulla sinistra e la palla si infila in un imbuto, facilmente controllabile. Per qualche partita, complice un lieve infortunio di Tardelli, il Trap accarezza l’idea, purtroppo irrealizzabile, di far coesistere Marocchino come tornante destro con Platini e Boniek mezzali, Rossi e Bettega in attacco. «La Juve non può avere tre registi. Non deve averne nessuno. Però la Juve ha Platini e indubbiamente Michel fa meglio di me certe cose. Il mio compito è di partecipare all’azione dal suo inizio alla sua conclusione, e di ripiegare quando essa si è conclusa. Io sono ben disposto, ho capito le difficoltà del calcio italiano e conto di non sentirmi più estraneo, come successo in certe partite».
L’inghippo è felicemente risolto riportando Tardelli a esterno destro, mettendo in mezzo Bonini al servizio, letteralmente, di Zibì e Michel, con Rossi e Bettega davanti. Ma il polacco è troppo anarchico tatticamente, troppo discontinuo nell’arco della stessa partita per fare il trequartista. Tutti i dotti ricordano il numero migliore: lancio di Michel e volata di Zibì, ma non sempre questo schema è possibile, nonostante l’innegabile valore di entrambi.
È devastante, invece, l’anno dopo quando, riconosciuta l’inadeguatezza di Penzo ad alti livelli, gioca Beniamino Vignola e Zibì può giostrare da punta atipica, libero di correre secondo il proprio genio. Il terzo anno, arriva Briaschi che ruba spazio a Vignola e costringe Zibì a tornare in quella posizione ibrida di mezza punta che non gli si confaceva proprio. In definitiva: in un campionato evoluto tatticamente come quello italiano Boniek non poteva fare il rifinitore, per limiti tattici e di continuità evidenti. Privato del suo numero migliore, che necessita di grandi spazi, diventa, quasi, uno qualunque.
Nessuno in Polonia ha vinto quanto Boniek, che ha oscurato perfino la fama di Kazimierz Deyna, l’eroe della Coppa del Mondo di Monaco 1974 con lo storico terzo posto, poi eguagliato nel 1982. Nei Mondiali spagnoli, già acquistato dalla Juventus per oltre tre miliardi di lire, Boniek tocca livelli incredibili contro il Belgio segnando tre gol e incantando la raffinata platea del Nou Camp di Barcellona. L’unico rimpianto di quella magnifica avventura, è la squalifica che gli impedisce di affrontare l’Italia in semifinale. Gli azzurri vanno a Madrid, dove si laureano Campioni del Mondo, Boniek si consola battendo la Francia, priva di Platini, per il terzo posto.
Lui e Michel, insieme ai Campioni del Mondo Zoff, Cabrini, Scirea, Tardelli, Gentile e Rossi, non bastano per dare alla Juventus scudetto e Coppa dei Campioni. Secondi, dietro la Roma in campionato, battuti nella finalissima di Atene dall’Amburgo di Magath. Ma sulla rabbia di quei traguardi falliti di un soffio, Boniek e i suoi compagni costruiscono le loro rivincite.
Intelligente, colto, estroverso, il Boniek giocatore lascia una traccia indelebile nel cuore dei tifosi juventini. “Boniek forever” è scritto su uno striscione. Il polacco spera che la Juventus lo convinca a firmare il contratto ma Boniperti, avendo grande stima del giovane asso danese Michael Laudrup, non può offrirgli quanto la Roma e Zibì si trasferisce nella capitale.
Smesso di giocare, intraprende, con risultati pessimi, la carriera di allenatore, prima di diventare opinionista, dove, purtroppo, comincia a spargere veleno sulla Juventus, non perdendo occasione per accusarla e criticarla, attirandosi, inevitabilmente, tutta la rabbia dei tifosi juventini. Tifosi che insorgono letteralmente quando la società bianconera decide di intitolare a Boniek una delle “50 stelle” del nuovo stadio juventino.
«Ho sentito questi malumori e mi è dispiaciuto molto soprattutto poi perché la motivazione la reputo ridicola: “per poca gratitudine”, ma a chi? In campo con la Juventus ho sempre dato tutto, non risparmiandomi mai. Il presidente Agnelli mi ha mandato una lettera per far parte delle stelle nel nuovo stadio ed io ne sono onorato. Non è che tutti quelli che hanno giocato per la Juventus debbono per forza essere anche tifosi juventini. È bello anche confrontarsi con opinioni differenti. So quello che ho fatto per la Juventus e, se i tifosi non mi vogliono nel nuovo stadio, dico che la storia non si può cancellare. Non ho mai parlato male della Juventus. Se io critico qualcuno che in passato si è comportato male sono affari miei. Se poi i tifosi non vogliono che vi sia la mia stella nel nuovo stadio io non morirò mica, ma in campo ho fatto la storia della Juventus ed ho sempre onorato la maglia dando tutto quello che potevo dare. Ricordo che ero un beniamino dei tifosi, che esponevano striscioni come “Zibì forever”. Ce l’ho solo con chi ha rovinato l’immagine della Juventus. Sono certo che un domani quando andranno via Marotta & C. nessuno dovrà ripulire l’immagine della squadra».
E la stella viene tolta al polacco e consegnata a Edgar Davids...
 
ENRICO VINCENTI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL GENNAIO 2010
Il miglior giocatore della storia polacca. Il bello di notte, come lo chiamava l’Avvocato Agnelli, per la sua propensione a segnare nelle gare notturne in Europa. I lanci millimetrici di Michel Platini trovavano sempre lui come terminale ultimo dell’azione. Tre stagioni alla Juventus, con cui vinse uno scudetto, una Coppa Italia, una Coppa Coppe, una Supercoppa Europea e una Coppa Campioni.
Poi tre anni alla Roma: l’avversaria numero uno dei bianconeri proprio in quegli anni ‘80. Il secondo polacco, dopo Zmuda, giunto in Italia alla riapertura delle frontiere nel 1980. Un calcio, quello dell’Europa dell’Est, per lo più sconosciuto a chi stava da questa parte del muro di Berlino, come ci racconta lui stesso in questa intervista.
– Cosa voleva dire per un calciatore nato e cresciuto al di là della cortina di ferro giocare in Italia?
«Io non ho avvertito questo grande salto arrivando a giocare nell’Europa occidentale, anche perché chi gioca a calcio a certi livelli frequenta tutta Europa. Con il Widzew Lódz già da sei o sette anni stavo giocando le coppe europee. Avevamo incontrato squadre importanti tra cui il Manchester United e abbiamo eliminato anche la Juventus nel 1980 in Coppa Uefa. Per me all’epoca la cosa importante era poter fare una scelta giusta: a 26 anni avevo la possibilità di finire in una squadra forte e in un calcio più quotato di quello polacco, ma non potevo sbagliare la mia decisione. La Juventus rappresentava una vera e propria garanzia sotto tutti i punti di vista. Sono contento di non avere affatto sbagliato scelta. Sono stato felicissimo di avere giocato in bianconero».
– Sei Campioni del Mondo più Platini e Boniek. Una delle Juventus più forti della storia?
«All’epoca per tre anni siamo stati una delle squadre più quotate, se non la più quotata, al mondo. C’erano pochi club che avevano così tanti campioni in rosa. Però, pur avendo vinto tantissimo in Italia e in Europa, ancora provo rammarico per quella partita persa ad Atene. Avessimo vinto quella sera contro l’Amburgo, l’anno successivo avremmo potuto giocare la Coppa Intercontinentale e magari rivincere la Coppa Campioni invece della Coppa Coppe. Insomma, pur essendo ricordati come la squadra che ha vinto tutto, se avessimo battuto l’Amburgo avremmo vinto tre volte di più».
– In quegli anni per lo scudetto era una lotta a due, Juventus e Roma. Che sapore aveva quella sfida?
«Nei primi anni ‘80 Juventus e Roma erano in assoluto le due squadre più forti in Italia. In più avevano entrambe due grandi personaggi al comando: Giampiero Boniperti e Dino Viola. Due presidenti che non si risparmiavano battute o frecciate e contribuivano ad accrescere la rivalità fra le due squadre. A “complicare” la situazione c’era poi Andreotti, il politico numero uno, tifoso della Roma, e il nostro proprietario, l’Avvocato Agnelli. Due squadre agli antipodi quindi da tutti i punti di vista, in particolare da quello mediatico. Ma quel che più conta è che in fondo erano le due squadre che giocavano meglio in Italia, si contendevano i titoli e per questo le sfide dirette non potevano non essere partite importantissime».
– Come viveva queste gare?
«Personalmente vivevo le partite tutte allo stesso modo. Potevo giocare contro l’Ascoli o contro la Roma, ma la sera prima non riuscivo comunque a dormire. Qualunque fosse l’avversario io ero sempre concentrato e teso. È ovvio che sapevo che la partita contro la Roma era particolare. Un risultato positivo poteva aprire la strada verso lo scudetto, una sconfitta poteva pregiudicare l’intera stagione».
– Cosa mancò alla Juventus 82/83 per vincere il campionato?
«Pagammo dazio per i sei Campioni del Mondo che avevano fatto un gran Mondiale. Michel Platini ed io avevamo giocato il Mondiale spagnolo fino in fondo (finale per il terzo e quarto posto), quindi a metà stagione eravamo un po’ affaticati, anche perché all’epoca la parola turn over ancora non esisteva nel vocabolario del calcio italiano. Nell’arco del campionato commettemmo qualche passo falso. Però in quella stagione battemmo la Roma ben quattro volte, due in campionato e due in Coppa Italia, anche se alla fine loro vinsero lo scudetto meritatamente. Avevamo nei singoli qualcosa in più, ma i giallorossi forse erano più squadra, avevano maggiore continuità di risultati e per questo riuscirono ad aggiudicarsi il tricolore».
– Quanto le piaceva il soprannome “bello di notte”?
«Nei tre anni in cui ho giocato alla Juventus sono sempre stato eletto a fine stagione tra i top 11. Questa graduatoria riguarda il campionato. E il campionato si giocava al pomeriggio della domenica o di notte? Credo che l’Avvocato mi chiamasse così, perché in tre anni la Juventus con me ha giocato quattro finali europee vincendone tre. Ha segnato in totale 5 gol. Di questi 5 io ne ho realizzati 3. Il quarto era un rigore per fallo su di me nella tragica finale di Bruxelles. Bello di notte lo diventai definitivamente dopo la vittoria in Supercoppa Europea contro il Liverpool, partita in cui correvo il doppio degli altri e segnai una doppietta. Nessun rimprovero e nessuna battuta dell’Avvocato Agnelli mi ha mai dato fastidio: tanto meno questa, che evidenziava le mie belle prestazioni nelle partite serali».
– Il suo arrivo a Roma?
«Chiaramente ero considerato un soggetto un po’ da studiare. Mi ricordo che nei primi allenamenti mi guardavano come per cercare di capire se sotto la tuta avessi ancora la maglia della Juventus. Nella prima gara di campionato dopo dieci minuti avevo fatto già tre o quattro azioni di un certo livello, ma i tifosi rimanevano ancora freddi e in silenzio. A un certo punto della gara partì il solito coro: “Juve, Juve vaff...” e subito dopo “Zibì Boniek, Zibì Boniek”: praticamente in quel momento capii che mi avevano adottato».
– Idolo a Roma, ma senza criticare la Juve. Si può?
«Certo, per conquistare i tifosi avrei potuto scegliere la strada più facile, parlare male della Juventus. Ma non sono fatto così. Ho sempre detto che giocando a Roma e trovandomi bene in questa città avrei fatto di tutto per i colori giallorossi, senza mai rinnegare un passato (quello bianconero) che posso descrivere con una sola parola: meraviglioso. E la situazione è rimasta così: vivo a Roma, dove mi trovo benissimo, mi piace la squadra della Roma ed ho molti più contatti, ovviamente, con la realtà giallorossa che con quella bianconera. Però sono rimasto sempre un grande estimatore e tifoso della Juventus, conosco molti giocatori e sono molto contento quando vince e gioca bene. Sono stato solo un po’ critico anni fa, ma preferisco non parlarne».
– Affrontare la Juventus con la maglia giallorossa cosa significava?
«Nella prima partita che giocai contro la Juventus all’Olimpico, dopo 10’ presi un cartellino giallo per un intervento duro su Platini. Alla nostra epoca era diverso. Adesso i giocatori piangono e si lamentano sempre. Ai miei tempi esisteva il fallo di intimidazione. Gli allenatori, tutti, consigliavano ai giocatori di farsi “sentire” subito alla prima entrata. Oggi non puoi più farlo. I giocatori si graffiano. Al primo intervento a gamba tesa rischi l’espulsione. Essendo quindi Platini l’avversario che in quella gara poteva fare la differenza, decisi subito di farmi “sentire”. Non è ovviamente cambiato nulla nel rapporto fra di noi: eravamo amici e lo siamo ancora oggi, ma in campo è un’altra cosa. Amicizia oltretutto è anche questo: non essere ruffiano, ma rispettare i ruoli. Io giocavo nella Roma e lui nella Juventus e quel giorno eravamo avversari».
– Erano comunque sempre partite dure e tese fra Juventus e Roma?
«Una volta nel tunnel che conduce agli spogliatoi mi ricordo che accaddero cose turche. All’epoca giocavo con la Juventus e difesi i miei colori. Era la famosa partita in cui un cane lupo della Polizia morse Brio e a Roma il giorno dopo girava la battuta che il cane era morto di rabbia».
– Perché dice che sotto il tunnel succedeva di tutto?
«Perché una volta era proprio lì che si dettava legge. Oggi vedi dei ragazzi che prima ancora di sapere calciare già si comportano in maniera arrogante. Credo che la lezione più giusta che possono ricevere siano quattro parole ben dette nel sottopassaggio, ma con le telecamere che ti seguono ovunque non è più possibile. Tengo a precisare che in quelle occasioni non accadevano cose violente, ma ci si spiegava tra giocatori e tutto finiva lì».
Sempre chiaro e diretto Zibì Boniek, come quando correva verso l’area di rigore avversaria: puntava dritto al cuore e segnava… meglio se di notte.
 
Modificato da Socrates

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