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Ricky Albertosi

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Fumavo un pacchetto al giorno, Riva di più.

 

  di Furio Zara · 8 mag 2025

 

Disteso nel volo a planare, allungando la sagoma scossa da un colpo di reni, mulinando il braccio come un Don Chisciotte con i guanti, la chioma da Sandokan al vento, la segreta convinzione di arrivare a schiaffeggiare anche stavolta il pallone, interrompendone la traccia e cambiandogli il destino. Ricky Albertosi è stato il portiere come è bello immaginarlo, dove il ruolo prevede istinto, audacia e attitudine a prendersi la scena, come l’acrobata che vola da trapezio a trapezio, nel silenzio dopo un rullo di tamburo che di colpo si fa muto.
▶ Albertosi, verrebbe da dire che lei non si è limitato a venire al mondo. Si è tuffato verso il mondo.
«Ero un bambino e con i miei amichetti mi tuffavo da 4-5 metri in un laghetto, a Pontremoli, dove sono nato. Poi andavamo tutti al fiume, ad abbrancare con le mani le trote che si nascondevano sotto i sassi: forse è là che sono diventato un portiere».
▶ Cosa ricorda dei suoi inizi?
«Non avevo ancora sedici anni quando giocai in Prima Categoria, con il Pontremoli. Il portiere titolare, tale Gregoratto, poche ore prima si era imbarcato come marinaio. Ricordo che faceva un freddo cane, presi quattro gol».
▶ A diciannove anni il debutto in Serie A con la Fiorentina.
«Ero il vice di Giuliano Sarti, da lui ho imparato a giocare al limite dell’area, a fare il “libero” aggiunto. Con la Fiorentina credo d’aver disputato la partita della vita, a Glasgow, contro i Rangers, finale di andata della Coppa delle Coppe che poi vincemmo. Clima infernale, 2-0 per noi, parai tutto».
▶ Nel 1970 lo scudetto a Cagliari.
«Abbiamo fatto la storia, svelato un’altra Sardegna, restituito identità e dignità ad una terra che l’Italia aveva dimenticato. Una squadra di amici veri, con Beppe Tomasini siamo fratelli, ci sentiamo ancora. Quell’anno ho subito solo 11 reti - tra cui due autogol e un rigore - in 30 partite. Se l’anno dopo Gigi Riva non si fosse infortunato in Nazionale, avremmo vinto di nuovo».
▶ Lei indossava una maglia rossa.
«Ebbi l’idea guardando un portiere inglese. In allenamento Riva mi confermò che il rosso disturbava l’attaccante, diceva che sembravo più grande e lo inducevo a sbagliare».
▶ Chi fumava di più lei o Riva?
«Io un pacchetto di Marlboro al giorno, ma Gigi pure di più. Scopigno lasciava fare: in campo davamo il massimo, non c’era nulla da rimproverare».
▶ Quella del 1970 è l’estate di ItaliaGermania 4-3.
«Cal­cio d’angolo, See­ler col­pi­sce di testa, Gerd Müller la cor­regge in rete. Sul palo c’è Rivera, fa una tor­sione strana e non la prende: 3-3. Gliene dissi di tutti i colori. Lo insul­tavo, lui sbat­teva la testa sul palo. Poi mi fece: “Ora vado a fare gol” (ride). Fu di parola».
▶ Quattro anni prima, al Mondiale inglese del 1966, l’onta della Corea.
«Durante riscal­da­mento li vediamo entrare in campo, ognuno ha un pal­lone in mano. Lo lan­ciano per aria, poi fanno la rove­sciata. Pen­siamo: “Sono matti”. La verità è che Perani nei primi 20 minuti sprecò tre occa­sioni da rete. Mi fece gol quel den­ti­sta, che den­ti­sta non era: Pak Doo-Ik. Ci sono par­tite segnate da un destino con­tra­rio: quella lo fu».
▶ Nel 1979, scudetto della Stella con il Milan.
«Grande sod­di­sfa­zione, avevo già qua­rant’anni, gio­cavo con la casacca gialla. Non c’erano cam­pioni, ma era­vamo tosti. Lie­d­holm in alle­na­mento mi bom­bar­dava con i suoi tiri. Diceva: “La metto là”. E indi­cava l’incro­cio dei pali. E il pal­lone finiva ine­vi­ta­bil­mente là. Il Barone aveva quasi 60 anni, ma non sba­gliava un tiro».
▶ Subito dopo la squalifica per il calcioscommesse. Lei si è sempre dichiarato innocente. Cosa le ha tolto quel periodo buio?
«La pos­si­bi­lità di andare a gio­care in Ame­rica, era già tutto fatto, il Milan mi avrebbe ceduto il car­tel­lino. Poi
l’Ame­rica è venuta da me: i Glo­be­trot­ters, la squa­dra di basket che girava il mondo, mi chiese di fare uno spet­ta­colo all’inter­vallo delle loro par­tite. Mi met­tevo in porta e gli spet­ta­tori pro­va­vano a fare gol. Mi sono diver­tito un sacco».
▶ Il suo dualismo con Dino Zoff ha fatto epoca. Cosa aveva lei in più e in meno del suo collega?
«Pos­siamo dirlo? Siamo stati due gran­dis­simi por­tieri. Io più agile, Dino più com­patto. Lui aveva gambe grosse, strut­tu­rate, solide; io solo muscoli. Zoff è un monu­mento del cal­cio ita­liano».
▶ Com’è la sua vita oggi?
«Bella e tran­quilla, sono for­tu­nato. Nel 2004 ho rischiato di morire di infarto. Ero all’ippo­dromo di Mon­te­ca­tini, avevo appena fatto una corsa. Stavo riguar­dando al moni­tor la gara, sono crol­lato a terra. Sono stati bravi con i primi soc­corsi, mi hanno sal­vato la vita. I cavalli sono stati a lungo la mia pas­sione, da allora non più. Vivo a Forte dei Marmi con mia moglie Betty, stiamo insieme da 50 anni. Ho 4 favo­losi nipoti: Edoardo e Sofia stu­diano all’uni­ver­sità, poi ci sono i pic­coli Emma, che gioca a ten­nis, e Tom­maso: lui impaz­zi­sce per il cal­cio, ma non vuole che vada a vederlo, mi tocca nascon­dermi».
▶ Chi le piace tra i portieri italiani?
«Car­ne­sec­chi, un po’ mi ci rivedo. È spe­ri­co­lato, inco­sciente come si può esserlo da gio­vani. Io mi sono rotto due volte il setto nasale e ho perso quat­tro denti. Farà una grande car­riera».
▶ Un’ultima cosa: ma è vero che lei aveva il vezzo di giocare senza le mutande?
«No, in realtà in campo le por­tavo sotto i cal­zon­cini, era nella vita quo­ti­diana che non le met­tevo mai».
 

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