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Socrates

Marco Tardelli - Calciatore E Dirigente

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Gerelateerde afbeelding

 

 

Estate del 1974, spiaggia di Nocette: Gianni Invernizzi, osservatore dellInter dopo la contraddittoria esperienza alla guida della squadra nerazzurra, riferisce agli amici Valcareggi, Caciagli ed ai giornalisti una frase storica, pronunciata qualche giorno prima a Giancarlo Beltrami, allora direttore sportivo del Como:
«Ho venduto Callioni al Torino, ma ho preso Tardelli dal Pisa che è molto più forte di Callioni».
La realtà confermerà questa prima impressione: Vito Callioni nel Torino non manterrà le promesse e giocherà poi, dignitosamente, a Vicenza e nella Sampdoria.
Tardelli è nato sul versante orientale delle Apuane a Capanne di Careggine, in provincia di Lucca, nei pressi di Isola Santa, paesino che sta sotto un lago artificiale. Ma, come giocatore, è uno sconosciuto, tifosi del Pisa a parte, che hanno già avuto modo di apprezzare Schizzo, grazie alla sua abitudine di correre come un pazzo ad ogni partita. Beltrami lo pesca, dietro opportuna segnalazione, e se lo porta sul lago di Como, dove Marco disputa uno splendido campionato in serie B contribuendo in larga parte alla promozione in A.
Alla fine di quel campionato si scatena una vera e propria asta per il giovane giocatore filiforme. Sono in lizza cinque o sei squadre, su tutte emerge lInter, tanto è vero che a metà giugno, Tardelli viene fotografato al fianco del presidente nerazzurro Fraizzoli. Si parla di un miliardo tondo, speso dal patron interista, per il nuovo gioiello interista. Ma una settimana dopo un colpo di scena scuote il mercato: Tardelli passa alla Juventus per 950 milioni; il segreto è presto svelato: Boniperti paga in contanti, gli altri no e così la Juventus mette a segno uno dei colpi più clamorosi degli anni settanta.
«Per me era un sogno che si avverava, certo, venivo dalla serie B, quindi il mondo dei professionisti lo avevo già assaggiato. Ma la Juventus è la Juventus, arrivarci era loccasione della vita».
Il suo esordio in maglia bianconera avviene il 27 agosto 1975; è il primo turno di Coppa Italia, la Juventus affronta al Comunale il Taranto. La partita si risolverà con un 2-0, con reti di Causio e Bettega.
«Mi tremavano le gambe, non capivo niente; appena sceso in campo, faticavo quasi a muovermi per lemozione. Poi, mi sono ricordato che sapevo giocare a pallone e tutto è andato liscio».
Lallenatore bianconero è Carletto Parola, che schiera Tardelli come terzino di fascia, sia a destra che a sinistra. Il campionato è vinto dal Torino, che rimonta la bellezza di cinque punti alla Juventus. A Parola non viene rinnovato il contratto e viene sostituito da Giovanni Trapattoni.
Nel provino di Villar Perosa, nellagosto del 1975, il Trap lo utilizza terzino fluidificante nel primo tempo, centrocampista cursore nella ripresa. È il primo esperimento. La Juventus cerca un interno agile, capace di accelerazioni improvvise da accoppiare al forte Benetti, scambiato vantaggiosamente in estate col declinante Capello. Trapattoni pensa giustamente a Tardelli, azzecca la mossa e regala un ineguagliabile centrocampista moderno al calcio italiano.
Quando lavevi davanti, sembrava unipotesi di giocatore con qualcosa di meno. Era così gracile e come penato, uno dei sei fuoriclasse che Platini si sarebbe trovato al fianco in una Juventus destinata a divenire leggendaria.
Schizzo Tardelli faceva piangere gli avversari ed i portieri; Cesto Vycpalek, osservatore della Juventus, ne era rimasto incantato durante un Verona-Como, disputato allo stadio Bentegodi. In quel pomeriggio, il presidente, Saverio Garonzi, si illudeva che il suo Verona gli avrebbe regalato, contro quel Como, una bella vittoria, invece, il Como aveva vinto, soprattutto per merito di Tardelli.
Quellipotesi di giocatore, guardato nel fisico, si trasformava in campo in una freccia di giocatore, dai piedi buoni, dalle intuizioni repentine anche nei movimenti senza palla; si capiva che, nel ruolo di difensore esterno, assolveva ad una parte di un copione abbastanza vario. Quando avanzava, schizzava da parte a parte e lavversario era costretto a rincorrerlo senza prenderlo mai.
La più razionale Juventus dellera Boniperti inseriva nel contesto il più trascedentale scattista ed incontrista dItalia, equilibrando il filtro di centrocampo affidato al piede dacciaio di Benetti ed allindomito sprint tattico di Furino, con il risultato di varianti inedite per lattacco prestigiatore di Bettega e martellatore di Boninsegna. Vincendo scudetti e coppe, Marco Tardelli non poteva ancora essere soddisfatto. Una perenne inquietudine gli ardeva negli occhi, sposo e padre senza avere molta serenità, cercava in campo ogni più ardua gioia, la scovava addirittura con i suoi guizzi felini, attraverso goals pazzeschi ed irresistibili.
Divenne così fondamentale per la Nazionale bearzottiana, esordendovi come terzino destro nellaprile del 1976, nellamichevole torinese vinta per 3-1 sul Portogallo. Bearzot sedeva ancora in compagnia di Bernardini, ultime lezioni al furlan che sarebbe riuscito, con la sua facondia e versatilità psicologica, a fare della Nazionale un pugno di uomini con un ideale. Quella domenica di luglio del 1982 fu di sofferenza, prima del tripudio, nello stadio che era di un pallore svenato dalle luci (anche quella chiarissima del cielo, annottò tardissimo); Tardelli segnò il goal più bello, famoso ed importante della sua carriera, schizzando in caduta libera per scaricare il sinistro sul pallone del secondo goal, radente, irridente, per Schumacher. E subito la corsa liberatoria per il prato, a pugni stretti, gridando la gioia, come si può gridare con tutto il fiato del corpo e dellanima, quasi a voler chiamare a testimoni presenti e assenti dellimpresa compiuta, per se stesso, per tutti. Quelli erano giorni; unipotesi di giocatore, con qualcosa di meno, campione del mondo. Lirripetibile, insostituibile Marco Tardelli.
Marco rimane in bianconero per dieci anni, scendendo in campo per ben 375 volte e realizzando 51 goal. Vince tutto: cinque scudetti, due Coppa Italia, la Coppa Campioni, la Coppa delle Coppe e la Supercoppa Europea.
Ma più che per i numeri, Tardelli, rappresenta limmagine della vittoria nel Mondiale del 1982, in Spagna. Le braccia aperte, i pugni chiusi, lurlo di gioia, la corsa a tutto campo inseguito dai compagni; tutto ciò fu lItalia vera, senza confini, una felicità azzurra che riunì la gente nelle strade e nelle fontane, con gli occhi umidi ed il cuore sereno.


Il racconto di Massimo Burzio, su Hurrà Juventus del marzo 1988:

Nel calcio italiano e mondiale degli anni Settanta ed Ottanta ci sono stati molti grandi giocatori, ma pochissimi campionissimi. Uno di questi ultimi è stato Marco Tardelli, forse il miglior centrocampista della sua generazione.
Difficile spiegare in poche righe cosè stato per la Juventus e per la nazionale azzurra Marco Tardelli. Difficile perché i tifosi juventini ed i calciofili hanno ancora, vivissime, negli occhi (e qualcuno nel cuore) le impareggiabili giocate di quel moto perpetuo che è stato Tardellino.

Ed è stata una vera emozione quella di vedere, nei primi giorni di questanno, un allenamento della Juve a cui hanno partecipato Tardelli e Michel Platini. Due colonne di un passato neppure tanto remoto che avevano chiesto ed ottenuto di mantenere il ritmo partita del campionato svizzero (Tardelli), ed un poco di forma fisica (Michel Platini). È stato come tornare indietro ad unepoca che certamente non ha eguali.

Schizzo è nato a Capanne di Careggine, in provincia di Lucca, il 24 settembre del 1954. I primi calci al pallone lungo i prati attorno a casa, qualche torneo minore ed ecco che i dirigenti del Pisa notano il ragazzino smilzo che vola per tutto il campo.

Detto e fatto e cè il primo cartellino per i nerazzurri pisani. Lo stipendio è scarso e così Marco studia, gioca a calcio e lavora. E sempre uno scricciolo e, quando passa al Como, cè qualche dirigente che pensa daver fatto un affare lasciando ai comaschi quel terzino così smilzo che difficilmente avrà il fisico per fare strada.

La pensano così anche i dirigenti della Fiorentina a cui Marco è stato invano proposto e negative sono anche le relazioni fatte dagli osservatori nerazzurri allallora presidente dellInter, Ivanoe Fraizzoli. Ed invece Tardelli nel Como trova spazio e possibilità per far vedere che non è necessario essere dei culturisti per giocare a calcio: basta avere un fisico vero ed essere dei campioni.

LInter fa marcia indietro e torna alla carica con i dirigenti lariani, siamo nel 1975, arrivando ad offrire per il cartellino di Marco quasi un miliardo. Al Como rispondono con cortesia ma anche con decisione.
«Ci spiace», affermano i dirigenti della squadra, «ma Tardelli è già bianconero».

Così Fraizzoli torna sconfitto a Milano con una sola magra consolazione: quella davere una foto accanto a Tardelli. Ma cosè accaduto? Nulla o quasi, soltanto che la Juventus si è offerta di pagare in contanti laddove altri facevano solo promesse e dilazioni e non davano sufficienti garanzie di solvibilità. E stato, insomma, un affare tra business man e, soprattutto, è stato un grande colpo per la Juventus.

Alla Juve arriva un Tardelli ventenne che si è fatto le ossa vincendo una stagione di B con, appunto, il Como e che Carlo Parola impiega come terzino con notevole giudizio e saggezza. Marco non viene infatti gettato nella mischia, inizia dalla panchina crescendo fisicamente e psicologicamente col passare del tempo. Ma è un anno buio per la Juve che regala uno scudetto quasi vinto al Torino. Così a fine stagione se ne va Parola ed arriva Giovanni Trapattoni: un allenatore giovane pronto a far giocare una squadra di giovani.

Per Tardelli, che sul finire della stagione precedente, ha già conosciuto la gioia della maglia azzurra, è la definitiva consacrazione in un ruolo, tra laltro, diverso da quello precedente. Il Trap, infatti, imposta Marco da centrocampista avendone riconosciute le grandi qualità di dinamicità, visione di gioco e forza propulsiva. È unannata eccezionale, quella. La Juve vince la Coppa Uefa e fa suo lo scudetto con il punteggio record di tutti i tempi, 51 punti. È una Juve tutta italiana, una Juve incredibile, forse la migliore del calcio di Trapattoni.

Quella Juve ha a centrocampo gente come Furino, Benetti e Tardelli, in difesa ci sono Scirea, Morini, Cuccureddu, Gentile ed a volte Antonio Cabrini, mentre dietro a tutti la sicurezza di Dino Zoff. Davanti giocano Causio, Boninsegna e Bettega. Insomma una Juve extra, che ha in Tardelli un leader giovane e grintoso. Anche in azzurro Marco diventa centrocampista presentandosi alla platea mondiale con classe ed una voglia di giocar bene e vincere, che lo fa notare e primeggiare tra tutti i giocatori di quel periodo.

Ancora scudetti, campionati, partite internazionali, un mondiale in Argentina ed una cavalcata vincente in Spagna, come non ricordare quel suo goal nella finale con la Germania e lurlo di gioia di Schizzo che era poi lurlo di tutta Italia; insomma una carriera davvero unica e sorprendente.

Ed è nel 1985 che Tardelli lascia la Juventus. Il distacco sembra un poco brusco, ma è tipico di tutti i grandi amori che proprio perché tali non possono finire in modo banale. Marco se ne va allInter (dove peraltro non avrà grande fortuna) con unaria a metà tra il soddisfatto e linsoddisfatto. La cosa è tipica (basta consultare i manuali di psicologia) di chi è alla fine duna grande avventura personale ed è diviso tra il rimpianto per il passato e la voglia di futuro.
Oggi Tardelli gioca in Svizzera, nel San Gallo. È rimasto a lungo senza contratto perché allInter ha rifiutato unofferta economica magari valida ma che lo voleva inizialmente in panchina. E lui, da guerriero qual è, non voleva partire già con una penalizzazione.

La storia bianconera di Tardelli è quella che sin qui ho cercato di scrivere. Inutile fare commenti tecnici o cercare ancora di dire come giocava Tardelli e chi era Tardelli per la Juve e nella Juve: basta dire che era Tardelli. E basta così. Senza altre parole per un giocatore unico in una Juve unica, magari eguagliabile nei risultati ma non nelle caratteristiche umane e tecniche del nucleo che ne fu forza e propulsione vincente


Stefano Bedeschi

 

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nessun intervento per uno dei pi? grandi centrocampisti che abbiano indossato la nostra maglia...

che tristezza..

giocatore universale, moderno.. un mito della mia pre-adolescenza..

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Joined: 21-Feb-2009
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Il mio Idolo di sempre !

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MARCO TARDELLI EROE DELLA NAZIONALE E DELLA JUVENTUS

MARCO, URLO AZZURRO

GIOVANE NELLA JUVENTUS, DIVENTERA' UNO DEI CENTROCAMPISTI PIU' FORTI DI SEMPRE

 

Tardelli: "Sogno un urlo collettivo per scacciare l'incubo coronavirus" -  La Gazzetta dello Sport

 

 

E' sicuramente "l'urlo del calcio italiano", ovvero Marco Tardelli, uno dei protagonisti della storia della nazionale di calcio.

Nato a Capanne di Careggine in provincia di Lucca, cominciò a giocare negli allievi del San Martino di Pisa. Il ragazzo pur essendo agile e scattante, ha un fisico troppo asciutto.

La Fiorentina è interessata al giovane Marco, ma Radice lo scarta considerandolo troppo minuto. Arriva però la sua grande occasione con la quadra di casa il Pisa, che lo acquista per meno di un milione.

A solo diciannove anni esordisce in serie C con la squadre pisana con un successo per 2 a 0 contro l’Olbia. Pur essendo nato come centrocampista, L’allenatore Robotti lo inserisce come terzino, per poi trasformarlo come ala. Già nel Pisa risalta la personalità di Marco Tardelli. Nel Pisa milita due stagioni, la seconda diventa titolare a tutti gli effetti; 33 presenze e 2 reti.Il primo trasferimento importante è nel Como, che "brucia" nelle trattative il Varese. Marchioro sfrutta al meglio l’agilità e la potenza del giocatore, e diventa titolare e punto fisso per la squadra lombarda che nel 1974-75 milita in C.

Le presenze sono 36 e le sue indiscusse doti tecniche lo fanno subito diventare interessante obiettivo del calcio-mercato di numerosi club. E’ la Juventus che lo compra battendo all’asta l’Inter per 950 milioni.La storia di Marco Tardelli è la storia della Juventus di ben dieci campionati.

I bianconeri sono guidati da Trapattoni, e con la fortissima squadra juventina Tardelli vince ben cinque scudetti (76-77 con 51 punti, il campionato dei record battendo il Torino, nel 77-78, 80-81, 81-82 e 83-84), si aggiudica due Coppe Italia (1979 e 1983) e in campo europeo, la Coppa UEFA nel 1976-77, battendo nella doppia finale l’Atletico Bilbao , firmando il gol della vittoria per 1 a 0 al Comunale nella partita di andata, la Coppa delle Coppe nella stagione 1983-84, dominando l’edizione e terminando imbattuti il torneo superando in finale per 2 – 1 i portoghesi del Porto, la Supercoppa Europea nel 1984, superando in un'unica gara il Liverpool per 2 a 0, e la tragica Coppa dei Campioni della successiva 1984-85.Nel 1985-86 passa all’Inter dove disputerà due campionati terminando la sua gloriosa carriera propria nella squadra che lo ha visto sempre tifoso…ma è solo un "arrivederci" al club neroazzurro.

In serie A Tardelli ha giocato 302 partite realizzando 37 reti. In nazionale viene considerato all’inizio un autentico jolly.

Nel gennaio del 1976 viene convocato da Vicini nell’Under 23 e nello stesso anno viene subito schierato come terzino da Enzo Bearzot nella nazionale maggiore, contro il Portogallo nella amichevole del 7 aprile al Comunale di Torino.Ben presto lo proverà come mezzala per poi farlo giocare all’occorrenza, come nella finale del mondiale in Spagna, come puro regista.

Diventerà subito elemento indispensabile per la squadra azzurra che con lui raggiungerà ambiziosi risultati come il titolo di Campione del Mondo in Spagna nel 1982 , e i quarti posti nel mondiali del 1978 e nell’europeo del 1980.Nella nazionale conterà 81 presenze, di cui ben 9 con la fascia di capitano, e 6 reti, tutte importantissime; ricordiamo i due gol nel mondiale in Spagna, contro l’Argentina e lo "storico" 2 a 0 contro la Germania in finale, e il gol che con il quale eliminammo l’Inghilterra agli europei del 1980.

L’ultima maglia azzurra la veste nella amichevole con la Norvegia il 25 settembre 1985 in una partita che perdiamo per 2 a 1. Verrà sostituito nel secondo tempo da Franco Baresi, suo compagno di squadra nell’Inter.Un atto di stima sarà la convocazione per Tardelli, non più giovanissimo, fra i ventidue giocatori per il deludente mondiale del 1986.

Appena smessa la maglia di giocatore c’è subita una panchina pronta che lo aspetta; è’ quella della nazionale under 16. Diventa secondo di Maldini con la nazionale under 21 e con lui vince in campo internazionale.Debutta sulle panchine del Como, per poi passare a quelle del Cesena.

Nel 1997 è secondo di Maldini nella nazionale maggiore per poi passare ad essere allenatore nel 1998 dell’Under 21 con il quale conquista nel 2000 il titolo europeo per poi partecipare alla non esaltante missione olimpica a Sidney. La sua carriera da allenatore deve registrare una non esaltante stagione sulla panchina dell'Inter, e attualmente guida insieme a Trapattoni la nazionale dell'Irlanda.

GolCalcio.it

 

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il venerdì di Repubblica | 19-09-2014

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Peccato... se le canta e se le suona da solo il nostro Renatino: lo sputtanamento

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Black & White Stories | Tardelli vs Cagliari - Juventus

 

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Marco_Tardelli

 

 

Nazione: Italia Italia
Luogo di nascita: Careggine (Lucca)
Data di nascita: 24.09.1954

Ruolo: Centrocampista
Altezza: 178 cm
Peso: 70 kg

Nazionale Italiano
Soprannome: Schizzo - Coyote

 

 

Alla Juventus dal 1975 al 1985

Esordio: 27.08.1975 - Coppa Italia - Juventus-Taranto 2-0

Ultima partita: 29.05.1985 - Coppa dei campioni - Liverpool-Juventus 0-1

 

374 presenze - 53 reti

 

5 scudetti

2 coppe Italia

1 coppa dei campioni

1 coppa delle coppe

1 coppa Uefa

1 supercoppa Uefa

 

Campione del mondo 1982 con la nazionale italiana

 

 

 

Marco Tardelli (Careggine, 24 settembre 1954) è un ex allenatore di calcio ed ex calciatore italiano, di ruolo difensore o centrocampista.

Cinque volte campione d'Italia con la Juventus, in maglia bianconera ha inoltre vinto tutte e tre le principali competizioni UEFA per club, divenendo uno dei primi tre giocatori (assieme ai suoi compagni di squadra e nazionale Antonio Cabrini e Gaetano Scirea) ad aver conseguito tale record, nonché il primo centrocampista in assoluto.

Campione del mondo con la nazionale italiana nel 1982, è rimasta nella memoria collettiva l'esultanza con cui festeggiò la sua rete in finale alla Germania Ovest: "l'urlo di Tardelli" è passato alla storia come l'immagine-simbolo del calcio italiano nonché, a livello mondiale, tra le maggiori icone sportive di sempre.

Nel 2004 è risultato 37º nell'UEFA Golden Jubilee Poll, un sondaggio online condotto dalla UEFA per celebrare i migliori calciatori d'Europa dei cinquant'anni precedenti.

 

Marco Tardelli
Marco Tardelli, Juventus.jpg
Tardelli alla Juventus nella stagione 1976-1977
     
Nazionalità Italia Italia
Altezza 178 cm
Peso 70 kg
Calcio Football pictogram.svg
Ruolo Allenatore (ex difensore, centrocampista)
Termine carriera 1988 - giocatore
2013 - allenatore
Carriera
Giovanili
1970-1972 non conosciuta San Martino di Pisa
Squadre di club
1972-1974   Pisa 41 (4)
1974-1975   Como 36 (2)
1975-1985   Juventus 374 (53)
1985-1987   Inter 43 (2)
1987-1988   San Gallo 31 (1)
Nazionale
1976-1986 Italia Italia 81 (6)
Carriera da allenatore
1988-1990 Italia Italia U-16  
1990-1993 Italia Italia U-21 Vice
1993-1995   Como  
1995-1996   Cesena  
1996-1997 Italia Italia Vice
1997 Italia Italia U-23  
1997-2000 Italia Italia U-21  
2000 Italia Italia olimpica  
2000-2001   Inter  
2002-2003   Bari  
2004 Egitto Egitto  
2005   Arezzo  
2008-2013 Irlanda Irlanda Vice
Palmarès
 
Coppa mondiale.svg Mondiali di calcio
Oro Spagna 1982
Gold medal mediterranean.svg Giochi del Mediterraneo
Oro Bari 1997
Transparent.png Europei di calcio Under-21
Oro Slovacchia 2000

 

Biografia

Nacque in una famiglia di modeste condizioni, ultimo di quattro fratelli; il padre era un dipendente dell'ANAS. Durante gli anni trascorsi a Pisa, si guadagnò da vivere lavorando come cameriere vicino a piazza dei Miracoli. Ha due figli: Sara, giornalista, avuta dalla prima moglie, e Nicola, modello, nato dalla relazione con la reporter Stella Pende. Dal 2016 è legato alla giornalista Myrta Merlino.

Caratteristiche tecniche

Giocatore

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Tardelli esulta con la maglia del Como nel campionato 1974-1975

 

Di piede destro, da bambino, seguendo e imitando il suo idolo Gigi Riva che era mancino, diventò ambidestro.

Nelle file del Como venne schierato come terzino sinistro, per poi spostarsi a destra nella Juventus; la sua definitiva affermazione avvenne però nel ruolo di mezzala, su intuizione di Giovanni Trapattoni. In un'epoca in cui il calcio italiano era conosciuto soprattutto per le sue qualità difensive, spesso legate al catenaccio, Tardelli emerse al contrario come un giocatore grintoso e dotato tecnicamente in mezzo al campo, venendo considerato tra i migliori interpreti al mondo del ruolo nei primi anni 1980.

Venne soprannominato Schizzo per il suo modo caratteristico di giocare.

Carriera

Giocatore

Club

Pisa e Como
170px-Marco_Tardelli_-_Pisa_Sporting_Clu
 
Un giovane Tardelli al Pisa nei primi anni 1970

 

Cresciuto calcisticamente nel San Martino, venne scartato ai provini da Bologna, Fiorentina, Milan per via della sua corporatura, prima di essere acquistato dal Pisa per la cifra di settantamila lire. Fece il suo esordio professionistico nel 1972 allo stadio Porta Elisa nel derby toscano contro la Lucchese, squadra della sua provincia natale. Con la società nerazzurra giocò per due anni in Serie C, scendendo in campo 41 volte e segnando 4 gol.

Nel 1974 venne prelevato, su suggerimento di Giancarlo Beltrami, dal Como, società dove trovò come allenatore Pippo Marchioro, con cui instaurerà fin da principio un buon rapporto. Mise a referto con i lombardi, in Serie B, 36 partite e 2 gol.

Juventus

Dopo un corteggiamento da parte di Fiorentina e soprattutto Inter (col presidente nerazzurro Ivanoe Fraizzoli che aveva già formalizzato un accordo coi comaschi per 700 milioni), nel 1975 venne acquistato dalla Juventus per 950 milioni di lire, voluto fortemente dal presidente bianconero Giampiero Boniperti.

 

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Tardelli in lotta con Claudio Sala nel derby di Torino del 24 febbraio 1980

 

Fu subito schierato dall'allenatore Carlo Parola come terzino, alternandolo al più esperto Luciano Spinosi. Esordì con il club torinese il 27 agosto, nella gara di Coppa Italia tra Juve e Taranto, finita 2-0 per i bianconeri. Inizialmente ebbe delle difficoltà a inserirsi in squadra, ma poi seppe ritagliarsi un ruolo anche nel centrocampo bianconero. Fino al 1985 giocò stabilmente con i piemontesi e sempre come titolare inamovibile, eccezion fatta per la stagione 1979-1980 in cui mise a referto solo 18 presenze a causa di un infortunio.

Disputò l'ultima partita in maglia bianconera il 29 maggio 1985, nella finale di Coppa dei Campioni vinta per 1-0 contro gl'inglesi del Liverpool, partita teatro della strage dell'Heysel. Chiuse la sua esperienza a Torino dopo 374 incontri conditi da 53 centri, nel corso dei quali mise in bacheca cinque campionati, due Coppe Italia, una Coppa dei Campioni, una Coppa delle Coppe e una Coppa UEFA; un palmarès che tuttora ne fa uno dei soli nove giocatori, nella storia del calcio, capaci di conquistare le tre principali competizioni UEFA per club.

Inter e San Gallo
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Tardelli, all'Inter, festeggia la doppietta al Real Madrid siglata il 2 aprile 1986

 

Nell'estate 1985 passò, a causa della sua non soddisfazione per la posizione in campo decisa dal tecnico bianconero Trapattoni, ai rivali dell'Inter, in uno scambio di mercato che coinvolse Aldo Serena: la Juventus pagò 6 miliardi di lire in tutto, valutando Tardelli 3,2 miliardi. Dopo due stagioni a Milano globalmente al di sotto delle aspettative, in cui spiccò soprattutto la doppietta del 1986 agli spagnoli del Real Madrid nella semifinale d'andata di Coppa UEFA, si svincolò dal club nerazzurro a causa dell'arrivo di Trapattoni sulla panchina interista, con la ripetizione dei contrasti che gli avevano fatto lasciare il club bianconero, e nell'estate 1987 si accasò in Svizzera, al San Gallo, vestendo la maglia biancoverde per una stagione prima di porre termine alla sua carriera agonistica.

Nazionale

Fece il suo esordio con la maglia dell'Italia il 7 aprile 1976, all'età di ventuno anni, nell'amichevole di Torino contro il Portogallo (3-1). Divenne poi elemento cardine della selezione guidata da Enzo Bearzot, della quale fu titolare al campionato del mondo 1978 in Argentina e al campionato d'Europa 1980 organizzato in Italia; al termine di quest'ultimo, venne inserito nella formazione ideale del torneo.

Soprannominato da Bearzot Coyote, con 7 presenze e 2 gol fu protagonista della vittoria al campionato del mondo 1982 in Spagna. Qui siglò la rete dell'1-0 nella partita poi vinta 2-1 sull'Argentina nonché la celebre rete del 2-0 nella vittoriosa finale 3-1 contro la Germania Ovest, quella del famoso "urlo" in cui Tardelli corse a perdifiato verso metà campo, agitando i pugni contro il petto, con le lacrime che gli rigavano il viso e urlando a ripetizione «gol!» mentre scuoteva selvaggiamente la testa: «dopo che segnai, tutta la vita mi passò davanti — la stessa sensazione che, si dice, si ha quando stai per morire. La gioia di segnare in una finale di Coppa del Mondo fu immensa, qualcosa che sognavo da bambino, e la mia esultanza fu una sorta di liberazione per aver realizzato quel sogno. Sono nato con quel grido dentro di me, e quello fu l'esatto momento in cui venne fuori»; per ironia della sorte, quel gol — inserito nel 2010 da Goal.com al 2º posto tra le 50 migliori celebrazioni nella storia dei campionati mondiali, e nel 2014 dalla BBC al 4º posto tra i 100 più bei momenti nell'epopea della Coppa del Mondo — rimase il suo ultimo in maglia azzurra.

 

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Tardelli e Michel Platini durante l'amichevole tra Italia e Francia dell'8 febbraio 1978

 

Dopo il ritiro di Dino Zoff avvenuto nel maggio 1983, ereditò la fascia di capitano che vestì in 9 occasioni, ogni qual volta che venne impiegato da titolare. Il 25 settembre 1985 giocò la sua ultima partita in nazionale, l'amichevole di Lecce contro la Norvegia (1-2). Fu infine convocato anche per il campionato del mondo 1986 in Messico, dove nelle quattro gare disputate dagli azzurri sedette tre volte in panchina, senza mai scendere in campo durante la manifestazione.

Con gli Azzurri ha collezionato in totale 81 presenze e segnato 6 reti.

Allenatore e dirigente

Dopo il ritiro dalla pratica agonistica iniziò per lui la carriera di allenatore. Il 21 settembre 1989 diviene il responsabile dell'Italia Under-16. Il 1º agosto 1990 passò a essere il vice di Cesare Maldini nell'Italia Under-21. Il 26 giugno 1993 lasciò il ruolo per diventare allenatore del Como, in Serie C1, ottenendo a fine stagione la promozione in cadetteria dopo i vittoriosi play-off. Il 13 giugno 1995 passò alla guida del Cesena, in Serie B, ruolo da cui venne esonerato il 25 ottobre 1996.

 

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Tardelli (al centro) nel 1994, tecnico del Como, mentre festeggia con la squadra la vittoria nella finale play-off di Serie C1 e la promozione in Serie B

 

Il 16 dicembre seguente tornò a fare il vice di Cesare Maldini, stavolta per l'Italia. Il 27 aprile 1997 venne annunciato come tecnico dell'Italia Under-23 per i Giochi del Mediterraneo di Bari, manifestazione in cui portò gli azzurri, il 25 giugno dello stesso anno, a conquistare la medaglia d'oro. Il 18 dicembre venne quindi nominato commissario tecnico della nazionale Under-21, con la quale vinse nel 2000 il titolo europeo di categoria.

Il 7 ottobre 2000 diventò allenatore dell'Inter, guidando tre giorni dopo l'ultima volta gli azzurrini. Il 19 giugno 2001 venne esonerato dai nerazzurri alla fine di una negativa stagione caratterizzata, fra l'altro, da pesanti tracolli come lo 0-6 nella stracittadina contro il Milan in campionato, e l'1-6 con il Parma in Coppa Italia. Il 29 dicembre 2002 venne annunciato come nuovo tecnico del Bari, venendo sollevato dall'incarico l'11 novembre 2003.

Il 25 marzo 2004 diventò commissario tecnico dell'Egitto; venne esonerato l'11 ottobre dopo la sconfitta contro la Libia. Il 28 febbraio 2005 diventò allenatore dell'Arezzo, subentrando a Pasquale Marino; Il 21 aprile venne esonerato e sostituito proprio da Marino. Il 14 giugno 2006 entrò nel consiglio di amministrazione della Juventus; il 14 giugno 2007 si dimise, dopo esattamente un anno, a causa di sopraggiunti dissidi con la dirigenza bianconera.

 

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Tardelli nel 2013, sulla panchina dell'Irlanda, come vice di Trapattoni

 

Il 1º maggio 2008 venne chiamato dal suo ex tecnico della Juve e dell'Inter, Giovanni Trapattoni, nel ruolo di vice alla guida dell'Irlanda. L'11 agosto 2011 Trapattoni si operò all'addome, sicché Tardelli lo sostituì alla guida dei Boys in Green in occasione dell'amichevole contro l'Argentina. L'11 settembre 2013, con le dimissioni del Trap, lasciò anche lui la nazionale irlandese.

Dopo il ritiro

Già al termine dell'attività agonistica iniziò a lavorare saltuariamente come opinionista sportivo; nella stagione televisiva 1989-90 fu ospite fisso de La Domenica Sportiva, ruolo poi ripreso dagli anni 2000 quando è opinionista anche in altri programmi di Rai Sport, come gli speciali di Europei e Mondiali, oltreché di Rai Radio 1.

Nel 2016 ha scritto assieme alla figlia Sara l'autobiografia Tutto o niente - La mia storia.

 

Palmarès

Giocatore

Club

Competizioni nazionali
Competizioni internazionali

Nazionale

Individuale

Allenatore

Nazionale

Individuale

Onorificenze

Collare d'oro al Merito Sportivo - nastrino per uniforme ordinaria Collare d'oro al Merito Sportivo
  — Roma, 19 dicembre 2017.

 

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Quando l’avevi davanti – racconta il sommo Caminiti – sembrava un’ipotesi di giocatore con qualcosa di meno. Te lo potevi immaginare a suo agio, tra gli sparati bianchi dei tavoli in quell’albergo di Pisa, o pensarlo commesso in un negozio di scarpe o postino addetto ai servizi celeri, con quel viso smunto infiammato dagli occhi che sembravano camminargli addosso, mai fermi, come lui. Che era così gracile e come penato, Marco Tardelli, cioè uno dei sei fuoriclasse che il francese blasé Platini si sarebbe trovato al fianco in una Juventus destinata a divenire leggendaria.
Quelli erano giorni di calcio torinese e juventino estremamente razionale, fatte le debite eccezioni, che erano appena due, poi sarebbero state quasi tre (con l’eccentrico Marocchino), e cioè Causio detto Brazil e lui. Ma nessuno come Tardelli, che il soprannome se l’era scritto addosso, come quando da un calamaio schizza una goccia o più gocce e subito il quaderno è una macchia sola, e il bambinetto piange. Schizzo Tardelli faceva piangere gli avversari, anche i portieri, e dire che io l’avevo scoperto da terzino di fascia fare i suoi incredibili gol di rapina, a Verona, quel pomeriggio in cui Saverio Garonzi era tornato a casa, e nel suo viso disfatto tra gli occhi pieni di quell’esperienza paurosa, si passava e ripassava una mano rugosa, illudendosi che il suo Verona lo avrebbe consolato, contro quel Como, regalandogli una bella vittoria.
Invece, sul verde prato del Bentegodi, in un pomeriggio che aveva tutte le svenevolezze dell’autunno, il Como aveva vinto, soprattutto per merito di Tardelli e l’osservatore della Juventus che era Cestmír Vycpálek, ne era rimasto incantato.
Quell’ipotesi di giocatore, guardato nel fisico, si trasformava in campo in una freccia di giocatore, dai piedi buoni, dalle intuizioni repentine anche nei movimenti senza palla; si capiva che nel ruolo di difensore esterno assolveva a una parte di un copione abbastanza vario. Quando avanzava, cioè schizzava da parte a parte, l’avversario costretto a rincorrerlo senza pigliarlo mai, si trovava la lingua in gola.
La Juventus aveva pescato il tipo giusto per fare quagliare le intese smarrite un anno prima; il campionato di grazia 1976-77 le avrebbe restituito ogni avere con gli interessi. La più razionale Juventus dell’era Boniperti inseriva nel contesto il più trascedentale scattista e incontrista d’Italia, equilibrando il filtro di centrocampo affidato all’alluce d’acciaio di Benetti e all’indomito sprint tattico di Furino, con il risultato di varianti inedite per l’attacco prestigiatore di Bettega e martellatore di Boninsegna.
Vincendo scudetti e Coppe, Marco Tardelli non poteva ancora essere soddisfatto. Una perenne inquietudine gli ardeva negli occhi, sposo e padre senza avere molta serenità, cercava in campo ogni più ardua gioia, la scovava addirittura con i suoi guizzi felini, attraverso gol pazzeschi e irresistibili. Divenne così alla base della Nazionalbearzottiana, con pipa (le pipe egregie di quegli anni erano due, la più illustre apparteneva al Vecchio Pertini, Presidente con la passione dei Media), vi avrebbe giocato 81 volte, fulcro di quel contropiede manovrato schizzante (appunto Tardelli) esordendovi come terzino destro il 7 aprile 1976 nell’amichevole torinese vinta per 3 a 1 sul Portogallo.
Bearzot e pipa, a quel punto, sedevano ancora in compagnia di Nonno Bernardini, ultime lezioni al furlan che sarebbe riuscito con la sua facondia e versatilità psicologica a fare della Nazionale un pugno di uomini con un ideale. Come definire altrimenti la squadra che tra giugno e luglio dell’82 andava a farci rivivere le imprese dei padri che con prosa emozionante Emilio De Martino ha raccontato in un libro degno di essere conosciuto dai ragazzi: cioè Carovana azzurra? Quella domenica di luglio dell’82 fu di sofferenza, prima del tripudio, nello stadio che era di un pallore svenato dalle luci (anche quella chiarissima del cielo, annottò tardissimo), Tardelli segnò il gol più bello, famoso e importante della sua carriera, schizzando in caduta libera per scaricare il sinistro sul pallone del secondo gol, radente, irridente, per Schumacher. E subito la corsa liberatoria per il prato, a pugni stretti, gridando la gioia, come si può gridare con tutto il fiato del corpo e dell’anima, quasi a voler chiamare a testimoni presenti e assenti dell’impresa compiuta, per se stesso, per tutti, anche per la pipa di papà Bearzot e, perché no?, di nonno Pertini.
Quelli erano giorni: un’ipotesi di giocatore, con qualcosa di meno, campione del mondo. L’irripetibile, insostituibile Marco Tardelli.

MASSIMO BURZIO, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MARZO 1988
Nel calcio italiano e mondiale degli anni Settanta e Ottanta ci sono stati molti grandi giocatori, ma pochissimi campionissimi. Uno di questi ultimi è stato Marco Tardelli, forse il miglior centrocampista della sua generazione. Difficile spiegare in poche righe cos’è stato per la Juventus e per la nazionale azzurra Marco Tardelli. Difficile perché i tifosi juventini ed i calciofili hanno ancora, vivissime, negli occhi (e qualcuno nel cuore) le impareggiabili giocate di quel moto perpetuo che è stato Tardellino. Ed è stata una vera emozione quella di vedere, nei primi giorni di quest’anno, un allenamento della Juve a cui hanno partecipato Tardelli e Michel Platini. Due colonne di un passato neppure tanto remoto che avevano chiesto ed ottenuto di mantenere il ritmo partita del campionato svizzero (Tardelli), ed un poco di forma fisica (Michel Platini). È stato come tornare indietro ad un’epoca che certamente non ha eguali.
Schizzo è nato a Capanne di Careggine, in provincia di Lucca, il 24 settembre del 1954. I primi calci al pallone lungo i prati attorno a casa, qualche torneo minore ed ecco che i dirigenti del Pisa notano il ragazzino smilzo che vola per tutto il campo. Detto e fatto e c’è il primo cartellino per i nerazzurri pisani. Lo stipendio è scarso e così Marco studia, gioca a calcio e lavora. E sempre uno scricciolo e, quando passa al Como, c’è qualche dirigente che pensa d’aver fatto un affare lasciando ai comaschi quel terzino così smilzo che difficilmente avrà il fisico per fare strada. La pensano così anche i dirigenti della Fiorentina a cui Marco è stato invano proposto e negative sono anche le relazioni fatte dagli osservatori nerazzurri all’allora presidente dell’Inter, Ivanoe Fraizzoli. Ed invece Tardelli nel Como trova spazio e possibilità per far vedere che non è necessario essere dei culturisti per giocare a calcio: basta avere un fisico vero ed essere dei campioni.
L’Inter fa marcia indietro e torna alla carica con i dirigenti lariani, siamo nel 1975, arrivando ad offrire per il cartellino di Marco quasi un miliardo. Al Como rispondono con cortesia ma anche con decisione. «Ci spiace», affermano i dirigenti della squadra, «ma Tardelli è già bianconero».
Così Fraizzoli torna sconfitto a Milano con una sola magra consolazione: quella d’avere una foto accanto a Tardelli. Ma cos’è accaduto? Nulla o quasi, soltanto che la Juventus si è offerta di pagare in contanti laddove altri facevano solo promesse e dilazioni e non davano sufficienti garanzie di solvibilità. E stato, insomma, un affare tra business man e, soprattutto, è stato un grande colpo per la Juventus.
Alla Juve arriva un Tardelli ventenne che si è fatto le ossa vincendo una stagione di B con, appunto, il Como e che Carlo Parola impiega come terzino con notevole giudizio e saggezza. Marco non viene infatti gettato nella mischia, inizia dalla panchina crescendo fisicamente e psicologicamente col passare del tempo. Ma è un anno buio per la Juve che regala uno scudetto quasi vinto al Torino. Così a fine stagione se ne va Parola ed arriva Giovanni Trapattoni: un allenatore giovane pronto a far giocare una squadra di giovani. Per Tardelli, che sul finire della stagione precedente, ha già conosciuto la gioia della maglia azzurra, è la definitiva consacrazione in un ruolo, tra l’altro, diverso da quello precedente. Il “Trap”, infatti, imposta Marco da centrocampista avendone riconosciute le grandi qualità di dinamicità, visione di gioco e forza propulsiva. È un’annata eccezionale, quella. La Juve vince la Coppa Uefa e fa suo lo scudetto con il punteggio record di tutti i tempi, 51 punti. È una Juve tutta italiana, una Juve incredibile, forse la migliore del calcio di Trapattoni.
Quella Juve ha a centrocampo gente come Furino, Benetti e Tardelli, in difesa ci sono Scirea, Morini, Cuccureddu, Gentile ed a volte Antonio Cabrini, mentre dietro a tutti la sicurezza di Dino Zoff. Davanti giocano Causio, Boninsegna e Bettega. Insomma una Juve extra, che ha in Tardelli un leader giovane e grintoso. Anche in azzurro Marco diventa centrocampista presentandosi alla platea mondiale con classe ed una voglia di giocar bene e vincere, che lo fa notare e primeggiare tra tutti i giocatori di quel periodo. Ancora scudetti, campionati, partite internazionali, un mondiale in Argentina ed una cavalcata vincente in Spagna, come non ricordare quel suo goal nella finale con la Germania e l’urlo di gioia di Schizzo che era poi l’urlo di tutta Italia; insomma una carriera davvero unica e sorprendente.
Ed è nel 1985 che Tardelli lascia la Juventus. Il distacco sembra un poco brusco, ma è tipico di tutti i grandi amori che proprio perché tali non possono finire in modo banale. Marco se ne va all’Inter (dove peraltro non avrà grande fortuna) con un’aria a metà tra il soddisfatto e l’insoddisfatto. La cosa è tipica (basta consultare i manuali di psicologia) di chi è alla fine d’una grande avventura personale ed è diviso tra il rimpianto per il passato e la voglia di futuro.
Oggi Tardelli gioca in Svizzera, nel San Gallo. È rimasto a lungo senza contratto perché all’Inter ha rifiutato un’offerta economica magari valida ma che lo voleva inizialmente in panchina. E lui, da guerriero qual è, non voleva partire già con una penalizzazione.
La storia bianconera di Tardelli è quella che sin qui ho cercato di scrivere. Inutile fare commenti tecnici o cercare ancora di dire come giocava Tardelli e chi era Tardelli per la Juve e nella Juve: basta dire che era Tardelli. E basta così. Senza altre parole per un giocatore unico in una Juve unica, magari eguagliabile nei risultati ma non nelle caratteristiche umane e tecniche del nucleo che ne fu forza e propulsione vincente.

NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DELLOTTOBRE 2012
Sei mesi a Londra, tre a Dublino e il resto in Italia. Dal 2008 Marco Tardelli, vice di Giovanni Trapattoni Commissario Tecnico dell’Eire, vive così. Oddio, non molto diversamente da come ha sempre fatto, correndo da una parte dall’altra del campo, nei suoi quindici anni da calciatore. Londra è la sua base. La Federazione irlandese gli ha messo a disposizione un appartamento. Da lì si sposta per andare a vedere i suoi nazionali che giocano tutti o quasi in Premier League. Il Trap è rimasto a Milano, il lavoro sul campo lo fa lui. La fiducia è totale, come la sintonia. Dublino è il quartier generale della Nazionale. In Italia torna quando può. E Cernobbio il suo buen retro. La vista sul lago di Como è mozzafiato. Ci sistemiamo sul divano bianco nel salotto, con vista a favore dello stupendo panorama. Clima disteso c’è spazio anche per una scherzosa telefonata all’amico Collovati. Arriva Laura, la sua compagna. Sorriso gentile ci porta il caffè e una macedonia di pesche. Bene, si può partire con l’intervista amarcord. Le lancette vengono spostate indietro di trent’anni.
Estate 1982, nasce la super Juve dei sei Campioni del Mondo, più Bettega, Boniek e Platini: «E si parte subito in salita».
Ti riferisci alle polemiche sui reingaggi? «Provammo a sfidare Boniperti. Ma perdemmo il duello».
Ci puoi dare qualche dettaglio in più? «Semplice: eravamo Campioni del Mondo e ci sembrò giusto chiedere un adeguamento del contratto. A questo mettici che erano stati presi i due stranieri ai quali, sicuramente, era stato garantito un ingaggio superiore al nostro. Andammo dal presidente e provammo a trattare. Non che alla Juve si prendesse poco. Con i premi alla fine della stagione arrivavano dei bei soldi».
E Boniperti? «La prese malissimo, non era abituato a quel tipo di situazione. In particolare si arrabbiò con me, Gentile e Paolo Rossi. Non giocammo la prima amichevole stagionale e lui ci mise contro i tifosi. Questo non mi piacque per niente. E, ovviamente, ottenemmo molto, molto meno di quello che speravamo».
Meglio parlare del campo, allora. Nuova Juve spettacolare: ci sono Boniek e Platini. «Ma non c’era più Brady, un ragazzo stupendo, vittima di un regolamento che all’epoca non prevedeva più di due stranieri per squadra. Eravamo tutti molto legati a Liam. La sua partenza ci fece male, qualcuno pianse. In due anni con lui abbiamo vinto due campionati. Senza dimenticare il rigore di Catanzaro che ci consegnò il ventesimo scudetto. Lo tirò nonostante avesse già saputo che non sarebbe stato riconfermato».
C’è una foto che ti ritrae di spalle quando Brady è sul dischetto: «Ero in tensione. Ti immagini, in un paese come il nostro, cosa sarebbe successo se l’avesse sbagliato? Come minino avrebbero detto che l’aveva fatto apposta. Magico Liam, un grande professionista e un amico vero, che una volta mi fece quasi ubriacare».
Davvero? «Brady era arrivato da poco alla Juve. Io ero tra quelli che all’inizio lo aiutò un po’ nella nuova realtà. Una sera, dopo una partita di Coppa Italia, lo accompagnai in albergo. Mi invitò a bere con lui una birra. Lui beveva tranquillamente, io alla prima ero già steso per terra. Ma la cosa più buffa la combinò qualche tempo dopo con la macchina».
Che fece? «Abituato alla guida a destra, imbroccò le rotaie del tram. Fece un gran casino, alla fine chiamò Furino che era anche il suo assicuratore per farsi aiutare. Ripeto: un ragazzo speciale che fu costretto a lasciare la squadra per far posto a un altro».
Che si chiamava Michel Platini, però: «All’inizio vissi male questa cosa, soprattutto perché non conoscevo bene Michel. Da avversario lo avevo marcato un paio di volte e mi aveva messo in difficoltà, giocando a tutto campo. Sembrava grassottello, aveva i piedi alle “dieci e dieci”, eppure ti faceva impazzire. Come persona credevo fosse un tipo con la puzza sotto il naso, che ci avrebbe fatto pesare la sua grandeur».
Allora è vero che all’inizio Furino non gli passava il pallone! «Se è per questo Furino non lo passava mai a nessuno. (ride) È stata una battuta di Platini all’Avvocato Agnelli».
Come si è evoluto, allora, il tuo rapporto con Michel? «Intanto sul campo. Platini non ha mai saltato un allenamento. Mai. Era un esempio. Provava le punizioni milioni di volte. Un professionista serio, dotato di grande ironia e, soprattutto, di notevole intelligenza. In partita, poi, vedevi che era di un’altra categoria. Non ho mai visto nessuno giocare con la semplicità di Michel. Inventava quando c’era da inventare, anche se non era Maradona. Ma la cosa fantastica è che rendeva tutto semplice. Questa era la sua vera grandezza».
Siete diventati amici? «Strada facendo sì. Ho potuto apprezzare che non aveva nessun complesso di superiorità. Anche oggi che è il presidente dell’Uefa, se lo chiami, lui c’è».
Di Platini abbiamo detto. E di Boniek? «Boniek? Un polacco napoletano arrivato a Torino. Simpatico, furbo, imparò subito la lingua alla perfezione. Quando finiva un’azione, lui andava dalla parte opposta dove non c’era nessuno, per farsi trovare libero. E con i lanci al millimetro di Platini era una goduria».
Platini che lancia Boniek: lo schema per eccellenza della Juve 1982/83: «Non il solo. C’erano anche altre soluzioni: era una squadra molto offensiva con i vari Rossi, Boniek, Platini, Bettega, Cabrini, che faceva l’ala, e il sottoscritto che entrava. Scirea, poi, ci dava sempre l’uomo in più a centrocampo. Senza dimenticare Marocchino, intelligentissimo e molto dotato. In allenamento, però, una vera sciagura».
Ci hai mai litigato? «E come fai con persone così? È impossibile, come con Tacconi. Lui faceva delle dichiarazioni esplosive e noi nello spogliatoio gli dicevamo: “Ma ti rendi conto di quello che hai detto?”. “E perché? Cosa ho detto?” Con lui mi sono arrabbiato solo durante una partita».
Quando è successo? «Nel finale del derby del 18 novembre 1984, goal preso al 90’ da Serena, colpo di testa sul primo palo. Lui dette la colpa a me, io gli risposi per le rime. Ci fu polemica. La domenica dopo giocò Bodini e i giornali scrissero che ero stato io ad aver fatto fuori Tacconi. Al là di questo episodio, Tacconi e Marocchino sono stati due sani mattacchioni. Marocchino credo sia stato l’unico giocatore che la Juventus sia andata a prendere con il pullman sotto casa prima di una partita».
Perché in campo era utilissimo, giusto? «Tecnicamente era bravissimo. Quando c’era bisogno di tenere palla e di rifiatare, la davamo a lui. Era difficile togliergliela. Torno a dire: quella squadra era di grandissima qualità e votata all’attacco. Mi fanno ridere ancora oggi le critiche al difensivismo del Trap».
Paolo Rossi però usciva spesso prima del novantesimo: «Pablito faceva un lavoro enorme, muovendosi molto in orizzontale per favorire gli inserimenti da dietro. Era una giocata molto amata dal Trap e che provavamo spesso in allenamento».
Facevate sedute tattiche specifiche? «Parliamo di trent’anni fa. Si giocava tutti in maniera più semplice. Trapattoni, però, stava molto sul campo. Si provavano i corner, le punizioni e alcune soluzioni d’attacco».
All’inizio della stagione quella Juve, a detta di tutti, avrebbe vinto qualunque cosa: «E alla fine, invece, vincemmo solo la Coppa Italia».
Perché? «In campionato scontammo le fatiche di Spagna. Era già successo quattro anni prima, dopo i Mondiali d’Argentina. Eravamo stanchi. Platini aveva la pubalgia. Un guaio pesante che lo condizionò per tante domeniche. E poi c’era la Roma che andava forte quell’anno».
Ma che voi batteste due volte: «Quelle con la Roma erano partite tirate. C’era tantissima rivalità, più fuori che in campo, però. Il vero duello era tra Boniperti e Viola, che si scambiavano regali goliardici e battute velenose».
In campionato così così, ma in Coppa dei Campioni la Juve vola. Perché? «Volevamo tutti la Coppa, da Boniperti in giù. Non che ci fossimo stancati di vincere gli scudetti, anzi. Sappi che la cosa bella dello sport non è vincere, ma rivincere. L’Europa, le partite in notturna, certi stadi ti danno qualcosa in più. Diciamo che eravamo più motivati».
Il percorso d’avvicinamento alla finale fu senza sconfitte: «E incontrammo avversari fortissimi. Lo Standard Liegi era un osso duro. Andammo a vincere a Birmingham contro l’Aston Villa detentore della Coppa: 1-0 per noi, pareggio loro e goal vittoria di Boniek nel finale. Recentemente ho incontrato Cowans (autore dell’1-1, ndr). Gli ho chiesto se ricordava ancora quella gara: mi ha detto che è impossibile dimenticarla».
Pensi che quella sia stata la partita della svolta? «L’arrivo di Boniek e Platini ha agevolato e accelerato un cambio di mentalità che già era in atto. Prima si giocava in modo diverso a seconda se si fosse in casa o fuori. Una condizione mentale che ci ha spesso frenati. A Birmingham stavamo pareggiando 1-1, era la partita d’andata. Ci si poteva anche accontentare. E invece abbiamo puntato alla vittoria. Un approccio diverso, più moderno».
A proposito di Aston Villa. Nel ritorno a Torino c’è un tuo gran goal di testa in tuffo: «Era una mia specialità: inserimento da dietro, taglio sul primo palo, stacco e goal. Lì ci fu anche un blocco di Gentile degno di un giocatore di basket. Poi ci sbarazzammo dei vecchi compagni di Boniek, il Widzew Lódz, e conquistammo la finale, dieci anni dopo Belgrado».
Ed eccoci alla data fatidica: 25 maggio 1983, Atene. «E chi se la scorda! Una legnata frutto di tanti errori. Arrivammo allo stadio troppo tempo prima, per paura del traffico. Eravamo tranquilli ma svuotati. Ci davano tutti per vincenti, la partita era vista come una formalità. Non fummo in grado di interpretare alcuni segni premonitori, come quelli che si erano visti nell’ultima partita infrasettimanale. Un disastro».
Rimaneva il campo. Lì cosa è successo? «E successo che al loro goal siamo crollati. Quella sera ciascuno di noi ha fatto qualcosa in meno. L’Amburgo fu sottovalutato da tutti, anche da Boniperti. Ma loro in panchina avevano Happel, un grande allenatore».
Il Trap poteva fare qualcosa in più? «In quelle occasioni per un allenatore c’è solo una cosa da fare: il segno della croce».
Rimaneva la Coppa Italia per salvare la stagione: «Ci buttammo sull’ultimo obiettivo. A parte Zoff, che fu sostituito da Bodini, per il resto eravamo gli stessi di Atene. Volevamo vincere. Ricordo la determinazione durante le finali contro il Verona. In particolare Cabrini dette un paio di stecche a Farina, nostro compagno fino all’anno prima. Con quest’ultimo a chiedere ad Antonio: “Ma non eravamo amici?”».
A proposito di duelli, tu ne sai qualcosa avendo marcato grandi fuoriclasse: «Specie nei primi anni di carriera, l’avversario più forte toccava a me. Ho marcato Platini, Maradona, Channon, Keegan. Colpi dati, qualcuno preso, una stupida gomitata a Keegan, ma anche tanti anticipi, la mia vera forza».
Ti sei dimenticato un’ammonizione record dopo tre secondi contro Rivera: «Io feci un’entrata decisa, lui accentuò un po’. È vero che erano passati pochissimi secondi dal calcio d’inizio. Ma quello era uno schema. Qualche domenica prima, contro il Verona (6-2 per la Juve, ndr), su sei volte io rubai palla in quattro occasioni».
Qualcuno ricorda anche un rosso nella partita tra Argentina e Resto del Mondo, un’amichevole: «Non esistono amichevoli. Esistono partite. Di là c’era Maradona che mi fece dannare. Anche se l’unico giocatore che mi ha messo veramente sempre in bambola si chiama Nicola Ripa, ha giocato anche nel Foggia in A. Con lui non l’ho mai spuntata, fin dai primi campionati con il Pisa in Serie C».
Quando non arrivavi a pesare nemmeno sessanta chili? «Altri tempi (ride). Comunque è vero, ero magrissimo. Il motivo di molte bocciature ai provini. E successo con Pesaola per il Bologna, Maroso per il Varese e Radice per la Fiorentina. Al Pisa in pratica mi regalarono, visto che per il cartellino pagarono 70.000 lire».
Ma tu da piccolo volevi fare il calciatore? «A me piaceva il pallone. Il sogno si fermava a giocare nel Pisa, squadra della mia città. Mio padre si era trasferito lì dalla Garfagnana per consentire alla famiglia di vivere meglio. Eravamo quattro fratelli, io ero l’ultimo».
Com’è stata la tua infanzia? «Bellissima. Buona non lo so, perché non avevo una lira. A me toccavano tutti i recuperi dei fratelli più grandi. Non c‘erano motorini, la bicicletta era il collage di tanti pezzi trovati qua e là. Si giocava per strada, si stava all’aria aperta. D’estate ho sempre lavorato. Facevo il cameriere. Una volta mi trovai a servire Zoff che era al Ciocco in ritiro con il Napoli. Non ti dico l’emozione. Arrivato alla Juve, glielo dissi e lui mi ha preso in giro per una settimana».
Che rapporto avevi con Zoff? «Dino è una persona stupenda. Ti racconto questo: allenamento mattutino, io faccio qualche entrataccia, sono nervoso. Nel pomeriggio squilla il telefono di casa. E Dino che mi dice di aver chiamato per sapere come sto, dato che la mattina mi aveva visto piuttosto teso. Queste sono le cose che rimangono».
Da bambino per chi stravedevi? «Agli inizi giocavo come attaccante e avevo un debole per Gigi Riva. Pensa che per tre mesi calciai solo di sinistro per migliorare il piede e per assomigliare sempre di più a lui».
Avevi anche una squadra del cuore? «Era l’Inter, ma per esclusione. I mie tre fratelli tenevano per la Juve, il Milan e la Fiorentina».
Hai detto Inter e il pensiero vola all’estate 1975. Ci racconti come la Juve ti soffiò ai nerazzurri? «Venivo dalla promozione in A con il Como. La mia valutazione era di un miliardo circa, tantissimi soldi se si pensa che erano per un terzino di ventuno anni. L’Inter offre 750 milioni più Guida, giovane difensore centrale. Sembra tutto fatto, tanto che faccio anche delle foto con il presidente Fraizzoli».
E invece? «E invece la Juve dette 950 milioni cash al Como che mi chiamò e mi disse di andare a Torino».
Preoccupato della valutazione? «Un po’ sì. Per fortuna arrivai in una società seria, con persone eccezionali e compagni che mi aiutarono molto. Ricordo Altafini che si divertiva a prendere in giro i giornalisti: arrivava all’intervista con la gamba fasciata facendo finta di essere infortunato, per giustificare l’esclusione la domenica successiva. Poi Spinosi che mi ospitò per un po’ in casa sua. Tra l’altro, fu lui a chiamarmi Schizzo, perché ero magro e veloce. Anche se il ricordo più buffo riguarda Gaetano Scirea».
A te il microfono: «Alla fine di quella prima stagione, presi in affitto una casa a Tirrenia per ospitare al mare tutta la mia famiglia. Un giorno invitai anche Gaetano. Lui arriva e chiede informazioni su dove fosse la casa e chi ti becca? Il postino che è uno dei miei fratelli. E vabbè. Arriva, mangiamo e la sera sai che si fa? Si gioca a nascondino tra di noi. Ti rendi conto?»
Certo Scirea era di un altro pianeta: «Aveva una corazza. Non faceva trapelare nulla. Era amato e rispettato. Dovunque si andasse a giocare, per lui c’erano applausi. Per la Juve ha dato tutto, almeno un paio di volte ha giocato facendosi ricucire delle ferite ai piedi durante l’intervallo. Da noi compagni è stato sempre amato. Un po’ meno dal resto del mondo».
Torniamo al tuo primo anno in bianconero: credevi di sfondare subito? «Arrivai come terzino. In difesa quell’anno c’erano Gentile, Cuccureddu, Morini, Scirea e Spinosi. M’impegnai al massimo, misi su anche qualche chilo. E Parola mi dette fiducia. Una stagione da incorniciare, con l’unica grandissima amarezza dello scudetto perso all’ultima giornata contro il Torino. Eravamo cotti».
La svolta, comunque, era vicina. Di lì a poco Boniperti ingaggia Trapattoni: «Con il Trap ci fu un salto in avanti e per me un primo anno bellissimo, ma anche carico di paure».
A cosa ti riferisci? «Al cambio di ruolo. Sia chiaro: a me piaceva di più stare a centrocampo, lo avevo già fatto a Como. Il problema è che in Nazionale continuavo a giocare terzino. Avevo il timore di perdere il posto in Azzurro. Invece è andata bene, la doppia vita è durata poco, poi anche in Nazionale sono stato schierato a centrocampo».
Qual è il ricordo più bello di quella fantastica annata 1976/77? «L’entusiasmante notte di Bilbao. Un’emozione unica. Una sofferenza indicibile. All’andata avevamo giocato meglio. Feci goal io di testa, con carambola sulla spalla, ne venne fuori un pallonetto imparabile per Iribar che era il sosia di Zoff, incredibile. Al ritorno andammo subito in vantaggio, poi ci misero sotto. Lo stadio era una bolgia. Era una finale tra due squadre autarchiche: loro tutti baschi, noi tutti italiani».
Orgoglioso quanto? «Molto. Anche perché la nostra era veramente una squadra. C’era la voglia di stare insieme e questo si vedeva soprattutto durante la settimana, negli allenamenti. C’era uno spirito nazionalistico che ci dava qualcosa in più. Ci furono anche gesti particolari, come quello di Boninsegna che quella sera fece anche lo stopper. Quando alzammo la Coppa Uefa, sentii di aver fatto qualcosa di veramente bello e importante».
Paralleli con Spagna 1982? «Il Mondiale è stato un evento unico. Io non stavo bene. Fui attaccato pesantemente anche da Brera. Mi chiamava Gazzellino, ma poi mi bastonava duramente. Devo tutto a Bearzot».
Ne vogliamo parlare del Commissario Tecnico? «Un uomo onesto, di grandi valori. Una persona seria, di ampia cultura. Severo, apparentemente burbero. Sentiva la responsabilità del gruppo, voleva sapere tutto di noi, che si faceva, dove si andava. Esigeva lealtà e rispetto. Chi mancava, non veniva più richiamato. Successe quella volta in America con Mancini. La sera uscì con me e Gentile, ma non avrebbe dovuto. Il giorno dopo Bearzot non gliela fece passare. E addio Azzurro».
Cosa c’era di particolare tra te e Bearzot? «Direi cosa c’era di particolare tra il gruppo e Bearzot. Lui guardava alle persone. Del campionato gli interessava il giusto. Un altro allenatore non mi avrebbe portato in Spagna. Lui sì. Quando durante i primi allenamenti mi vide strafare, mi rimproverò. Non sai quanto servono questi gesti. Poi difendeva sempre il gruppo, più di una volta ha cacciato dagli spogliatoi dei dirigenti che si impicciavano di cose tecniche».
È stato lui a darti il soprannome Coyote? «Sì. Non dormivo di notte, mai, ma non per la tensione. Non ho sonno. Spesso chiudevo la lunga nottata a parlare con lui. Ma in Spagna non ero solo: c’erano anche Bruno Conti, Oriali e Selvaggi».
In finale hai segnato di sinistro, come il tuo idolo Gigi Riva: «Anche all’Argentina ho fatto goal di sinistro, dopo un grande contropiede. Con la Germania, invece, è stato il tiro della disperazione perché avevo sbagliato lo stop e la palla mi stava scivolando via».
E poi, l’urlo: «Felicità pura. Gioia. Punto. Lo avevo sempre fatto, anche in Nazionale contro l’Inghilterra, nel 1980. Era il mio modo di esultare. Una volta Boniperti mi rimproverò. Successe al mio primo anno alla Juve, dopo un goal al Verona. Andai a festeggiare sotto la tribuna. In campo arrivò di tutto».
Marco, siamo alle battute finali. Manca l’Heysel: «Una pagina tristissima. Io e Cabrini a un certo punto uscimmo tra i tifosi per tranquillizzarli. Sapevamo pochissimo. C’era arrivata voce di un morto. Vedemmo un babbo stressato con il figlio in braccio che voleva andare via. Quel giorno sono stati commessi errori da parte di tutti. Della polizia, dell’organizzazione sicuramente. È stato un errore giocare. È stato un errore esultare».
Quella dell’Heysel è la tua ultima partita con la Juve: «La decisione di andare via era stata già presa. Non volevo più giocare terzino com’era successo durante l’ultima stagione. Avevo ricevuto due offerte dalla Roma e dall’Inter. Scelsi quest’ultima. Lasciare la Juve mi è costato fatica. Venne pure Edoardo Agnelli a casa mia, ma ormai i giochi erano fatti. Era giusto cambiare».
Un’ultimissima cosa: perché sopra i calzettoni mettevi il cerotto? «Per nascondere una medaglietta con l’immagine della Madonna».
 
Modificato da Socrates

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