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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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quot capita tot sententiae

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C’è un rischio: agli ultrà

il potere di club occulti

di GIANCRISTIANO DESIDERIO (Corriere del Mezzogiorno - Napoli 09-10-2013)

Il pubblico è il dodicesimo giocatore in campo. Negli stadi italiani è diventato ormai qualcosa di più: l'arbitro delle partite e una sorta di società occulta capace di condizionare le società sportive. I casi dei cori razzisti lo confermano: le tifoserie più estreme, con le norme e sanzioni disciplinari, invece di essere depotenziate vedono aumentare la loro volontà di potenza. Il «caso Milan», con la squalifica del campo, fa discutere perché se è vero che la Federazione non ha fatto altro che adottare la norma Uefa, è anche vero che l'applicazione italiana della norma si presta non poco a diventare un boomerang. La disciplina è diventata una spada di Damocle sui campi di calcio ogni volta che c'è una partita particolarmente attesa o un derby. I cori auto-razzisti e auto-denigratori - e auto-stupidi - di una frangia di tifosi napoletani lo confermano. La filosofia di fondo della norma Uefa è la tutela della dignità della persona ma il risultato è opposto: sempre più la persona è esposta alle offese che possono diventare strumentali per danneggiare i club. Non sembra questa la strada giusta per contrastare il razzismo. Piuttosto, appare necessario intervenire nelle tifoserie per evitare che siano una società antisportiva dietro la società sportiva. Spesso, infatti, le tifoserie sono così potenti da riuscire a dettare la linea alle stesse società. Qui è istruttivo il «caso Evacuo » che richiama subito alla mente i fatti di Genova dello scorso campionato.

Il Genoa giocava con il Siena. Era sotto di quattro gol ed esplose la contestazione durissima degli ultras che richiamarono i giocatori e imposero loro una pesante umiliazione: «Toglietevi la maglia». Anche a Benevento è accaduta una cosa molto grave. I tifosi giallorossi, dopo aver visto che il loro attaccante Felice Evacuo a fine partita aveva salutato i suoi ex sostenitori della Nocerina, hanno scritto un delirante comunicato stampa intimando alla società calcistica del Benevento di rescindere in serata il contratto «senza attendere decisioni altrui» e hanno invitato - si fa per dire - il giocatore a «lasciare la città entro lo stesso termine». Insomma, gli ultras beneventani hanno condannato, con processo sommario, il loro attaccante all'ostracismo per il reato inesistente di lesa maestà della tifoseria giallorossa. La cosa più grave di questo comunicato non è nel delirio ma nella convinzione che possa e debba diventare la linea ufficiale del club giallorosso. Fortunatamente, non lo è diventata. Il presidente Vigorito, sia pure dopo un «primo tempo» di dubbi e incertezze, ha respinto l'idea di mandare via Evacuo: «Il giocatore resta». Tuttavia, ha aggiunto: «Domani ci sarà il video con le scuse». Proprio così. E il video, purtroppo, è arrivato e ci mostra l'infelice Evacuo disorientato e intimorito che dice, tra le altre cose: «Ho creato un problema ma non volevo mancare di rispetto ai tifosi». Ma Evacuo non ha creato alcun problema. Semmai è Benevento che ha un problema con la Curva Sud.

Tra l'ostracismo chiesto dai tifosi e il video di Evacuo che in sostanza chiede scusa c'è di mezzo la mediazione della società che non si piega al diktat degli ultras ma cerca una composizione. Forse, la strada era obbligata. Il prezzo da pagare, però, è molto alto: l'umiliazione del giocatore. Il quale non ha ricevuto attestati di stima e vicinanza ma è stato quasi lasciato solo nel più classico e incivile «tutti contro uno». Certo, la società ha recuperato in calcio d'angolo confermandogli stima e fiducia, i suoi compagni di squadra hanno fatto giustamente squadra con lui e anche una buona parte di tifosi ha scelto di tifare per Evacuo. Eppure, in qualche modo Evacuo è stato lasciato solo. Ma quand'è che va salvaguardata la dignità della persona se non nel momento in cui la persona rischia di essere schiacciata moralmente dal peso dei più e dei molti che sono forti del loro conformismo? Il giudizio sul gesto di Evacuo non è quello della opportunità o inopportunità bensì quello della legittimità e della libertà del calciatore che a fine partita ha voluto mostrare riconoscenza ai Molossi con un semplice saluto. E, come diceva Zavattini, vorrei vivere in un paese dove «buongiorno voglia davvero dire buongiorno». Chiedete scusa a Evacuo.

L’aggressività è preziosa

Eliminarla è un pericolo

di MASSIMO FINI (il Fatto Quotidiano 09-10-2013)

Questa storia dello stadio del Milan squalificato per un turno per “discriminazione territoriale” perché a Torino contro la Juve i tifosi rossoneri cantavano cori antinapoletani (“Noi non siamo napoletani”, embè?) non è solo grottesca, è pericolosa. In questa società che nella sua smania di politically correct tende a reprimere tutti gli istinti e anche i sentimenti, come l’odio (vedi tutti i reati liberticidi previsti dalla legge Mancino cui adesso si è aggiunta anche l’omofobia) a favore di un’astratta razionalità, ci si è dimenticati che l’aggressività fa parte della vitalità e che volerla eliminare del tutto ha gravi conseguenze. La prima è di svirilizzare un popolo. E questo è il motivo per cui ci troviamo tanto in difficoltà con gli immigrati soprattutto di origine slava, che la violenza ce l'hanno nel sangue (“Un po’ di violenza non fa mai mal/leggi un romanzo di Mickey Spillane” cantava uno slogan di anni un po’ meno codini). La seconda è che, a furia di reprimerla, l’aggressività poi esplode in forme mostruose, molto meno innocue di un coro da stadio. Tutte le culture che hanno preceduto la nostra lo sapevano e il loro sforzo è stato quello di canalizzare la violenza per tenerla entro la soglia di una ragionevole tollerabilità. I neri africani, maestri del genere prima che l’Occidente ne violentasse le culture, si erano inventati la guerra “finta” (chiamata fra i Bambara "rotana" per distinguerla dalla “diembi” la guerra vera). Fra gli Ashanti, tribù un tempo molto bellicosa, c’era una settimana in cui tutti potevano insultare a sangue chiunque, anche il re, senza conseguenze. In fondo anche il Carnevale europeo, finché è stato tale, aveva questa funzione. Fra i Greci il “capro espiatorio” che veniva sacrificato quando si creavano tensioni pericolose, aveva il significativo nome di pharmakos. In tempi moderni lo stadio aveva fra le sue funzioni, non marginali, quella di canalizzare e rendere sostanzialmente innocua l’aggressività che deve essere, entro certi limiti, tollerata, sugli spalti e in campo. Altrimenti si finisce con “i delitti delle villette a schiera” come li chiama Ceronetti. In Sampdoria-Torino ho visto appioppare otto ammonizioni per contrasti che un tempo non sarebbero stati nemmeno falli. Il campo è stato trasformato in una sorta di “tea party”. La Tv ha completato il tutto (sono stati quei morbosi segaioli di Sky a cogliere un coro che nessuno aveva sentito). Un calciatore che ha ricevuto un pestone non può nemmeno urlare una sacrosanta bestemmia, che l’arbitro non ha sentito o ha saggiamente ignorato che, zac, la moviola la traduce sul labiale. La Tv ha invaso il sacrario. Basta, via, raus, foera de ball. Ridateci il calcio di una volta. “Un po’ di violenza non fa mai mal”.

Buu e curve chiuse,

un male all’ultimo stadio

QUESTO CALCIO APPARE SEMPRE MENO CREDIBILE

E I PRIMI AD ESSERE PENALIZZATI SONO I VERI TIFOSI

di PIERO MEI (Il Messaggero 09-10-2013)

La soluzione all’inglese: ecco quello che i più prospettano per combattere l’età del malessere degli stadi italiani. Come se fosse facile costruire stadi come i loro e poi rispettare il pugno di ferro che li ha messi in ordine, rarefacendo i fenomeni di hooliganismo e spostandoli un po’ più in là dal campo di gioco, magari oltre confine. Senza voler cadere nella “discriminazione territoriale”, poi, l’Inghilterra è il Paese dove si disegna un campo di calcio nel giardino di Buckingham Palace, ci si fanno giocare le più antiche squadre e William ammonisce i giocatori: ”Attenti ai vetri delle finestre, altrimenti ve la vedrete con nonna”. Nonna è la Regina.

Qui, invece, chi fa qualsiasi cosa allo stadio probabilmente non dovrà vedersela con nessuno. Questa gragnuola di settori chiusi qua e là (Roma e Milano si distinguono) e lo stadio proibito per il prossimo Milan per i cori di “discriminazione territoriale” accende i riflettori sul disagio da spalti: i buonisti del benaltrismo dicono che i giovani vanno capiti e blà blà ed a questo partito s’è subito iscritto con paterna comprensione (il medico pietoso fa la piaga puzzolente) il tecnico del Milan, Allegri. Adriano Galliani ha invece sottolineato come questa situazione possa finire con il penalizzare mortalmente le società e i loro bilanci in rosso, esponendole al rischio di pochi ma cattivi tifosi incontrollabili (ma li cullarono da piccoli) che potrebbero svuotare gli stadi più ancora di quanto non abbia fatto la palinsestizzazione del calcio.

E, al di là di questo e dei dibattiti filologici su cosa sia la “discriminazione territoriale” a differenza di quella “razzista” e se in fondo una differenza ci sia, rimane la punizione che subiscono i tifosi veri, quelli che qualcuno chiama “clienti”, gli abbonati che hanno regolarmente pagato, a caro prezzo e anticipato, il posto non possono usufruire del loro diritto alla partita.

Ma è credibile un calcio che vive una storia come quella di Felice Evacuo? Il capitano della Salernitana a fine partita saluta ex compagni ed ex tifosi della Nocerina dove giocava la scorsa stagione e gli ultrà di oggi ne chiedono l’immediata rescissione del contratto e l’abbandono della città. E vengono accontentati perché niente è in grado di garantire Evacuo.

Come niente è in grado di garantire lo sport, il fair play, il rispetto delle regole e degli avversari. Però non buttiamola sul sociale, sul famoso ben altro, sulla scuola e così via: è, principalmente un problema di ordine pubblico e di comportamento degli addetti ai lavori. Osservare le regole dovrebbe essere la prima regola: ma non sarà Utopia, la città che non c’è? Sentiamo dire: i vicini di posto dovrebbero fare qualcosa. E se poi, quando si è sbandierato il codice etico questo viene fatto funzionare a orologeria, stiamo educando allo sport?

QUELLE NORME SONO DIVENTATE UN AUTOGOL

DIFFICILE DISTINGUERE TRA INSULTO E GOLIARDIA

di CLAUDIO PAGLIERI (IL SECOLO XIX 09-10-2013)

Trattandosi di calcio possiamo parlare di autogol. Le norme che puniscono i cori di discriminazione territoriale si ritorcono contro il “Palazzo”.

È un po’ come se alle elementari, per due bambini che disturbano, venisse chiusa prima la classe e poi la scuola stessa. Risultato? Anche a sei anni i bambini pestiferi arriverebbero presto alla conclusione che per non andare più a scuola basta continuare a fare casino.

A questa stessa conclusione sono arrivati ieri gli ultrà dell’Inter, che hanno invitato i “fratelli di curva” a intonare cori ovunque: chiudiamo tutte le scuole d’Italia, e vediamo cosa mangeranno bidelli e maestri rimasti senza alunni, anche quelli che avevano già pagato l’abbonamento.

I tifosi sono legati alla loro squadra del cuore, ma la volontà di non danneggiarla può essere messa da parte in nome di una “battaglia” più grande, da combattere tutti insieme: quella per uno stadio popolare, un luogo di aggregazione aperto a tutti, dove si abbia il diritto di urlare quello che si vuole e di esprimere il proprio pensiero, specialmente contro il “Potere” (Federcalcio, tv, governo, forze di polizia...). E soprattutto vogliono conservare il diritto di essere «goliardici, acidi e maleducati», come dicono i tifosi milanisti.

La norma che punisce i cori discriminatori è nata da una costola di quella europea antirazzismo. E ha finito per rasentare il ridicolo. Nell’Italia dei Comuni è difficile capire dove finisce lo sfottò e comincia la discriminazione. Come abbiamo già avuto occasione di scrivere, «Si sente puzza di pesce, c’avete il mare inquinato» può essere inteso come discriminante verso i tifosi genovesi. Ma personalmente ci fa solo sorridere. La sensibilità è nell’orecchio di chi ascolta, e si ha l’impressione che le orecchie di chi “monitora” i cori nei vari stadi non siano tutte tarate sulle stesse lunghezze d’onda. Con pericolose disparità di trattamento.

Tra l’altro, punire le società è abbastanza insensato. Come può Galliani impedire che cinquanta persone con sciarpe rossonere, in trasferta a Torino, intonino cori contro i napoletani che stanno giocando al San Paolo? Se il coro è davvero razzista, quelle persone hanno commesso un reato, come prevede la Legge Mancino, quindi si prendono e si perseguono. Visto che sono tutte facilmente identificabili, e che la responsabilità penale è personale. Altrimenti le si lasci intonare i loro cori (stupidi o divertenti) senza punire il resto degli spettatori.

C’è poi il rischio che il “giro di vite” sempre più stretto sfoci in prese di posizione semplicemente incostituzionali. Un esempio: ieri il vicequestore di Brescia ha annunciato di avere messo «sotto osservazione »la curva dei tifosi bresciani perché non hanno rispettato il minuto di silenzio per le vittime di Lampedusa, intonando invece cori in favore della squadra. «Al prossimo episodio proporrò che la curva venga chiusa», ha tuonato il vicequestore. Facendo tornare alla mente il precedente della ministro Melandri, che annunciò provvedimenti contro i tifosi che avevano voltato la schiena (sic) al campo in occasione di un altro minuto di silenzio. Ma a questo punto, se di maleducazione si tratta, proponiamo di introdurre un Dasme (divieto di accesso alla Santa messa) per chi applaude ai funerali.

TIFOSI NEL GOVERNO DI UNA SOCIETA’

IN GERMANIA E INGHILTERRA ACCADE

di GIANFRANCO TEOTINO (GaSport 09-10-2013)

Diritto di voto nell’assemblea generale della società con possibilità per ogni aderente di essere eletto nel comitato di gestione o in quello di sorveglianza del club. Diritto di veto, o almeno obbligo di parere consultivo, sulle decisioni che coinvolgono direttamente gli interessi della tifoseria (prezzo dei biglietti compreso, ma anche, ad esempio, lavori di ristrutturazione dello stadio). Coinvolgimento nella gestione di attività operative: predisposizione di pacchetti viaggio per le trasferte, rapporti con autorità locali e forze dell’ordine, sviluppo del merchandising e del proprio canale televisivo.

Sono alcune delle prerogative dell’Hsv Supporters club, l’associazione dei tifosi dell’Amburgo, non un normale centro di coordinamento, ma un vero e proprio organo del club. Certo, in Germania le società di calcio non sono S.P.A., ma semplici associazioni sportive. Però qualcosa di simile si può fare anche in Italia, lavorando sull’idea rilanciata dalla Lega Pro di inserire i tifosi nei consigli di amministrazione dei club. Anche senza arrivare all’azionariato popolare.

In Inghilterra, dove la struttura societaria delle società di calcio è come in Italia quella di società per azioni, numerosi club hanno già un esponente della tifoseria nell’organo di gestione. Addirittura vi sono posti riservati ai supporter nel board della Football Association, la locale Federcalcio, e nella Football Regulatory Authority, l’organo di controllo sul rispetto delle regole (composto, oltre che da rappresentanti del calcio professionistico e dilettantistico, anche da membri indipendenti). E recentemente è stato direttamente il Parlamento britannico a raccomandare una presenza numericamente più adeguata di tali rappresentanze.

Si può perciò pensare anche in Italia di aprire a contributi esterni gli organi di governo dei club, oggi totalmente appannaggio degli azionisti di controllo. Come imporlo a società private? Potrebbe essere la Federcalcio a indicare un modello di statuto per tutte le società affiliate che preveda la presenza nei consigli di gestione e/o di controllo di rappresentanti della tifoseria organizzata e magari, come Fiorentina ha già sperimentato, anche di rappresentanti del tessuto sociale ed economico del proprio territorio.

Fra l’altro, e qui ci si lega anche allo scottante dibattito di questi giorni su razzismo e chiusura degli stadi, le società che adottassero questo modello potrebbero a buon diritto evitare, o vedere di molto mitigate, le sanzioni legate alla responsabilità oggettiva.

calcio all’ultimo stadio

Pago, tifo e non insulto

Cara Figc io ti denuncio

Storia di un abbonato che non ha mai intonato un coro offensivo

Ho una tessera inutilizzabile: se mi penalizzate, almeno risarcitemi

di LORENZO MOTTOLA (Libero 09-10-2013)

Cara Figc, io ti denuncio. Voglio trascinarti in Tribunale perché mi stai portando via i soldi e non hai alcun diritto di farlo. Sono uno dei poveracci cui è stato proibito di assistere a Milan-Udinese. Uno dei pochi abbonati sopravvissuti all’austerity rossonera, al drammatico passaggio di consegne Nesta-Zapata e soprattutto all’introdu - zione di una serie di controlli per entrare allo stadio che neanche all’aeroporto di Tel Aviv l’undici settembre. Chi occupa le massime cariche del sistema-calcio, d’altra parte, da anni sembra impegnato a desertificare gli spalti, ma c’è anche chi non se ne è curato. Per abitudine, qualche pirla anche quest’anno ha versato quattrocento euro nelle casse della sua società. Eppure domenica prossima non si potrà vedere Balotelli dal vivo. Una volta tanto, non perché Marione ha inseguito un arbitro urlando minacce, ma perché hanno squalificato noi. È bastato che alcuni ragazzini - di cui non conosceremo mai il nome - gridassero «ţerrone» al prossimo per chiuderci fuori. Queste persone portavano una sciarpa del Milan, quindi pagheranno tutti i milanisti. Un po’ come se la polizia non riuscendo a trovare il colpevole di uno scippo in piazza reagisse arrestando tutto il quartiere. In questo caso, poi, per un’offesa tutt’altro che devastante.

Chi porta un cognome napoletano - come il sottoscritto - può anche capire che certi insulti («Napoli colera», etc.) possano dare molto fastidio, ma la verità è che negli stadi nessuno si è mai offeso per così poco. Anche ascoltare i tifosi partenopei entrare a San Siro al grido di «Milano in fiamme» non è stato edificante, ma inspiegabilmente in quel caso nessuno ha segnalato la cosa. A quanto pare, quella non è sembrata «discriminazione territoriale». Milano può bruciare. E ai suoi tifosi, intanto, tocca pagare. Ovviamente senza una spiegazione.

La cosa più assurda di tutta questa faccenda, infatti, è che nessuno in Lega abbia trovato un secondo per difendere questa norma dalla sacrosanta pioggia di critiche o per convincerci delle loro ragioni. Evidentemente, queste persone considerano chi va allo stadio un terrorista o nella migliore delle ipotesi un decerebrato: non val la pena trattare né discutere. Nessuno riesce a trovare cinque minuti per spiegarci quale tortuoso ragionamento è stato seguito per varare questa norma. Una regola sbagliata: imbarazzante nella sua costruzione e delirante nell’applicazione. Una legge che non sta funzionando.

Come Libero ha scritto subito dopo la sua approvazione, era evidente che si sarebbe trasformata presto in un boomerang, un’arma messa in mano agli ultrà per ricattare Galliani, Agnelli e soci. Per convincersene basta leggere il «comunicato» pubblicato ieri dalla curva del Milan: «Ora quando si gioca lo decidiamo noi». Purtroppo hanno ragione: gli basterà cantare un coro per mandare in fumo gli sforzi chi investe nel calcio. Per di più tutte le curve d’Italia si sono incredibilmente unite per far fronte comune contro la Lega. È per ottenere questo che mi impediscono di andare a vedere la partita?

FIGURACCIA FEDERALE

La causa del caos?

Un errore di pigrizia

Abete apre: «Ripensiamo le regole, le norme sono dell’Uefa»

Ma la colpa è del Palazzo: non ha adeguato il testo del codice

di FRANCESCO PERUGINI (Libero 09-10-2013)

«Quer pasticciaccio brutto de via Allegri». La polemica sulle norme anti razzismo si è già trasformata in un romanzo degno di Carlo Emilio Gadda. E mentre la Lega A attacca il Palazzo, la Federcalcio traballa. «È utile, opportuna e doverosa una riflessione», ammette con il consueto tempismo Giancarlo Abete, «ma la norma italiana ricalca una normativa proposta dalla Uefa».

Una mezza verità dietro la quale si celano le responsabilità della Figc, nel caos che ha portato alla chiusura del Meazza per Milan-Udinese. Tutta colpa di un semplice errore di “distrazione” nella ricezione del Codice di disciplina Uefa emanato a maggio. L’articolo 14 punisce infatti i comportamenti discriminatori per «colore della pelle, razza, religione, origine etnica (come nel caso della squalifica della curva biancoceleste dopo Lazio-Legia, ndr)». Durissime le pene ad applicazione progressiva: chiusura di un settore, dell’intero stadio, partita persa, penalizzazioni e persino divieto di fare mercato.

Il 4 giugno, però, la nuova norma arriva in Figc ed entra nell’articolo 11 del Codice di giustizia sportiva. Per pigrizia o comodità, però, il processo avviene a metà: cambiano le pene - prima c’erano solo delle multe da 20mila euro soggette alle attenuanti (dalla collaborazione alla dissociazione del resto dello stadio) - non i “reati”. Le penalizzazioni pesanti vengono così applicate a ogni condotta lesiva «per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine territoriale o etnica, ovvero propaganda ideologica vietata dalla legge», secondo il vecchio testo. Il razzismo finisce così nel calderone dell’inciviltà da stadio, come l’apologia di fascismo o - per assurdo - il maschilismo («motivi di sesso»). E il destino dei club finisce così nelle mani dei collaboratori della Procura federale: da due a quattro persone appostate sotto le curve per segnalare ogni coro. Anche quelli magari non avvertiti in tribuna o alla tv. «Con questa norma le squadre diventano ostaggio degli ultras», attacca Claudio Lotito, presidente della Lazio ma anche consigliere Figc, «quel che dice Platini non è il Vangelo ».

«La discriminazione territoriale è presente da tantissimo tempo», ricorda Abete, «è cambiata la gradualità delle norme ». Ed è proprio qui il secondo scivolone di via Allegri: il 5 agosto, infatti, in un eccesso di zelo vengono eliminate le attenuanti grazie alla modifica di un altro articolo (il 13). Addio discrezionalità: ogni coro si trasforma in una condanna automatica. Con alcuni paradossi. «Sardo di m...» può diventare un’offesa, ma lo storico e crudele «vi ruberemo il gregge» teoricamente no. Offendere i partenopei non si può, tranne se ci si limita al «noi non siamo napoletani». Così come cantare l’inno d’Italia durante il minuto di silenzio per i morti di Lampedusa allo Juventus Stadium non è un comportamento punibile: «Non si può sanzionare chi canta “Fratelli d’Italia”», fanno capire dalla Federazione. Così come nel Paese dei Comuni è impossibile tracciare il confine tra campanilismo becero e «discriminazione territoriale». Immaginate lo scandalo e i provvedimenti dopo uno di quei derby storici tra Udinese e Triestina con gli ululati reciproci «infoibati» e «terremotati».

Al solito pasticcio istituzionale, prova a rispondere Giovanni Malagò scaricando le responsabilità sul tifo pulito. Quello più penalizzato: «L’unica soluzione è che il settore dello stadio interessato faccia qualcosa nei confronti di chi penalizza la propria squadra», dice il presidente del Coni. Ma se lo stadio è vuoto come si fa?

IL RETROSCENA di GIULIO MOLA (Quotidiano Sportivo 09-10-2013)

E se la serrata la facesse Galliani?

NON C’È che dire. Ci siamo cacciati davvero in un bel guaio: chi giudica, chi viene punito e pure chi deve commentare rovistando tra i vari codici di diritto. Chiariamo subito: visto quanto accaduto in generale negli ultimi mesi, difficile non sposare la linea tanto cara all’Uefa e a Platini della “tolleranza zero” e dell’inasprimento delle pene. Detto questo non si può neppure chiedere o pretendere che lo stadio all’improvviso si trasformi in una sorta di Accademia della Crusca, soprattutto dopo che per decenni si è assistito, senza muover dito, alla commistione (diciamo pure di comodo) società-tifoserie organizzate. Eppure, l’improvvisa onda del giustizialismo, ha portato prima alle transenne delle curve ed ora agli stadi blindati. Uscire fuori dal solito pasticcio all’italiana è complicato, anche perché il concetto di “discriminazione territoriale” si presta a varie interpretazioni. Quel che serve, prima di tutto, è l’uniformità di giudizio da parte degli Ispettori della Lega, ovvero i collaboratori del giudice Tosel. Devono allinearsi tutti, e non tapparsi le orecchie a seconda delle circostanze. Perché solo così si possono tutelare i club e la parte sana del tifo, che è pure la stragrande maggioranza di chi frequenta lo stadio pagando in anticipo centinaia di euro per un abbonamento. E qui sta il punto: possibile che per colpa di qualche incivile debbano finire in castigo circa 23mila fedelissimi rossoneri? Siccome le norme non possono essere cambiate a stagione in corso, c’è da attendersi una serie di reazioni a catena. La prima: sui social network è già montata la protesta dei tifosi che si sentono danneggiati. In tanti hanno già consultato avvocati di fiducia e potrebbero tentare un’azione legale contro le società per farsi rimborsare il dovuto. Finora non è mai accaduto (qualcuno aveva minacciato di farlo dopo la cessione di Ibrahimovic e Thiago Silva appellandosi alla “pubblicità ingannevole” e fu prontamente rimborsato dal club) ma non è da escludersi una sorta di “class action” per creare un pericoloso precedente giurisprudenziale con la motivazione di aver subìto un danno economico non potendo assistere a delle partite per colpa altrui.

IN EFFETTI nelle attuali “condizioni per l’abbonamento” al Milan non c’è traccia di una clausola vigente fino a qualche anno fa che recitava: “1.4. La squalifica dello Stadio Meazza di San Siro, nonché l’obbligo di disputare partite a porte chiuse e/o eventuali riduzioni di capienza dell’impianto o chiusure di settori disposte per legge, regolamenti o da altro atto o provvedimento di autorità pubbliche o sportive (inclusi, tra queste, gli organi di giustizia sportiva), non generano diritto al rimborso neppure pro quota, salvo non derivino da responsabilità diretta dell’A.C. Milan, accertata con sentenza dell’A.G.O. passata in giudicato”. Ma attenzione pure ad una possibile conseguenza: un clamoroso ed eclatante gesto di Berlusconi e Galliani che, in caso di eventuale sconfitta a tavolino decisa dal giudice sportivo, potrebbero essere loro a chiudere lo stadio e rimborsare gli abbonati in segno di protesta. Sembra fantacalcio, ma con l’aria che tira c’è da aspettarsi di tutto.

PUNIZIONE O BUFFONATA?

Discriminazione territoriale ed etnica non coincidono

Si può fare meglio Nel parere dei massimi esperti

emergono i limiti vistosi di un provvedimento perfettibile

di FRANCESCA COZZI (Quotidiano Sportivo 09-10-2013)

MILAN-UDINESE a porte chiuse. La decisione del giudice sportivo Gianpaolo Tosel in seguito al “coro espressivo di discriminazione territoriale nei confronti dei sostenitori di altra società - come si legge nella delibera del 7 ottobre - intonato da qualche centinaio di sostenitori presenti allo Juventus Stadium, continua a far discutere. Cerchiamo quindi di far chiarezza sulla norma che punisce gli episodi di razzismo negli stadi (l’articolo 11) e sulla responsabilità delle società per i comportamenti tenuti dai propri sostenitori (articolo 14 del Codice di Giustizia Sportiva), chiedendo spiegazioni a due dei massimi esperti di diritto sportivo in Italia: l’avvocato Paco D’Onofrio, ordinario di Diritto Sportivo all’Università di Bologna, e Lucio Colantuoni, docente di “diritto sportivo e contratti sportivi” dell’Università degli Studi di Milano.

PACO D’ONOFRIO, analizzando la sentenza di Tosel, distingue due concetti: la “discriminazione territoriale” e il “razzismo” che, secondo il pensiero dell’avvocato, sono stati erroneamente fatti coincidere. «Penso che il problema sia a monte: e cioè se le esternazioni incriminate possano effettivamente essere definite razziste. Il razzismo è discriminazione etnica, non territoriale. Chi considera un’offesa la frase “Noi non siamo napoletani” sta facendo egli stesso della discriminazione, attribuire una connotazione negativa al termine “napoletano” è una forzatura. Se ipoteticamente in una partita contro una squadra svizzera, alcuni sostenitori italiani intonassero “Noi non siamo svizzeri” nessuno griderebbe allo scandalo. Esprimere un’identificazione territoriale non è razzismo.

Oltretutto questa decisione non è nella logica della norma stessa, è una legge nata per tutt’altro motivo. Il rigore repressivo esasperato adottato dalla giustizia sportiva sta facendo perdere il senso del confine stesso della norma. C’è il rischio concreto che i provvedimenti sfocino in demagogia».

Poi l’avvocato D’Onofrio analizza il concetto di responsabilità oggettiva che vede i club garanti del comportamento di giocatori e supporters: «La responsabilità oggettiva fu inserita per far sì che le società effettuassero un maggior controllo sui propri tesserati. In seguito fu estesa anche agli stessi tifosi. Ma qui va fatta una distinzione tra i match giocati in casa (dove c’è un’effettiva gestione degli ultras ad esempio con gli steward che possono sedare i tifosi più facinorosi) e le gare fuori casa dove la società non ha alcun controllo e dove quindi la responsabilità oggettiva perde la sua stessa connotazione. A mio parere, quindi, il Milan ha piene ragioni per far ricorso».

LUCIO COLANTUONI, invece, tiene a sottolineare inizialmente i limiti della legge in questione: «Per quanto riguarda la discriminazione territoriale la norma non dice nulla a riguardo, per cui tutto è nelle mani, per così dire, del giudice sportivo che sta facendo magistratura». Poi il docente va al di là di un’analisi giuridica della sentenza per evidenziare l’aspetto pedagogico della decisione di Tosel: «La linea è molto sottile. Cori come quelli di Milan-Napoli o Juventus-Milan si sentono da sempre negli stadi, per cui l’opinione pubblica può faticare ad accettarli come discriminatori. Questo però è il trend e l’inasprimento della norma parla chiaro. La Federazione vuole la linea dura e su questi episodi lo scopo è punire la società non i tifosi. Tuttavia tutti i sostenitori, anche quelli innocenti, ne risentono negativamente. E qui sta lo scopo: disincentivare i facinorosi con la collaborazione di parte della tifoseria». Anche il professor Colantuoni, infine, spiega il significato di responsabilità oggettiva: «Giuridicamente trattasi di responsabilità in “culpa in vigilando” (attribuire responsabilità per non aver controllato che il comportamento illecito non accadesse). Bisogna rivedere la norma inserendo limiti a tale responsabilità. Se la società potesse dimostrare di aver agito per limitare i cori razzisti (con steward, maggiori controlli...) allora non sarebbe responsabilità oggettiva, ma deve valere la prova contraria per essere scagionati o avere una riduzione della sanzione. Questo sarebbe un bene anche ai fini pedagogici della norma. Un eccesso di responsabilità oggettiva può portare a risultati contrari. Se non puoi far niente per scagionarti da episodi di razzismo allora non fai niente per evitarli».

Modificato da Ghost Dog

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Qatar 2022 / CONDIZIONI SHOCK PER I LAVORATORI STRANIERI

Morire di Mondiali, senza diritti

Il potere del calcio se ne infischia

di MICHELE GIORGIO (il manifesto 09-10-2013)

I morti quotidiani nei cantieri degli stadi in Qatar non lo turbano. Sepp Blatter non torna indietro. «I Campionati del Mondo del 2022 si giocheranno in Qatar, non c’è alcun dubbio», ha messo in chiaro nei giorni scorsi. L’unico «dubbio» il presidente della Federcalcio mondiale sembra averlo rispetto al clima: si giocherà d’estate con le temperature elevatissime che si registrano nel Golfo in quel periodo? O d’inverno e, in quel caso, in quale mese? Il Comitato esecutivo della Fifa, riunitosi a Zurigo il 4 ottobre, non l’ha deciso. Se ne riparlerà dopo i Mondiali in Brasile. Nel frattempo la mattanza e lo sfruttamento di lavoratori stranieri prosegue, per dotare il piccolo ma ricco regno qatariota delle infrastrutture necessarie per ospitare il torneo che sarà seguito da centinaia di milioni di persone in tutto il mondo.

L’ex emiro Hamad bin Khalifa Al Thani e il figlio Tamin al quale ha ceduto lo scettro qualche mese fa, hanno puntato molto del loro potere e della loro influenza per ottenere i primi Mondiali "arabi". Un’operazione di eccezionale portata, sportiva, politica ed economica che si aggiunge alla diplomazia spregiudicata (e talvolta spietata) che svolge questo staterello del Golfo ricco di gas che confina a sud con l’Arabia saudita. È in ricostruzione l’intero regno, a tempi di record. Nonostante questa corsa si stia dimostrando folle per la vita di chi spesso è costretto a lavorare in condizioni disumane.

Il quotidiano britannico Guardian qualche giorno fa ha riferito della morte di 44 morti lavoratori nepalesi - tra lo scorso 4 giugno e l’8 agosto – in gran parte per infarto (caldo insopportabile e ritmi insostenibili) o per gravi incidenti sul lavoro. L’ambasciata indiana a Doha ha quindi reso noto che ad agosto ci sono stati decessi quotidiani tra i suoi cittadini impiegati come manovali sui cantieri degli stadi. Lavoratori che, come tutti gli altri manovali stranieri presenti nel regno (quasi tutti dal sud-est asiatico), guadagnano meno di 200 dollari al mese per dieci ore di lavoro, senza tutele, e che rappresentano l’85% della popolazione (i cittadini qatarioti sono appena 300 mila). Il vice presidente del Comitato Esecutivo Fifa, il principe giordano Ali bin al-Hussein (fratello di re Abdallah), ha chiesto di controllare i lavori in corso per infrastrutture destinate al Mondiale in Qatar. «Non possiamo intervenire negli affari interni del Qatar ma la Coppa del Mondo non può essere innalzata sul sangue degli innocenti», ha protestato. Ma Blatter, timoroso di perdere la ricca torta di miliardi che mette sul tavolo la dinastia qatariota, ha scelto di ignorare morti e feriti e di andare avanti.

Miliardi su miliardi da spendere in nome del potere e del prestigio ai quali si contrappongono i magri salari dei lavoratori asiatici e persino i contratti dei calciatori stranieri ingaggiati dai club della Stars League, la Serie A del Qatar, e che non sempre sono rispettati. Riecheggia ancora la denuncia del nazionale marocchino Abdessalam Ouadoo che nei mesi scorsi ha raccontato la sua esperienza, lasciato senza stipendio dai proprietari del suo team. «In Qatar pensano che con i soldi si può comprare qualsiasi cosa: ville, automobili di lusso e anche gli esseri umani... Lì gli esseri umani non sono rispettati. I lavoratori non sono rispettati. Un Paese che non rispetta tutto ciò non può organizzare i Mondiali del 2022».

La Fifa finge di non vedere e sentire. Eppure la Confederazione sindacale internazionale aveva subito rivelato le violazioni aperte dei diritti dei lavoratori, dal salario alla sicurezza. Inoltre le "riforme" annunciate dall’emiro non sono mai avvenute. «Il governo del Qatar deve assicurare che i suoi stadi per la Coppa del Mondo non saranno costruiti sugli abusi e lo sfruttamento dei lavoratori stranieri», ha dichiarato qualche mese fa Sarah Leah Whitson, ex direttrice di Human Rights Watch in Medio Oriente, illustrando un rapporto sulle enormi commissioni che i lavoratori asiatici pagano per lavorare, sulla confisca dei passaporti, sul potere che il Paese accorda ai datori di lavoro e sulla proibizione per i migranti di aderire ai sindacati e scioperare.

L’emiro del Qatar sostiene di aver nominato un team internazionale di avvocati per indagare sulle morti. Ma pochi credono alle sue buone intenzioni, mentre l’opinione pubblica qatariota è furiosa con i media stranieri accusati di voler sabotare il Mondiale 2022.

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L’Europa unisce le forze

contro le partite truccate

Finanziati oltre 2 milioni e mezzo per un progetto approvato a Strasburgo

di MAURIZIO GALDI (GaSport 09-10-2013)

Contro le combine nel calcio, il riciclaggio e la criminalità organizzata scende in campo il Parlamento europeo. E’ Salvatore Iacolino, deputato del Partito popolare europeo, ex giocatore dell’Akragas, a farsene portavoce. E’ il primo firmatario di una risoluzione, approvata in Commissione e che sarà ratificata dall’aula il 23, che detta le linee guida. «Innanzitutto si devono armonizzare tutte le leggi che parlano di contrasto alla criminalità organizzata spiega . Poi il Parlamento spingerà sulla Commissione (il governo europeo presieduto da Barroso, ndr) affinché venga introdotto il reato di manipolazione sportiva».

Procura europea Iacolino è anche il parlamentare che ha fortemente voluto la creazione di una Procura europea. «È necessario che ci sia un coordinamento sovranazionale per aggredire il problema. Per questo abbiamo anche previsto un progetto pilota, che la Commissione bilancio ha deciso di finanziare con oltre due milioni e mezzo di euro, che prevede proprio la raccolta e le analisi delle informazioni che provengano da fonti qualificate.Maserve anche un lavoro di formazione e informazione sui tesserati e sui calciatori in particolare. Noi non siamo contro le scommesse, ma contro l’illegalità e il riciclaggio che fornisce terreno fertile alla criminalità. Penso sia necessario anche prevedere pene più severe». Se ne parlerà il 4 dicembre in un convegno a Bruxelles che vedrà la partecipazione anche di Federbet e leghe.

Le combine È interessante il confronto tra i dati forniti dall’Essa (un istituto che raccoglie dati per i bookmaker) che parla di 33 partite combinate in dieci anni e le 380 individuate in 18 mesi dall’Europol. E a queste ultime andrebbero aggiunte le partite extraeuropee e quelle segnalate dalle procure italiane di Bari, Cremona e Napoli. Quando si parla di fonti qualificate.

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L’APPROFONDIMENTO

Diritti tv, lotta di

denaro e potere

La tv della Lega, le richieste di Sky e di Mediaset:

ecco cosa c’è dietro i miliardi offerti da Infront

di STEFANO SALANDIN & STEFANO SCACCHI (TUTTOSPORT 09-10-2013)

Fatevene una ragione, cari tifosi (e lettori): commettereste un errore se pensaste di relegare la questione dei diritti tv nell’angolo degli argomenti “pesanti” per specialisti. Certo, non è una questione glamour come il gossip, elettrizzante come il mercato o esaltante come i gol, ma tutto quanto discende da lì, dai soldi che sono in grado di garantire ai club. Soprattutto a quelli italiani che da quei soldi dipendono quasi del tutto. E la Juventus, che pure ha per prima iniziato il percorso virtuoso dello “stadio di proprietà”, lo sa benissimo: nella lettera agli azionisti, Andrea Agnelli ha ribadito la necessità dell’equilibrio tra entrate e redistribuzione interna per evitare che cresca il già alto gap con la possibilità di spesa degli altri club europei. Alla Lega è stato chiesto di avviare un percorso di approfondimento invece di arrivare a un acritico rinnovo del contratto con Infront (l’attuale advisor incaricato di cedere i diritti) per il periodo che va dal 2015 al 2021. Lunedì è arrivata in Via Rosellini la nuova offerta di Infront (5,5 miliardi complessivi garantiti) al termine di una serie di audizioni che hanno offerto parecchi spunti ai presidenti, chiamati a fornire le controdeduzioni entro venerdì, soprattutto sul progetto di una tv della Lega. Ecco i temi più importanti.

ESCLUSIVE Sky sarà (molto probabilmente) accontentata con qualche forma di esclusiva. Possibile che si giochi su anticipi e posticipi, casa o trasferta: sarà trovata qualche formula che la accontenti, visto che è colei che versa la cifra maggiore. Potrebbe essere seguito il modello spagnolo: una partita in esclusiva a settimana. Mediaset, naturalmente, spinge perché queste esclusive siano limitate il più possibile. E fa notare che non si capisce il motivo per cui la Lega dovrebbe prendere troppo in considerazione questa richiesta, dal momento che Sky non è disposta a fare un’offerta che sopperisca all’eventuale mancanza dell’offerta Mediaset.

LA TV DELLA LEGA Infront ha molta fretta di sapere cosa decidono i club per il Canale della Lega e vuole una risposta entro fine ottobre. La fretta è dovuta: il canale può essere soprattutto un’arma di pressione negoziale nei confronti delle altre emittenti. Ma è molto probabile che l’advisor stia anche fiutando l’affare. Secondo uno studio Eurisko, infatti, sarebbero 5,6 milioni i potenziali abbonati a un nuovo canale sul calcio. Non a caso, lunedì in Lega i manager erano schierati al completo: da quelli di Bridgepoint a Philippe Blatter, ceo di Infront. Bridgepoint è un fondo azionario che ha già fatto operazioni di questo tipo in Nord America, si è offerto come garante dell’operazione dall’alto della potenza di chi controlla la cessione dei diritti di Motomondiale, Formula Uno e altre cosucce.

IL PRODOTTO Una cosa sulla quale tutti sono concordi è nel chiedere più collaborazione ai club. Infront e Sky spingono da anni per campi decenti e meno vuoti sugli spalti (fosse per Sky e Mediaset, anche meno scandali). Mediaset chiede maggiore collaborazione sui calendari (come Sky). Tutti chiedono maggiore disponibilità a interviste e a iniziative. Silva, l’advisor che (non senza polemiche) si occupa della vendita all’estero, lo ha ribadito nel suo intervento: per vendere meglio i diritti all’estero serve maggiore collaborazione per interviste e la realizzazione di prodotti con i campioni più famosi. Tutti, infine, chiedono squadre più competitive.

SOLITO CAOS Venerdì non si è parlato di commissioni di Infront per il rinnovo del contratto (un aspetto che era al centro delle critiche della Juventus e delle altre 7 sorelle della ben nota lettera). Anche perché, se si partisse con la tv della Lega, il tipo di business cambierebbe: da advisor, Infront diventerebbe quasi socio della Lega. Gli schieramenti sembrano ormai definiti: il fronte Mediaset-Infront-Milan da una parte, Juventus-Sky dall’altra. E nessuno vuole scoprirsi. Di fondo, poi, regna il solito caos della Lega dalle “mille anime”: De Laurentiis chiede 1,2 miliardi l’anno di minimo garantito e non cede sui diritti esteri. Molte provinciali, infine, vorrebbero chiudere subito con Infront di fronte a certi minimi garantiti che, per loro, sono manna dal cielo. La visione comune, sebbene si parli di tv, resta un miraggio: avete capito, cari tifosi, perché i diritti tv non possono essere lasciati in un cantuccio con indifferenza?

SOLO IN GERMANIA ANALOGIE CON LA SERIE A, NEGLI ALTRI PAESI PARTITE TRASMESSE DA PIU’ NETWORK

Monopolio in Bundesliga

di STEFANO SCACCHI (TUTTOSPORT 09-10-2013)

Tra i grandi campionati europei, quello italiano è l’unico nel quale quasi tutte le partite sono trasmesse in diretta su satellite e digitale (fanno eccezione solo le sfide tra le otto squadre i cui diritti non sono stati acquistati da Mediaset Premium). Negli altri Paesi i sistemi sono più variegati. In Premier League BSkyB ha i diritti per le 116 partite giocate la domenica pomeriggio e il lunedì sera; BT Vision di 38 gare tra quelle in programma sabato alle 12.45 e dieci incontri di cartello in programma negli infrasettimanali e nelle festività fuori dai week-end. Non vengono invece mai trasmesse in diretta le partite del sabato pomeriggio. In Spagna il canale Digital+ detiene i diritti sul satellite di otto gare per ogni giornata - lo stesso pacchetto di Gol Tv sul digitale - più un’esclusiva per ogni turno della Liga. Mentre Mediaset Espana può trasmettere in chiaro sul digitale il posticipo del lunedì sera. In Francia beIN Sport (Al Jazeera) e Canal+ si dividono il campo: otto partite a settimana per la prima emittente, due big-match a turno (sabato pomeriggio e domenica sera) per la seconda. In Germania Sky Germany ha acquistato tutta la Bundesliga. Il modello tedesco prevede anche la cessione di diritti per highlights su internet e telefonia mobile.

Modificato da Ghost Dog

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L’opinione

Uno sportivo vero che merita

il rispetto del suo pubblico

di MAURIZIO DE GIOVANNI (IL MATTINO 10-10-2013)

Che cosa pensereste di un uomo che costringe la fidanzata a odiare non solo il suo ex, ma anche tutti i suoi amici? Che pretende che, ogni volta che li incontra, li tratti da nemici giurati? Questa stessa intollerabile violenza morale, questa inaccettabile pretesa è imposta dai tifosi del Benevento (per fortuna non da tutti, ma solo da poche centinaia di esagitati) al bomber e capitano Felice Evacuo, reo dell’orribile reato di aver salutato i tifosi della Nocerina.

Va detto che prima Evacuo aveva guidato la propria squadra a salutare i tifosi locali e solo successivamente, avendo giocato a Nocera, i supporters in visita; e che nella squadra dell’agro milita tuttora il fratello.

La società si è espressa a conforto del proprio calciatore, ci mancherebbe; e lo stesso Evacuo ha addirittura pubblicato un videomessaggio, assicurando la piena fedeltà al progetto tecnico del Benevento e ai colori della compagine di cui fino a domenica è stato il capitano. Niente da fare. Gli irriducibili ultrà giallorossi hanno continuato nella contestazione sul campo d’allenamento, chiedendo a gran voce all’ex beniamino addirittura di lasciare immediatamente la città.

Storie di ordinaria follia, insomma. Ancora una volta il calcio diventa occasione per riesumare valori fortunatamente obsoleti dal medioevo, campanilismi anacronistici e autolesionisti, espressioni di una profonda inciviltà purtroppo radicate nell’intimo dei movimenti dell’ultratifo. Perché impedire a un calciatore un gesto di normale buona educazione come un semplice saluto a chi lo ha sostenuto in passato significa mettere in discussione i valori fondanti dello sport, e non possiamo accettare che il calcio, ad onta delle centinaia di milioni di euro che muove, cessi di essere uno sport.

Siamo piuttosto decisamente contrari a questo andazzo, che eleva le curve degli stadi a movimenti di pensiero (?), a gruppi culturali che fanno opinione e tendenza, magari influenzando la formazione dei più deboli tra i tanti giovanissimi che seguono questo meraviglioso gioco.

Evacuo, a nostro parere, ha fatto un solo grave errore: ha chiesto scusa. Come se si dovesse chiedere scusa per aver salutato, dopo averli battuti, gli avversari. Come se si dovesse chiedere scusa per essere stati sportivi, e per non aver dimenticato di aver militato altrove. Come se si dovesse chiedere scusa per non essere un mercenario, legato solo ai colori di chi ti paga, in grado di dimenticare con tanto di bacio alla nuova maglia il sudore, le lacrime e la gioia condivise fino a un momento prima. Il perfetto contrario di quanto accade nel rugby, dove il terzo tempo è un momento di affermazione dei migliori valori dello sport. Evacuo è un validissimo professionista, e i tifosi, quelli veri, del Benevento ne siano orgogliosi e si schierino al suo fianco, isolando gli idioti che di sportivo non hanno nulla. Ricordando che il vero tifo è a favore, non contro.

Tutto altamente condivisibile.

Però bisogna anche ammettere, cari giornalisti (campani), che di campanilismo becero e discriminazione "provinciale" stiamo ancora parlando (Benevento Vs Nocera Inferiore)

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Patto tra ultrà

si muove il Viminale

Con i gesti razzisti, le curve cercano la leadership

Misure per fermarli? I club devono riappropriarsi in toto

degli stadi e denunciare da persone offese i violenti

Abete attende proposte, chi tutela la sicurezza chiede posizioni nette alle società

Un altro passaggio cruciale: valutare di ridurre i settori ospiti. E mai curve senza gli steward

di FABIO MASSIMO SPLENDORE (CorSport 10-10-2013)

ROMA - Probabilmente il fenomeno - deprecabile e vile - non ha le dimensioni che verrebbe da accreditargli stando alle azioni e alle reazioni di questi giorni. Anzi, dati alla mano è così e al Viminale non smentiscono: il razzismo non è la nuova piaga degli stadi, i numeri in questo senso aiutano. Ma, ripetiamo, è fatto deprecabile e la posta in gioco che si porta dietro, il significato recondito, le possibili ricadute, sono pericolose. A cominciare da quel patto tra gli ultrà che a Napoli avevano fatto ventilare domenica, con qualche striscione “sospetto”, e che martedì la curva dell’Inter ha reso più chiaro: un coro in ogni stadio, così li svuotiamo tutti e si fa una domenica senza pubblico. Ecco svelato il piano e dietro al piano un obiettivo.

LA LEADERSHIP - Un vecchio obiettivo, al Viminale è noto da un decennio. La leadership, nazionale e anche internazionale, tra gli ultrà. Ricordate il Lazio-Roma “sospeso” dai tifosi? Era il 21 marzo 2004, si diffuse la voce di un bambino investito da un blindato fuori lo stadio e le curve unite chiesero e ottennero dalle squadre in campo, di fermare la gara. Furono necessari appelli pubblici per smentire e riprendere. Fu una interruzione storica che sanciva il riconoscimento di un ruolo guida alla tifoseria laziale e a quella romanista rispetto alle altre: quelle immagini andarono anche in giro per l’Europa. In questo caso, quello paventato di una domenica a stadi vuoti, la rilevanza europea sarebbe garantita, visto l’impegno che Fifa e Uefa stanno dando al loro impegno nel fenomeno e alla tolleranza zero.

LE LINEE - Il rischio di una strumentalizzazione così estremizzata dei club, da parte dei violenti era stato fotografato dal vice presidente operativo dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Roberto Massucci, anche direttore del Centro nazionale di informazione (Cnims): un mese fa aveva espresso il punto di vista del Viminale in modo chiaro al settimanale Panorama sulla norma contro il razzismo. «Siamo in una situazione molto delicata. E' vero ed è evidente anche per noi, ma in questa fase è necessario dare segnali chiari. Siamo preoccupati che possa innescarsi un meccanismo di debolezza dei club. Il rischio esiste. Alle società dico che oggi hanno opportunità di confronto con le forze dell'ordine che sono quotidiane e, se fossero ricattate, non hanno nemmeno bisogno di andare a fare una denuncia: esistono spazi di collaborazione così stretta...» .

Parole intellegibili: una norma ha solo una conseguenza, essere applicata. Poi c’è da ragionare sugli effetti che può avere l’applicazione della norma. E accompagnare questa norma. Rivederla? Questo non compete a chi si occupa di sicurezza. Per accompagnarla servono una serie di misure da condividere con il mondo del calcio. Abete ha detto «attendo proposte» , al Viminale aspettano un cenno, ma sono pronti. La proposta non può essere quella di abolire la parolina “territoriale” e togliere qualche steccato al mondo ultrà perché i club diventino meno ostaggio. Chi deve affrontare il problema occupandosi di sicurezza negli stadi probabilmente qualche idea ce l’ha. Ed è anche nota. Magari non tutte le idee sono facili da digerire. Riappropriarsi dello stadio in toto, evitando che i settori ospiti e le curve diventino talvolta terreno off limits per gli steward (e pare che succceda); ragionare sull’opportunità di rivedere i limiti di legge e abbassare quello dei settori ospiti, che a 10.000 posti possono diventare difficili da gestire. E per superare la responsabilità oggettiva? Diventare persone offese - questo il passaggio più delicato - costituirsi parte civile, richiedere danni a chi li ha causati, denunciare. In una parola far sentire alla parte sana, fidelizzata del tifo, di essere importante. Evitando che il mondo di pochi, quello della incultura di pochi, prevalga sulla cultura dei tanti appassionati che vanno allo stadio. Questa è la partita vera, Da giocare, in fretta, nelle sedi opportune.

Curve chiuse,

un pasticcio tutto italiano

LA LEGA CALCIO CHIEDE ALLA FGCI DI RIVEDERE LA

NORMA, CHE RISPONDE: “LO VUOLE L’UEFA”. IL MILAN

ANNUNCIA “OGNI RICORSO POSSIBILE” ALLA SQUALIFICA

TUTTI CONTRO Il ministro Delrio: “La discriminazione territoriale non è

punita come quella razziale dalla legge, lo prevede l’ordinamento sportivo”

di LUCA PISAPIA (il Fatto Quotidiano 10-10-2013)

Sembra una barzelletta, ma la questione della “discriminazione territoriale” ha travalicato gli spalti degli stadi ed è arrivata a interessare anche il governo, con il ministro dello Sport Graziano Del Rio che ne ha dovuto rispondere durante il question time alla Camera. L’intensa giornata di ieri è cominciata con Adriano Galliani che annunciava: “Faremo ricorso in tutte le sedi possibili”, contro la chiusura dello stadio per Milan-Udinese. Imbufalito come non mai, l’amministratore delegato milanista sa che il Milan corre il rischio di perdere 0-3 a tavolino la prossima partita se qualcuno, durante la gara riproponesse l’odiosa equazione tra Napoli e il colera, o simili. Con lui si è schierato il presidente della Lega Calcio Maurizio Beretta, che ha dichiarato di avere formalmente chiesto per iscritto alla Figc il cambiamento della norma sulla discriminazione territoriale, come aveva preannunciato lunedì. Aggiungendo poi: “La nostra posizione è molto chiara: bisogna avere un sistema sanzionatorio che vada contro le minoranze delle tifoserie che si macchiano di questi gesti e a favore della maggioranza di persone che condivide i valori dello sport; altrimenti si rischia di dare voce ai ricatti delle minoranze”.

A STRETTO giro di posta, è arrivata la risposta della Figc per bocca del presidente Giancarlo Abete: “La posizione della Figc è quella di sempre, del resto la regola in questione è in vigore dalla fine degli Anni 80. Adesso, però, abbiamo dovuto omologarci alle sanzioni Uefa (…) in Europa ci si comporta spesso in questo modo a livello sanzionatorio”. In realtà la questione della ricezione delle disposizioni Uefa non è esatta, si tratta piuttosto di un adattamento tutto italiano. L’articolo 14 del Codice di disciplina dell’Uefa, approvato dal Comitato esecutivo nel maggio del 2013 e dunque in vigore da questa stagione, parla di “motivi di colore della pelle, razza, religione, origine etnica”. Non è menzionata la discriminazione territoriale, tradotta invece in Italia nell’articolo 11 al comma 1 del Codice di Giustizia sportiva che ha recepito a suo modo le normative Uefa.

ARTICOLO 11 su cui si sono basate le squalifiche del giudice sportivo Tosel. La questione territoriale in Italia esiste, ed è punita secondo l’articolo 594 c.p. e dalla legge 133/93. Ma come ha detto alla Camera il ministro Del Rio: “La discriminazione territoriale non è punita come quella razziale dalla legge Mancino, ma è prevista in questi casi solo dall’ordinamento sportivo”. È stata quindi una decisione dei legislatori della Federcalcio di aggiungere la postilla territoriale. Mentre va fatto riferimento alla discriminazione etnica per la squalifica della Lazio nelle coppe europee per gli insulti nei confronti degli slavi. Questione giuridica a parte, la solidarietà trasversale di tutte le curve unite – dall’autoironia dei napoletani alle promesse di cori “discriminanti territorialmente” dalle curve interiste e juventine - dimostra ancora una volta lo scollamento tra club e tifosi. Quando i rapporti tra questi saranno basati sull’appartenenza, magari permettendo ai tifosi di fare parte del club attraverso l’azionariato popolare, e quando smetteranno invece di esserci relazioni clientelari basate sulla gestione di biglietti e altro, ognuno potrà dire la sua sui valori dello sport. Altrimenti si tratta solo di rapporti di affari tra club e tifosi.

Cori anti-Napoli

ricatto ultrà alle società

di FRANCESCO DE LUCA (IL MATTINO 10-10-2013)

Il presidente della Lega calcio, Beretta, ha scritto alla Federcalcio per chiedere ufficialmente di cambiare le norme che regolano le sanzioni per discriminazione territoriale dopo la chiusura dello stadio Meazza per Milan-Udinese. «Va rivisto il sistema sanzionatorio», ha sottolineato, probabilmente perché è stato colpito un club potente che si sente “vittima” dei tifosi che hanno cantato «Noi non siamo napoletani» a Torino. Non sono, per caso, gli stessi che durante Milan-Napoli hanno urlato di tutto ed esposto striscioni offensivi, bissando lo squallido show durante Milan-Samp, stavolta dall’esterno dello stadio perché la curva era stata chiusa dal giudice sportivo?

O gli stessi che sono stati ricevuti nel ritiro di Milanello dai giocatori e da Allegri, che arrivò a definire «sfottò» i cori razzisti contro i napoletani?

Non si capisce perché il presidente Beretta non abbia chiesto la revisione delle norme dopo Juve-Napoli del 20 ottobre 2012, ad esempio. Dalle tribune del magnifico Juventus Stadium scaricarono vergognosi insulti sui napoletani, mostrando alle comitive di tifosi azzurri sacchetti della spazzatura: la Juve venne punita con la multa di 7mila euro, non con la chiusura di una curva o dell’intero stadio. Il sistema sanzionatorio, come ha detto il presidente del Coni Giovanni Malagò, è questo e i club devono rispettare le regole. Cosa sarebbe accaduto se fosse stato chiuso lo stadio di Verona o Bergamo? Sarebbe stato così elevato il livello di indignazione?

C’è un’abitudine, tutta italiana, di lamentarsi per gli eccessi di una sanzione solo dopo averla subita. Perché non esaminare il faldone delle Noif (Norme organizzative interne federali) prima dell'inizio della stagione? È legittimo che il Milan ritenga eccessiva la chiusura dello stadio per il coro «Noi non siamo napoletani», ma davanti a quanti cori - a Milano o in altri impianti, quasi sempre contro Napoli e i napoletani - la Procura federale ha spesso chiuso occhi e orecchie, non facendo scattare dure sanzioni.

Il vero problema non è la revisione delle norme, perché è tutto migliorabile, ma è la reazione che hanno avuto i capi delle curve di tutta Italia: hanno espresso «solidarietà» ai milanisti, diventati amici anche quando non lo erano, e gli interisti sono arrivati a lanciare la provocazione di fare cori ed esporre striscioni per far chiudere tutti gli stadi. I gruppi delle curve del San Paolo hanno risposto con ironia, per ora, alle offese. L’urgenza del calcio italiano è evitare che i club finiscano sotto ricatto: un coro, uno striscione, un razzo e ti faccio chiudere lo stadio. Ci sono dirigenti che hanno avuto la forza di denunciare certe manovre, da Lotito a De Laurentiis, che sette anni fa si presentò alla Procura di Napoli dopo l’interruzione di una partita di serie B al San Paolo per lancio di petardi. I signori del pallone abbiano la forza e la maturità di guardare oltre il recinto del loro campo, aperto o chiuso che sia.

Il problema è serio

e va risolto ma con cervello

Lo stadio chiuso non è certo la risposta al

razzismo, anzi ne imita l’antidemocraticità

di MARIO BIANCHINI (IL ROMANISTA 10-10-2013)

Le parole buonsenso e numero quattro, per un singolare destino uniscono la sintassi e l’aritmetica, per produrre una impressionante sintesi di espressioni inflazionate. Esse ormai sembrano diventate il comodo paravento dietro sui si celebra una superba interpretazione dello storico gesto di Ponzio Pilato. Mi riferisco al bailamme sconcertante che in cui si dibattono i vertici dello sport, del calcio, dell’ordine pubblico, in cerca di una soluzione sul problema della chiusura degli stadi quando appaiono razzismo e violenza.

C’è chi difende a spada tratta le attuali norme disciplinari e altri che le osteggiano paventando il rischio che le società diventino ostaggio dei cori razzisti. In attesa che qualcuno trovi la formula magica, ecco apparire la solita parola "buonsenso", taumaturgica quanto provvisoria scappatoia che esige acqua abbondante per lavarsene le mani, accompagnata dall’altra trita constatazione dei "quattro" imbecilli che guastano lo spettacolo. La monotonia di quel numero quattro (non si capisce perché non debba essere due o più) finisce per diventare un alibi che non incanta più. E’ come disinfettare disinvoltamente un graffio, ignorando la piaga che esso nasconde.

Si invocano soluzioni che il calcio dovrebbe riuscire a trovare al suo interno. Ed è proprio qui che si rischia di cadere nello sconcerto totale. Soltanto perché ha tuonato Galliani, molti si sono affrettati a dargli ragione sull’incongruenza della norma riferita alla "discriminazione territoriale", tanto che Beretta con una lettera espressa, ha chiesto alla Federcalcio di rivedere a tamburo battente la disposizione.

Ma non fu proprio la Roma a pagarne le conseguenze, quando i "quattro imbecilli" insultarono Balotelli a S. Siro, provocando la chiusura della curva Sud? Ora ci si accorge che la discriminazione territoriale si scontra con il "consueto" buonsenso, solo perché ne sarebbe rimasto vittima sua maestà il Milan.

Basterebbe questo esempio ad etichettare il dilettantismo, chiamiamolo così per non alimentare polemiche su visioni di serie A e di serie B, che non rafforza certo le speranze delle persone per bene.

In tale ottica ci aspettiamo la prossima mossa: come viene in mente di chiudere i templi del calcio che risiedono a S. Siro o nello Juventus Stadium per colpa di "quattro imbecilli"?

E così, il vero problema di fondo ha tutta l’aria di smarrirsi fra diatribe provinciali, in una malinconica ristrettezza mentale, con la prospettiva di aspettare invano una seria soluzione.

Mentre il problema esiste ed è urgente porre rimedio.

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Il progetto Protocolli e perfino un difensore civico per garantire la trasparenza e prevenire le combine

Guerra alle scommesse:

la B guarda alla Germania

Sei paesi coinvolti Anche Gran Bretagna, Grecia,

Portogallo e Lituania in prima linea contro i corrotti

di GABRIELE MORONI (Quotidiano Sportivo 10-10-2013)

«Vogliamo essere i gendarmi nei punti di frontiera. Vogliamo che queste persone, se verrà accertata la loro responsabilità, non giochino più a calcio. A Cremona ci siamo costituiti come persone offese e stiamo cercando di fare lo stesso a Bari. Siamo convinti che per i soggetti coinvolti bisogna incidere anche sugli aspetti patrimoniali». Non si rifugia dietro la cortina di fumo delle perifrasi Andrea Abodi, presidente della Lega Serie B. Abodi parla alla presentazione a Milano del progetto europeo «Staying on side: how to stop match-fixing». Il progetto è promosso da Transparency International, network internazionale contro la corruzione, data di nascita Berlino 1994, presente in oltre 150 nazioni. Coinvolge sei paesi: Italia, Gran Bretagna, Germania, Grecia, Portogallo, Lituania. E’ sostenuto dalla Commissione Europea e in Italia dalla Lega Nazionale Professionisti Serie B.

Sono previste alcune mosse sullo scacchiere anticombine. La più interessante è quella di un protocollo di prevenzione articolato in un insieme di azioni, come illustrato da Paolo Bertaccini Bonoli, dello staff di Transparency. Un «whistle blowing» (alle lettera «soffiare nel fischietto»): la possibilità di denunciare combine con modalità che riducano il rischio di ritorsioni. Un filtro per evitare denunce strumentali. Un codice etico di autoregolamentazione. Fino alla possibile creazione di un difensore civico. E’ una figura che già esiste nella Bundesliga tedesca, esterna alle società di calcio ma collegato alla Deutsch Football Liga, garante dell’anonimato, chiamato a risolvere il dilemma etico nel quale può trovare un giocatore, spesso giovane, di fronte alla proposta illecita ricevuta.

Il progetto di Transparecy si articola in una serie di altri interventi. Indagine conoscitiva in collaborazione con il Master in Sport e intervento psicosociale della Cattolica di Milano sulle ragioni dei comportamenti non virtuosi. Tre seminari di formazione rivolti a giocatori, allenatori, dirigenti a Roma, Palermo e Brescia. Un forum internazionale in aprile a Vilnius, in Lituania.

«Abbiamo proposto - annuncia Damiano Tommasi, presidente dell’Associazione Italiana Calciatori - un osservatorio sui calciatori sotto tiro».

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Razzismo: Iuliano accusa un arbitro

Minacce di morte: stop di 6 mesi per l’ex Juve,

ora tecnico. «Negro del c... al mio giocatore»

Nicchi: «Se il direttore di gara ha torto pagherà, altrimenti saremo noi a querelare»

di ROBERTO PELUCCHI (GaSport 10-10-2013)

«Ha aggredito e minacciato di morte un arbitro, deve essere squalificato per sei mesi ». «Non è vero, ho soltanto difeso un mio giovane giocatore di colore dopo gli insulti razzisti del direttore di gara». Per raccontare questa storia – brutta da qualsiasi parte la si guardi – bisogna partire da qui, dalle due versioni contrapposte.

L’accusa Il primo protagonista è Mark Iuliano, 40 anni, ex difensore di Bologna, Juventus, Sampdoria e Nazionale, ora allenatore degli Allievi nazionali del Pavia. Nell’ultimo fine settimana la sua squadra ha perso 61 a Novara, ma il problema non è questo. Il problema è che secondo Lorenzo Maggioni, della sezione di Lecco, Iuliano alla fine della partita lo avrebbe insultato e minacciato «di morte ripetutamente, accusandolo di aver proferito frasi razziste nei confronti di un proprio giocatore – come si legge nel comunicato del giudice sportivo, che ha squalificato l’ex calciatore fino al 9 aprile, più 250 euro di ammenda –. Dopo che il direttore di gara usciva dal locale doccia e si recava nella parte dello spogliatoio ove si trovavano i suoi assistenti insieme ai dirigenti delle due società, (Iuliano) reiterava tali minacce e insulti e inoltre lo spingeva, facendolo arretrare di alcuni passi. Situazione che cessava solo a seguito dell’intervento dei dirigenti che lo allontanavano a fatica mentre continuava a minacciare l’arbitro».

La controffensiva Iuliano, che si è messo ad allenare nelle ultime due stagioni dopo aver concluso la carriera professionistica nel modo peggiore (due anni di squalifica per uso di cocaina quando giocava nel Ravenna), contesta la ricostruzione, e il Pavia ha annunciato ricorso: «Un mio giocatore di 16 anni, in lacrime, mi ha detto di essere andato a chiedere all’arbitro spiegazioni per alcune decisioni prese in campo e di essersi sentito rispondere “Vai via, negro del ċazzo”. Ho chiesto conto al direttore di gara, che prima ha negato tutto, poi davanti al ragazzo è rimasto zitto. A quel punto gli ho urlato che doveva vergognarsi e che lo avrei denunciato. I toni sono stati accesi, certo, perché i giocatori sono minorenni e per me sono come dei figli, nessuno si deve permettere di insultarli, soprattutto con frasi razziste. Lo farei altre mille volte. L’aggressione e le minacce di morte sono un’invenzione, anche perché la discussione è avvenuta davanti ai miei collaboratori e non soltanto ai guardalinee. Mi chiedo perché debba pagare io, che mi sono ribellato a questo fatto orribile, e non il direttore di gara che lo ha commesso».

Parla Nicchi Maggioni non è autorizzato a parlare. Parla invece Marcello Nicchi, il presidente dell’Associazione italiana arbitri: «Non sono un inquisitore, ci sono gli organi preposti che devono fare chiarezza. Io ho il dovere di credere alla versione messa a referto dall’arbitro. L’ho fatto contattare e smentisce categoricamente le frasi che gli vengono attribuite. Il giudice sportivo farà degli approfondimenti. Questo, però, è un argomento delicato e non ci si può giocare sopra. Se si dimostrerà che l’arbitro ha sbagliato, state sicuri che perderà la tessera. In caso contrario, saremo noi a querelare. Nel frattempo, che nessuno giochi con la dignità dell’arbitro su una materia seria come il razzismo ». Non resta che aspettare il supplemento di indagine, ma già così è una brutta storia.

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L’inchiesta Dopo i 18 mila euro chiesti alla cestista di 15 anni per essere libera di andare a canestro dove vuole

Appesi a un cartellino

Giovani e soldi per svincolarsi:

«Fenomeno radicato anche nel calcio»

La prassi Al compimento dei 15 anni i calciatori

sono tesserati e il cartellino rimane del club fino ai 25

La possibilità Per i giovani calciatori c’è la possibilità, in

accordo con la società, di stipulare un tesseramento annuale

di FABIO SPATERNA (Corriere della Sera - Bergamo 11-10-2013)

Il caso di Alessia, la quindicenne cestista che non riesce a svincolarsi per i 18 mila euro chiesti dalla società per il cartellino (la novità di ieri è che il Lussana ora è disposta a trattare sul prezzo), è solo un esempio di quanto avviene nello sport giovanile. Il calcio non è da meno.

Qui il tesserino che lega il giocatore alla società è firmato a 15 anni e lo vincola per dieci. I ragazzi in questa situazione, e che giocano ancora nel settore giovanile (categorie Allievi e Juniores), sono circa 2.200. E anche qui per svincolarsi le società chiedono denaro, anche se la legge non lo permette.

A microfoni spenti, più di un dirigente conferma come la pratica di vendere cartellini sia all'ordine del giorno. Lo fa anche Naldo Bonaldi, ex allenatore e grande conoscitore del panorama dilettantistico bergamasco: «Accade molto meno rispetto a qualche anno fa, ma il fenomeno esiste. A monte però ci sono delle regole che credo dovrebbero essere riviste, come la possibilità per i giovani di svincolarsi automaticamente a fine stagione, come accade a chi ha compiuto 25 anni. Di pari passo, per non svuotare completamente le casse dei club, sarebbe necessario da parte delle famiglie il versamento di un contributo annuo. Cosa che del resto accade in tutti gli altri sport». Una proposta che pare stia ventilando in Federazione.

L'abitudine della compravendita quindi esiste, nonostante sia tassativamente vietata dalle norme Figc. Quindici anni fa ci fu il caso di un dirigente di una società dell'Isola Bergamasca, che avanzò ai genitori di un suo tesserato una richiesta economica per il cartellino: il padre del giovane giocatore documentò la conversazione con un registratore nascosto, e il dirigente fu condannato a una lunga squalifica. «Se un calciatore si trova in questa situazione, lo invitiamo a denunciare il tutto — precisa Carlo Valenti, presidente provinciale Figc —; ci sono delle regole scritte e che vanno rispettate e noi siamo in prima linea per contrastare il fenomeno».

Quello che molti non sanno è che da circa 8 anni esiste una norma, nata proprio con l'obiettivo di facilitare il passaggio di un giovane ad un'altra società, che permette al calciatore di svincolarsi automaticamente a fine stagione. Anche prima dei 25 anni. In base all'articolo 108 della normativa Figc, infatti, al momento dell'accordo è possibile sottoscrivere una richiesta, controfirmata dalla società, che a luglio di fatto riconsegna il cartellino nelle mani del calciatore. Una procedura però poco diffusa proprio perché sono in tanti a ignorarne l'esistenza.

L'unico caso in cui la Figc permette a due squadre di scambiarsi denaro alla luce del sole è il cosiddetto «premio di preparazione»: «Alcune società, perlopiù piccole, concordano fino alla Juniores contratti con vincolo annuale: nel caso in cui il giocatore si trasferisca in un'altra squadra per loro scatta il premio di preparazione, una cifra variabile a seconda del salto di categoria del ragazzo, ma che generalmente non supera i mille euro», spiega Giuseppe Nervi, direttore sportivo del Verdello (Eccellenza).

In questo modo viene garantito un supporto economico alle società che hanno preferito sottoporre ai loro ragazzi esclusivamente contratti di durata annuale. Insomma, i modi di evitare la compravendita dei giocatori ci sono, ma senza la collaborazione di tutti il fenomeno è difficilmente arginabile.

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How winners at football can also be losers

by DANIELLE SHERIDAN (THE TIMES 11-10-2013)

It is perhaps good news for England as injuries to players tend to happen mostly when their team is ahead, according to research published yesterday.

The study also found that footballers were most at risk of injury five minutes after a goal had been scored or a yellow or red card had been shown.

The researchers, who worked with Fifa to study injuries during the last three World Cups, found that injuries during a football match were not random but followed a clear pattern. This pattern was dependent on how various events in the course of a match affected players’ emotional and physical states.

The research, published in the British Journal of Sports Medicine, found that injury frequency varied depending on whether a team was winning, losing or drawing.

Jaakko Ryynanen, of the University of Gothenburg, who is the co-author of the study, said: “This may be due in part to the fact that a losing team starts to play more aggressively.”

The study also found a direct link between the number of free kicks and the number of injuries per match and found the number of injuries per World Cup match increased if there was a longer break between matches.

Mr Ryynanen said one theory was that players lost their concentration after disruptive breaks in play, which led to the risk of injury.

“It sounds contradictory that the risk of injury increases with longer recovery times, but our theory is that this may be due to players losing their focus on match games after a break of several days,” he said. “Perhaps teams also play at a higher level of intensity after they have rested for a number of days and have more energy.”

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Rischia la vita in campo

La sua squadra perde a tavolino

E’ successo al 16enne Mattia Rinaldi in Trapani-Latina

categoria Allievi. Il giudice: 3-0 e meno 1 ai pontini

Il padre Alessandro vinse lo scudetto con la Roma: «Tornerà a giocare, ringrazio chi l’ha salvato...»

di FURIO ZARA (CorSport 11-10-2013)

In questa storia c’è un ragazzo di sedici anni, si chiama Mattia, gioca negli Allievi del Latina, domenica scorsa stava disputando una partita di calcio, dopo uno scontro fortuito con un avversario ha rischiato di morire. Mattia è vivo. Quello che leggerete qui vi farà pensare: non era così scontato. In questa storia c’è un medico, si chiama Antonino Tartanella, lavora per il Trapani. Domenica ha soccorso Mattia e gli ha salvato la vita. Mattia era steso a terra, privo di sensi, aveva le convulsioni e si contorceva, la lingua gli ostruiva la respirazione. I compagni attorno a lui piangevano. I dirigenti, tutti, erano disperati. Tartanella oggi dice: « E’ andata bene ». Perché le storie finiscano bene c’è spesso bisogno che le cose siano al loro posto. Domenica a Trapani c’era l’ambulanza. Era al suo posto. A bordocampo. Stava dove doveva stare. Questa è una storia di umanità e di fratellanza tra persone che non si conoscono; ma è anche una storia - spiace dirlo - di ottusità, una storia di giustizia calcistica che stona e che non fa giustizia, che dimostra a cosa si va incontro (all’assurdo) quando ci si consegna prigionieri alle regole, senza se e senza ma.

I FATTI - Campionato nazionale Allievi. Trapani-Latina, sono passati ventotto minuti. Di Mattia sapete: trauma cranico, perde i sensi, ospedale, Tac. Ecluse lesioni. Esclusa emorragia interna. Però, quanta paura. Ricoverato, Mattia uscirà soltanto dopo quattro giorni, mercoledì sera. E in campo, che sta succedendo? Niente. L’allenatore del Latina, Francesco Vallone, è in ospedale, a fianco del ragazzo. I compagni di squadra e gli avversari di Mattia sono sconvolti. Nessuno se la sente di continuare. C’è uno di loro tra la vita e la morte. L’arbitro sospende la partita. Bene. Anzi no. In questi giorni è arrivata la decisione del Giudice Sportivo che si basa, ovviamente, sul referto arbitrale. Leggiamo. « Al 30° minuto del primo tempo dirigenti e calciatori del Latina Calcio abbandonavano il terreno di giuoco rinunciando a proseguire la gara ». Certo: erano corsi tutti in ospedale, a sincerarsi delle condizioni di Mattia. Leggiamo: « Considerato che non sussistono “circostanze di carattere eccezionale” che, ai sensi dell’art. 17, comma 4, giustifichino l’adozione del provvedimento di effettuazione o ripetizione della gara...(il Giudice Sportivo, ndr) infligge alla Società U.S. Latina Calcio la punizione sportiva della perdita della gara con il risultato di 0-3 ed infligge un punto di penalizzazione in classifica ». Certo, come no, non sussitevano le « circostanze di carattere eccezionale », ed è proprio in questo passaggio - se ci pensate - che si nasconde (pure male) la rigidità di chi, per applicare le regole, dimentica che la vita fa spesso eccezione.

SI RICOMINCIA - Questa è una storia particolare, fatta di tanti cerchi che si intersecano. Mattia di cognome fa Rinaldi, è figlio di Alessandro, ex calciatore che si è ritirato dieci anni fa, Bologna, Atalanta e soprattutto Roma, con lo scudetto del 2000-01 come punto più alto della carriera. Racconta Rinaldi padre: « Mattia sta bene, ed è la cosa più importante. Ero a Roma, ho preso il primo aereo, la sera stavo a Trapani, in ospedale. Non potete immaginare il dramma che abbiamo vissuto. Pensate che una cosa simile era successa anche a me, all’età di Mattia, al Mondiale Under 17 a Montecatini, in un’Italia-Argentina. Il mio trauma cranico fu più lieve, Mattia ha rischiato la vita, voglio ringraziare le due società per l’efficienza. Mattia tornerà a giocare, sì, speriamo già dopo Natale, con calma. Magari con un caschetto protettivo come quello di Chivu o di Cech; è bravo, gioca in difesa, come me, chissà che non riesca anche lui a fare questo mestiere ».

E ORA? - Il Latina non presenterà ricorso. Si tiene la sconfitta a tavolino e il punto in meno in classifica. Gianluca Grande, responsabile del settore giovanile della società, è un uomo saggio: « Cosa vuole che ci importi. Mi basta che Mattia stia bene. Dico solo grazie al Trapani, per tutto quello che hanno fatto: l’hanno assistito con umanità, si sono anche preoccupati delle spese. E che serva da lezione: le ambulanze devono esserci sempre ». A Trapani sarebbero anche favorevoli alla ripetizione della partita. Si può? Sì, si potrebbe. La casistica dice che - nella stessa categoria Allievi in casi simili negli ultimi anni - è già successo due volte su tre: Livorno-Siena e Valenziana-Juventus, sospese per un infortunio grave di un ragazzo, sono state rigiocate. Lumezzane-Como invece no.

Mattia in questo momento è da nonno Franco, non ricorda niente di quello che è successo, si sente un leone e vorrebbe tornare subito a giocare. Il 22 ottobre è previsto l’ultimo esame alla testa. Verrà visitato dallo stesso specialista che l’anno scorso visitò il laziale Hernanes, vittima pure lui di un trauma cranico. Se compagni e dirigenti di Mattia avevano abbandonato il terreno di gioco per stargli vicino, tocca dire che un arbitro inflessibile fino alla stoltezza e un Giudice impermeabile alle eccezioni hanno abbandonato il buonsenso. Lo ritroveranno, e senza bisogno di un’ambulanza. In ogni caso consoliamoci: la vita vera gira al largo dai referti arbitrali.

T.s.o.

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Politici a caccia di Juve

di ALESSANDRO MONDO (LA STAMPA 11-10-2013)

E adesso? Come faranno gli assessori e i consiglieri di ogni livello che prima delle partite marciavano a ranghi compatti verso il Comune, eletto a bagarino istituzionale? Non ci sono più, i biglietti omaggio: ecco la ferale notizia. Fa fede la comunicazione inviata urbi et orbi dall’assessorato allo Sport: «Le comunichiamo che dalla prossima partita Juventus-Genoa il Comune non gestirà più i biglietti per gli amministratori della Provincia di Torino». E per i suoi medesimi. Bisognerà contattare direttamente la società bianconera, con gli impicci del caso: finita l’epoca in cui Juve e Toro giocavano all’Olimpico, di proprietà comunale; addio agli 80 biglietti a partita distribuiti a discrezione. Per il Toro le cose funzioneranno ancora così. Non per la Juventus, che ha lo stadio personalizzato e assegna 50 biglietti a «match»: peccato che la richiesta, anche dalla Regione, superi di tre-quattro volte la disponibilità. C’è chi, come il presidente della Provincia Saitta, ha risposto al Comune precisando «di non aver mai utilizzato le cariche elettive per essere agevolato in qualcosa». E molti altri che in questo momento staranno cercando sull’elenco telefonico il numero della Juve.

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la Repubblica 11-10-2013

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Il retroscena Errori e contraddizioni

Il sonno dei dirigenti

e il risveglio tardivo

di ALBERTO COSTA (CorSera 11-10-2013)

Il polverone che si è alzato per effetto della chiusura di San Siro a opera del giudice sportivo su imbeccata di uno 007 della Procura federale particolarmente zelante ha confermato un po’ di cose che già si sapevano di noi. Ad esempio che anche nel calcio non esistono le mezze misure: per anni nei nostri stadi abbiamo tollerato di tutto, anche le più vergognose espressioni di razzismo, e ora, per contro, si vorrebbero educare le masse a comportamenti da seminaristi attraverso la drastica chiusura dei luoghi di aggregazione, penalizzando in questo modo chi (ed è la stragrande maggioranza dei fruitori dello spettacolo calcistico) c’entra un accidente.

Ciò premesso le reazioni della repubblica del pallone all’indiscriminato giro di vite voluto dalla Federcalcio su input dell’Uefa erano facilmente prevedibili. Il calcio giocato in uno stadio vuoto è infatti destinato a estinguersi e l’istinto di sopravvivenza ha scatenato proteste che definire vibranti ci pare eufemistico.

Stupisce peraltro che tra gli «indignados» figuri pure chi ha contribuito alla messa a punto delle nuove norme repressive. Leggere per credere: alla riunione del Consiglio federale del 4 giugno scorso che ha dato il via libera alla «nuova normativa in materia di razzismo… con un forte e significativo inasprimento delle sanzioni…» erano infatti presenti Maurizio Beretta (presidente della Lega di serie A), Claudio Lotito (Lazio) e Antonino Pulvirenti (Catania) nella loro qualità di consiglieri federali. E, visto che il durissimo «apparato sanzionatorio» è stato approvato all’unanimità dal plenum del governo calcistico, significa che anche i nostri tre eroi hanno votato a favore. Oggi però Beretta tuona che «così è in discussione la regolarità del campionato», Lotito arringa le folle sottolineando che «la norma fa solo danni » e che «non è che Platini è diventato il Vangelo» e Pulvirenti si accoda dicendosi «d’accordo con Galliani». Domanda: che cosa stava facendo il terzetto di rappresentanti della serie A martedì 4 giugno mentre si discuteva di razzismo? Ascoltava «Chissà se stai dormendo», hit di Jovanotti?

STADI CHIUSI

LA MEMORIA CORTA DI PLATINI

di ANTONIO MAGLIE (CorSport 11-10-2013)

Nel viaggio al centro delle sue radici, Michel Platini, presidente dell’Uefa, ricevendo il Premio Liedholm ha finito per confondere un po’ il quadro della situazione a proposito di “tolleranze zero”, chiusure degli stadi e sanzioni. Rispondendo alle domande che gli sono state poste sul caldo tema Milan-Meazza, ha risposto che non tocca a lui ma ai carabinieri chiudere gli stadi. A dir il vero, non tocca nemmeno ai carabinieri che per farlo devono rispondere a un ordine e alla legge. Un principio che a lui, nipote del Piemonte, ma soprattutto figlio della patria di Montesquieu, la Francia, non dovrebbe sfuggire. Ma quel che più sorprende e confonde è l’interpretazione delle norme volute dallo stesso presidente dell’Uefa, trionfalmente varate sulla base di una “risoluzione sul razzismo” approvata dal congresso dell’Uefa all’unanimità il 23 maggio scorso.

Ha spiegato, il presidente, che lui non chiuderebbe gli stadi, non imporrebbe penalizzazioni, al massimo sprangherebbe i settori da cui provengono gli insulti. Peccato che le norme da lui volute dicano qualcosa di diverso e cioè che al primo atto illegale c’è la chiusura del settore, al secondo invece va messo sotto chiave l’intero impianto con l’aggiunta di una multa di cinquantamila euro. Forse è stato tradito dal clima conviviale, un clima che gli ha fatto smarrire improvvisamente la memoria. Perché se così non fosse, allora vuol dire che la Lazio dall’Uefa ha subito delle “ingiuste” sanzioni visto che pur senza mobilitare i carabinieri, l’Olimpico in Europa League ha chiuso per un paio di volte i suoi cancelli ed è “candidato” a chiuderli per una terza volta. Se il presidente dell’Uefa è contrario alla chiusura totale degli stadi come è potuto accadere che questo “destino” abbia colpito più volte una squadra italiana? Da calciatore, Platini era solito dire che anche Einstein intervistato tutti i giorni alla fine sarebbe apparso banale. In certi casi, un dignitoso silenzio consente figure migliori di una scoppiettante loquacità.

MA SALVIAMO GLI ULTRÀ

PER IL BENE DEL CALCIO

di ANGELO MELLONE (il Giornale 11-10-2013)

Capisco che nel multimilionario calcio contemporaneo, dominato dagli imperativi della tv, l’ambizione sia quella di trasformare gli spalti degli stadi in ricettacoli di educande, succursali del pubblico del tennis o del baseball. Ma a noi, quelli affezionati al calcio di una volta e alla militanza antica da stadio, deve essere almeno lasciata la possibilità di criticare il retroterra poliziesco di questa trasformazione. Ma davvero non potrò portare mio figlio in curva a tifare o andare in trasferta in quella mistica del viaggio che tanti uomini ha cresciuto assieme all’Interrail, in giro per le stazioni e gli stadi di mezza Italia. E a insultarsi, sì, perché gli insulti e i denti digrignati fanno parte della vita... Intendiamo, è ovvio che nessuno intende giustificare la violenza o le imbecillità para-razziste di ragazzotti che magari nella propria squadra hanno beniamini nigeriani o senegalesi. È però indubbio che l’intento primario delle misure draconiane e iper-repressive che anestetizzano gli stadi è quello di cancellare il quasi cinquantennale movimento ultras. Chiunque li frequenta sul serio sa che gli stadi sono un pezzo di mondo e dunque le esplosioni di intolleranza possono avvenire anche lì dentro, e sa anche che oggi andare a una partita, sia in casa sia in trasferta, è molto più sicuro rispetto a trenta o quarant’anni fa. Per intenderci, un episodio orribile come la morte di Vincenzo Paparelli oggi sarebbe impensabile. Ci si picchiava molto di più, negli anni Settanta od Ottanta, ci si insultava in modi molto più feroci tra pisani e livornesi, tra veronesi e reggini, tra romanisti e laziali, eppure nessuno chiedeva la chiusura degli stadi per discriminazione territoriale se, poniamo, gli abitanti di Lauria Nord apostrofano “terroni” quelli di Lauria Sud. Cancellare gli sfottò territoriali è un’operazione di ripulitura linguistico-culturale che cancella secoli di campanile italico, eliminare l’esuberanza giovanile dall’interno degli stadi, ancora, è estinguere una storia adolescenziale di “guerra per bande” che nelle nostre città nasce nel Medioevo. Oggi il calcio è opulento, i giocatori iconcine che rotolano a terra a beneficio delle inquadrature al primo fallo, e il pallone sta perdendo quella cornice popolare, verace, e perfino ribellistica che ha generato gli ultras, uno degli ultimi serbatoi di creatività e aggregazione giovanili ancora non compromesse con i circuiti commerciali. So di essere sfacciata minoranza, in questa difesa delle curve, ma tant’è, prego il dio Eupalla di salvare gli ultras, striscioni, sfottò, bandiere, per il bene del calcio.

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TUTTOSPORT 12-10-2013

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Tempo Scaduto di ALIGI PONTANI (Repubblica.it 11-10-2013)

L'arte del compromesso

Meglio decidere di non decidere

Gli stadi chiusi e spettrali non piacciono a nessuno, sono la morte del calcio. Dunque, evviva il Meazza riaperto. Ma se si archivia il sollievo e si guarda un po' a quello che è successo in questi giorni attorno alla vicenda di San Siro, il sorriso rischia di spegnersi presto. Non certo per l'esito della vicenda (fittiziamente ancora sospeso) che invece rallegra, quanto per il farsesco affannarsi del sistema che l'ha prodotto. Una lunga vigilia della sentenza di appello contro le porte chiuse, fatta di proclami, minacce, inviti al buon senso, confusione molto dolosa tra insulti, sfottò e razzismo (l'ormai mitologico "Giulietta è una z*****a" equiparato all'invocazione di nuove Heysel, colera e vulcani eruttanti), fino allo spettacolare gran finale, quando la parola è tornata alla giustizia sportiva.

In Italia, nello sport e a volte non solo, va spesso così: quando c'è da decidere qualcosa di duro, si decide di non decidere. Si rimanda, si impasta, si procastina, rimastica, annacqua, aspettando tempi migliori. La balbettante motivazione del verdetto della Corte federale si può infatti tradurre così: decidiamo di sospendere la decisione presa in attesa di una nuova decisione da prendere dopo la decisione che prenderà la federcalcio sulle nuove norme. Una fantastica esibizione di dialettica del compromesso, che d'altra parte da decenni segna l'orientamento della giustizia calcistica italiana, da Calciopoli in poi. E allora, avanti così, godiamoci San Siro pieno di gente. E magari abbassiamo un po' il volume dei microfoni, non si sa mai che quel disgraziato di Tosel debba poi ritrovarsi sul tavolo un altro rapporto di un altro ispettore di Palazzi, comunque non più sufficiente per condannare chicchessia. Quello di Torino, ci hanno spiegato i giudici, era troppo vicino alla curva dei milanisti, cioè ha sentito troppo. Ma non era meglio trovare un'altra formula per spiegarci che chiudere tutto uno stadio per l'idiozia di cento persone è demenziale?

il Giornale 12-10-2013

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«Ma la chiusura in stand-by

è assolutamente inedita»

L’esperto di diritto Chiacchio: «Ritenuto frettoloso il verdetto del giudice sportivo»

di DARIO SARNATARO (IL MATTINO 12-10-2013)

L’avvocato Eduardo Chiacchio, tra i principali esperti italiani di diritto sportivo, era ieri impegnato davanti alla Corte di giustizia federale per difendere la Juve Stabia.

Avvocato, come giudica la decisione della Corte?

«Secondo la valutazione dei giudici non c’è corrispondenza tra i referti dei due commissari federali, ovvero solo uno dei due ha riportato la presenza dei cori. Per questo motivo ha chiesto un supplemento di indagini. Fin qui tutto nella normalità: il fatto nuovo è la sospensione della pena, quasi mai un organo di giustizia federale la dispone».

È un precedente condizionato dalla richiesta della Lega Calcio di rivedere la norma sulla discriminazione territoriale?

«Se è necessario approfondire nel merito la questione è giusto che si faccia. Quello che è eccezionale è la sospensione, perché non accade mai che società sanzionate o calciatori squalificati tornino in campo in attesa di altri accertamenti».

A cinque mesi dalle disposizioni Uefa di “tolleranza zero sul razzismo” è giusto secondo lei rinviare la decisione?

«Platini ha ribadito che il concetto di territorialità appartiene solo all’Italia e non è previsto dall’Uefa, che condanna e censura ogni discriminazione. Lo stesso, sia chiaro, fa la Corte di giustizia federale che ha fatto intendere che in presenza di accertati cori discriminatori avrebbe confermato la chiusura del Meazza».

È curioso che la Corte sottolinei che un ispettore federale fosse a due metri dai presunti cori quando in primo grado Tosel non ne ha fatto cenno...

«Questo però incide sulla portata della sanzione, perché se un coro non viene percepito da tutto lo stadio si chiude solo un settore. Di fatto la Corte ha bollato come frettolosa la decisione di primo grado. In ogni caso per me sono assolutamente discriminatori i cori inneggianti al Vesuvio o al colera e in quanto tali vanno puniti anche chiudendo lo stadio».

Palazzo di Vetro di RUGGIERO PALOMBO (GaSport 12-10-2013)

La discriminazione territoriale

e il calcio burlone

È un calcio burlone. Dal ministro dello Sport Graziano Delrio all’ultimo degli ultrà, passando per tutti i notabili dentro e fuori le mura del Belpaese. «Problema limitato a poche centinaia di persone. Pugno duro verso quanti vanno allo stadio pensando di essere in una zona franca. Contestualmente non bisogna criminalizzare qualche coro ironico o di sbeffeggiamento, le due cose sono molto differenti» dice Delrio e lo fa alla Camera, al Senato, a Sky, insomma ovunque. Prendendo una cantonata sulle «poche centinaia» e guardandosi bene dal definire i confini del «coro ironico o di sbeffeggiamento ». Al calcio burlone, d’altra parte, sono molto affezionati quei goliardi degli ultrà secondo i quali tutti i cori esclusi quelli razzisti (ma siete proprio sicuri? e i «buuu» e le banane dove le mettiamo?) hanno diritto di cittadinanza negli stadi. No «all’impossibilità di essere goliardici, acidi e perfino maleducati », dicono nei loro comunicati e mai, anche qui, che ci sia qualcuno capace di mettere una cornice a questa maleducazione. Per cui tra sfottò e cori estremi, da vergognarsi solo a pensarli, non esiste confine.

È un burlone Michel Platini, cui va comunque dato atto di un’azione risoluta contro un fenomeno che sta appestando tutta l’Europa. Va a Cuccaro e nel ricordo di Liedholm, maestro di paradossi, racconta di non sapere cos’è la discriminazione territoriale. Dimenticando che appena una settimana prima proprio la sua Uefa, i cui paletti sono rigidissimi e includono pure le sconfitte a tavolino e le penalizzazioni, ha chiuso lo stadio della recidiva Lazio in Europa League causa due striscioni contro l’Uefa e uno («slavo puzzi di m...») dedicato a quelli del Legia Varsavia. Striscione che, se la lingua italiana non è un’opinione, rientra perfettamente nella casistica della discriminazione territoriale, costola di quella etnica.

Sono burloni quelli della Federazione, nessuno escluso, e dunque inclusi i consiglieri federali della Serie A che oggi strepitano o, è il caso di Lotito, fanno invasione di campo presso la Corte di Giustizia federale che ospita il ricorso del Milan: ad agosto, primi in Europa, il nuovo dettato Uefa lo hanno sottoscritto per intero ma senza porsi uno straccio di riflessione su come funzionano le cose in Italia e sui rischi che si corrono ad essere tanto rigidi. E infatti due mesi dopo, mercoledì o giovedì prossimo, dovranno correggere il tiro. E’ un burlone Beretta, che invia alla Federcalcio una lettera di ineccepibili rilievi, fin quando non arriva a suggerire la taumaturgica soluzione fatta di una «adesione dei club a specifici programmi di formazione e sensibilizzazione anti razzismo», quasi che fin qui anziché a via Rosellini la sede della Lega non sia stata su Marte. E lo è infine pure Malagò, che parte duro e puro e arriva invocando il buonsenso e la mediazione perché le norme sono troppo rigide.

A questo punto, ci piacerebbe che: 1. Qualcuno spiegasse a noi e agli ultrà dove finiscono gli sfottò e dove comincia la discriminazione territoriale. 2. Ci fosse certezza di uniformità di udito da parte dei collaboratori della Procura federale inviati sui campi, lasciando perdere gli arbitri che microfonati come sono hanno altro a cui pensare (e vedere). 3. Le norme sanzionatorie vengano stavolta ripensate cum grano salis. Sempre aspettando fiduciosi la riscrittura dei nuovi codici di giustizia sportiva. 4. Che la sospensiva della Corte di Giustizia federale che ha riaperto le porte di Milan-Udinese non sia raccontata come la vittoria delle curve. 5. Che gli ultrà, anziché ritenere gli stadi roba loro, accettassero il principio che dopotutto sono anche roba nostra.

CONTRAPPUNTI di CLAUDIO NEGRI (Quotidiano Sportivo 12-10-2013)

Chi non salta

don Abbondio... è... è... è ...

Un premio (una targa, una patente, un diploma, un attestato, una decorazione...) non si nega a nessuno, specie se letterario o giornalistico che non sia un Pulitzer o uno Strega. C’è chi, nella mediocrità scintillate delle stagnole, s’è financo fatto una bacheca di riconoscimenti da mostrare distrattamente al vicino o (peggio) al collega. Chi è senza peccato, senza alcun premio a fare polvere in salotto, alzi la prima pietra o, in alternativa, scagli la mano. Ora, l’Ambrogino d’Oro non è un premio qualsiasi e le candidature alla dorata e tonda certificazione di milanesità operosa sono di solito soppesate al bilancino. La proposta (stordente) della Lega Nord di insignire dell’Ambrogino le Curve calcistiche meneghine «perché rappresentano Milano in tutti gli stadi d’Italia ed Europa» ci pare l’ovvio ribaltone del concetto di benemerenza: d’accordo, c’è curva e curva anche nella stessa curva, ma la gente comune ha presente soprattutto lo stereotipo del curvaiolo incagliato e, come per il diavolo dell’iconografia medievale, si spaura a raffigurarlo coi peggiori attributi di male astuzie, mali consigli e ancor più male risoluzioni. Un’accolita moderna di bravi (nel senso di cattivi) manzoniani: «Chi non salta don Abbondio è... è...». In alcuni casi ostinati, ovvero disperati, non si è lontani dal vero ravvisando il diavolo con Daspo nell’umanità a volte disumanata delle domeniche da spalto.

Così bisognerebbe domandare al milanese altrettanto medio - ammesso e non concesso che ve ne siano ancora - o allo stesso don Abbondio se possa sentirsi rappresentato da un siffatto candidato all’Ambrogino.

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Macché progresso

un passo indietro

legittimare l’offesa

La paura Con gli stadi chiusi si voleva spaventare gli incivili ma poi ci siamo spaventati noi

di MARIO SCONCERTI (CorSera 13-10-2013)

Va benissimo che il Milan giochi con l’Udinese a stadio aperto. In tanti anni di argomenti simili sono sempre stato perché gli abbonamenti e i biglietti acquistati dalla gente non potessero essere cancellati dalle sciocchezze di poche decine di persone. Ma temo non ci si sia resi conto che in tre giorni di grande comunicazione abbiamo cancellato un piccolo caposaldo del diritto sportivo di frontiera. Una quindicina di anni fa furono messe queste ed altre regole di civiltà negli stadi sotto la stessa spinta dei media che invocavano ordine e normalità. Si cominciò dalle offese agli arbitri, assolutamente non ammesse, tanto che Collina a Genova, in una partita della Samp, sospese la gara per far togliere uno striscione contro Casarin, allora capo degli arbitri. Per anni abbiamo preteso cioè di eliminare le offese gravi dagli stadi. E la discriminazione territoriale è appunto questo, un’offesa. Ora siamo quasi orgogliosi di toglierla perché un grande club ci è cascato. Non è successo niente di più grave, siamo rimasti alle offese, ma ci siamo detti che le offese non sono arginabili. Quindi non punibili. È bene capire che stiamo compiendo molti passi indietro, non affermiamo il progresso. La giustizia che aveva portato per gradi a punizioni estreme era stata voluta con orgoglio da tutta l’opinione pubblica, la stessa che ora la definisce insopportabile. Quindi libertà di offese concesse in sole tre giorni, meno del tempo che ci volle per giudicare colpevole la Juventus nel 2006. Ma se la valutazione del peccato può essere quasi accettabile, offendersi in uno stadio rientra a quanto pare nei diritti dello spettacolo, è inaccettabile la motivazione della Federcalcio. Per fermare la giustizia di tutti i giorni chiede un approfondimento. Ma di cosa se non di quello che hanno già denunciato gli stessi commissari federali, i quali hanno scritto di tre trasgressioni, tre ondate di offese di milanisti a napoletani prima della partita con la Juve, al 6’ e al 43’ del secondo tempo. Ora, se un commissario ha sentito tre volte, il peccato si deve per forza presumere commesso. Tutto sta a come giudicarlo. Per la prima volta la Federcalcio cambia il metro di giudizio senza però sapere come. Per questo chiede approfondimenti. Ma a chi, se i testimoni sono già loro inviati, loro dipendenti. È bastata una dura battaglia del Milan lunga tre giorni per eliminare una regola voluta da tutti quindici anni fa, quando non c’era ancora razzismo e quando ci si offendeva lo si faceva ad uso interno, città contro città. Sapevamo tutto anche allora: il pericolo di mettere il calcio in mano ai coristi indisciplinati (e infatti personalmente mi dissociai), oltre che di tentare una battaglia cavalleresca contro avversari barbari. Ma era sempre stata questa la regola. Cos’è cambiato adesso oltre il fatto che a pagarne il prezzo più alto è stato il Milan? Eravamo tutti orgogliosi di punire con la fine dello spettacolo una partita piena di volgarità. Oggi si dice che è insostenibile. Può darsi sia giusto il traguardo ma è senz’altro sbagliata la corsa. A cosa rinunciamo rinunciando alla regola? A punire il razzismo interno, quello tra nord e sud. Non possiamo anzi che renderlo legittimo. Che conquista è? Volevamo spaventare gli incivili e ci siamo spaventati noi. Davvero è una vittoria? E sarebbe stata affrontata la diversità se non fosse stato il Milan al centro della guerra? Che dibattito è? E che fine faranno quelli che dovranno ammettere di aver sbagliato legge, resteranno ai loro posti? Non essendo stato deciso niente, ma solo rinviato per approfondimenti che già c’erano, cosa succederà nelle prossime domeniche, accetteremo gli insulti, la daremo vinta agli incivili? Non ho una soluzione giusta, ma nemmeno questa lo è. C’era una regola e c’erano commissari inviati per farla rispettare. Applicandola sono stati giudicati scandalosi i giudici. Arrendersi è una possibilità della battaglia, ma questa è molto di più. È una resa bugiarda perché non c’è da approfondire niente. La Federcalcio aveva ragione, ma ne aveva troppa. E non ha retto le conseguenze. Possibile le basti per rimanere in sella e cambiare come se nulla fosse una regola che è stata per anni buona per tutte le altre squadre?

Stadi e insulti

Una brutta storia

di ANDREA SATTA (l'Unità 13-10-2013)

UNA BRUTTA STORIA, BUONA PER LEGGERE QUESTO PAESE. VOGLIONO CHIUDERE GLI STADI. CORI RAZZISTI E CORI INGIURIOSI. Ancora una volta è il calcio il migliore dei decoder. Il calcio passione popolare, infanzia permanente, oppio dei popoli, religione dell’ultimo secolo. Il calcio identità.

Ma lo sappiamo, il calcio è basato sul denaro e se non sono i soldi dei tifosi che vanno allo stadio a tenere in piedi il mondo-pallone, è la loro presenza sugli spalti a rendere bella la partita in tv e, soprattutto i loro abbonamenti a consentire buoni ingaggi. Appena si esce dal fascio di luce delle prime della classe, però tutto cambia e solo qualche riccone arabo, acquistando a peso d’oro la rivelazione dell’anno rende possibile la sopravvivenza dei club di seconda schiera.

In questo clima da poveracci, i tifosi dibattono di economia e bilancio quanto di tattica e tecnica sul campo e il calciatore è sempre più una proiezione personale e il riscatto dalla frustrazione. Lui, il miliardario, è la mano di tutti, gli occhi, la rabbia, l’ amore, il cervello, il pisello e in fondo anche il piede di ognuno. Tutto è nato dal giornalaio e dalle figurine prima che fossero adesive, dalla rovesciata di Parola, tutta colpa della Panini di Modena e della sua tenda da indiano e di quei mille punti maledetti, mai raggiunti … «spazio per la cellina» e «altri titolari».

Colla e saliva, si sono tramutate in rabbia e insoddisfazione generalizzata. I tifosi rivendicano il diritto di offendere tutti quelli che non sono loro. In fondo si capisce facile che possono ricattare chiunque andando a cantare maledizioni e facendo squalificare chi vogliono.Ela soluzione non può essere chiudere gli stadi. Però, io, col mio Geo, in questi anni, qualche partita la sono andata a vedere e spesso mi sono vergognato. Perché Geo dovrebbe assistere a quello che nella vita cerco di evitargli (tafferugli, ingiurie, offese, volgarità varie)?

Come posso spiegare ad un bambino di otto anni che «Milano ɱerda» o «napoletani terroni» per restare alle ingiurie più lievi, in fondo, non è grave? Come posso dirgli che tutto quello che gli insegno a casa, dentro lo stadio, non vale? A me non piace essere perquisito prima di entrare in uno stadio, neppure voglio ricevere un timbretto sulla mano per prendere una boccata d’aria fuori da un locale, né mi fa bene vedere i poliziotti ai concerti.

Io una idea ce l’avrei: ri-popolare lo stadio, farlo tornare popolare, ridurre il costo dei biglietti con i bambini gratis e le donne a 5 euro e proporre la partita come un luogo per tutti e non solo per ricchi borghesi o politici a favore di telecamera o in curva accaniti irriducibili. Così ripopolato lo stadio perderebbe la sua extraterritorialità e vivrebbe i diritti e i doveri di ogni convivenza civile. O cosa ci resta del nostro amore?

DISCRIMINAZIONE TERRITORIALE?

GUAI A PENSARE DI ABOLIRLA ADESSO

di MAURO VALERI (GaSport 13-10-2013)

Sul tema del razzismo e della discriminazione territoriale, vorrei proporre alcune considerazioni. Anche se l’Osservatorio Razzismo e antirazzismo nel calcio, che dirigo, dal 2005 ha puntato l’attenzione soprattutto sul tema della discriminazione razziale ed etnica (perché era quella l’emergenza principale), non ha mai sottovalutato anche il tema della discriminazione territoriale (da quest’anno sottoposta ad uno specifico monitoraggio). Ciò che colpisce di più, nel dibattito attuale, è la facilità con cui ci si dimentica dei problemi del passato. I primi episodi di discriminazione territoriale, infatti, risalgono almeno al 1986, quando i tifosi del Verona esposero striscioni offensivi nei confronti dei napoletani. Non è vero che vennero ignorati, ma sollevarono indignazione e preoccupazione, tanto da portare ad inserire la discriminazione territoriale tra i comportamenti da condannare.

Per restare soltanto alla stagione 2012-13 è forse utile ricordare alcune società sanzionate: l’Atalanta ha pagato 18.000 euro per discriminazione territoriale in 3 partite (contro Lazio, Palermo e Napoli), il Milan 10.000 euro contro il Napoli, anche per la “goliardata” messa in atto dai numerosi suoi sostenitori, che, nel corso dell’intera gara, avevano indossato delle mascherine igieniche con l’intento spregiativo nei confronti della tifoseria partenopea; l’Inter 10.000 euro sempre contro il Napoli, la Juventus 10.000 euro in una partita contro l’Udinesemaper cori antinapoletani, e altri 20.000 contro la Lazio in una partita di Coppa Italia. A queste possiamo anche aggiungere il Padova, 6.000 euro contro lo Juve Stabia e il Mantova, 3.000 euro contro il Forlì. E’ una lista parziale, ma indicativa di quanto il tema sia attuale. Il problema oggi si pone per via dell’applicazione delle sanzioni più severe richieste dall’Uefa che, pur se non riguardavano esplicitamente la discriminazione territoriale, sono state recepite modificando l’articolo 11 del Codice di Giustizia Sportiva che, da sempre, fa riferimento ai vari tipi di discriminazione. Forse la Figc avrebbe dovuto spiegare meglio del perché anche la discriminazione territoriale deve essere punita severamente (e ne avrebbe tutti i presupposti). Di certo, l’idea di abrogarla è una sciocchezza, sia perché in altre occasioni è stata punita facendola rientrare nella discriminazione d’origine etnica (questa sì imposta dalla Uefa), sia perché andrebbe a ledere quella dignità umana sempre sanzionata dalla Uefa. Da questa vicenda se ne esce solo alzando il livello di cultura antirazzista, che dovrebbe avvenire anche con il supporto di chi da anni si occupa delle discriminazioni nel calcio. L’Uefa ha sempre richiesto che ogni società si dotasse di un addetto proprio su queste tematiche, ma ad oggi non mi risulta che ciò sia avvenuto. La severità, in questi ambiti, ha senso se accompagnata da maggiore chiarezza.

La distinzione tra sfottò e discriminazione non è impossibile: è sicuramente discriminazione quando si rimanda alla deumanizzazione oppure quando si fa riferimento denigratorio a tragedie che hanno causato morti ad una comunità territoriale (e qui l’elenco potrebbe essere piuttosto lungo). Per chiudere, vorrei ricordare un curioso episodio avvenuto nell’ottobre 2007. Un tifoso napoletano, presente alla partita Inter-Napoli, alla vista degli striscioni offensivi dei tifosi nerazzurri contro i napoletani, decide di lasciare lo stadio, ma anche di rivolgersi ad un giudice di pace perché si era sentito offeso personalmente. Nove mesi dopo, il giudice di pace ha riconosciuto che il tifoso aveva subito un «danno esistenziale», e che, per questo, l’Inter avrebbe dovuto pagargli un risarcimento di 1.500 euro. Caso estremo, ovviamente, ma se 50.000 tifosi dovessero rivolgersi al giudice di pace e gli fosse riconosciuto il «danno esistenziale», avremmo cifre particolarmente significative, pari a quelle di un settore chiuso. Insomma un «ricatto» dei tifosi «sani» a obbligare le società ad un maggiore impegno.

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Ciao a tutti....

Spero di rincontrarvi un giorno. .ciao

Crazeology candidato alla presidenza della nuova Inter

http://ju29ro.com/contro-informazione/5218-crazeology-candidato-alla-presidenza-della-nuova-inter.html

I commenti potete scriverli anche sul blog, se vi interessa. Oltre che qui, ovviamente.

Craze for President!

http://blog.ju29ro.com/2013/10/craze-for-president.html

.uhps.uhps.uhps

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Ciao a tutti....

Spero di rincontrarvi un giorno. .ciao

Crazeology candidato alla presidenza della nuova Inter

http://ju29ro.com/contro-informazione/5218-crazeology-candidato-alla-presidenza-della-nuova-inter.html

I commenti potete scriverli anche sul blog, se vi interessa. Oltre che qui, ovviamente.

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"...tra uno spione e un cellulero..."

(...sì, lo so, dovrebbe essere "e un cellulare", ma poi non faceva rima...e comunque, da quando c'è Telefonica il "cellulare" è diventato "cellulero"......olé..)

...ah, a proposito, se dopo essere stato eletto, per caso, ti servisse qualcuno a capo della honest-security... :siffle:

Modificato da alf24

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Interdiction de se moquer?

Dans les stades italiens, les chants et les banderoles s’en prenant aux origines régionales sont désormais sanctionnés.

Attachés aux rivalités locales, plusieurs groupes de supporters ont appelé les tribunes à enfreindre le règlement ce week-end.

DABO: «IL UTILISENT PARFOIS DES CHANTS QUI IRRITENT,

MAIS C’EST LEUR FAÇON DE DÉSTABILISER L’ADVERSAIRE»

par BILEL GHAZI (L'EQUIPE 19-10-2013)

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Vont-ils mettre leur menace à exécution? En début de semaine dernière, les membres de la Curva Nord de San Siro, celledes ultras de l’Inter Milan, soutenu par plusieurs autres groupes de tifosi dans le pays, ont appelé tous les supporters italiens à «enfreindre (ce week-end) la nouvelle règle contre la "discrimination territoriale’" afin d’aboutir à un dimanche de fermeture totale des stades». Sommées par l’UEFA de lutter de manière accrue contre les débordements racistes dans les tribunes, les autorités sportives italiennes appliquent, depuis août, une réglementation, aujourd’hui dénoncée par les supporters, mais aussi par des joueurs ou des dirigeants. Toute expression d’une «discrimination territoriale» envers les adversaires – insultes ou moqueries portant sur l’origine régionale –, entraîne désormais des sanctions (fermetures pour un ou plusieurs matches du virage d’où sont parties les insultes, match à huis clos, etc.). Ce soir, l’AC Milan devait recevoir l’Udinese, sans son public, après que des tifosi lombards ont entonné, pour la seconde fois en quelques semaines, des chants anti-napolitains. Si ce huis clos a été finalement suspendu, en appel, vendredi dernier, le débat agite bel et bien le foot italien.

Il est reproché à la Fédération italienne de mettre sur le même plan les discriminations raciales, qui ont valu la fermeture de trois curve cette saison (AS Rome, Lazio et Inter), et celles «territoriales», essentiellement perçues en Italie comme l’expression du «campanilismo». Ce qu’on peut traduire par «l’esprit de clocher» est une tradition forte dans un pays où l’unité nationale date de 1861 et où les rivalités territoriales restent très prononcées. «C’est ancré dans les mentalités italiennes, explique l’ancien milieu français Ousmane Dabo, passé notamment par l’Inter (1998-1999), Parme (2000-2001) et la Lazio (2003-2006 et 2008-2010). Dans les stades, on chambre beaucoup les autres régions, leurs habitants et leurs coutumes. C’est spécifique à l’Italie et c’est compliqué pour un étranger de le comprendre. Parfois, c’est marrant, d’autres fois déplacé. Mais encore une fois, c’est une question de mentalité.»

Le clivage «Nord-Sud» est un «classique» des tribunes italiennes, à l’image de ces chants «anti-napolitains» repris donc, entre autres, par les tifosi de l’AC Milan. Ce sont d’ailleurs les douteux «Naples Choléra» et «Vésuve, lave-les tous» chantés, une première fois, par des ultras rossoneri, qui avaient provoqué la fermeture de la Curva Sud de San Siro lors de la réception de la Sampdoria (1-0, le 28 septembre).

L’annonce de la suspension de l’enceinte lombarde, après un cas de récidive lors du déplacement à la Juventus (2-3, le 6 octobre), avait ensuite provoqué d’importants remous. Et pas seulement dans le milieu ultra. «L’UEFA a demandé de lutter contre les discriminations raciales et nous nous sommes inventé la discrimination territoriale, enrageait Adriano Galliani, l’administrateur délégué de l’AC Milan. Si je m’en prends à ceux de Porta Romana (un quartier de Milan), moi qui suit de Brera, est-ce de la discrimination territoriale ? Le racisme est grave, mais la discrimination territoriale, franchement, non.»

«Personne ne considère inutile la loi contre toute forme de racisme, précisaient dans un communiqué, des représentants de la Curva Sud de San Siro. Le problème est justement dans l’expression «toute forme»: on passe de la condamnation d’un phénomène, le racisme, que nous trouvons inacceptable, à l’impossibilité d’être potache, acide ou mêmemal éduqué.»

Face à ce qu’ils considèrent commeune attaque à la liberté d’expression des tifosi, le groupe ultra des «Fedayn» (Naples) avait même dévoilé une banderole où il était inscrit «Napoli choléra» lors de la réception de Livourne (4-0, le 6 octobre), avant de réclamer la fermeture de sa Curva! Les ultras de l’Inter ont, eux, rappelé qu’il y avait en Italie «des partis politiques fondés sur la discrimination territoriale (notamment la Ligue du Nord, qui réclame la partition de l’Italie)». «Les groupes ultras veulent également défendre leur indépendance et leur liberté d’expression, décrypte Ousmane Dabo. Ils utilisent parfois de chants qui irritent, mais cela ne doit pas être automatiquement interprété comme du racisme ou de la discrimination. Cela n’excuse pas tout, notamment les cris de singes et les chants antisémites qui sont horribles et doivent être sanctionnés, mais, pour le reste, c’est leur façon de déstabiliser l’adversaire, devivre le football et ses rivalités.» Face à la grogne, le président de la Fédération italienne, Giancarlo Abete, a annoncé mercredi la mise en place d’un nouveau barème de sanctions pour les «discriminations territoriales» (*). Mais il a tenu à rester ferme dans son discours: «Si les tifosi continuent, les organes de la justice sportive pourront fermer les virages pour deux ou dix semaines, il n’y pas de limite. Ils peuvent rester toute l’année à la maison, s’ils ont l’intention de faire de ces tribunes des endroits qui communiquent des valeurs négatives.»

La réponse des ultras est donc attendue ce week-end. Hier soir, lors du premier match de la 8e journée, AS Rome-Naples (2-0, voir par ailleurs), des chants anti-napolitains ont été entendus et le speaker du stade a rappelé à l’odre les tifosi romains...

(*) La première sanction est prononcée avec un sursis, qui court sur un an et qui est révoqué en cas de récidive. Seul le secteur concerné est fermé et peut l’être pour plusieurs rencontres. Pour les discriminations raciales, les sanctions restent les mêmes et vont, de manière graduelle, de la fermeture du secteur au retrait de points en passant par le huis clos.

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Lega Corsa ai diritti tv

Infront non è più sola,

la Lega ha 5 proposte

Temibile In gara anche il colosso Wasserman che scompagina i piani

di MASSIMO SIDERI (CorSera 19-10-2013)

Per essere un campionato di calcio che poche settimane fa appariva negletto — è come vendere delle Bic laddove la Premier League è la Mont Blanc, aveva sentenziato due settimane fa Marco Giordani, amministratore delegato di Rti-Mediaset — non c’è male: sono ben cinque le manifestazioni di interesse giunte alla Lega Calcio per gestire i diritti tv della Serie A nel triennio che partirà nella stagione 2015-2016. Oltre a quella di Infront e alla proposta giunta da Img — di cui il Corriere aveva già dato conto — se ne sono aggiunte nelle ultime ore ben altre tre: Wasserman (advisor della Premier), Kpmg e PricewaterhouseCoopers. In poche parole, i giganti del settore. La pressione per partecipare al mercato da un miliardo l’anno non appare solo di facciata. Ioris Francini, executive vicepresident di Img Media, ha riscritto alla Lega per avere spiegazioni sulla mancata risposta avuta sulla prima manifestazione. Kpmg ha scritto il 10 ottobre per proporsi senza troppi giri di parole e carambole come sostituto di Marco Bogarelli e dei servizi di Infront. Più prudente, o perlomeno più diplomatica, appare la lettera di Pwc che si offre di presentare le proprie attività al presidente di Lega, Maurizio Beretta, viste «le profonde riflessioni in corso in relazione alla selezione di un advisor per la gestione dei diritti tv». Alla luce dell’interesse di così tanti competitor qualificati si capisce la fretta della Infront, che in una lettera di giovedì propone la data per il prossimo incontro (guardacaso dopodomani). Richiesta prontamente accolta da Beretta che ha convocato per le 15 di lunedì un incontro «in vista dell’assemblea del 28 ottobre». Anche qui, data suggerita da Mr Bogarelli nella sua lettera.

Formiche.net 20-10-2013

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Anche Vulpis non scherza nella battaglia dei diritti tv del calcio:

e' chiaramente vincolato con Infront e la questione meriterebbe un approfondimento

(NON una denuncia/querela come usano fare altri a corto di risposte)

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Playing the game

to get away in Brazil

Soccer adapts to change in Brazil’s cities,

but it still offers an escape

‘‘There are about 50 players playing in these games.

They would be drug dealers if they weren’t.’’

by SAM BORDEN, TAYLOR BARNES & JILL LANGLOIS (International New York Times 19-10-2013)

In Brazil, the ball is always moving. It moves on grass and on sand, on concrete and on cobblestone. Sometimes, during the rainy season, it even moves on water.

Organized soccer, the kind the Brazilian national team will play next summer in the World Cup, is known as futebol. But pickup games, the ones played during the day and at night, in the cities and in the countryside, are called pelada, a term Brazilian men also use to refer to a naked woman. One evening last month, a hotel doorman waiting to play at a game in the Flamengo neighborhood explained the odd symmetry this way: ‘‘Football and women,’’ he said, ‘‘are the only two things we really love.’’

The doorman was idling beside an asphalt court. The court was lighted by three dim streetlamps and the glint of the moon. It was nearly 11 p.m. and, in the distance, the lights of the neighborhoods of Glória and Catete twinkled. Teams were divided by shirts and skins. Games lasted until one team scored a goal or for 10 minutes, with a cellphone alarm beeping to signal full time.

There was no crowd; just the bay on one side, the highway on the other and a concrete underpass, coated in graffiti and stained the color of dried lager, leading away from the court and back to the city. Before midnight, the gameincluded students, dayworkers and beach bums; after midnight, busboys and waiters and valets arrived, kicking and running and sweating their way toward morning. Some played in sneakers. Others played barefoot, the blisters on their heels a nubby reminder of their devotion.

One of the players, a teenager named Lucas Daniel, did not have shoes with him at all. He played languidly, gliding up and down on his calloused soles. His team was beaten quickly. Afterward, he sat with his cousin, Diego, and pointed to the side of his foot. ‘‘My toe was dislocated once,’’ he said. ‘‘The ball hit it hard and it just bent. It hurt so much. I cried.’’

He laughed. ‘‘But then I pushed it back into place. And then I kept playing.’’

Lucas and Diego watched the cellphone between them, waiting for their turn to play again. As they waited, they talked about another game, another pelada, with a visitor sitting nearby. This one was located in the hillside favela where they live, Fogueteiro. Some days, they said, that game starts after breakfast. Some days it finishes just before breakfast the next morning.

‘‘We just play whenever,’’ Diego said.

‘‘Remember the kid who played so much we called him Neymar?’’ Lucas replied.

Diego shook his head. ‘‘What happened to him?’’

Lucas shrugged. ‘‘I don’t know. He was scouted by a big team. I don’t see him anymore.’’

They both paused. That is the dream, of course, the fantasy. Romário, one of the greatest Brazilian scorers of all time, played in the streets, too. So did Ronaldo. So did Rivaldo.

Sometimes, scouts come to the favelas and organize a game. Sometimes, a player is picked. Lucas said he once played for one of the junior teams of Flamengo, a popular Rio club, but it didn’t pan out. ‘‘Iamtoo old now,’’ he explained. (He is 16.) ‘‘So I just play.’’

He and Diego looked at the cellphone and their lips moved silently. Cinco. Quatro. Três. Dois. Um. ‘‘You want to see a real street game?’’ Lucas said to the visitor as the phone beeped. ‘‘Come see us tomorrow.We will show you.’’

INSIDE THE QUADRA

The ball moves differently in every city. In Rio, there are games on the beaches and in the favelas and on the aterro, the strip of land between the water and the road. Fred, the forward for the Brazilian national team who scored five goals at last summer’s Confederations Cup, grew up in the state of Minas Gerais, northwest of Rio de Janeiro, and recalled that sometimes the ball he played with was not even a ball at all.

‘‘I used to make a ball of socks,’’ he said. ‘‘I made one of cardboard. I made one out of plastic bags. Sometimes it wasn’t even round. We didn’t care.’’

He shrugged. ‘‘We would put two rocks or two sandals to make the goal. We would even play on a hill. The goal was always on top, and it was two-ontwo or three-on-three and you would fight to get to that same goal. It was fun. But if the ballwent down, you had to run over the rocks.’’

Pelada has always been a part of Brazilian culture, and it has adapted to the country’s changing face. In São Paulo, for example, the hub for pelada used to be on the edges of the city’s two rivers, the Pinheiros and the Tietê. Players would scamper alongside the water in games that were known collectively as futebol de várzea, or lowlands soccer.

As São Paulo developed into a South American business hub, though, it morphed into a massive city — a labyrinth of concrete buildings and tangled streets. That meant open space was at a premium, and so now games have frequently shifted to courts that are penned in on all sides by metal fences. These faux-cages are called quadras.

One quadra sits at a traffic-heavy intersection in the Vila Maria neighborhood, a working-class area in the northern part of the city. The grass around the court is brown and dusty, and the door does not close all the way, so the ball sometimes rolls out toward the cars. There was a line of players waiting to play on a recent Saturday afternoon, their backs pressed against the fence and their feet ready to intervene if the ball tumbled toward the open door. Water breaks — and bathroom breaks — were taken at the gas station across the street.

The game was oddly silent. With five players on each side, therewere the occasional shouts for a teammate to pass the ball or a warning that an opponent was approaching. Otherwise, there were just the scuffs and scrapes of rubber soles on cement. With this smaller court, shots — and goals — were more frequent than in the game in Rio. Games were played to three goals. No time limit was needed.

At first, the players were all male. This is standard; the vast majority of games feature only men. Outside the fence, sitting on awooden bench, Anesio Cornelo watched his 12-year-old son, Robson, play with men who were two or three times his age. ‘‘I think this is good for Brazilian players,’’ Cornelo said, sharing a popular theory. ‘‘They play this way, on the court. They learn how to touch the ball, how to control the ball. It is a lot faster here than on a field. They become more skilled than if they just played on grass.’’

For the most part, that skillwas not altogether evident inside the quadra. The game was mostly ragged, with little defending and even fewer moments of quality. It was only when Clara Chaves returned from a water break and rejoined the game that the level increased.

Clara wore a shirt of the Palmeiras club team. She is 14 and plays for one of the club’s women’s teams. She readily admitted that her regional league—and women’s soccer in general in Brazil—is a work in progress. There is no national league, and the most talented women, likeMarta, a five-time world player of the year, earn their livings abroad.

Still,Clara dreams, just as the boys do, and she was sharp and aggressive on the court, chasing the ball deep into the opponent’s end. She played quick, slick passes to teammates on the attack. She scored two goals in about five minutes.

Clara began playing at this court when she was 9, she said, and it took a while before she felt comfortable. Initially, the boys and the men targeted her. They pushed her. They jostled her. They tripped her, sometimes when she was so close to the fence that she would fall against the rusty metal. The treatment brought her near tears at times.

On this day, though, she was the best player on the court.Her team won. Then it won again. Then it won again. For an hour, the only girl in the quadra never left the court.

‘‘The boys treated me that way in the beginning because they think they have some right to play, like this is their neighborhood and they are the only ones who want to be here,’’ she said. ‘‘A lot of men think like that. Maybe someday it will change.’’

JOGO BONITO

It must be said: The ball has always had meaning, always resonated far beyond a foot and a goal and a game. As just one example, some believe the roots of Brazil’s attachment to joga bonito, or the tenet that one must ‘‘play beautifully’’ or not play at all, was actually borne out of the country’s long history of racism.

There was a time, the theory goes, when a dark-skinned Brazilian could not even touch a white man without fear of retribution or punishment. Because of that, some say, the silky, slippery feints and shimmies that Brazilian players hone while playing pelada were developed as a form of survival: The goal was to be able to get past an opponent without even grazing him, lest a societal code be broken.

Now pelada remains a form of escape. The notion of a poverty-stricken young boy finding fame and fortune after being discovered in the ghetto is shopworn, to be sure, but that is because there remains some truth to it: Brazil is annually among the nations exporting the most players to foreign professional leagues (nearly 300 in 2011 alone, according to a recent study), and hundreds more play for varying wages in the country’s league system.

In more remote places like Manaus, the main city in the Amazon, young players will leave home, traveling south to bigger cities on the murky advice of a scout or representative from one of the larger teams. There are no guarantees of success, and horror stories abound. In 2012, the São Paulo State club Portuguesa Santistawas fined by a court for endangering the safety of children, according to a report by the Brazilian investigative journalism center Publica.

The details were disconcerting: A dozen teenage boys had left Pará, in the Amazon, to go to the city of Santos on a promise from a scout that they could play in a youth tournament. Once they arrived, they were crammed into a tiny room, where they shared three mattresses and were not fed for several days. After the court intervened, Portuguesa Santista was ordered to either let the boys go home or put them in a proper hotel and feed them.

In many ways, though, it does not matter. Young boys will forever want to chase the dream, climbing aboard one of the small ships that leave from the port of Manaus, and sleeping in tiny hammocks for days until they arrive at the next stop on their journey to maybe, possibly, being discovered.To them, that is what pelada can represent. ‘‘There is no famous player that everyone in the world knows who came from Manaus,’’ a talented young player, Kaleb Campelo, said one day in August. ‘‘But that does not mean there can’t be someday.’’

Campelo was standing alongside a dirt field in Santo Agostinho, a neighborhood on the west side ofManaus known mostly for its drug trafficking and crime. The game, which featured Campelo, 17, and other teenagers, was interrupted at least once when a stray dog ran through the middle of the action.

This was, essentially, organized pelada. Manaus is known for being home to the peladao, a huge soccer tournament/ beauty pageant, but this weekend was more typical with two teams, wearing mostly matching jerseys, playing in the rough equivalent of a neighborhood championship.

The juxtapositions were striking: There was a referee, but no real boundary lines, once the chalk was shuffled away. There were coaches, but the players did not pay to participate in the game or be part of the team.

Some players, like Campelo, who fired home a goal for his team with a graceful volley, may well play their way out someday. ‘‘But even if he doesn’t, and for the others who have no chance, it is not about that,’’ said Berg de Souza, a longtime government employee in Manaus who helps organize the games in Santo Agostinho. ‘‘There are about 50 players playing in these games. They would be drug dealers if they weren’t. Last year, there were gangs in the neighborhood. They would play on the field and fight on the field. There were guns. It was terrible.’’

Sometimes, the escape is more metaphorical. Manaus is an industrial city where men work long days. Some haul heavy bags of flour and sugar up from the docks; others work in electronics factories or on the boats. Pelada is their haven, the only place and time where they can relax their shoulders.

In an area known as São José Operário, there is a sandpit field that is carved out of a thicket of trees. Lizards hang from the branches. Araras, or macaws, chirp constantly overhead. The men who play at this field do not bother with lines to mark the penalty area or the touchlines on their 36-meter, or 40-yard, surface. ‘‘We just know it by heart,’’ said Cleivison Correa, who plays almost every day after work. ‘‘Everyone just stops playing when they are supposed to.’’

Games are held from Tuesday to Saturday. Players wait their turn to play sitting on logs or felled trees. Newcomers are welcomed enthusiastically.

‘‘We need this,’’ Marcus Painaba, 28, said. ‘‘This game — when you live in Amazonas, this is where you go to be yourself.’’

Modificato da Ghost Dog

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