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Socrates

Stefano Tacconi

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TACCONI STEFANO - Dieci Football Entertainment
 
Finale della Coppa delle Coppe 1983-1984 - Wikipedia
 
Juventus Football Club 1991-1992 - Wikipedia
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HO FATTO

SESSO

PERSINO

A TOKYO

SALACE, IRRIVERENTE, SCHIETTO E TALVOLTA SCORBUTICO.

IL CARATTERE DI STEFANO TACCONI CE LO RICORDIAMO

TUTTI. MA CI SONO ALCUNE COSE CHE NON SAPEVAMO. A

PARTIRE DA QUELLA VIGILIA DI COPPA INTERCONTINENTALE

DI 26 ANNI FA. «ERO NERVOSO, PER CINQUE GIORNI SOLO

ALLENAMENTI, MANGIARE E DORMIRE. ALLORA HO PRESO

UNA GEISHA. OH, IN CAMPO ERO L'UNICO SENZA STRESS».

E QUESTO È SOLO L'INIZIO. PERCHÉ IN QUESTA SCOTTANTE

INTERVISTA NE HA PER MAIFREDI, IL TRAP E TANTI ALTRI

di NICOLA CALZARETTA (GUERIN SPORTIVO - GENNAIO 2012)

In mano ha una busta della spesa con un peperone rosso appena acquistato dal

verduraio di fiducia. «Oggi preparo un bel sugo ai peperoni, tanto se non

cucino io, in casa mia non ci pensa nessuno». È in perfetta forma, Stefano

Tacconi, gli occhi azzurri scintillanti e la solita lingua tagliente. Siamo a

Cusago, periferia sud di Milano. Mattinata brumosa, ma non fredda.

L'appuntamento è in un bar del centro. Tuta nera, capelli biondo cenere

spettinati come tendenza comanda e solito pizzetto ben curato. Un Campari,

qualche patatina e via libera ai ricordi. Che sono tanti, perché lunga e ricca

di eventi è stata la carriera di Tacconi, nato a Perugia il 13 maggio 1957.

L'Inter, che lo aveva adocchiato da bimbetto, lo mette alla prova tra Spoleto,

Busto Arsizio, Livorno e San Benedetto del Tronto. Poi, però, lo lascia

libero. Ogni anno, uno scatto in avanti, fino alla Serie A con l'Avellino nel

1980. Ha una montagna di riccioli, il baffo precoce e una voglia matta di

arrivare. Nel 1983 ecco la Juventus per il dopo Zoff, hai detto nulla.

Spaccone e irriverente, si prende la maglia da titolare e scrive pagine

storiche in bianconero. Conquista scudetti, ma soprattutto tutte le coppe

possibili e immaginabili. Quella di più alto grado, la Coppa Intercontinentale,

giusto ventisei anni fa, l'8 dicembre 1985 a Tokyo contro l'Argentinos

Juniors. «L'ho vinta da protagonista, come avevo sempre sognato. Per un

portiere è il massimo arrivare a giocarsi un trofeo ai calci di rigore. Quando

l'arbitro ha fischiato la fine dei supplementari, ho detto: "E ora vado a

prendermi la coppa". Ero convinto, sicuro che quello sarebbe stato il mio

momento. E difatti ho parato due rigori su quattro e siamo diventati Campioni

del Mondo».

Detta così, più facile che bere un bicchiere d'acqua.

«La partita è stata dura. Non quanto la preparazione, però».

In che senso?

«Siamo arrivati a Tokyo praticamente una settimana prima della gara, dopo un

viaggio in aereo che non finiva più. Boniperti, tirato come sempre, ci faceva

viaggiare in economica, mai in business. Io, Brio e Serena sembravamo dei

ricci, raggomitolati tra una fila di seggiolini e l'altra. Facemmo scalo in

Alaska, atterrando su una montagna di neve. Il fuso orario ci ammazzò. E

questo è stato il viaggio».

E a Tokyo?

«Un casino. La città stava aspettando da mesi l'evento. Eravamo sempre

imbottigliati nel traffico. Trapattoni, poi, era una belva perché avevano

messo sia noi che gli argentini nello stesso albergo. La tensione saliva a

vista d'occhio. Non c'era altro che allenamento, mangiare e dormire. Io ho

resistito fino al quinto giorno».

Dopodiché?

«Sono scappato e sono andato a cercarmi una geisha».

Trovata?

«Sì e posso dire che dopo sono stato parecchio meglio».

Nessuno si è accorto di nulla?

«No, o per lo meno nessuno mi ha detto niente. Mancavano due giorni alla

partita. Erano tutti stressati. Io no».

Avevate qualche timore?

«Era la finale di una coppa, gara secca. Non puoi mai stare tranquillo. Noi,

comunque, eravamo abituati agli scontri diretti. Non come adesso che è tutto a

gironi. Certo, qui ci giocavamo il mondo. Per la società poi c'era l'ulteriore

traguardo di diventare l'unica squadra ad avere vinto tutte le coppe

internazionali ».

Ci furono particolari accorgimenti tattici?

«Si doveva vincere. E basta. Noi eravamo la Juve».

Il tuo pre-gara come è stato?

«Quello di sempre. Da solo, nello spogliatoio, alla ricerca della

concentrazione. Non sono mai uscito a fare riscaldamento. Non concepisco i

portieri di oggi che stanno fuori un'ora prima della partita. E poi i saluti,

i sorrisi nel sottopassaggio, ma che storia è? Io ero un orso. Dovevo stare da

solo. Con la mia Marlboro e il caffè».

E la testa in quei momenti dove è andata?

«È andata a mio fratello che, insieme a tanti tifosi della Juventus di tutta

Italia, è partito con il pullman da Lucca per raggiungere Milano».

Per seguire in diretta tv la partita?

«Sì. I diritti li acquistò Canale 5, ma la diretta avrebbe coperto solo la

Lombardia. Noi giocammo a mezzogiorno, le quattro di notte in Italia. La

differita l'avrebbero trasmessa nel pomeriggio dell'8 dicembre (tra l'altro

l'ho vista anch'io). Prima della partita pensai a lui e a tutti quelli che

stavano facendo chilometri per vederci in televisione».

Tokyo, ore dodici. Ci siamo.

«Lo stadio era tutto bianconero, sembrava di stare a Torino. In panchina,

accanto al Trap, c'erano tutti i dirigenti, perfino Edoardo Agnelli che, però,

non aveva l'autorizzazione per stare in campo. Alla fine del primo tempo fu

cacciato, ma lui trovò il modo di tornare dentro lo stesso».

Che rapporto avevi con lui?

«Ottimo. Un bravo ragazzo, malinconico, ma genuino. Ricordo che prima della

partita dell'Heysel, quando ancora fuori non era successo niente, prese una

sedia, ci salì sopra e fece un discorso a tutta la squadra. Ci fece piacere.

Si sentiva accolto da noi. Qualche volta è venuto persino in ritiro a Villar

Perosa, come suo cugino Giovanni Alberto. Ma il calcio non era nelle loro

corde: avevano i piedi pieni di vesciche».

Intanto le squadre sono schierate e il tedesco Roth fischia l'inizio.

«La partita fu bella, tirata, sempre in bilico, con continui cambi di fronte.

Di là c'era gente come Olguin, Batista e Borghi, che era fortissimo».

Due gol per parte, più qualche altro annullato.

«Ci siamo trovati a rincorrere, ma quella squadra poteva ancora contare su uno

zoccolo duro di qualità, da Cabrini a Brio, da Scirea a Platini. Erano andati

via Tardelli, Rossi e Boniek, ma era arrivata gente giovane come Mauro,

Laudrup e Serena, oltre a Manfredonia, un leone. A un certo punto si fece male

Scirea ed entrò Pioli, che aveva vent'anni. Fu bravissimo, dimostrò una

personalità incredibile. Questa era la Juventus».

Tutto bello, ma a dieci minuti dalla fine siete sotto di un gol.

«E lì c'è stato il capolavoro di Laudrup. Un pazzo scatenato. Anch'io ho

urlato dalla mia porta di buttarsi per terra quando il portiere lo ha

ostacolato. Il danese era un puledro purosangue. Quel gol lì, dalla linea di

fondo, solo lui poteva farlo».

Fine dei novanta minuti, ecco i supplementari.

«A quel punto non me ne importava più niente. Volevo i rigori. Dovevo entrare

in scena io, da protagonista vincente. Fremevo dalla voglia».

Come ti sei preparato alla lotteria finale?

«Io non avrei fatto nulla, come era mio solito. Non ho mai visto cassette

sugli avversari, non avevo dossier sugli attaccanti. Mi bastava l'istinto, la

forza e la convinzione. In quel caso, invece, Romolo Bizzotto, il vice di

Trapattoni, mi fece vedere per decine di volte la cassetta della finale della

Libertadores tra Argentinos e America di Calì, finita anche quella ai rigori.

Non ne potevo più, quella cassetta diventò un incubo».

Ma ti è servita o no?

«Servita, servita. Imparai a memoria tutto, chi erano i rigoristi, come

calciavano, da che parte avrebbero tirato. Anche se poi, a Tokyo, non

mancarono le sorprese».

Tipo?

«Intanto Olguin, il primo rigorista, cambiò l'angolo. Io andai deciso sulla

mia sinistra e lui la buttò dall'altra parte. Mi alzai e mandai a quel paese

Bizzotto e la sua maledetta cassetta».

Con Batista invece tutto filò liscio.

«Fu un ċoglione! Non cambiò nulla nell'esecuzione, piattone sulla mia

sinistra. Io, in verità, anticipai un po' il tuffo, tanto che presi il pallone

con la mano sotto il corpo. Esultai come un centravanti, iniziai a non capire

più nulla. Ero carichissimo, dovevo sfogare tutto, gioia compresa. Anche

perché con la mia parata eravamo in vantaggio di un gol, visto che Brio e

Cabrini avevano segnato».

E così arriviamo al terzo rigorista, tale Juan Josè Lopez.

«E chi lo conosceva? Era entrato a tre minuti dalla fine dei tempi

supplementari, solo per tirare il rigore. Iniziai a guardare la panchina, ma

il Trap fece finta di non vedere, nemmeno lui sapeva chi fosse. Ma porca

miseria, possibile che nessuno lo conosca? Oltretutto, mentre si avvicinava al

dischetto, mi guardava con aria incazzata perché avevo preso il tiro di

Batista. Ma che cavolo vuoi? Fece gol, ma con il piede per poco non gliela

prendevo».

La situazione si fa incandescente. Laudrup sbaglia. Per te c'è Pavoni:

se segna, l' Argentinos pareggia.

«Lui c'era nella cassetta. Era un tipo massiccio, dal tiro forte e centrale.

Devo dire che sono stato bravo, riuscendo a muovermi solo un istante prima del

calcio. Feci un piccolo spostamento sulla destra, riuscendo però a ritrovare

la posizione eretta e a respingere con il corpo. E lì ho esultato come un

matto. Sapevo che era l'ultimo ... ».

Non è vero, c'era ancora Platini.

«Appunto».

Non avevi dubbi su Michel?

«Nessuno. Platini disputò la sua più bella finale con la Juve. Anzi, direi

l'unica finale giocata da star. Ad Atene non era lui, ma neanche a Basilea

brillò. Sull'Heysel meglio non dire nulla. A Tokyo era in vena, oltretutto gli

annullarono un gol magnifico».

Per colpa di chi?

«Di Brio, che era in fuorigioco, ma che non c'entrava niente con l'azione.

Michel ancora oggi lo maledice. Ma in realtà l'arbitraggio non fu all'altezza,

così come il campo: buche, zolle, ciuffi d'erba qua e là, una pena».

E le trombette?

«Non le sentivo. La testa era per quella coppa. Sull'aereo, nel viaggio di

ritorno, ci ho dormito insieme. Una gioia immensa».

Anche per le tasche?

«A testa ci toccarono centoventicinque milioni, non male».

In quei casi Boniperti pagava volentieri?

«Boniperti non pagava mai volentieri, ma era molto bravo a riscuotere, specie

con me».

Quanti soldi hai speso in multe?

«Credo duecento milioni, anche se quella sugli elicotteri di Berlusconi per

metà la pagò l'Avvocato Agnelli che mi disse: "Avrei detto le stesse cose"».

Perché ti multava così spesso?

«Perché io ero diverso dagli altri. Se avevo qualcosa da dire, la dicevo, non

guardavo in faccia nessuno. Se volevo fumare, fumavo. Fumavo e vincevo, però.

Fuori dal campo volevo fare come mi pareva: dal lunedì al sabato non volevo

rotture di scatole».

Torniamo al trionfo di Tokyo: con la conquista dell'Intercontinentale

la Juventus continua a dettare legge.

«Ancora per poco, a dire il vero. La partenza in campionato fu da urlo, otto

vittorie consecutive, un record. Per essere pronti per la finale, infatti,

avevamo cambiato la preparazione, accelerando i ritmi e i tempi. L'idea, o

meglio la speranza, era che si potesse prolungare il grande ciclo bianconero

che durava dal 1977. In realtà quella squadra fu pensata quasi esclusivamente

per vincere l'Intercontinentale».

Ma a maggio del 1986 "quella squadra" conquistò lo scudetto.

«Sì, ed è stato l'ultimo prima di Lippi! Quel campionato l'abbiamo ripreso per

i capelli grazie al Lecce alla penultima giornata. La verità è che si chiudeva

una storia, il decennio di Trapattoni».

A proposito del Trap, con lui hai fatto fatica?

«È stato il mio primo allenatore alla Juve. C'era rispetto, forse un po' di

distanza. Era un martello pneumatico, non ti mollava mai. Nella mia seconda

stagione mi ha tenuto fuori per sei mesi, ma ancora oggi non so il perché».

Non avete mai chiarito questa cosa?

«Quando mi vede, mi dice sempre: "Tu lo sai il perché?". Ma io non so un

cavolo. L'unica cosa che posso dire è che sono uscito di squadra che eravamo

quarti e sono rientrato con la Juventus quinta. Solo colpa mia?».

Come si sta in panchina?

«Fa freddo».

Come hai reagito alla decisione di metterti fuori squadra?

«All'inizio l'ho messa in vacca. Ho mollato. Ero incazzato nero. Parlavo male

di tutti. Poi è scoccata la scintilla e ho tirato fuori l'orgoglio. Fino al

rientro in squadra».

Hai mai pensato di lasciare la Juve?

«Dissi di no al Napoli che mi offrì un miliardo e duecento milioni quando ne

prendevo settecento. Volevo dimostrare che ero da Juve. Dicevo: gioco e

rivinco. Ho tirato fuori il meglio di me, come feci nel 1980 alla mia prima

stagione con l'Avellino».

Perché, in quel caso cosa successe?

«Semplice: l'allenatore, Luis Vinicio, voleva farmi fuori. Eravamo nel

precampionato e io, francamente, pensavo a tutto tranne che al pallone. Poi

feci un partitone a Palermo, il 24 agosto, e da lì tutto è filato liscio come

l'olio. E sempre il campo che fa la differenza».

Ma intanto la domenica giocava Bodini.

«Ma io ero convinto che prima o poi sarei tornato. In una squadra c'è il

numero uno e il dodici. E il dodici di quella Juve era Bodini. Lo so che c'è

rimasto male, ma io dovevo tornare a giocare. Rientrai a tre giornate dalla

fine e poi feci la finale di Coppa Campioni all'Heysel. Senza nessuna

spiegazione da parte di Trapattoni».

Dai "non detti" del Trap passiamo alle coccole di Zoff.

«Dino mi voleva bene, ricambiato da me. L'ho avuto il primo anno come

preparatore dei portieri alla Juve, poi due anni con l'Olimpica e altre due

stagioni come allenatore alla Juve. Ha sempre puntato su di me, mi ha messo

dentro anche quando non stavo bene».

Quando è successo?

«Quella volta che mi fratturai due costole, prima di una gara di Coppa Uefa.

Lui andò dal dottore che confermò la diagnosi. Sai che rispose? "Io ho giocato

con tre costole rotte". E allora gioco anch'io, risposi».

Cosa ti ha insegnato Zoff?

«Mi ha dato tranquillità, psicologicamente mi ha rafforzato molto. Dal lato

tecnico, niente. Non gli ho mai chiesto consigli, né lui mai li ha dati a me.

Mi diceva sempre: che ti devo insegnare? Quello che hai accumulato ce l 'hai,

io ti devo allenare. Che errore cacciarlo».

Che gusto hanno avuto le due coppe vinte con lui?

«Per me ancora più saporito di tutte le altre. Perché erano quelle che mi

mancavano per entrare nella storia e perché le ho tirate su io per primo come

capitano».

Curiosità: com'è che la fascia era finita sul tuo braccio?

«All'inizio della stagione 1988-89 Zoff la dette a Tricella, facendo fuori

Brio. Ma Tricella cosa c'entrava? Era alla Juve da pochissimo. L'anno dopo mi

sono imposto, ne ho parlato con Zoff e tutto è tornato nell'ordine. Ero io il

più anziano della rosa».

Invece Maifredi?

«Alla prima intervista da allenatore della Juventus dichiara: "Tacconi con me

non sarà capitano". Carino, eh?».

E tu?

«Quando ci siamo incontrati per la prima volta gli dissi che tra uomini si

parla guardandosi negli occhi. Poi gli dimostrai che avevo tutti i requisiti

per portare la fascia».

Cosa facesti?

«Chiamai l'Avvocato Agnelli e poi passai la telefonata a Maifredi: "Mister,

c'è qui qualcuno che vorrebbe parlarle". Diventò rosso, si infuriò, ma capì

che l'aveva fatta fuori dal vaso. Maifredi partì malissimo. Dopo la figuraccia

in Supercoppa con il Napoli, chiesi alla società di cacciarlo, ma Montezemolo

mi rispose: "L'ho portato io". I risultati alla fine si sono visti».

Tatticamente l'idea era buona.

«Quando Maifredi parlava di tattica e schemi andavo a giocare a tennis con

Sorrentino, il preparatore dei portieri».

Cos'è che non funzionò davvero?

«Maifredi aveva sfasciato lo spogliatoio. Per lui c'era solo Baggino. Sai

quante volte gli ho detto: "E gli altri?". L'aria era elettrica. C'erano

continue litigate. Qualche giorno prima della partita di Coppa contro il

Barcellona, con Dario Bonetti arrivarono alle mani. Era inevitabile che

accadesse».

Chiusa la parentesi Maifredi, tornano il Trap e Boniperti e tu, però,

chiudi il tuo ciclo bianconero.

«Puntarono su Peruzzi e io non avevo nessuna voglia di stare in panchina. Non

avrei mai fatto il dodicesimo, non l'avrei fatto neanche a Zoff a suo tempo. E

lo dichiarai pure».

Già, quella volta lì l'hai sparata veramente grossa!

«La Juve mi aveva di fatto preso nell'aprile 1983, il sentore era che Zoff

avrebbe smesso. Poi lui, in un'intervista dopo Atene, fece capire che forse

avrebbe continuato. Allora io dissi: "O me o lui". La sparai grossa, può

darsi. Ma questo è il mio carattere. Spregiudicato, spaccone, un po'

presuntuoso. Ma se non sei così, muori».

Diciamo che il carattere ti è servito per resistere ai massimi livelli

per molti anni.

«Ho iniziato nel 1976 a Spoleto in Serie D e ho chiuso al Genoa a 38 anni,

vincendo tutto. Ho giocato con fuoriclasse assoluti alla Juventus. Ho

affrontato tutto il meglio del calcio mondiale di quegli anni: Zico, Maradona,

Vialli, tanto per metter lì un podio. Se penso ai portieri di oggi della Serie

A, mi chiedo che cosa racconteranno».

Chi ti ha insegnato i segreti del ruolo?

«Gino Merlo, al Livorno. Lo chiamavano il portiere ballerino. Un giorno mi

prende e mi fa: Conosci il valzer? No, perché? Il valzer ti dà i tempi. Un,

due, tre . . . e fai il movimento. Che lezione».

Quale è stata la più bella parata che hai fatto?

«Ce ne sono tante. Dal mucchio prendo quella al novantesimo contro il Colonia

nel ritorno della semifinale di Coppa Uefa 1990. Se entrava quel pallone,

eravamo fuori. Tiro da dentro l'area, Brio che mi copre la visuale, io schizzo

sulla sinistra e devio in angolo. Lì ho esultato come a Tokyo».

E tra le tante maglie indossate in bianconero, a quale sei più legato?

«A tutte quelle con cui ho giocato le finali. A Basilea quella grigia me la

prestò Zoff perché le mie avevano lo sponsor, mentre l'Uefa imponeva la divisa

pulita. Mi è sempre piaciuto curare il look, molti dei modelli che ho portato

li disegnavo io stesso».

È tua anche l'idea delle mezze maniche?

«Io le mezze maniche me le mangio oggi a pranzo. Con un bel sugo ai peperoni».

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Joined: 23-Nov-2010
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sei stato un grandissimo.la partita di tokio è stata bellissima,un ricordo indelebile nella storia della juventus

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Joined: 04-Apr-2006
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Stefano Tacconi | Calcio, Giocatori di calcio, Juventus
 
TACCONI STEFANO - Dieci Football Entertainment
 
Juventus: Ranking the five best goalkeepers of all time
 
One step at a time...be brave Dad!" - son of former goalkeeper, Tacconi -  TVMnews.mt
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 1982-1986.png.e2135a21ed0449d4fd86bd3a22663cf0.png  STEFANO TACCONI 885602372_juve1982.png.b419a187132b25b4f39285a8797f7cd6.png 615490433_juve1989.png.0da6e7cdde709a1b9c5afd20ed5a851c.png  

 

Serie A: Stefano Tacconi, ex internacional de la Juventus, hospitalizado  con pronóstico reservado tras una isquemia | Marca

 

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Stefano_Tacconi

 

 

Nazione: Italia Italia
Luogo di nascita: Perugia
Data di nascita: 13.05.1957

Ruolo: Portiere
Altezza: 188 cm
Peso: 80 kg

Nazionale Italiano
Soprannome: Capitan Fracassa - Tarzan

 

 

Alla Juventus dal 1983 al 1992

Esordio: 21.08.1983 - Coppa Italia - Perugia-Juventus 1-0

Ultima partita: 12.04.1992 - Serie A - Juventus-Ascoli 1-0

 

377 presenze - 330 reti subite

 

2 scudetti

1 coppa Italia

1 coppa dei campioni

1 coppa delle coppe

1 coppa Uefa

1 supercoppa Uefa

1 coppa intercontinentale

 

 

Stefano Tacconi (Perugia, 13 maggio 1957) è un ex calciatore italiano, di ruolo portiere.

 

Estremo difensore della Juventus per quasi un decennio (1983-1992) nonché capitano nelle ultime stagioni, è tuttora l'unico portiere a essersi aggiudicato tutte le cinque competizioni UEFA per club all'epoca vigenti, vinte con la formazione bianconera a cavallo degli anni 1980 e 1990; con il club torinese ha messo in bacheca anche due scudetti e una Coppa Italia.

 

Tra il 1987 e il 1991 ha fatto parte della nazionale italiana, totalizzando 7 presenze e partecipando come secondo portiere al campionato d'Europa 1988 e al campionato del mondo 1990. Ha inoltre disputato da titolare i Giochi olimpici di Seul 1988.

 

È stato inserito dall'IFFHS al 140º posto nella classifica dei migliori portieri del mondo nel quarto di secolo 1987-2011.

 

Stefano Tacconi
Stefano Tacconi - Juventus.jpg
Tacconi alla Juventus nella stagione 1989-1990
     
Nazionalità Italia Italia
Altezza 188 cm
Peso 80 kg
Calcio Football pictogram.svg
Ruolo Portiere
Termine carriera 1994
Carriera
Giovanili
1970-1975   Spoleto
1975-1976   Inter
Squadre di club
1976-1977    Spoleto 30 (-18)
1977-1978    Pro Patria 7 (-3)
1978-1979    Livorno 33 (-20)
1979-1980   Sambenedettese 38 (-31)
1980-1983   Avellino 90 (-93)
1983-1992   Juventus 377 (-330)
1992-1994   Genoa 43 (-68)
Nazionale
19??-1988 Italia Italia olimpica ? (?)
1987-1991 Italia Italia 7 (-2)
Palmarès
 
Coppa mondiale.svg Mondiali di calcio
Bronzo Italia 1990

 

Biografia

È sposato in seconde nozze con Laura, da cui ha avuto quattro figli. Ha un diploma di cuoco, che ha messo a frutto al termine della carriera agonistica divenendo imprenditore nel campo della ristorazione.

 

Nell'aprile 2022 è colpito da un'ischemia cerebrale: superata una prima prognosi riservata, da allora segue un percorso di riabilitazione.

Caratteristiche tecniche

«È sparita con Zoff tanta fantasia dal ruolo, ma anche il ruolo ha guadagnato tanta verità atletica e tecnica. Con i tipi come Stefano Tacconi si torna indietro. Lui è un portiere istintivo e giocondo.»

(Vladimiro Caminiti, 13 luglio 1983)

 

Portiere dal carattere decisamente acceso — anche per questo si guadagnò il soprannome di Tarzan —, Tacconi è stato descritto dal giornalista Vladimiro Caminiti come un estremo difensore in grado di esaltarsi nelle partite decisive, nonché dotato di grande vigore atletico, che lo rendeva molto abile tra i pali. Era solito intervenire con sicurezza se chiamato a uscire frontalmente; appariva invece più restìo ad andare incontro ai palloni scagliati dalle fasce verso il centro dell'area.

 

Pur essendo dotato di un buon rinvio da fondo campo, non era molto abile nel gioco coi piedi: pertanto, al pari di molti altri numeri uno dell'epoca, accusò difficoltà di adattamento alle nuove regole introdotte nella stagione 1992-1993, che tra le altre cose impedirono ai portieri di intervenire con le mani in caso di retropassaggio volontario di un compagno di squadra; innovazioni, queste, verso le quali Tacconi si mostrò piuttosto critico.

Carriera

Giocatore

Club

Gli inizi, Avellino
220px-Societ%C3%A0_Sportiva_Sambenedette
 
Un giovane Tacconi (in piedi, primo da destra) nella Sambenedettese della stagione 1979-1980

 

Cresciuto nello Spoleto, nelle cui giovanili entrò nel 1970, passò poi all'Inter che lo inserì nel proprio settore giovanile, militando nelle categorie Berretti e Primavera. Tornato in prestito a Spoleto per giocare da titolare il campionato di Serie D 1976-1977, la stagione seguente i nerazzurri lo dirottarono sempre in prestito alla Pro Patria, dove esordì da professionista in Serie C. Al termine di un'annata caratterizzata da una frattura dell'ulna, mise a referto 7 presenze.

 

Per la successiva stagione l'Inter lo inviò nuovamente in prestito al Livorno, nella neonata Serie C1, dove trovò come allenatore Tarcisio Burgnich, che lo fece giocare titolare; il campionato 1978-1979, in cui Tacconi si avvalse di Gino Merlo come preparatore, vide gli amaranto chiudere a metà classifica, con una delle difese meno battute del torneo. Archiviata la parentesi labronica, non riuscì a convincere la società interista che quindi lo cedette a titolo definitivo alla Sambenedettese, in Serie B. In riva all'Adriatico Tacconi, il quale ebbe Piero Persico come preparatore, disputò il campionato cadetto 1979-1980 dove pur ben figurando sul piano personale, non riuscì a evitare la retrocessione dei rossoblù.

 

220px-Unione_Sportiva_Avellino_1982-1983
 
Tacconi (in piedi, primo da destra) nell'Avellino della stagione 1982-1983

 

Ciò nonostante, le buone prestazioni offerte a San Benedetto del Tronto destarono le attenzioni dell'Avellino, con cui il portiere esordì in Serie A nella stagione 1980-1981, agli ordini di Luís Vinício. Rimase in Irpinia per un triennio, con un'interpretazione spregiudicata del ruolo («dovevo fare anche da "libero"»), emergendo tra i maggiori talenti — insieme a lui anche Barbadillo, Carnevale, De Napoli, Favero, Juary e Vignola — portati alla ribalta durante gli anni 1980 dalla provinciale biancoverde del commendatore Antonio Sibilia.

Juventus
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Tacconi (a destra) alla Juventus nella stagione 1983-1984, in allenamento insieme al preparatore Dino Zoff.

 

Nell'estate 1983 venne acquistato dalla Juventus, dove presto vinse il ballottaggio con Luciano Bodini per sostituire Dino Zoff appena ritiratosi dall'attività agonistica — «ho cercato con la mia spavalderia di far dimenticare il suo mito», dirà in proposito —; a Torino ebbe inizialmente proprio Zoff come preparatore (e successivamente, sul finire dell'esperienza in bianconero, anche come allenatore della squadra). Approdato in una big, Tacconi non tradì pressioni di sorta avendo un positivo impatto con la realtà juventina, contribuendo nel 1984 alla conquista del double formato dal campionato di Serie A e dalla Coppa delle Coppe.

 

Ciò nonostante alla seconda stagione in Piemonte visse un periodo d'appannamento in campo e conseguenti frizioni con la società, che portarono il tecnico Giovanni Trapattoni, per larga parte dell'annata 1984-1985, a preferirgli la riserva Bodini; Tacconi ritrovò la titolarità solamente a fine stagione, in occasione della vittoriosa finale di Coppa dei Campioni a Bruxelles, «nella maledetta notte dell'Heysel».

 

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Tacconi (a sinistra) saluta il collega Walter Zenga — con cui visse una istrionica rivalità — prima del derby d'Italia del 28 ottobre 1990.

 

Tornato definitivamente titolare della porta bianconera, rimase a Torino per nove stagioni nel corso delle quali diventò anche capitano della squadra, conquistando in ambito nazionale un altro scudetto, nel campionato 1985-1986, e la Coppa Italia 1989-1990; a livello internazionale ebbe modo di inanellare affermazioni in tutte le allora cinque competizioni per club organizzate dalla UEFA — record per un portiere, in seguito eguagliato dal solo Vítor Baía —: oltre alle succitate Coppa Coppe e Coppa Campioni, aggiunse infatti al suo palmarès anche la Supercoppa UEFA 1984 (pur se nell'occasione assistette al match dalla panchina), la Coppa Intercontinentale 1985 dove visse «il momento sportivo più esaltante» della carriera risultando decisivo nel vittorioso esito ai tiri di rigore, e infine la Coppa UEFA 1989-1990.

 

Sarà quest'ultima, a posteriori, l'ultima stagione ad alti livelli di Tacconi. Nella successiva, 1990-1991, pur vedendolo diventare capitano della Juventus stante il sopraggiunto ritiro di Sergio Brio, arrivarono gravi screzi con il nuovo tecnico Luigi Maifredi che sfociarono in un campionato negativo, mentre nell'annata 1991-1992, l'ultima a Torino, pur partendo titolare venne via via insidiato dal neoacquisto ed emergente Angelo Peruzzi, lasciando così la società bianconera al termine della stagione, a 35 anni.

Genoa
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Tacconi (a destra) al Genoa nel 1994, mentre saluta Angelo Peruzzi suo erede a Torino.

 

Nell'estate 1992 si accasò al Genoa, sempre in massima serie, dove andò a sostituire il pur più giovane Simone Braglia. Nel capoluogo ligure, dove fu titolare con Franco Scoglio e riserva con Giuseppe Marchioro, offrì un rendimento altalenante, specie nella prima stagione.

 

L'esperienza con i rossoblù finì bruscamente il 12 dicembre 1994, con la rescissione del contratto (il giocatore verrà pagato fino a fine stagione) e il ritiro dall'attività professionistica.

Nazionale

In maglia azzurra fu il portiere titolare della nazionale olimpica di fine anni 1980, guidata prima da Dino Zoff nel percorso di qualificazione ai Giochi di Seul 1988, e poi da Francesco Rocca nella fase finale del torneo chiuso dagli azzurri al quarto posto.

 

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Tacconi (secondo da sinistra) in azzurro, insieme a De Agostini, Marocchi e Schillaci, durante i giorni del Mondiale 1990.

 

Con la nazionale maggiore, invece, Tacconi non riuscì mai — a differenza di quanto fatto coi colori bianconeri — a raccogliere l'eredità di Zoff (sebbene Azeglio Vicini, commissario tecnico dal 1986 al 1991, avesse un'ottima opinione di lui): esordì solo a 30 anni, nel giugno 1987, e scese in campo unicamente in partite amichevoli, quasi sempre da subentrato, per un totale di 7 presenze e 2 gol subìti. Prese parte, come riserva di Walter Zenga, al campionato d'Europa 1988 in Germania Ovest, che vide gli azzurri semifinalisti, e al campionato del mondo 1990, concluso dall'Italia padrona di casa al terzo posto.

 

Pur senza mai scalfire la titolarità di Zenga, fu generalmente considerato un «eccellente vice», potenzialmente degno della maglia numero uno, e la sua rivalità con il collega dell'Inter — volutamente istrionica benché caratterizzata da reciproca stima — tenne banco a lungo nelle pagine dei quotidiani sportivi dell'epoca.

 

Militò in nazionale fino al 1991, anno in cui, con l'arrivo in panchina di Arrigo Sacchi, fu scavalcato dall'emergente Gianluca Pagliuca nel ruolo di vice-Zenga ed escluso dal giro azzurro.

Dopo il ritiro

Il 22 agosto 2008, superati i cinquant'anni di età, tornò brevemente all'attività tra i dilettanti con l'Arquata di Arquata del Tronto, nel campionato marchigiano di Prima Categoria. Debuttò il 24 aprile 2010 nella vittoria 4-2 della sua squadra sul Montalto, ottenendo l'approdo in Promozione, prima volta nella storia dell'Arquata.

Politica

Dopo il ritiro dall'attività agonistica, Tacconi tentò d'intraprendere la carriera politica. Nel 1999 si candidò alle elezioni europee con Alleanza Nazionale - Patto Segni, nella circoscrizione Italia Nord-Occidentale ottenendo oltre 9.000 preferenze, senza risultare eletto.

Nel 2005 annunciò di volersi presentare come candidato presidente della Regione Lombardia con il Nuovo MSI, ma non riuscì a presentare le firme sufficienti per sostenere la sua candidatura. Nel 2006 si candidò, ancora per Alleanza Nazionale, a consigliere comunale di Milano, a sostegno di Letizia Moratti, ottenendo tuttavia 57 voti, che non gli valsero l'elezione.

Cinema e televisione

Al cinema, nel 1990 interpretò a scopo benefico il mediometraggio autobiografico Ho parato la luna di Ornella Barreca; il ruolo di Tacconi da giovane fu ricoperto dall'allora diciannovenne Davide Micillo, al tempo terzo portiere della Juventus. Nel 2008 partecipò in un cameo alla pellicola Amore, bugie & calcetto di Luca Lucini, interpretando sé stesso assieme ad altri ex calciatori. In televisione, nel 2003 partecipò al reality show L'isola dei famosi su Rai 2, venendo eliminato alla seconda puntata con il 54% dei voti. È saltuariamente opinionista in varie trasmissioni sportive nazionali.

 

Palmarès

Club

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Tacconi solleva da capitano della Juventus la Coppa UEFA 1989-1990

Competizioni giovanili

Competizioni nazionali

Competizioni internazionali

Individuale

Onorificenze

Medaglia di bronzo al valore atletico - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia di bronzo al valore atletico
  «Campione italiano professionisti»
— Roma, 1984.
Medaglia d'argento al valore atletico - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'argento al valore atletico
  «Terzo classificato al campionato mondiale»
— Roma, 1990.
Cavaliere Ordine al merito della Repubblica Italiana - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere Ordine al merito della Repubblica Italiana
  — Roma, 30 settembre 1991. Di iniziativa del Presidente della Repubblica.

 

 

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Poteva diventare cuoco e preparare spaghetti all’amatriciana – scrive Angelo Caroli su “Hurrà Juventus” del gennaio 1984 – e polenta con spezzatino; invece è finito fra due pali, a vivere in solitudine l’arte acrobatica del portiere. La storia di Stefano Tacconi è singolare, quasi una fiaba, dove tutto diventa incantesimo ed è appeso al sottile filo dei sogni e dove un bambino fragile si trasforma in principe.
Figlio di operai (Arsenio e Giannina) di un lanificio di Ponte Felcino (piccolo paese umbro dove Stefano è nato), Tacconi viene dalla gavetta; e nasce portiere per caso, quando i fratelli maggiori Giuseppe e Piero, che credono di saperla lunga soltanto perché fanno il mestiere del centrocampista, lo obbligano a stare in mezzo a una porta, un ruolo che ogni bambino rifiuta categoricamente. Ma Stefano è docile e si adatta. Il tempo lo ripagherà con grossi interessi.
Le prime esperienze calcistiche le affronta a 16 anni, nella squadretta del suo paese; poi si trasferisce a Spoleto, lusingato da un osservatore che gli aveva riconosciuto buone doti atletiche: magro come un grissino, ma la voglia di imparare non gli manca. E sogna, proprio come nelle favole. Il giovane Tacconi deve però dedicarsi anche agli studi. Perciò, dopo aver superato l’esame di terza media, s’iscrive presso l’Istituto alberghiero fra polli allo spiedo e anatre all’arancia.
Ma siccome lui pensa che è meglio un portiere oggi che un cuoco domani, mette la vita dentro a un pallone, che continua ad afferrare con mani diventate sempre più forti e sicure. Gioca nello Spoleto con buoni risultati; poi un giorno compaiono Brighenti e Manni (osservatore e generai manager dell’Inter del 1975-76) per vedere all’opera un giovanotto di nome Roselli. Però piace anche Stefano e il doppio affare è concluso.
L’Inter lo affida a Venturi e a Giancarlo Cella: l’angelo di Ponte Felcino sta per spiccare il volo. Quattrini pochi, ma gloria abbastanza (tornei Primavera e Berretti e Coppa Italia). È rispedito successivamente a Spoleto, poi è mandato a Busto Arsizio (Pro Patria) per via del servizio militare, dal povero Barison. Tacconi si rompe, infatti, il braccio destro (l’ulna) in uno scontro con Vendrame. Sette mesi d’inattività, poi la ripresa, lenta ma sicura.
Soltanto a Livorno, in C1 e alle dipendenze di Burgnich, conosce il calcio a livello semiprofessionistico. Fa parte anche della Nazionale di Serie C che sconfigge, a Londra, l’omologa scozzese. Ma a San Benedetto, altro ambiente caloroso e tranquillo, spicca il volo deciso. Fino ad arrivare all’Avellino dove gioca, per 3 anni, a livelli ottimi. La favola subisce bellissime trasformazioni. La realtà è accarezzata e non sembra più una montagna grande e difficile da scalare.
La Juventus lo mette sotto il proprio obiettivo, ne fiuta le grosse capacità e lo porta nella metropoli torinese. Prendere il posto di Zoff è un compito che avrebbe distrutto chiunque, ma non il portiere perugino il quale non manifesta il minimo turbamento, ostentando sempre tanta sicurezza. Si allena con la stessa spregiudicatezza con cui si muoveva nell’Avellino e non dimostra alcun condizionamento nei confronti di un ambiente che rappresenta il sogno di ogni calciatore italiano. «Ad Avellino dovevo fare anche da libero, figuriamoci se mi spavento per il fatto di giocare in una squadra come la Juventus che al portiere è in grado di assicurare adeguata protezione. Non mi spaventa nemmeno il paragone con Dino. Io sono Tacconi e a Zoff guardo come al maestro».
Ma il ragazzo, oltre che bravo, è indubbiamente fortunato. Il suo arrivo sotto la Mole coincide con la messa in pista di una delle più solide versioni della Juve trapattoniana: confermato lo squadrone sfortunato l’anno prima, sono arrivati ritocchi di sostanza, uno dei quali, la mezzala Vignola, dallo stesso Avellino da cui proviene il portiere. La difesa destinata a proteggere Tacconi è quanto di meglio al mondo sia stato assemblato negli ultimi anni, da Gentile a Cabrini, da Brio a Scirea.
Si può temere qualcosa, con tanti pezzi da novanta a dare una mano? In effetti, non trema Tacconi e soprattutto non tremano i campioni bianconeri che di Tacconi cominciano presto a fidarsi. La Juve parte con il botto, in 3 giorni segna 14 reti e non subendone alcuna, è record mondiale o giù di lì. Avanti in campionato, avanti in Coppa delle Coppe, Tacconi che pure ha nell’esperto Bodini un rivale accreditatissimo è il titolare indiscusso e dà alla retroguardia una sicurezza insperata. Non solo, con un carattere da simpatico guascone è tra quelli che più si danno da fare per incitare i compagni nei momenti difficili.
Così facendo, nell’anno dell’esordio, mette insieme 23 presenze in campionato e una decina in Coppa delle Coppe e, quel che più conta, dà un contributo decisivo alla conquista di entrambi i trofei. Bravo e fortunato, si diceva. Un inizio così alla Juve l’hanno avuto in pochi.
L’anno dopo, con l’arrivo dell’amico ed ex compagno di Avellino Luciano Favero, ci sono le condizioni per ripetersi. Ma stavolta la sorte è meno benigna e cominciano i problemi: dopo un clamoroso 0-4 rimediato a San Siro contro l’Inter e il derby perduto la domenica successiva, complice un suo errore in uscita, Tacconi è sostituito da Bodini e l’imprevedibile portiere perugino non accetta la panchina, con furiose polemiche che non possono sicuramente essere tollerate dall’ambiente juventino.
Fioccano le multe e trascorre parecchio tempo prima che Tacconi si rassegni alla panchina che sarebbe durata per lunghi mesi. «Tacconi sfida la Juventus!», «Tacconi ha aperto il fuoco!», «Clamorosa polemica alla Juventus!». I giornali vanno a nozze, approfittando curiosi di queste polemiche poco abituali per l’ambiente juventino.
«Una volta i giocatori parlavano poco, forse avevano anche paura, ma con la Legge 91 hanno acquisito la possibilità di andare dove vogliono e le società hanno inevitabilmente minor potere su di loro. Quell’esperienza che ho vissuto mi ha fatto capire che avevo commesso alcuni errori. Il tempo tuttavia ha dimostrato che non avevo parlato completamente a vanvera».
Bodini si dimostra un ottimo portiere e Tacconi soffre parecchio: rientra in squadra sul finire della stagione È pronto per la finale di Bruxelles, ma se la sentirà il Trap di rischiare? Tacconi lo rassicura: «Mister sono pronto, è la mia grande occasione». Il Trap a questo punto si fida. E fa bene. Tacconi è grande nella notte di tregenda, la Juve issa in spalla la prima Coppa Campioni anche grazie alle sue strepitose parate.
Il grande slam del portiere perugino si chiude di lì a qualche mese. Tokyo, 8 dicembre 1985, finale di Coppa Intercontinentale. L’apoteosi per la Juve trapattoniana, il trionfo personale per il portiere erede di Zoff. Cosa c’è di più esaltante per un portiere che ergersi a baluardo, essere l’artefice unico di un successo, insomma parare un rigore, anzi 2, anzi 3? La coppa lottata e sofferta è aggiudicata ai penalty e qui Tacconi si esalta. La sua espressione dopo l’ultima decisiva parata è nella storia televisiva e fotografica del calcio. Pugni al cielo, ghigno di chi è arrivato dove nessuno avrebbe mai detto, insomma gioia incontenibile. Che è poi la gioia di milioni di juventini che hanno messo la sveglia nel cuore della notte per non perdersi l’evento in TV.
Tacconi, di qui in avanti, è un mito dei fans, un uomo simbolo. La Juve dei ciclo trapattoniano non è più la stessa, lasciano campionissimi e arrivano giocatori normali, non si può sempre vincere. Tacconi è la continuità tra quella Juve trionfante e questa che la sfanga senza infamia e con poche lodi.
Passa il biennio di Marchesi, la nota lieta per Tacconi è il suo ingresso, in punta di piedi, nel giro della Nazionale. Da riserva di Zenga, si capisce, ma è sempre meglio di nulla. Poi, alla Juve, arriva Zoff ed è di nuovo tempo di vittorie. Tacconi non salta più una partita che è una, è sempre più il simbolo di una Juve che prova a vincere qualcosa e, nella stagione 1989-90, da un contributo decisivo a un’altra doppia conquista, Coppa Italia e Coppa Uefa. Nella finale europea con la Fiorentina, sul neutro della sua Avellino, gioca un’altra partita da incorniciare, degna premessa al posto in Nazionale al Mundial italiano di un mese dopo.
Poi, nel 1992, l’arrivo di Peruzzi è il segnale che la lunga avventura è agli sgoccioli. Lascia un ricordo indelebile e un curriculum da grande, uno dei più grandi nella storia del ruolo in maglia juventina: 402 partite, di cui 56 nelle coppe europee, con 2 scudetti, il tris delle coppe europee (una Uefa, una Campioni ed una Coppe) e quella Intercontinentale del 1985, che è più sua che di chiunque altro.

VLADIMIRO CAMINITI
Stefano Tacconi appartiene, per il carattere e la natura di forte idealista, alla schiatta dei frati giocondi che peroravano, nell’Umbria del 1200 sempre aprica e risparmiosa, il verbo della pudicizia. Dotati di favella gloriosa, costoro, scalzi, coperti da un saio, viaggiavano il mondo a dorso di faceti asinelli, e peroravano. Acclarata che è questa la natura di Tacconi, veniamo al portiere, e qui appare tutto evidente: più potente che agile, è però un autentico drago per la capacità di vivere il match nel suo cuore nobile; quasi imbattibile tra i pali quando è in forma, recupera doti di estemporanea efficacia nelle uscite frontali, mentre sui palloni che provengono dall’out rinunzia a priori, fidandosi, spesso a torto, dei colleghi difensori che subito rampogna aspramente. Tacconi è un grande, acrobatico portiere nel senso lato dell’espressione, soprattutto quando la sfida s’infiamma; nei confronti europei è risultato spesso decisivo dall’alto di una forza e furia atletica prestigiosa, con quel suo stile un tantino gradasso o spaccone pure nel baffo, i crudeli occhi cerulei ironici, che me lo hanno fatto soprannominare Capitan Fracassa. Tacconi fa della porta il suo regno: essa è l’espressione del suo talento spettacolare e spericolato, uomo vero nella sfida pericolosa del calcio ama il più difficile, il sempre più difficile. E dopo la tragedia dello stadio Heysel, ha maturato un gusto amaro e sarcastico dell’ambiente in cui vive.

NICOLA CALZARETTA, “HURRÀ JUVENTUS” DELL’OTTOBRE 2011
Stefano Tacconi. Fisico esplosivo, i centimetri giusti per un portiere che deve dominare la sua area. Porta i baffi, sotto una cesta di riccioli biondastri. Lingua tagliente e ben affilata, ma questo si saprà poi. Ha già alle spalle una buona gavetta quando arriva alla Juventus, estate 1983. Eppure quando arriva la chiamata della Juve per sostituire il mito Zoff, qualcuno storce il naso: «È normale», spiega. «Fino ad allora avevo giocato in provincia».
Invece dal cilindro di Boniperti spunta, a sorpresa, il tuo nome: «Ricordo che, però, già verso dicembre-gennaio cominciò a trapelare la notizia dell’interessamento della Juve nei miei confronti, quando Zoff ancora non aveva annunciato il ritiro».
Tu a questa notizia come reagisti? «A modo mio».
Cioè? «Dissi: “O io o lui”. Io la riserva non l’avrei fatta a nessuno».
Non hai avuto paura con quella sparata di esserti giocato la possibilità di andare alla Juve? «L’incoscienza ha sempre fatto parte del mio carattere. Sentivo di dover dire quelle cose e le ho dette. E sono convinto che i motivi per cui mi hanno scelto, c’è anche questo, la mia spavalderia».
Quando hai saputo che i giochi erano fatti? «Ad aprile. Me ne accorsi perché tutti temevano che mi facessi male! Comunque finché non ho firmato, non sono stato tranquillo. Mi volevano anche il Napoli e la Roma con la quale l’Avellino aveva già fatto un pre-contratto senza che io sapessi nulla».
Arrivavi a Torino, dove però c’era un Bodini che scalpitava: «Lui aveva chiuso benissimo la stagione precedente, aveva vinto la Coppa Italia. Ma io ero sicuro di me. Avevo ventisei anni, l’età giusta. Mi ero fatto una bella esperienza. E poi se mi avevano comprato, voleva dire che puntavano su di me. O no?»
E difatti l’11 settembre 1983 debutti in campionato con la maglia di Zoff: «Avevo già fatto la Coppa Italia, ma l’esordio al Comunale in campionato ha avuto tutto un altro sapore».
Sensazioni? «Un po’ di emozione c’era. Lo stadio era pieno, c’erano molte aspettative. Nell’aria sentivo ancora un po’ di scetticismo verso di me. In fondo dovevo dimostrare che quella maglia potevo meritarmela. È andata bene».
Direi benissimo, hai anche parato un rigore: «Onestamente l’Ascoli non fu un grande avversario: quel giorno vincemmo 7-0. E poi, con quella gente che stava davanti a me, mi sentivo molto tranquillo. Il rigore è stato la ciliegina sulla torta, fra l’altro De Vecchi non lo conoscevo proprio come rigorista».
Superata la prova del fuoco? «Mancava solo la Coppa delle Coppe che giocammo il mercoledì successivo. Anche lì vincemmo 7-0. Se non altro portavo fortuna! Alla fine dell’anno vincemmo scudetto e Coppa, mica male!»
Nel tuo primo anno alla Juventus hai avuto Dino Zoff come preparatore dei portieri. Quanto ti è servito? «Mi dava molta sicurezza».
Gli hai chiesto dei consigli? «Nessun consiglio. Anche lui aveva fatto così durante tutta la sua carriera. Ognuno deve fare di testa sua. Io poi sono sempre stato un tipo un po’ naif. Ero un orso, prima della partita non sono mai uscito a fare riscaldamento. Me ne stavo da solo nello spogliatoio. E poi non seguivo tabelle. Non c’era scienza nel mio gioco. Solo istinto e cuore».
Ed anche una particolare attenzione al look: con te le magliette si sono colorate vistosamente: «Era anche un modo per distinguersi dagli altri. E poi mi sono sempre piaciuti i colori sgargianti. Tutti tranne il giallo che portava sfiga».
È vero che disegnavi tu stesso i modelli? «Sì, me li cucivo addosso. Anche se nella mia prima finale europea la maglia me la dette Zoff».
Perché?  «Contro il Porto dovevamo giocare con le divise pulite, senza scritte commerciali. Io invece avevo tutte le maglie con lo sponsor. Allora Dino mi prestò la sua e così feci un ritorno al grigio. Che portò benissimo».
Ricordi un intervento in particolare della notte di Basilea? «La doppia parata su due tiri ravvicinati nel giro di cinque secondi. Modestamente ho dato anch’io il mio contribuito alla conquista della Coppa delle Coppe».
Quello fu il tuo primo trofeo internazionale al quale sono seguiti tutti gli altri, nessuno escluso: «Sono l’unico portiere ad aver vinto tutto. Voglio vedere che aspettano a mettere il mio nome nella Walk of Fame di Montecarlo!»
La lingua è ancora tagliente! «Guai se non fosse così. Anche se le mie uscite in carriera mi son o costate un sacco di soldi».
Quanti? «Più di 200 milioni. Anche se quella volta degli elicotteri di Berlusconi l’Avvocato Agnelli ne pagò la metà. Un grande!»
Quali sono stati i momenti più belli vissuti alla Juve? «Tutte le finali internazionali, con Tokyo un gradino su tutte: parai due rigori, quel giorno avevo una maglia verde».
E quelli più difficili? «Uno su tutti: quando rimasi fuori da novembre ad aprile, durante il campionato 1984-85. Ho sofferto molto, ho masticato amaro, ma alla fine ho vinto io. Feci anche la finale di Coppa Campioni, anche se ancora oggi non so perché il Trap mi fece giocare».
Che voto dai ai tuoi dieci anni alla Juve? «Dieci e lode».

NICOLA CALZARETTA, “GS” DEL GENNAIO 2012
In mano ha una busta della spesa con un peperone rosso appena acquistato dal verduraio di fiducia: «Oggi preparo un bel sugo ai peperoni, tanto se non cucino io, in casa mia non ci pensa nessuno».
È in perfetta forma, Stefano Tacconi, gli occhi azzurri scintillanti e la solita lingua tagliente. Siamo a Cusago, periferia sud di Milano. Mattinata brumosa, ma non fredda. L’appuntamento è in un bar del centro. Tuta nera, capelli biondo cenere spettinati come tendenza comanda e solito pizzetto ben curato. Un Campari, qualche patatina e via libera ai ricordi. Che sono tanti, perché lunga e ricca di eventi è stata la carriera di Tacconi, nato a Perugia il 13 maggio 1957. L’Inter, che lo aveva adocchiato da bimbetto, lo mette alla prova tra Spoleto, Busto Arsizio, Livorno e San Benedetto del Tronto. Poi, però, lo lascia libero. Ogni anno, uno scatto in avanti, fino alla Serie A con l’Avellino nel 1980. Ha  una montagna di riccioli, il baffo precoce e una voglia matta di arrivare. Nel 1983 ecco la Juventus per il dopo Zoff, hai detto nulla. Spaccone e irriverente, si prende la maglia da titolare e scrive pagine storiche in bianconero. Conquista scudetti, ma soprattutto tutte le coppe possibili e immaginabili.
Quella di più alto grado, la Coppa Intercontinentale, giusto ventisei anni fa, l’8 dicembre 1985 a Tokyo contro l’Argentinos Juniors: «L’ho vinta da protagonista, come avevo sempre sognato. Per un portiere è il massimo arrivare a giocarsi un trofeo ai calci di rigore. Quando l’arbitro ha fischiato la fine dei supplementari, ho detto: “E ora vado a prendermi la coppa”. Ero convinto, sicuro che quello sarebbe stato il mio momento. E difatti ho parato due rigori su quattro e siamo diventati Campioni del Mondo».
Detta così, più facile che bere un bicchiere d’acqua: «La partita è stata dura. Non quanto la preparazione, però».
In che senso? «Siamo arrivati a Tokyo praticamente una settimana prima della gara, dopo un viaggio in aereo che non finiva più. Boniperti, tirato come sempre, ci faceva viaggiare in economica, mai in business. Io, Brio e Serena sembravamo dei ricci, raggomitolati tra una fila di seggiolini e l’altra. Facemmo scalo in Alaska, atterrando su una montagna di neve. Il fuso orario ci ammazzò. E questo è stato il viaggio».
E a Tokyo? «Un casino. La città stava aspettando da mesi l’evento. Eravamo sempre imbottigliati nel traffico. Trapattoni, poi, era una belva perché avevano messo sia noi che gli argentini nello stesso albergo. La tensione saliva a vista d’occhio. Non c’era altro che allenamento, mangiare e dormire. Io ho resistito fino al quinto giorno».
Dopodiché? «Sono scappato e sono andato a cercarmi una geisha».
Trovata? «Sì e posso dire che dopo sono stato parecchio meglio».
Nessuno si è accorto di nulla? «No, o per lo meno nessuno mi ha detto niente. Mancavano due giorni alla partita. Erano tutti stressati. Io no».
Avevate qualche timore? «Era la finale di una coppa, gara secca. Non puoi mai stare tranquillo. Noi, comunque, eravamo abituati agli scontri diretti. Non come adesso che è tutto a gironi. Certo, qui ci giocavamo il mondo. Per la società poi c’era l’ulteriore traguardo di diventare l’unica squadra ad avere vinto tutte le coppe internazionali».
Ci furono particolari accorgimenti tattici? «Si doveva vincere. E basta. Noi eravamo la Juve».
Il tuo pre-gara com’è stato? «Quello di sempre. Da solo, nello spogliatoio, alla ricerca della concentrazione. Non sono mai uscito a fare riscaldamento. Non concepisco i portieri di oggi che stanno fuori un’ora prima della partita. E poi i saluti, i sorrisi nel sottopassaggio, ma che storia è? Io ero un orso. Dovevo stare da solo. Con la mia Marlboro e il caffè».
E la testa in quei momenti dove è andata? «È andata a mio fratello che, insieme a tanti tifosi della Juventus di tutta Italia, è partito con il pullman da Lucca per raggiungere Milano».
Per seguire in diretta TV la partita? «Sì. I diritti li acquistò Canale 5, ma la diretta avrebbe coperto solo la Lombardia. Noi giocammo a mezzogiorno, le quattro di notte in Italia. La differita l’avrebbero trasmessa nel pomeriggio dell’8 dicembre (tra l’altro l’ho vista anch’io). Prima della partita pensai a lui e a tutti quelli che stavano facendo chilometri per vederci in televisione».
Tokyo, ore dodici. Ci siamo: «Lo stadio era tutto bianconero, sembrava di stare a Torino. In panchina, accanto al Trap, c’erano tutti i dirigenti, perfino Edoardo Agnelli che, però, non aveva l’autorizzazione per stare in campo. Alla fine del primo tempo fu cacciato, ma lui trovò il modo di tornare dentro lo stesso».
Che rapporto avevi con lui? «Ottimo. Un bravo ragazzo, malinconico ma genuino. Ricordo che prima della partita dell’Heysel, quando ancora fuori non era successo niente, prese una sedia, ci salì sopra e fece un discorso a tutta la squadra. Ci fece piacere. Si sentiva accolto da noi. Qualche volta è venuto persino in ritiro a Villar Perosa, come suo cugino Giovanni Alberto. Ma il calcio non era nelle loro corde: avevano i piedi pieni di vesciche».
Intanto le squadre sono schierate e il tedesco Roth fischia l’inizio: «La partita fu bella, tirata, sempre in bilico, con continui cambi di fronte. Di là c’era gente come Olguín, Batista e Borghi, che era fortissimo».
Due goal per parte, più qualche altro annullato: «Ci siamo trovati a rincorrere, ma quella squadra poteva ancora contare su uno zoccolo duro di qualità, da Cabrini a Brio, da Scirea a Platini. Erano andati via Tardelli, Rossi e Boniek, ma era arrivata gente giovane come Mauro, Laudrup e Serena, oltre a Manfredonia, un leone. A un certo punto si fece male Scirea ed entrò Pioli, che aveva vent’anni. Fu bravissimo, dimostrò una personalità incredibile. Questa era la Juventus».
Tutto bello, ma a dieci minuti dalla fine siete sotto di un goal: «E lì c’è stato il capolavoro di Laudrup. Un pazzo scatenato. Anch’io ho urlato dalla mia porta di buttarsi per terra quando il portiere lo ha ostacolato. Il danese era un puledro purosangue. Quel goal lì, dalla linea di fondo, solo lui poteva farlo».
Fine dei novanta minuti, ecco i supplementari: «A quel punto non me ne importava più niente. Volevo i rigori. Dovevo entrare in scena io, da protagonista vincente. Fremevo dalla voglia».
Come ti sei preparato alla lotteria finale? «Io non avrei fatto nulla, com’era mio solito. Non ho mai visto cassette sugli avversari, non avevo dossier sugli attaccanti. Mi bastava l’istinto, la forza e la convinzione. In quel caso, invece, Romolo Bizzotto, il vice di Trapattoni, mi fece vedere per decine di volte la cassetta della finale della Libertadores tra Argentinos e America di Cali, finita anche quella ai rigori. Non ne potevo più, quella cassetta diventò un incubo».
Ma ti è servita o no? «Servita, servita. Imparai a memoria tutto, chi erano i rigoristi, come calciavano, da che parte avrebbero tirato. Anche se poi, a Tokyo, non mancarono le sorprese».
Tipo? «Intanto Olguín, il primo rigorista, cambiò l’angolo. Io andai deciso sulla mia sinistra e lui la buttò dall’altra parte. Mi alzai e mandai a quel paese Bizzotto e la sua maledetta cassetta».
Con Batista invece tutto filò liscio: «Fu un co*****e! Non cambiò nulla nell’esecuzione, piattone sulla mia sinistra. Io, in verità, anticipai un po’ il tuffo, tanto che presi il pallone con la mano sotto il corpo. Esultai come un centravanti, iniziai a non capire più nulla. Ero carichissimo, dovevo sfogare tutto, gioia compresa. Anche perché con la mia parata eravamo in vantaggio di un goal, visto che Brio e Cabrini avevano segnato».
E così arriviamo al terzo rigorista, tale Juan Josè Lopez: «E chi lo conosceva? Era entrato a tre minuti dalla fine dei tempi supplementari, solo per tirare il rigore. Iniziai a guardare la panchina, ma il Trap fece finta di non vedere, nemmeno lui sapeva chi fosse. Ma porca miseria, possibile che nessuno lo conosca? Oltretutto, mentre si avvicinava al dischetto, mi guardava con aria incazzata perché avevo preso il tiro di Batista. Ma che cavolo vuoi? Fece goal, ma con il piede per poco non gliela prendevo».
La situazione si fa incandescente. Laudrup sbaglia. Per te c’è Pavoni. Se segna, l’Argentinos pareggia: «Lui c’era nella cassetta. Era un tipo massiccio, dal tiro forte e centrale. Devo dire che sono stato bravo, riuscendo a muovermi solo un istante prima del calcio. Feci un piccolo spostamento sulla destra, riuscendo però a ritrovare la posizione eretta e a respingere con il corpo. E lì ho esultato come un matto. Sapevo che era l’ultimo».
Non è vero, c’era ancora Platini: «Appunto».
Non avevi dubbi su Michel? «Nessuno. Platini disputò la sua più bella finale con la Juve. Anzi, direi l’unica finale giocata da star. Ad Atene non era lui, ma neanche a Basilea brillò. Sull’Heysel meglio non dire nulla. A Tokyo era in vena, oltretutto gli annullarono un goal magnifico».
Per colpa di chi? «Di Brio, che era in fuorigioco, ma che non c’entrava niente con l’azione. Michel ancora oggi lo maledice. Ma in realtà l’arbitraggio non fu all’altezza, così come il campo: buche, zolle, ciuffi d’erba qua e là, una pena».
E le trombette? «Non le sentivo. La testa era per quella coppa. Sull’aereo, nel viaggio di ritorno, ci ho dormito insieme. Una gioia immensa».
Anche per le tasche? «A testa ci toccarono 125 milioni, non male».
In quei casi Boniperti pagava volentieri? «Boniperti non pagava mai volentieri, ma era molto bravo a riscuotere, specie con me».
Perché ti multava così spesso? «Perché io ero diverso dagli altri. Se avevo qualcosa da dire, la dicevo, non guardavo in faccia nessuno. Se volevo fumare, fumavo. Fumavo e vincevo, però. Fuori dal campo volevo fare come mi pareva: dal lunedì al sabato non volevo rotture di scatole».
Torniamo al trionfo di Tokyo: con la conquista dell’Intercontinentale la Juventus continua a dettare legge: «Ancora per poco, a dire il vero. La partenza in campionato fu da urlo, otto vittorie consecutive, un record. Per essere pronti per la finale, infatti, avevamo cambiato la preparazione, accelerando i ritmi e i tempi. L’idea, o meglio la speranza, era che si potesse prolungare il grande ciclo bianconero che durava dal 1977. In realtà quella squadra fu pensata quasi esclusivamente per vincere l’Intercontinentale».
Ma a maggio del 1986 quella squadra conquistò lo scudetto: «Sì, ed è stato l’ultimo prima di Lippi! Quel campionato l’abbiamo ripreso per i capelli grazie al Lecce alla penultima giornata. La verità è che si chiudeva una storia, il decennio di Trapattoni».
A proposito del Trap, con lui hai fatto fatica? «È stato il mio primo allenatore alla Juve. C’era rispetto, forse un po’ di distanza. Era un martello pneumatico, non ti mollava mai. Nella mia seconda stagione mi ha tenuto fuori per sei mesi ma ancora oggi non so il perché».
Non avete mai chiarito questa cosa? «Quando mi vede, mi dice sempre: “Tu lo sai il perché”. Ma io non so un cavolo. L’unica cosa che posso dire è che sono uscito di squadra che eravamo quarti e sono rientrato con la Juventus quinta. Solo colpa mia?»
Come si sta in panchina? «Fa freddo».
Come hai reagito alla decisione di metterti fuori squadra? «All’inizio l’ho messa in vacca. Ho mollato. Ero incazzato nero. Parlavo male di tutti. Poi è scoccata la scintilla e ho tirato fuori l’orgoglio. Fino al rientro in squadra».
Hai mai pensato di lasciare la Juve? «Dissi di no al Napoli che mi offrì 1.200 milioni quando ne prendevo 700. Volevo dimostrare che ero da Juve. Dicevo: gioco e rivinco. Ho tirato fuori il meglio di me, come feci nel 1980 alla mia prima stagione con l’Avellino».
Perché, in quel caso cosa successe? «Semplice: l’allenatore, Luis Vinicio, voleva farmi fuori. Eravamo nel pre-campionato ed io, francamente, pensavo a tutto tranne che al pallone. Poi feci un partitone a Palermo, il 24 agosto, e da lì tutto è filato liscio come l’olio. È sempre il campo che fa la differenza».
Ma intanto la domenica giocava Bodini: «Ma io ero convinto che prima o poi sarei tornato. In una squadra c’è il numero uno e il dodici. E il dodici di quella Juve era Bodini. Lo so che c’è rimasto male, ma io dovevo tornare a giocare. Rientrai a tre giornate dalla fine e poi feci la finale di Coppa Campioni all’Heysel. Senza nessuna spiegazione da parte di Trapattoni».
Dai “non detti” del Trap passiamo alle coccole di Zoff: «Dino mi voleva bene, ricambiato da me. L’ho avuto il primo anno come preparatore dei portieri alla Juve, poi due anni con la Nazionale olimpica e altre due stagioni come allenatore alla Juve. Ha sempre puntato su di me, mi ha messo dentro anche quando non stavo bene».
Quando è successo? «Quella volta che mi fratturai due costole, prima di una gara di Coppa Uefa. Lui andò dal dottore che confermò la diagnosi. Sai che rispose? “Io ho giocato con tre costole rotte”. E allora gioco anch’io, risposi».
Cosa ti ha insegnato Zoff? «Mi ha dato tranquillità, psicologicamente mi ha rafforzato molto. Dal lato tecnico, niente. Non gli ho mai chiesto consigli, né lui mai li ha dati a me. Mi diceva sempre: che ti devo insegnare? Quello che hai accumulato ce l’hai, io ti devo allenare. Che errore cacciarlo».
Che gusto hanno avuto le due coppe vinte con lui? «Per me ancora più saporito di tutte le altre. Perché erano quelle che mi mancavano per entrare nella storia e perché le ho tirate su io per primo come capitano».
Curiosità: com’è che la fascia era finita sul tuo braccio? «All’inizio della stagione 1988-89 Zoff la dette a Tricella, facendo fuori Brio. Ma Tricella cosa c’entrava? Era alla Juve da pochissimo. L’anno dopo mi sono imposto, ne ho parlato con Zoff e tutto è tomato nell’ordine. Ero io il più anziano della rosa».
Invece Maifredi? «Alla prima intervista da allenatore della Juventus dichiara: “Tacconi con me non sarà capitano”. Carino, eh?».
E tu? «Quando ci siamo incontrati per la prima volta, gli dissi che tra uomini si parla guardandosi negli occhi. Poi gli dimostrai che avevo tutti i requisiti per portare la fascia».
Cosa facesti? «Chiamai l’Avvocato Agnelli e poi passai la telefonata a Maifredi: “Mister, c’è qui qualcuno che vorrebbe parlarle”. Diventò rosso, s’infuriò, ma capì che l’aveva fatta fuori dal vaso. Maifredi partì malissimo. Dopo la figuraccia in Supercoppa con il Napoli, chiesi alla società di cacciarlo, ma Montezemolo mi rispose: “L’ho portato io”. I risultati alla fine si sono visti».
Tatticamente l’idea era buona: «Quando Maifredi parlava di tattica e schemi andavo a giocare a tennis con Sorrentino, il preparatore dei portieri».
Cos’è che non funzionò davvero? «Maifredi aveva sfasciato lo spogliatoio. Per lui c’era solo Baggino. Sai quante volte gli ho detto: “E gli altri?”. L’aria era elettrica. C’erano continue litigate. Qualche giorno prima della partita di Coppa contro il Barcellona, con Dario Bonetti arrivarono alle mani. Era inevitabile che accadesse».
Chiusa la parentesi Maifredi, tornano il Trap e Boniperti e tu, però, chiudi il tuo ciclo bianconero: «Puntarono su Peruzzi ed io non avevo nessuna voglia di stare in panchina. Non avrei mai fatto il dodicesimo, non l’avrei fatto neanche a Zoff a suo tempo. E lo dichiarai pure».
Già, quella volta lì l’hai sparata veramente grossa! «La Juve mi aveva di fatto preso nell’aprile 1983, il sentore era che Zoff avrebbe smesso. Poi lui, in un’intervista dopo Atene, fece capire che forse avrebbe continuato. Allora io dissi: “O me o lui”. La sparai grossa, può darsi. Ma questo è il mio carattere. Spregiudicato, spaccone, un po’ presuntuoso. Ma se non sei così, muori».
Diciamo che il carattere ti è servito per resistere ai massimi livelli per molti anni: «Ho iniziato nel 1976 a Spoleto in Serie D ed ho chiuso al Genoa a trentotto anni, vincendo tutto. Ho giocato con fuoriclasse assoluti alla Juventus. Ho affrontato tutto il meglio del calcio mondiale di quegli anni: Zico, Maradona, Vialli, tanto per metterli un podio. Se penso ai portieri di oggi della Serie A, mi chiedo che cosa racconteranno».
Chi ti ha insegnato i segreti del ruolo? «Gino Merlo, al Livorno. Lo chiamavano il portiere ballerino. Un giorno mi prende e mi fa: Conosci il valzer? No, perché? Il valzer ti dà i tempi. Un, due, tre... e fai il movimento. Che lezione».
Quale è stata la più bella parata che hai fatto? «Ce ne sono tante. Dal mucchio prendo quella al novantesimo contro il Colonia nel ritorno della semifinale di Coppa Uefa 1990. Se entrava quel pallone, eravamo fuori. Tiro da dentro l’area, Brio che mi copre la visuale, io schizzo sulla sinistra e devio in angolo. Lì ho esultato come a Tokyo».
E tra le tante maglie indossate in bianconero, a quale sei più legato? «A tutte quelle con cui ho giocato le finali. A Basilea quella grigia me la prestò Zoff perché le mie avevano lo sponsor, mentre l’Uefa imponeva la divisa pulita. Mi è sempre piaciuto curare il look, molti dei modelli che ho portato li disegnavo io stesso».
È tua anche l’idea delle mezze maniche? «Io le mezze maniche me le mangio oggi a pranzo. Con un bel sugo ai peperoni».
 
 
Modificato da Socrates

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Joined: 02-Jun-2005
12661 messaggi

Si hanno aggiornamenti sulle sue condizioni? Forza Stefano "para pure la Comare Secca".

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Joined: 04-Apr-2006
130769 messaggi

FORZA CAPITAN FRACASSA!

 

Tacconi operato di ernia (da Zenga) scherza: «Poi torno a giocare» -  Corriere.it

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