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Blade Runner

Tacconi

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Firma mostruosa .sicapo

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Firma mostruosa .sicapo

da che pulpito, detto da te "Il Maestro delle firme" mi fa arrossire :sisi:

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Joined: 31-Aug-2006
654 messaggi

Aspettiamo le motivazioni....dopotutto se hanno lasciato a piede libero gente come dell'utri,previti (concorso esterno in associazione mafiosa) e tronchetti provera (truffa e bancarotta fraudolenta) e condannato Moggi a 5 anni e 4 mesi ci sar

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Joined: 13-Oct-2005
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da che pulpito, detto da te "Il Maestro delle firme" mi fa arrossire :sisi:

Mi lusinga lei sefz.asd

Quando c'

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Joined: 14-Jul-2007
1803 messaggi

Mi lusinga lei sefz.asd

Quando c'

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Joined: 31-Oct-2007
301 messaggi

Mi lusinga lei sefz.asd

Quando c'

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Joined: 14-Jun-2008
11014 messaggi

HO FATTO

SESSO

PERSINO

A TOKYO

SALACE, IRRIVERENTE, SCHIETTO E TALVOLTA SCORBUTICO.

IL CARATTERE DI STEFANO TACCONI CE LO RICORDIAMO

TUTTI. MA CI SONO ALCUNE COSE CHE NON SAPEVAMO. A

PARTIRE DA QUELLA VIGILIA DI COPPA INTERCONTINENTALE

DI 26 ANNI FA. «ERO NERVOSO, PER CINQUE GIORNI SOLO

ALLENAMENTI, MANGIARE E DORMIRE. ALLORA HO PRESO

UNA GEISHA. OH, IN CAMPO ERO L'UNICO SENZA STRESS».

E QUESTO È SOLO L'INIZIO. PERCHÉ IN QUESTA SCOTTANTE

INTERVISTA NE HA PER MAIFREDI, IL TRAP E TANTI ALTRI

di NICOLA CALZARETTA (GUERIN SPORTIVO - GENNAIO 2012)

In mano ha una busta della spesa con un peperone rosso appena acquistato dal

verduraio di fiducia. «Oggi preparo un bel sugo ai peperoni, tanto se non

cucino io, in casa mia non ci pensa nessuno». È in perfetta forma, Stefano

Tacconi, gli occhi azzurri scintillanti e la solita lingua tagliente. Siamo a

Cusago, periferia sud di Milano. Mattinata brumosa, ma non fredda.

L'appuntamento è in un bar del centro. Tuta nera, capelli biondo cenere

spettinati come tendenza comanda e solito pizzetto ben curato. Un Campari,

qualche patatina e via libera ai ricordi. Che sono tanti, perché lunga e ricca

di eventi è stata la carriera di Tacconi, nato a Perugia il 13 maggio 1957.

L'Inter, che lo aveva adocchiato da bimbetto, lo mette alla prova tra Spoleto,

Busto Arsizio, Livorno e San Benedetto del Tronto. Poi, però, lo lascia

libero. Ogni anno, uno scatto in avanti, fino alla Serie A con l'Avellino nel

1980. Ha una montagna di riccioli, il baffo precoce e una voglia matta di

arrivare. Nel 1983 ecco la Juventus per il dopo Zoff, hai detto nulla.

Spaccone e irriverente, si prende la maglia da titolare e scrive pagine

storiche in bianconero. Conquista scudetti, ma soprattutto tutte le coppe

possibili e immaginabili. Quella di più alto grado, la Coppa Intercontinentale,

giusto ventisei anni fa, l'8 dicembre 1985 a Tokyo contro l'Argentinos

Juniors. «L'ho vinta da protagonista, come avevo sempre sognato. Per un

portiere è il massimo arrivare a giocarsi un trofeo ai calci di rigore. Quando

l'arbitro ha fischiato la fine dei supplementari, ho detto: "E ora vado a

prendermi la coppa". Ero convinto, sicuro che quello sarebbe stato il mio

momento. E difatti ho parato due rigori su quattro e siamo diventati Campioni

del Mondo».

Detta così, più facile che bere un bicchiere d'acqua.

«La partita è stata dura. Non quanto la preparazione, però».

In che senso?

«Siamo arrivati a Tokyo praticamente una settimana prima della gara, dopo un

viaggio in aereo che non finiva più. Boniperti, tirato come sempre, ci faceva

viaggiare in economica, mai in business. Io, Brio e Serena sembravamo dei

ricci, raggomitolati tra una fila di seggiolini e l'altra. Facemmo scalo in

Alaska, atterrando su una montagna di neve. Il fuso orario ci ammazzò. E

questo è stato il viaggio».

E a Tokyo?

«Un casino. La città stava aspettando da mesi l'evento. Eravamo sempre

imbottigliati nel traffico. Trapattoni, poi, era una belva perché avevano

messo sia noi che gli argentini nello stesso albergo. La tensione saliva a

vista d'occhio. Non c'era altro che allenamento, mangiare e dormire. Io ho

resistito fino al quinto giorno».

Dopodiché?

«Sono scappato e sono andato a cercarmi una geisha».

Trovata?

«Sì e posso dire che dopo sono stato parecchio meglio».

Nessuno si è accorto di nulla?

«No, o per lo meno nessuno mi ha detto niente. Mancavano due giorni alla

partita. Erano tutti stressati. Io no».

Avevate qualche timore?

«Era la finale di una coppa, gara secca. Non puoi mai stare tranquillo. Noi,

comunque, eravamo abituati agli scontri diretti. Non come adesso che è tutto a

gironi. Certo, qui ci giocavamo il mondo. Per la società poi c'era l'ulteriore

traguardo di diventare l'unica squadra ad avere vinto tutte le coppe

internazionali ».

Ci furono particolari accorgimenti tattici?

«Si doveva vincere. E basta. Noi eravamo la Juve».

Il tuo pre-gara come è stato?

«Quello di sempre. Da solo, nello spogliatoio, alla ricerca della

concentrazione. Non sono mai uscito a fare riscaldamento. Non concepisco i

portieri di oggi che stanno fuori un'ora prima della partita. E poi i saluti,

i sorrisi nel sottopassaggio, ma che storia è? Io ero un orso. Dovevo stare da

solo. Con la mia Marlboro e il caffè».

E la testa in quei momenti dove è andata?

«È andata a mio fratello che, insieme a tanti tifosi della Juventus di tutta

Italia, è partito con il pullman da Lucca per raggiungere Milano».

Per seguire in diretta tv la partita?

«Sì. I diritti li acquistò Canale 5, ma la diretta avrebbe coperto solo la

Lombardia. Noi giocammo a mezzogiorno, le quattro di notte in Italia. La

differita l'avrebbero trasmessa nel pomeriggio dell'8 dicembre (tra l'altro

l'ho vista anch'io). Prima della partita pensai a lui e a tutti quelli che

stavano facendo chilometri per vederci in televisione».

Tokyo, ore dodici. Ci siamo.

«Lo stadio era tutto bianconero, sembrava di stare a Torino. In panchina,

accanto al Trap, c'erano tutti i dirigenti, perfino Edoardo Agnelli che, però,

non aveva l'autorizzazione per stare in campo. Alla fine del primo tempo fu

cacciato, ma lui trovò il modo di tornare dentro lo stesso».

Che rapporto avevi con lui?

«Ottimo. Un bravo ragazzo, malinconico, ma genuino. Ricordo che prima della

partita dell'Heysel, quando ancora fuori non era successo niente, prese una

sedia, ci salì sopra e fece un discorso a tutta la squadra. Ci fece piacere.

Si sentiva accolto da noi. Qualche volta è venuto persino in ritiro a Villar

Perosa, come suo cugino Giovanni Alberto. Ma il calcio non era nelle loro

corde: avevano i piedi pieni di vesciche».

Intanto le squadre sono schierate e il tedesco Roth fischia l'inizio.

«La partita fu bella, tirata, sempre in bilico, con continui cambi di fronte.

Di là c'era gente come Olguin, Batista e Borghi, che era fortissimo».

Due gol per parte, più qualche altro annullato.

«Ci siamo trovati a rincorrere, ma quella squadra poteva ancora contare su uno

zoccolo duro di qualità, da Cabrini a Brio, da Scirea a Platini. Erano andati

via Tardelli, Rossi e Boniek, ma era arrivata gente giovane come Mauro,

Laudrup e Serena, oltre a Manfredonia, un leone. A un certo punto si fece male

Scirea ed entrò Pioli, che aveva vent'anni. Fu bravissimo, dimostrò una

personalità incredibile. Questa era la Juventus».

Tutto bello, ma a dieci minuti dalla fine siete sotto di un gol.

«E lì c'è stato il capolavoro di Laudrup. Un pazzo scatenato. Anch'io ho

urlato dalla mia porta di buttarsi per terra quando il portiere lo ha

ostacolato. Il danese era un puledro purosangue. Quel gol lì, dalla linea di

fondo, solo lui poteva farlo».

Fine dei novanta minuti, ecco i supplementari.

«A quel punto non me ne importava più niente. Volevo i rigori. Dovevo entrare

in scena io, da protagonista vincente. Fremevo dalla voglia».

Come ti sei preparato alla lotteria finale?

«Io non avrei fatto nulla, come era mio solito. Non ho mai visto cassette

sugli avversari, non avevo dossier sugli attaccanti. Mi bastava l'istinto, la

forza e la convinzione. In quel caso, invece, Romolo Bizzotto, il vice di

Trapattoni, mi fece vedere per decine di volte la cassetta della finale della

Libertadores tra Argentinos e America di Calì, finita anche quella ai rigori.

Non ne potevo più, quella cassetta diventò un incubo».

Ma ti è servita o no?

«Servita, servita. Imparai a memoria tutto, chi erano i rigoristi, come

calciavano, da che parte avrebbero tirato. Anche se poi, a Tokyo, non

mancarono le sorprese».

Tipo?

«Intanto Olguin, il primo rigorista, cambiò l'angolo. Io andai deciso sulla

mia sinistra e lui la buttò dall'altra parte. Mi alzai e mandai a quel paese

Bizzotto e la sua maledetta cassetta».

Con Batista invece tutto filò liscio.

«Fu un ċoglione! Non cambiò nulla nell'esecuzione, piattone sulla mia

sinistra. Io, in verità, anticipai un po' il tuffo, tanto che presi il pallone

con la mano sotto il corpo. Esultai come un centravanti, iniziai a non capire

più nulla. Ero carichissimo, dovevo sfogare tutto, gioia compresa. Anche

perché con la mia parata eravamo in vantaggio di un gol, visto che Brio e

Cabrini avevano segnato».

E così arriviamo al terzo rigorista, tale Juan Josè Lopez.

«E chi lo conosceva? Era entrato a tre minuti dalla fine dei tempi

supplementari, solo per tirare il rigore. Iniziai a guardare la panchina, ma

il Trap fece finta di non vedere, nemmeno lui sapeva chi fosse. Ma porca

miseria, possibile che nessuno lo conosca? Oltretutto, mentre si avvicinava al

dischetto, mi guardava con aria incazzata perché avevo preso il tiro di

Batista. Ma che cavolo vuoi? Fece gol, ma con il piede per poco non gliela

prendevo».

La situazione si fa incandescente. Laudrup sbaglia. Per te c'è Pavoni:

se segna, l' Argentinos pareggia.

«Lui c'era nella cassetta. Era un tipo massiccio, dal tiro forte e centrale.

Devo dire che sono stato bravo, riuscendo a muovermi solo un istante prima del

calcio. Feci un piccolo spostamento sulla destra, riuscendo però a ritrovare

la posizione eretta e a respingere con il corpo. E lì ho esultato come un

matto. Sapevo che era l'ultimo ... ».

Non è vero, c'era ancora Platini.

«Appunto».

Non avevi dubbi su Michel?

«Nessuno. Platini disputò la sua più bella finale con la Juve. Anzi, direi

l'unica finale giocata da star. Ad Atene non era lui, ma neanche a Basilea

brillò. Sull'Heysel meglio non dire nulla. A Tokyo era in vena, oltretutto gli

annullarono un gol magnifico».

Per colpa di chi?

«Di Brio, che era in fuorigioco, ma che non c'entrava niente con l'azione.

Michel ancora oggi lo maledice. Ma in realtà l'arbitraggio non fu all'altezza,

così come il campo: buche, zolle, ciuffi d'erba qua e là, una pena».

E le trombette?

«Non le sentivo. La testa era per quella coppa. Sull'aereo, nel viaggio di

ritorno, ci ho dormito insieme. Una gioia immensa».

Anche per le tasche?

«A testa ci toccarono centoventicinque milioni, non male».

In quei casi Boniperti pagava volentieri?

«Boniperti non pagava mai volentieri, ma era molto bravo a riscuotere, specie

con me».

Quanti soldi hai speso in multe?

«Credo duecento milioni, anche se quella sugli elicotteri di Berlusconi per

metà la pagò l'Avvocato Agnelli che mi disse: "Avrei detto le stesse cose"».

Perché ti multava così spesso?

«Perché io ero diverso dagli altri. Se avevo qualcosa da dire, la dicevo, non

guardavo in faccia nessuno. Se volevo fumare, fumavo. Fumavo e vincevo, però.

Fuori dal campo volevo fare come mi pareva: dal lunedì al sabato non volevo

rotture di scatole».

Torniamo al trionfo di Tokyo: con la conquista dell'Intercontinentale

la Juventus continua a dettare legge.

«Ancora per poco, a dire il vero. La partenza in campionato fu da urlo, otto

vittorie consecutive, un record. Per essere pronti per la finale, infatti,

avevamo cambiato la preparazione, accelerando i ritmi e i tempi. L'idea, o

meglio la speranza, era che si potesse prolungare il grande ciclo bianconero

che durava dal 1977. In realtà quella squadra fu pensata quasi esclusivamente

per vincere l'Intercontinentale».

Ma a maggio del 1986 "quella squadra" conquistò lo scudetto.

«Sì, ed è stato l'ultimo prima di Lippi! Quel campionato l'abbiamo ripreso per

i capelli grazie al Lecce alla penultima giornata. La verità è che si chiudeva

una storia, il decennio di Trapattoni».

A proposito del Trap, con lui hai fatto fatica?

«È stato il mio primo allenatore alla Juve. C'era rispetto, forse un po' di

distanza. Era un martello pneumatico, non ti mollava mai. Nella mia seconda

stagione mi ha tenuto fuori per sei mesi, ma ancora oggi non so il perché».

Non avete mai chiarito questa cosa?

«Quando mi vede, mi dice sempre: "Tu lo sai il perché?". Ma io non so un

cavolo. L'unica cosa che posso dire è che sono uscito di squadra che eravamo

quarti e sono rientrato con la Juventus quinta. Solo colpa mia?».

Come si sta in panchina?

«Fa freddo».

Come hai reagito alla decisione di metterti fuori squadra?

«All'inizio l'ho messa in vacca. Ho mollato. Ero incazzato nero. Parlavo male

di tutti. Poi è scoccata la scintilla e ho tirato fuori l'orgoglio. Fino al

rientro in squadra».

Hai mai pensato di lasciare la Juve?

«Dissi di no al Napoli che mi offrì un miliardo e duecento milioni quando ne

prendevo settecento. Volevo dimostrare che ero da Juve. Dicevo: gioco e

rivinco. Ho tirato fuori il meglio di me, come feci nel 1980 alla mia prima

stagione con l'Avellino».

Perché, in quel caso cosa successe?

«Semplice: l'allenatore, Luis Vinicio, voleva farmi fuori. Eravamo nel

precampionato e io, francamente, pensavo a tutto tranne che al pallone. Poi

feci un partitone a Palermo, il 24 agosto, e da lì tutto è filato liscio come

l'olio. E sempre il campo che fa la differenza».

Ma intanto la domenica giocava Bodini.

«Ma io ero convinto che prima o poi sarei tornato. In una squadra c'è il

numero uno e il dodici. E il dodici di quella Juve era Bodini. Lo so che c'è

rimasto male, ma io dovevo tornare a giocare. Rientrai a tre giornate dalla

fine e poi feci la finale di Coppa Campioni all'Heysel. Senza nessuna

spiegazione da parte di Trapattoni».

Dai "non detti" del Trap passiamo alle coccole di Zoff.

«Dino mi voleva bene, ricambiato da me. L'ho avuto il primo anno come

preparatore dei portieri alla Juve, poi due anni con l'Olimpica e altre due

stagioni come allenatore alla Juve. Ha sempre puntato su di me, mi ha messo

dentro anche quando non stavo bene».

Quando è successo?

«Quella volta che mi fratturai due costole, prima di una gara di Coppa Uefa.

Lui andò dal dottore che confermò la diagnosi. Sai che rispose? "Io ho giocato

con tre costole rotte". E allora gioco anch'io, risposi».

Cosa ti ha insegnato Zoff?

«Mi ha dato tranquillità, psicologicamente mi ha rafforzato molto. Dal lato

tecnico, niente. Non gli ho mai chiesto consigli, né lui mai li ha dati a me.

Mi diceva sempre: che ti devo insegnare? Quello che hai accumulato ce l 'hai,

io ti devo allenare. Che errore cacciarlo».

Che gusto hanno avuto le due coppe vinte con lui?

«Per me ancora più saporito di tutte le altre. Perché erano quelle che mi

mancavano per entrare nella storia e perché le ho tirate su io per primo come

capitano».

Curiosità: com'è che la fascia era finita sul tuo braccio?

«All'inizio della stagione 1988-89 Zoff la dette a Tricella, facendo fuori

Brio. Ma Tricella cosa c'entrava? Era alla Juve da pochissimo. L'anno dopo mi

sono imposto, ne ho parlato con Zoff e tutto è tornato nell'ordine. Ero io il

più anziano della rosa».

Invece Maifredi?

«Alla prima intervista da allenatore della Juventus dichiara: "Tacconi con me

non sarà capitano". Carino, eh?».

E tu?

«Quando ci siamo incontrati per la prima volta gli dissi che tra uomini si

parla guardandosi negli occhi. Poi gli dimostrai che avevo tutti i requisiti

per portare la fascia».

Cosa facesti?

«Chiamai l'Avvocato Agnelli e poi passai la telefonata a Maifredi: "Mister,

c'è qui qualcuno che vorrebbe parlarle". Diventò rosso, si infuriò, ma capì

che l'aveva fatta fuori dal vaso. Maifredi partì malissimo. Dopo la figuraccia

in Supercoppa con il Napoli, chiesi alla società di cacciarlo, ma Montezemolo

mi rispose: "L'ho portato io". I risultati alla fine si sono visti».

Tatticamente l'idea era buona.

«Quando Maifredi parlava di tattica e schemi andavo a giocare a tennis con

Sorrentino, il preparatore dei portieri».

Cos'è che non funzionò davvero?

«Maifredi aveva sfasciato lo spogliatoio. Per lui c'era solo Baggino. Sai

quante volte gli ho detto: "E gli altri?". L'aria era elettrica. C'erano

continue litigate. Qualche giorno prima della partita di Coppa contro il

Barcellona, con Dario Bonetti arrivarono alle mani. Era inevitabile che

accadesse».

Chiusa la parentesi Maifredi, tornano il Trap e Boniperti e tu, però,

chiudi il tuo ciclo bianconero.

«Puntarono su Peruzzi e io non avevo nessuna voglia di stare in panchina. Non

avrei mai fatto il dodicesimo, non l'avrei fatto neanche a Zoff a suo tempo. E

lo dichiarai pure».

Già, quella volta lì l'hai sparata veramente grossa!

«La Juve mi aveva di fatto preso nell'aprile 1983, il sentore era che Zoff

avrebbe smesso. Poi lui, in un'intervista dopo Atene, fece capire che forse

avrebbe continuato. Allora io dissi: "O me o lui". La sparai grossa, può

darsi. Ma questo è il mio carattere. Spregiudicato, spaccone, un po'

presuntuoso. Ma se non sei così, muori».

Diciamo che il carattere ti è servito per resistere ai massimi livelli

per molti anni.

«Ho iniziato nel 1976 a Spoleto in Serie D e ho chiuso al Genoa a 38 anni,

vincendo tutto. Ho giocato con fuoriclasse assoluti alla Juventus. Ho

affrontato tutto il meglio del calcio mondiale di quegli anni: Zico, Maradona,

Vialli, tanto per metter lì un podio. Se penso ai portieri di oggi della Serie

A, mi chiedo che cosa racconteranno».

Chi ti ha insegnato i segreti del ruolo?

«Gino Merlo, al Livorno. Lo chiamavano il portiere ballerino. Un giorno mi

prende e mi fa: Conosci il valzer? No, perché? Il valzer ti dà i tempi. Un,

due, tre . . . e fai il movimento. Che lezione».

Quale è stata la più bella parata che hai fatto?

«Ce ne sono tante. Dal mucchio prendo quella al novantesimo contro il Colonia

nel ritorno della semifinale di Coppa Uefa 1990. Se entrava quel pallone,

eravamo fuori. Tiro da dentro l'area, Brio che mi copre la visuale, io schizzo

sulla sinistra e devio in angolo. Lì ho esultato come a Tokyo».

E tra le tante maglie indossate in bianconero, a quale sei più legato?

«A tutte quelle con cui ho giocato le finali. A Basilea quella grigia me la

prestò Zoff perché le mie avevano lo sponsor, mentre l'Uefa imponeva la divisa

pulita. Mi è sempre piaciuto curare il look, molti dei modelli che ho portato

li disegnavo io stesso».

È tua anche l'idea delle mezze maniche?

«Io le mezze maniche me le mangio oggi a pranzo. Con un bel sugo ai peperoni».

Modificato da Ghost Dog

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