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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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L’intervista
ANDREA MASIELLO
«Ho fatto tanti errori
ma quell’autogol

non è stato voluto»
L’ex difensore del Bari, il derby e le partite combinate: «Ero
sfinito quando mi sono incolpato. Collaborare scelta giusta»

«Se parli sei un infame, c’è una mentalità distorta Il futuro? Spero in un’altra chance»
di FRANCESCO CENITI (GaSport 10-06-2013)

«Lo farò, tra qualche anno. Ma lo farò: mia figlia non dovrà vergognarsi. Le racconterò degli errori, il rischio di gettare a mare un’esistenza, la voglia di ripartire guardando in faccia la gente. La stringerò forte per farle capire che si possono commettere tante sciocchezze, ma poi devi avere la forza di affrontare i tuoi demoni e liberarti la coscienza. Le dirò del carcere, di quando sono venuti a prendermi e stavo svenendo, della mamma che piangeva... Ho sbagliato, ma non ho ucciso nessuno. Persone importanti mi hanno fatto la morale, dipingendomi come il diavolo. Non ero un santo, ma neppure il diavolo. Adesso parlo. E qualcosa da dire c’è. A partire dall’autogol nel derby con il Lecce: non l’ho fatto apposta». Sole, nuvole, vento, pioggia e poi ancora sole. A Viareggio il tempo fa le bizze. Sembra quasi che segua il discorso di Andrea Masiello, cambiando il colore del cielo a secondo dell’umore di questo ex ragazzo di 27 anni. Nell’aprile 2012 è stato arrestato a Bari: agli occhi del tifoso è diventato «l’infame» che si vende il derby. Si può fare tutto nel mondo del calcio, ma un derby è sacro. Quasi che il calcioscommesse fosse solo in quell’istante. La storia di Masiello dice anche altro: si è presentato in Procura per collaborare dopo aver letto il suo nome (fatto da Gervasoni) sui giornali. E’ stata una confessione «a rate», ma tra gennaio e marzo 2012 ha messo nero su bianco tutto quello che sapeva. Dopo il fermo non ha aggiunto nulla di nuovo. Stessa cosa con la giustizia sportiva: ha vuotato il sacco, raccontando episodi lontani come le combine con Treviso e Salernitana. Rivelazioni alla base degli ultimi deferimenti. Ma l’autogol è sempre l’autogol: quella sfida (comprata secondo i magistrati) al Lecce è costata la retrocessione. Meglio approfondire.

Masiello, è stato lei a incolparsi: perché lo ha fatto e qual è la verità?
«Bisogna trovarsi in certe situazioni. Avevo ammesso le mie responsabilità, parlato degli Zingari, delle pressioni dei tifosi. E restava quella gara. I magistrati erano convinti che l’avessi fatto apposta, ho spiegato diverse volte che non era così. Poi ho detto “sì”. Forse per sfinimento. Ha presente l’azione?».

È uno dei video più cliccati: lei quasi inciampa, calcia col destro, carambola sul piede e il pallone va nella porta vuota.
«Appunto, un vero disastro. Ma secondo lei uno che vuol fare un autogol fa questo cinema? Chi ha giocato anche in Terza categoria sa che è impossibile. Se volevo far male alla mia squadra c’erano altri modi. Rivedetevi la gara: nel primo tempo salvo un gol con una rovesciata. Quel derby l’ho giocato sul serio. Le cazzate le ho fatte prima e dopo».

E i soldi avuti per comprare il derby? Circa 300 mila euro...
«Non li ho presi. Certo, ho assecondato Giacobbe e Carella (arrestati con lui, ndr). Mi dicevano “ci sistemiamo”. Carella aveva contattato quelli del Lecce facendogli credere che potevano comprare la sfida. In estate siamo andati da loro: ho detto che l’autogol era vero».

Dovremmo crederle?
«Non siete obbligati. Ci sono stati mesi in cui non riuscivo a dormire. Dopo i primi arresti, vivevo nel terrore. Sapevo che Bellavista poteva raccontare dei fatti di Bari, quando venivano in molti a chiederci di combinare le partite per le scommesse».

Perché buttare al vento una carriera in questo modo?
«Ero un bamboccione e non capivo quello che stavo facendo. La consideravo una bravata, ma senza conseguenze. E perché nel calcio c’è una mentalità distorta che ti porta a ragionare in modo sbagliato. Diventi un eroe se non parli, se racconti la verità sei un ignobile. Il calcioscommesse non è solo Paoloni, Masiello, Gervasoni, Carobbio, Doni. E’ molto, molto di più».

Si potrebbe obiettare: dice così perché è stato scoperto...
«Alt, precisiamo. Potevo stare zitto e negare all’infinito. Altri lo hanno fatto davanti a prove schiaccianti. Qualcuno è stato creduto e riabilitato. Ognuno risponde alla propria coscienza. Ho collaborato, pagandone le conseguenze».

Ma ha ottenuto uno sconto sulla squalifica.
«Certo, sarei un ipocrita se non lo ammettessi. Ma non è facile lo stesso. Hai quasi la sensazione che il sistema non ostacoli chi sta zitto. A parole tutti dicono che vogliono pulizia, nei fatti dobbiamo impegnarci per dimostrarlo. Siamo il Paese dove è normale far vincere una squadra perché “tanto siamo salvi”, dove “meglio due feriti che un morto”, dove ti fanno capire “lascia stare, metti nei guai un compagno”. Siamo il Paese che ha in pratica espulso Simone Farina perché ha denunciato Zamperini».

Non vorrà paragonarsi a Farina?
«Per carità, lui ha avuto la forza di opporsi alla combine. Io ci sono finito dentro. Ma dove è ora Farina? Nessuno gli ha offerto un contratto, è andato in Inghilterra. Altri giocatori hanno ottenuto sconti impensabili senza ammettere nulla e adesso hanno un ingaggio».

Chi l’ha aiutata in quei mesi difficili?
«Mia moglie: le ho detto la verità quando sono uscite le prime voci. Poi Salvatore, il mio avvocato (Salvatore Pino, ndr). Con lui mi sono aperto poco alla volta, mi vergognavo. Veniva più facile scrivergli le cose sullo schermo del telefonino. Mi ha fatto pure da psicologo. E’ stato fondamentale. Come l’altro legale, Matias Manco. Poi papà, mamma e mio zio. Gli amici? Prima ne avevo tanti, ora li conto su una mano. Gli altri mi hanno voltato le spalle. Istruttivo».

Quando ha iniziato a deragliare?
«E’ accaduto a Bari: c’è un ambiente particolare. Gioco e scommesse sono una malattia. Hanno ragione i magistrati, moltissimi calciatori scommettono. A Bari la prima volta dico “no”. C’era da dare la vittoria al Treviso, mi faccio squalificare. Passa un anno, siamo già promossi. Dobbiamo andare a Salerno: i tifosi ci chiedono di perdere, poi arriva la proposta dei soldi, la squadra accetta. Settemila euro per rovinarsi la vita. Secondo lei ne avevo bisogno?».

Il peggio accade nell’anno della retrocessione.
«Sì, da marzo in poi è stata una processione. Prima Bellavista e i tifosi al campo, poi Iacovelli che mi presenta Gegic, l’offerta di Guberti per far vincere la Samp, i soldi portati da Ilievski per perdere a Palermo. Sono crollato, non capivo nulla. Eravamo allo sbando, abbiamo avvisato la società. Niente, non ci hanno portato in ritiro, lontano da quel macello. Certo, potevo denunciare. Non ho avuto il coraggio. Ho sbagliato, pensavo finisse lì. Ed è giusto che paghi. Mi sono fatto il carcere, i domiciliari, ho patteggiato 22 mesi e dato 7 mila euro per rifare un campetto».

Poi c’è l’aspetto sportivo...
«Squalifica fino a settembre 2014 e 60 mila euro di multa».

Cosa si aspetta dal futuro?
«Tornare in campo. Mi alleno ogni giorno con l’aiuto del preparatore Marco Terzi (fisicamente è tirato a lucido, ndr), poi gioco con amici due volte a settimana. Certo, mi manca il gruppo, la vita di squadra e il resto. Non voglio togliermi questa speranza. Ho l’età e le motivazioni per recuperare il tempo perduto: credo di poter giocare di nuovo in A. Adesso il minimo che posso fare è chiedere scusa a tutti i tifosi, iniziando da quelli del Bari e dell’Atalanta. E soprattutto al presidente Percassi che aveva riposto in me grande fiducia. Questa storia mi ha fatto crescere. Ora sono un uomo. Si concedono nuove opportunità anche a chi ha commesso sbagli molto più pesanti del mio, perché non dovrei averle io?».

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PRINCIPATO NON NEGOZIABILE
Un russo molto ricco, il regime fiscale di Monaco e le tasse alte di Hollande
Che cosa c’è dietro il caso che sta per cambiare per sempre il mondo del calcio

Neopromosso dalla B, con lo stadio sempre mezzo vuoto, il Monaco ha appena comprato Falcao per 60 milioni di euro
In Francia alle società saranno trattenuti alla fonte i due terzi dello stipendio dei giocatori. Nel Principato no, niente tasse
C’è una legge per obbligare il proprietario, il russo Rybolovlev, a risiedere in Francia. Lui farà ricorso, anche in Europa
La sentenza sul caso Bosman cambiò per sempre la storia del pallone. Il caso Monaco potrebbe avere lo stesso impatto

di BEPPE DI CORRADO (IL FOGLIO 11-06-2013)

Non lo vedi neanche, il Louis II: da fuori sembra un condominio di appartamenti di lusso un po’ âgé. Puro spirito Montecarlo. Il mare, i palazzi con i giardini pensili, lo stadio. Mimetizzato e vuoto. Diciottomila posti che di solito restano vuoti per metà. La desolazione è inversamente proporzionale ai milioni che il miliardario russo Dmitri Rybolovlev sta investendo per fare grande il pallone di Monaco e ai rischi che questo si trascina. Lì, in quello stadio che non sembra uno stadio e che potrebbe anche evitare di essere uno stadio, può consumarsi il più grande caos calcistico-politico-economico-diplomatico che l’Europa ricordi. Perché Radamel Falcao che va al Monaco è di più. E’ un caso, può diventare il caso. Perché con la costruzione di una nuova squadra multimilionaria europea può scoppiare definitivamente la bomba della concorrenza fiscale del Principato. Il club di Montecarlo spende 60 milioni per comprare il centravanti colombiano dell’Atletico Madrid, poi 70 milioni per l’altro colombiano James Rodrìguez, poi 10 milioni per il portiere Victor Valdés. Poi potrebbero arrivare Frank Lampard, Kevin Prince Boateng, Dani Alves: milioni e altri milioni. Già visto, sì. Però qui c’è qualcosa di diverso. Qui c’è quello che a Montecarlo c’è sempre stato, ma che finora non aveva rappresentato un problema: Falcao prenderà un ingaggio di 10 milioni a stagione. Lordi e però anche netti. Perché la tassazione di Monaco sulle persone fisiche è pari a zero.

Fermi tutti. Un momento prima di dire che non c’è differenza con quello che già accadeva l’anno scorso, due anni fa, dieci anni fa. Montecarlo non è cambiata, ma attorno è successo qualcosa. Ecco, se il Paris Saint-Germain o qualunque altra squadra francese avesse voluto prendere lo stesso giocatore, per dargli dieci milioni netti avrebbe dovuto spenderne più di venti, per colpa dell’imposizione fiscale. E’ sempre accaduto, sì. Ma mai il Monaco aveva deciso di fare un’operazione tipo questa, mai aveva avuto un presidente ambizioso come il russo Dmitri Rybolovlev che a Monaco ha comprato la squadra per portarla a vincere il campionato e poi la Champions. E’ partito dalla serie B e vuole prendersi tutto. Centocinquanta milioni già spesi e altri che usciranno dalle sue casse entro il 31 agosto sono una novità anche per la squadra di un posto che non sa che cosa sia la crisi. E questo è un problema, adesso. Le agevolazioni del Monaco sono da sempre tollerate. E’ successo altre volte che la squadra del Principato fosse così forte da lottare per scudetto ed Europa. Però i suoi cicli vincenti sono sempre coincisi con le difficoltà di altri club. Cioè: il Monaco era il meglio che la Francia (pur non essendo Francia) potesse offrire. Oggi no. Oggi il Paris Saint-Germain e i suoi padroni del Qatar vogliono esattamente ciò che vuole Rybolovlev. Per ottenerlo hanno speso centinaia di milioni e hanno anche foraggiato l’intero sistema pallonaro francese: al Jazeera ha comprato i diritti della Ligue 1. Per entrare nel mercato dei giocatori più forti ha dovuto offrire ingaggi altissimi che con le tasse sono diventati mostruosi. La super aliquota al 75 per cento, bocciata dalla Corte costituzionale per le persone fisiche, passerà alle aziende e il primo ministro Jean- Marc Ayrault s’è preso il disturbo di precisare che il prelievo toccherà pure i club di calcio: alle società saranno trattenuti alla fonte i due terzi dello stipendio dei giocatori che guadagnano più di un milione.

C’è qualcosa che non può più tornare, adesso. C’è un problema che dev’essere gestito. E’ complicato, è serio. E’ un piccolo paradosso, questo: nei confini di un solo paese (e del suo piccolo e scomodo coinquilino) esplode una questione che a livello europeo è sul tavolo da anni. Si riassume tutto in una domanda: è regolare che i club che partecipano a una stessa competizione abbiano trattamenti fiscali diversi oppure si rischia di sfociare nella concorrenza sleale? La risposta è sempre stata la stessa: così è, punto. Le squadre spagnole per anni hanno goduto delle agevolazioni che Madrid ha concesso loro, come l’estensione allo sport del trattamento riservato al mondo dello spettacolo. Il miracolo iberico del pallone è stato sì frutto di pianificazione, di scelte intelligenti, di bravi tecnici che hanno creato bravi calciatori, ma anche di un sistema paese che ha aiutato lo sport a essere grande. Per molto tempo i club italiani si sono lamentati, poi stanchi di ricevere porte sbattute in faccia, hanno smesso di porre il problema. Ora riesplode tutto in una dimensione geograficamente ridotta, ma simbolicamente molto più ampia. Perché la concorrenza fiscale tra paesi è praticamente impossibile da cancellare ed è anche un bene. Ma se la concorrenza avviene all’interno di un solo paese (calcistico) la storia si complica. Rischiano di cadere teoremi e certezze sui quali s’è costruito mezzo secolo di pallone e non solo.

La Lega francese ha appena varato un provvedimento che obbliga le società iscritte al campionato ad avere la residenza in Francia a partire dalla stagione 2014- 2015. Chi non si adegua viene escluso dal campionato. Le malelingue sostengono che dietro la norma ci sia proprio la pressante richiesta del Paris Saint-Germain (e quindi del Qatar). Qualcosa più di una moral suasion: di fronte a un campionato in cui un club ha nettamente dei vantaggi fiscali rispetto ad altri, loro sarebbero costretti a guardare altrove. Ecco: la Francia non può permetterselo. Non ora, non con gli amici dell’Emirato con i quali condivide non solo investimenti televisivo-sportivi, ma anche strategie comuni nella Difesa, nelle infrastrutture, nella diplomazia in medio oriente. Se proprio devono inimicarsi qualcuno, a Parigi preferiscono i cugini del Principato, con i quali i rapporti sono formalmente pacifici dal 1962, ma che nei fatti continuano a essere agitati. La Lega calcio fa la sua parte. Al neo signore del calcio di Montecarlo, Rybolovlev, ha chiesto non solo di adeguarsi alle regole fiscali del resto del campionato, ma anche di regolarizzare la sua posizione entro il 2014: duecento milioni di euro di arretrati che il magnate russo dovrebbe versare nelle casse dello stato francese prima dell’inizio della stagione successiva a quella che sta per cominciare.

Rybolovlev non ha parlato. La vittoria del campionato di serie B con Ranieri in panchina ha esportato la sua storia in giro per l’Europa. Soldi, gossip, business. Il calcio sullo sfondo. L’Espresso s’è chiesto chi sia l’uomo che ha deciso di sfidare Parigi: “Quarantasei anni, nativo di Perm (Russia europea orientale), Rybolovlev negli anni Novanta ha fatto fortuna nel campo dei fertilizzanti di potassio, di cui possedeva fino al 2010 l’industria Uralkali. Alla fine del 1996 viene arrestato perché accusato di essere il mandante dell’omicidio della direttrice generale di un’azienda chimica. Il tribunale lo rilascia perché il principale testimone ritira la sua accusa. Nella lista di Forbes è classificato al numero 119 tra i ricchi del pianeta grazie a un patrimonio di oltre 9 miliardi di dollari. Un mese fa ha acquistato per la figlia Ekaterina l’isola di Skorpios, che fu dell’armatore Aristotele Onassis, per 100 milioni di euro. Non nuovo a colpi di mercato immobiliari, Rybolovlev si era già comprato l’ex villa di Donald Trump a Palm Beach per 100 milioni di dollari e un attico super terrazzato a Central Park per 88 milioni di dollari (il prezzo più alto mai pagato per un appartamento a New York): anche quest’ultimo un regalo per l’amata figlia Ekaterina che vive con lui a Montecarlo dopo il divorzio dalla moglie Elena. La quale ha ottenuto 6 miliardi di dollari di risarcimento per le ripetute infedeltà del marito: l’ultima, un’orgia nella vasca da bagno con alcune modelle.

Tra una foto e un racconto della vita privata, il Monaco ha cominciato a rastrellare il mercato. Come il Manchester City e il Paris Saint-Germain degli arabi hanno assecondato molte delle proposte del super procuratore Mino Raiola, così a Montecarlo, l’agente che lavora meglio con il ricchissimo signore russo è Jorge Mendes, celeberrimo portoghese che cura gli interessi e i contratti di José Mourinho, di Falcao, di Cristiano Ronaldo e di molte altre star del pallone. Così la gran parte dei giocatori acquistati finora sono della scuderia del procuratore rivale di Raiola. Le operazioni non sono finite. I duecento milioni che la Lega francese pretende per girarli al fisco di Hollande, Rybolovlev li ha messi sul piatto del mercato: chiedi e ti sarà dato, ha detto più o meno a Claudio Ranieri, il quale non sembrava essere l’allenatore che avrebbe dovuto guidare il Monaco alla conquista d’Europa. Alla fine, invece, l’allenatore italiano è rimasto a Montecarlo pronto a chiedere una lista di campioni. Falcao è arrivato praticamente senza concorrenza: l’avrebbero voluto tutti, dal Real Madrid al Manchester United, ma con i mezzi di cui dispone oggi il Monaco la partita è impossibile per tutti. La chiave di tutto è proprio il regime fiscale. Perché è sull’ingaggio del calciatore che a Montecarlo si fa la differenza nelle trattative: basta pareggiare l’offerta di un potenziale concorrente ed è fatta, convincere il giocatore è un dettaglio che sfiora lo scherzo.

Rybolovlev lo sa. Rybolovlev lo vede. Quello stadio dove si siede un weekend sì e uno no non è da campioni. La differenza la fa lui, i suoi numeri, le sue possibilità e tutto quello che sta all’esterno dello stadio, non dentro. E’ per questo che di fronte al montante malcontento degli altri club nei suoi confronti invece di parlare ha già agito. Alla richiesta della Lega ha risposto facendo ricorso al Consiglio di stato. Attenzione, perché qui si entra in un vortice la cui forza nessuno è in grado di prevedere. Per capirsi: il caso Bosman, cominciò per molto meno e con molto meno. Era il 1990: Jean-Marc Bosman era poco più che un giocatore normale, giocava nel Royal Club di Liegi. Il presidente della squadra decise unilateralmente di decurtargli del 75 per cento lo stipendio, proprio quando era in scadenza di contratto e prossimo a rinnovare l’accordo; Bosman rispose alla proposta di riduzione dell’ingaggio chiedendo al Liegi di cederlo al Dunkerque, squadra di terza divisione francese che l’avrebbe preso volentieri. Il Liegi, però, per acconsentire al trasferimento, chiese un indennizzo pari a un miliardo e 260 milioni di lire, quattro volte la cifra pagata a suo tempo per acquistare il giocatore dallo Standard. Troppo per la società francese. Il trasferimento saltò, il Liegi negò a Bosman la consegna gratuita del cartellino. Iniziò la battaglia: lui fuori rosa, il club tranquillo. All’epoca funzionava così: il calciatore che giocava in una squadra, alla scadenza del contratto poteva trasferirsi in un altro club, ma soltanto dietro il pagamento alla società di appartenenza di un indennizzo parametrato su uno strano incrocio: l’età del giocatore, categoria, ingaggio e premi. Si quantificava e si metteva sul piatto: chi voleva prendersi il giocatore, doveva sborsare quella somma senza sconti, altrimenti nulla. Nel caso di Bosman, fu il nulla. Lui protestò e venne sospeso dalla Federcalcio belga. Allora si rivolse a un tribunale statale, che in attesa di trovare una soluzione diede un via libera temporaneo al giocatore: Jean-Marc poteva cercarsi una squadra e giocare fino a nuovo ordine. Boicottato dal sistema calcio del suo paese – nessun club nazionale gli offrì più lavoro – per continuare a giocare fu costretto a cercare ingaggi all’estero: riuscì a trasferirsi in Francia, al Saint Quentin (terza divisione), poi si spinse perfino all’isola di Reunion, prima di rientrare e avviarsi a concludere la sua carriera nelle serie minori, nel Visé, in quarta divisione belga. Nel frattempo, il suo fascicolo processuale saltava da una scrivania a un’altra, fino a quando il tribunale belga decise che l’affaire Bosman non era di sua competenza. I legali di Jean-Marc si appellavano a norme e trattati sovranazionali: il fascicolo venne spedito alla Corte di giustizia europea. Audizioni, testimonianze, pareri di giuristi e costituzionalisti. Si andò sul pesante, con l’Uefa che in tutti i modi cercò di tenere a bada il ribelle. E lui che rilasciava interviste intimidatorie: “Mi stanno ricattando, vogliono comprarmi. Per cinque anni hanno tentato di corrompermi. Così, per aver tutelato i calciatori nei loro diritti di lavoratori, ho vissuto la discesa agli inferi. Quelli dell’Uefa sono tutti dei mafiosi”. La sentenza arrivò in quel 15 dicembre 1995. Nessuno, cinque anni prima, s’aspettava che una causa di lavoro si sarebbe trasformata in una sentenza che avrebbe cambiato la storia del pallone. Allo stesso modo oggi nessuno può immaginare gli sviluppi del caso Monaco. Se il Consiglio di stato darà torto a Rybolovlev, il magnate russo si rivolgerà altrove. Corte di giustizia di Lussemburgo, sì. Europa, quindi. Il che aprirebbe ogni possibile scenario, compreso quello di una nuova rivoluzione che stavolta parta dal calcio e finisca ovunque. Perché il pallone è un business come un altro. Perché la sfida Monaco-Francia può contagiare tutti. Lo sport farebbe da apriscatole, per poi finire inghiottito come Bosman. E’ il destino del calcio quando smette di essere calcio. Lo stadio non conta più.

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Los fondos de inversión

saltan al campo de juego

La crisis de los clubes de fútbol impulsa el negocio de unas

entidades que ya controlan al menos 54 jugadores en España

La Liga se plantea regular estos instrumentos de gestión

Las empresas del sector ganan más cuantos más fichajes cierren

Los detractores temen que se actúe contra la voluntad de los jugadores

por AMAYA IRÍBAR (El País 12-06-2013)

Neymar y Falcao comparten algo más que el ser dos de los grandes fichajes de lo que va de verano. Son también el ejemplo extremo de un negocio, el del fútbol, donde misteriosos fondos de inversión, jeques y millonarios rusos e intermediarios de todo tipo parecen tener cada vez más fuerza y donde los clubes, incluso algunos de los grandes, no aciertan a explicar de forma coherente sus grandes operaciones a pesar de intentarlo.

¿Cómo justificar que un jugador como Falcao, protagonista en los tres últimos títulos del Atlético —Liga Europa, Supercopa y Copa del Rey— renuncie a la oportunidad de jugar su segunda Champions para recalar en el Mónaco, un recién ascendido a la Primera francesa que ha recibido una enorme inyección de dinero del multimillonario ruso Rybolovlev? El Atlético, que contó con la ayuda de Doyen, una empresa que invierte por diferentes vías en el fútbol —patrocinios, fondos o financiando operaciones de fichaje— para hacerse con los servicios del colombiano, solo explicó el día de su venta que había ingresado 45 millones por el traspaso. En el inesperado destino final de Falcao se han entremezclado los 14 millones de euros que percibirá en Mónaco, las necesidades de caja del Atlético, los intereses de su agente (Jorge Mendes), que está abasteciendo de jugadores el proyecto del millonario ruso como ya hizo en el Chelsea Abramovich, y los deseos de la familia. Con todo, la elección del club monegasco por Falcao, en la cima de su carrera, deja en la afición la sensación de confusión que suele rodear a todas las operaciones relacionadas, de una manera u otra, con fondos de inversión.

La misma confusión se advierte en el caso del fichaje del brasileño Neymar, presentado en Barcelona la semana pasada como la gran estrella que es. El club azulgrana cifró en 57 millones el coste del jugador, aseguró que la operación se había hecho sin intermediarios y se aferró a una cláusula de confidencialidad para no detallar el reparto de ese dinero entre el club vendedor (el Santos) y tres empresas (DIS, TEISA y N&N), que poseían parte de los derechos económicos del jugador.

El Barça y el Madrid pueden permitirse no tener que recurrir a estos fondos, gracias a su fortaleza económica y deportiva. Pero hasta una docena de clubes de Primera y Segunda División, ahogados económicamente, con los bancos cerrados en banda y con las Administraciones en retirada, han encontrado en los fondos de inversión e instrumentos similares el camino para fichar talentos que de otra manera no podrían permitirse. Hasta 54 jugadores no son propiedad al 100% de sus clubes, y un histórico como el Sporting de Gijón ha puesto parte de su cantera en manos de uno de estos inversores. El fenómeno, aunque no es solo español, se ceba en una Liga en crisis; preocupa y mucho a la UEFA, que aboga por prohibir estas fórmulas; y divide al mundo del fútbol. El nuevo presidente de la Liga de Fútbol Profesional (LFP), Javier Tebas, defiende su regulación.

El primer caso sonado en España fue Roberto. El portero llegó al Zaragoza procedente del Benfica en el verano de 2011, poco después de que el club español se declarara en suspensión de pagos. El Zaragoza era incapaz de pagar sus deudas, pero alguien estaba dispuesto a poner encima de la mesa 8,6 millones (100.000 euros más de lo que un año antes había pagado el club portugués al Atlético) para hacerse con los servicios del guardameta. En realidad no fue el club quien pagó sino un fondo de inversión.

Los fondos suelen invertir en jugadores jóvenes con proyección, no suelen comprar más del 50% de sus derechos económicos, de tal forma que comparten el riesgo con el club, y se llevan la parte proporcional de la plusvalía que generan sus futuros traspasos. En caso de que el jugador no sea vendido en un plazo establecido —cuatro años es un periodo habitual— el club devuelve el dinero con intereses.

La fórmula empezó en América Latina, y aunque está prohibida en Inglaterra, Francia y Polonia, lleva años extendiéndose por Europa y funciona a toda máquina en Portugal, donde los grandes clubes cuentan con sus propios fondos de inversión, la mayoría ideados por el Banco Espirito Santo. Creado en 2009, el fondo está participado en un 15% por el propio club —así gana dinero por dos vías con cada venta— y ha dado una rentabilidad del 35% a sus inversores en tres años, según los dirigentes del equipo.

Desde la operación de Roberto, el mercado, aún muy incipiente, se ha avivado en España, en buena parte animado por Doyen, el fondo radicado en Malta que empezó con patrocinios en las camisetas del Atlético, Sporting y Getafe, y es el fondo más activo en la compra de trocitos de jugadores en la Liga, como demuestran las operaciones con los sevillistas Stevanovic, Botía o Kondogbia, por poner solo tres ejemplos, y que anuncia entre sus cromos al atlético Falcao, uno de los protagonistas del verano. La diferencia con Portugal es que, mientras que allí los clubes cotizan en Bolsa y están obligados a informar de sus acuerdos económicos, en España son un misterio y no hay forma de que un aficionado sepa de quién es el jugador y en qué porcentaje.

“No tenemos nada que ocultar. Cumplimos rigurosamente las normas. Adelantamos el dinero y no hay ninguna pistola encima de la mesa”, aseguró Nelio Lucas, responsable de Doyen en España, escoltado por los agentes Juanma López y Mariano Aguilar, en un seminario de la Catédra de Derecho Deportivo de la Universidad Rey Juan Carlos en Las Rozas (Madrid). Lucas no da entrevistas.

Sin embargo la UEFA no lo ve tan claro. Para el máximo organismo del fútbol europeo los fondos son peligrosos por razones morales —pueden obligar a un jugador a cambiar de equipo contra su voluntad y existe una resolución reciente del Tribunal de Arbitraje Deportivo que condena estas prácticas—; deportivas —pueden poner en riesgo la integridad de la competición porque tienen intereses en equipos rivales—; su modelo de negocio favorece la inestabilidad de los jugadores —cuanto más se muevan, más ganan—; y, sobre todo, “son incompatibles con las normas de juego limpio financiero”, que pretenden que los clubes se financien con ingresos más estables.

Los detractores, entre los que están también la FIFA y el sindicato de jugadores AFE, advierten además que estas entidades inflan el mercado y provocan la descapitalización del club, que renuncia a uno de sus activos, la plantilla. Como dice una fuente que pide no ser identificada: “Es pan para hoy y hambre para mañana”.

Contra la decisión de prohibirlos se levantan estos hombres de negocios y muchos clubes, necesitados de ayuda. “El futuro en el fútbol, no solo en España, es que los fondos colaboren con los clubes”, aseguró Carlos Suárez, presidente del Valladolid, en Las Rozas, haciéndose eco del sentir de muchos de sus colegas. Incluso el nuevo presidente de la Liga, Javier Tebas, asegura que los fondos ya han evitado la quiebra de algún club español y defiende la regulación, establecer algún límite y controlarlos, pero no su prohibición. Entre los límites que sugiere Tebas está el número de jugadores que un fondo puede tener en un mismo club, en el campeonato, jóvenes...

“Como en todos los sectores, hay buenos y malos fondos. Lo mejor sería regularlos, porque la mayoría están auditados”, aseguran Alfredo Garzón y Javier Ferrero, de Senn, Ferrero, Asociados, el despacho más activo en este mercado y que representa a Doyen. “Nuestros clientes tampoco tendrían ningún problema en hacer pública la información al regulador, como hacen los clubes portugueses y como se hace en España ante la Liga. Pero muchos clubes tienen miedo de ir más allá porque los aficionados no suelen entender estas operaciones”.

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L'EQUIPE 12-06-2013

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Modificato da Ghost Dog

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In the era of Financial Fair Play

clubs must pay smart, not pay more

The time has come for Premier League clubs to control players'

salaries and that must involve performanced-based incentives

by IAN LYNAM (The Guardian 10-06-2013)

The latest Deloitte Annual Review of Football Finance highlights the ever-increasing size of footballer pay packets: a growth of 12% last year to £1.6bn across England's four divisions. The size of a club's wage bill is an important topic, and not just for the local Ferrari dealer.

Paying too much is dangerous, as evidenced by more than 120 European clubs going into insolvency since 2007. At the same time, an overly cautious approach will also be damaging. There is a strong correlation between wages and wins, a topic most recently addressed in the excellent The Numbers Game, an invaluable introduction to the potential of analytics in modern football released this month by two jocks turned geeks (the Ivy League professors Chris Anderson and David Sally).

Clubs face a classic catch-22. Outside the intervention of a wealthy benefactor (an approach now limited by the introduction of Financial Fair Play) there is very little they can do to increase the amount available to pay players. The key ingredient to grow revenues is success, but success usually costs a lot of money. Given the difficulty of growing more revenue than your rivals, clubs naturally focus on where the money is spent.

They invest in academies and scouting networks to try to get more bang for their buck and, at least in England, they hire and fire managers based on their perceived ability as canny transfer window operators.

The amount of wages paid and to whom is clearly hugely important. What doesn't receive as much attention is how that money is paid. It's here that progressive clubs can gain an advantage. Remuneration strategy has become a discipline of its own in the corporate world and it has an obvious application in sport. Without necessarily paying more, clubs can increase player motivation, better align interests between club and player, and improve player satisfaction and the team dynamic.

The knee-jerk reaction to performance-based pay is that players and agents won't accept it. The received wisdom is that players are risk averse and will insist on guaranteed pay. I've spoken to a number of leading agents, however, and all of them agree that most players will be open to performance-based pay provided, of course, that the contract properly balances the interests of club and player. The contract can't just hedge against the club's downside; it needs to offer the player a realistic opportunity to earn more than his "market value".

Ferran Soriano faced similar opposition when he introduced performance-based pay as Barcelona's finance director. In his book, Goal, Soriano notes that "a lot or people in the know said the players wouldn't accept it. They said we were deluded and inexperienced" – but Soriano's model was accepted and remains that of Barça.

Goal sets out the approach in considerable detail: pay is two-thirds fixed and one-third variable based on the success of the team and a player playing at least 60% of first-team matches. Unsurprisingly, given its success, Soriano has now transplanted the approach, to the letter, to his job as Manchester City's chief executive.

A huge wage packet may attract a player to a club but it won't necessarily keep him motivated and satisfied. Guaranteed income can have a negative impact on motivation and even a huge salary can cause unhappiness if it happens to be less than a team-mate of perceived similar ability. Banding groups of players of similar ability/importance and keeping salaries relatively close within the bands eliminates a common source of dissatisfaction. This is not a "socialist" approach, however; genuine star players can be accommodated with higher salary bands.

In contracts, the most basic approach to pay, and that currently adopted by the vast majority of English clubs, is for the players to earn a set salary per week guaranteed over a three-to-five-year period. To the extent that bonuses are used, they are often inefficient because they incentivise the "wrong" behaviours, or are set too low to incentivise correct behaviours.

The current bonus schedule at one of the "big" Premier League teams provides for a bonus of £950,000 to be split pro rata between the squad if Champions League qualification is achieved. It is simply not enough to positively affect a Premier League player's level of motivation or satisfaction. The club should either add a zero (still a relatively modest sum when compared with the minimum direct benefit of £25m that comes with Champions League qualification) or scrap the bonus schedule altogether and spend the money on something that will bring a benefit to the club.

A handful of clubs are taking a more sophisticated approach, however, and it was interesting to read Ivan Gazidis's recent acknowledgement that analytics play a part in helping to set Arsenal's wage structure.

The next level is for clubs to use contracts split between a guaranteed basic and a significant amount of variable pay based on team success. This is the approach advocated by Soriano and used, in various formats, by about a quarter of the Premier League clubs.

This approach is based on a club evaluating the value of "performance" – say £125m for promotion to the Premier League, £25m for Champions League qualification, £750,000 per Premier League place etc – the cost of "underperformance" (relegation or failure to qualify for Champions League, depending on stature of the club) and structuring the contract accordingly.

A similar approach can be used to pay managers, incentivising success in the medium term (even if the manager is fired in the interim) to prevent the short-term approach to decision-making that is endemic given the limited life expectancy of managers in England.

Can individual incentives also work in football? Soriano's view is that they cannot, and that "a team sport such as football requires group rewards". Certainly it is fraught with difficulty. Goal bonuses can lead to strikers shooting instead of passing to free team-mates. Assist bonuses can lead to the opposite, as has been noted with point guards in the NBA.

Bonuses for ground covered, or even number of high-intensity sprints, can lead to a lot of aimless running. Even seemingly non-controversial clean-sheet bonuses (more valuable than a goal as demonstrated in The Numbers Game) taken alone can influence full-backs not to push forward as often as they should.

Identifying the correct behaviours to incentivise is key. Given the nature of the sport, it is unlikely that a particular undervalued skill will be discovered (in the way that On-Base Percentage transformed player valuations in baseball post Moneyball).

The key, therefore, will be the development of composite analytics to accurately measure a player's overall contribution to team performance. Farhan Zaidi, Billy Beane's right-hand man at the Oakland A's, believes that football analytics' holy grail is the development of a stat for "goal-probability added".

Even that might be a little narrow. I recently discussed this topic with Blake Wooster, a consultant on performance analytics in football. His vision is a composite metric to calculate a player's "contribution to winning". Suffice to say, the development of analytics has a way to go before these metrics can be used as contractual incentives.

"Pay more" will always be the strategy most likely to lead to success. In the Financial Fair Play era, however, all clubs would be well advised to pay smart.

Financial Fair Play and George Orwell

by STEFAN SZYMANSKI (SOCCERNOMICS 11-06-2013)

“A man may take to drink because he feels himself to be a failure, and then fail all the more completely because he drinks. It is rather the same thing that is happening to the English language. It becomes ugly and inaccurate because our thoughts are foolish, but the slovenliness of our language makes it easier for us to have foolish thoughts.”

George Orwell, Politics and the English Language

What does Financial Fair Play really mean? Fair Play is one of those constructions that have become so commonplace in our discourse that we scarcely think of its meaning. If called upon to define it we might say it has something to do with honesty and justice in a sporting context, but all too often it has become an adjective which we append to signify our approval, in the same way that we might use the word “democratic” to describe something we like, and “fascist” for something we don’t.

Fair Play is a concept given to the world by the English language, like the word football. The English words “Fair Play” have been adopted in almost every other language (judging by my search on Google translate) and the German anglophile, Rudolf Kircher who wrote a book on the subject in 1928, roundly declared “the words are untranslatable”. He argued that the concept is something that you learn as a child “that it is wrong to take advantage of the weak, and unmanly to ill-treat a beaten adversary”.

Actually the use of the term does not originate in sport, but is first found in Shakespeare, when a character in King John says “According to the fair play of the world, Let me have audience”. When the witches in Macbeth say “fair is foul and foul is fair”, words that might be spoken by a football coach determined to win at any cost, the word you should understand is “play”. The earliest use of the word in a sporting context that I have been able to find relates to cricket, in a memoir of the Hambledon cricket club written by John Nyren in 1832, including the rules of the game, of which one is “the umpires are the sole judges of fair and unfair play”. Not that this prevented one hard-done-by cricketer complaining that his defeat was attributable to the latter.

So how does this nebulous concept come to be applied to the finances of European football clubs? Certainly, if you read Article 2 of the Financial Fair Play regulations (as I encourage everyone to do) the stated objectives do not mention fair play or fairness, but rather emphasise the, shall we say, Germanic virtues of “discipline and rationality”. Whether discipline and rationality would benefit European football is an interesting debate that few seem to consider seriously. It has developed in the last 50 years in a higgledy-piggledy fashion to dominate global sport – why else are American investors so desperate to get a piece of the action? Despite persistent financial instability of the clubs, they almost never disappear as sporting entities. For example, of the 74 clubs playing in the top divisions of England, France, Italy and Spain in 1950, 72 still exist (2 French clubs were disbanded, one in 1965, the other in 1970). “Creative destruction”, a phrase used by Joseph Schumpeter to characterize the genius of the capitalist system, has served football very well. Why are we so sure that the heavy hand of regulation will do so much better?

But financial fair play? Really? What is fair about the fact that Bayern Munich can simply use their financial muscle to buy all the best players of their rival teams? Or that AC Milan’s dominance of Italy was created by Silvio Berlusconi pumping billions from his broadcasting empire into the team, but now no one else can do the same thing? Or that half of the €5.6 billion generated by the UEFA Champions League in the last decade has accrued to just ten clubs?

Whenever Financial Fair Play is mentioned the names of Roman Abramovitch and Sheikh Mansour are quoted- what they are doing to football, it is alleged, is unfair. Yet in reality they are convenient scapegoats for a political deal that UEFA has stitched up between football’s rich and poor.

The economic reality is that most clubs do not have a sugar daddy and a very large fraction are insolvent. According to UEFA 55% of clubs in Europe’s top divisions reported a net loss in 2011, 38% of clubs reported negative net equity, and 16% of club accounts reviewed contained a qualification expressed by the auditors as to financial viability of the company. This does not make UEFA look like a good housekeeper, so they want to impose tighter regulations. However, since almost all of the insolvent clubs are minnows, it might look as if they were doing the bidding of the big clubs. UEFA would not dare to restrict the freedoms of the established powers and by focusing on sugar daddies they are actually helping them by ensuring that no currently small club will ever pose a serious challenge. Voila, call it Financial Fair Play, and who could disagree?

This was Orwell’s point. The decline of English, he thought, was a political phenomenon. “Political language has to consist largely of euphemism, question-begging and sheer cloudy vagueness”, and if we allow this to go unchallenged we will indeed fall into slovenly thought. UEFA, with the support of many politicians, want us to use warm phrases emptied of their original meaning as camouflage for the pursuit of an agenda which has little to do with fair play and much to do with the exercise of power. But if we listen to Orwell, we need not be fooled. All we have to do is to ask what the words really mean.

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FRANCE football | MARDI 11 JUIN 2013

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Ritardi e cattedrali nel deserto

Brasile, un Mondiale a ostacoli

Opere rinviate, stadi costosissimi: sprechi e polemiche a un anno dal via

EFFETTO VUVUZELA Già dalla Confederations vietati gli strumenti musicali sugli spalti

12 Sedi Quattro gli stadi costruiti ex novo: San Paolo, Recife, Manaus e Natal

70 Mila persone Costrette a lasciare le proprie case per far posto alle opere del Mondiale 2014

79 Mila spettatori La capienza del nuovo Maracanà: il vecchio stadio costruito per i Mondiali 1950 ne ospitava 160 mila

13 Miliardi L’investimento complessivo in dollari per stadi e infrastrutture pubbliche legate al Mondiale

di MARCO ANSALDO (LA STAMPA 12-06-2013)

Bisogna avere fiducia. Molta fiducia. Tra un anno esatto il Mondiale sarà inaugurato nel nuovo stadio costruito a San Paolo e, se ci sono cantieri ancora aperti dove si giocherà la Confederations Cup tra 4 giorni, figurarsi cosa si può dire degli impianti che serviranno tra 12 mesi. Come minimo il Brasile è in ritardo. «Devono accelerare i lavori altrimenti potremmo cambiare le sedi entro il 1º agosto, quando comincerà la vendita dei biglietti», ha detto il segretario della Fifa, Jerome Valcke, quando è andato a ispezionare la situazione a Brasilia il mese scorso. Sono le solite minacce. A parte Pechino per le Olimpiadi del 2008, non ricordiamo un evento sportivo per il quale si siano rispettati i tempi dei lavori. I concetti di Volcke li ascoltammo dai collaboratori di Platini prima dell’Europeo in Ucraina, dai dirigenti della Fifa prima del Mondiale in Sudafrica e all’indietro fino a Italia ‘90, tra allarmi esagerati e recuperi miracolosi.

Nel caso del Brasile però le cose vanno davvero a rilento e qualche opera è già saltata. Ad esempio non si sa più nulla del treno superveloce che doveva collegare Rio e San Paolo: doveva essere tra le eredità più utili del Mondiale, ma è sparito. A Rio il treno per il trasporto rapido tra Campo Grande e Barra da Tijuca, il cuore delle prossime Olimpiadi, doveva essere inaugurato il 18 gennaio ma ci sono ancora 15 stazioni e 10 chilometri di percorso da completare. Così come sono abortiti per mancanza di tempo una parte delle 30 opere programmate nei 13 aeroporti, il restyling dei porti, il miglioramento delle strade, la costruzione di alberghi. Secondo il ministro dello Sport, Aldo Rebelo, il 68 per 100 dei lavori sarà concluso entro l’anno e un 17 per cento si completerà entro il giugno prossimo: sono stime molto ottimistiche mentre i costi si sono moltiplicati e per gli stadi si spenderanno 3 miliardi di euro, il triplo di quanto si era previsto nel 2007, l’anno dell’investitura. Quasi tutto è a carico dello Stato. «Alla fine - dice Pelé - a patirne saranno le infrastrutture pubbliche perché le energie e i soldi si impiegheranno per finire gli stadi».

Dodici impianti, troppi e inutili, secondo il buon senso. Il coinvolgimento di tante città procurerà disagi per lo spostamento delle squadre e dei tifosi attraverso un Paese immenso. La dislocazione porterà a creare cattedrali nel deserto. Il paradosso è che due megalopoli intrise di calcio come Rio e San Paolo avranno una sola sede di gara esattamente come città con club di serie B (Natal), di C e addirittura di serie D, come Cuiabà e Brasilia, la capitale, che avrà un impianto da 72 mila posti costato 350 milioni di euro per un pubblico che in media non arriva ai 5 mila per partita. E che dire di Manaus, in Amazzonia, forse l’unico pezzo del Brasile in cui del calcio frega poco? Due squadre in D, frequenza sui 3 mila spettatori ma il Mondiale vi arriverà con un impianto da 48 mila persone. Ricordate Fitzcarraldo, il miliardario eccentrico, che faceva costruire il più grande teatro del mondo in mezzo all’Amazzonia per farci cantare Caruso? Dicono che certe scelte politiche e clientelari le fece il governo di Lula per aprire, attraverso il calcio, parti del Brasile poco conosciute dai turisti. Purtroppo però è intervenuta la crisi mondiale e di flussi dall’estero se ne prevedono pochi anche perché intanto nel Paese hanno alzato i prezzi in maniera vergognosa. Il primo segnale arriva dalla Confederations Cup, per la quale il 97 per 100 dei biglietti è stato venduto ai tifosi locali mentre spagnoli, italiani, messicani, persino giapponesi, restano a casa.

Per amore del calcio i brasiliani però accettano. A parte i «blog» di organizzazioni che contestano le spese per il Mondiale - mentre mancano gli ospedali, le scuole vanno a pezzi e il trasporto pubblico è scadente -, la maggioranza attende il Mondiale come una festa e più che per gli sprechi si indigna per come la Fifa entra con gli zoccoli nel paradiso del calcio, minandone l’anima popolare. Migliaia di proteste, comprese quelle di Zico e di Pelé, hanno fatto seguito alla trasformazione un po’ «fighettista» del Maracanà, il tempio per elezione. E nessuno digerisce il divieto di portare negli stadi gli strumenti musicali che da sempre accompagnano il gioco: il «pandeiro», il «tamburim», la «caxirola», che è un campanaccio riempito di palline sintetiche, la risposta del Brasile alla «vuvuzela», la trombetta spaccatimpani degli stadi sudafricani. A dirla tutta, le «caxirole» erano già state vietate perché durante una partita di campionato a Bahia gli spettatori imbufaliti cominciarono a tirarle in campo. Tuttavia si sperava che la Fifa le riammettesse, dopo averne fatte un oggetto di «merchandising» del prossimo Mondiale. Invece saranno proibite già nella Confederations Cup. Buon per noi.

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Deportes Violencia en el fútbol

El campeonato se definirá

sin el público visitante
Se decidió tras el crimen del hincha de Lanús y rige
hasta

el final de los torneos de Primera y de la B Nacional.
por JULIO CHIAPPETTA (Clarín.com 12-06-2013)

Otro parche más, y van... Un día después del asesinato de Javier Gerez, un hincha de Lanús, se decidió que la definición en las dos categorías principales del fútbol argentino (Primera División y B Nacional, donde sólo falta una fecha y resolver un descenso) será sin público visitante en todos los estadios.

La medida fue adoptada ayer a la mañana por el Gobierno de la Provincia de Buenos Aires y, a la tarde, la AFA y el Gobierno Nacional la ampliaron a todo el país y también “a todas las categorías”, aunque en la B Metro, la C y la D ya rige desde 2007.

“Se acabó.

Ya está tomada la decisión para que esta medida se haga extensiva de modo permanente en la Provincia de Buenos Aires.

No habrá más público visitante en ninguna divisional hasta que la AFA y la APreViDe (Agencia de Prevención de la Violencia en el Deporte) nos garanticen que no haya más violencia en las canchas de fútbol”, dijo el ministro de Seguridad bonaerense, Ricardo Casal. “Es una medida consensuada con el Gobierno, lógica, sensata y únicamente para estas dos fechas ”, aclaró luego Miguel Silva, vice de Arsenal y secretario general de la AFA. “A veces pagan justos por pecadores, pero ni las listas de admisión ni los controles fueron suficientes para evitar que los barras ingresen porque lo hacen disfrazados con pelucas o adulterando su identidad”, justificó Casal.

El ministro señaló que a partir de ahora la Policía no usará más balas de goma-una mató al hincha de Lanús- en los espectáculos deportivos. “Las fuerzas federales y otras fuerzas del mundo están utilizando un sistema de tubos a compresión que disparan una sustancia que es disuasiva, no tóxica ni explosiva, que impide el avance del tumulto”, agregó.

Así, este fin de semana, si Newell’s le gana a Atlético de Rafaela y empatan Lanús-River, los rosarinos se consagrarán campeones del torneo Final sin sus hinchas en la cancha. Ayer al mediodía, la dirigencia del club rafaelino se comunicó con sus pares de Newell’s para anunciarles que les iban a dar 3.900 entradas generales y 500 plateas.

Al rato, no les cayó para nada bien la noticia de que la hinchada leprosa tiene prohibido concurrir a la posible fiesta.

Decir que esta medida es un parche se sustenta con los hechos.

Ya hubo partidos en este campeonato que se jugaron sin visitantes (el clásico entre San Martín de San Juan y Godoy Cruz de Mendoza, Vélez-San Lorenzo y Racing-Boca).

Y hasta sin público de los dos equipos: Tigre-All Boys, Boca-Colón, Unión-Colón y, hoy, se completarán los 64 minutos entre Vélez y All Boys, suspendido el sábado.

Y no dio resultado: la violencia siguió igual. Anoche, la AFA dispuso que Estudiantes-Lanús jueguen los 45 minutos restantes el miércoles 19, pero no se anunció si será a puertas cerradas o sólo con público local.

La idea no es nueva. Ya en 2002, el ex presidente de Vélez, Raúl Gámez, había lanzado el proyecto para que sólo hinchas locales asistieran a los estadios. Entonces, no encontró consenso entre sus pares de la AFA. “Se evitaría el cruce de las barras, se bajaría lo que se paga en operativos policiales, se ahorrarían los costos de los micros para trasladar a los hinchas y volvería la familia a los estadios”, decía por entonces Gámez. Hoy es más duro. “ El tiempo me dio la razón.

Esto le corta el negocio a muchos. Pero mientras esté (Julio) Grondona y este Gobierno, que son socios, no va a haber una solución al tema de la violencia. Se preocupan más por el programa de (Jorge) Lanata que por erradicarla. Y no se dan cuenta de que están matando al fútbol ”, le dijo ayer a Clarín.

También se prohibió a los visitantes en el Ascenso tras la muerte de Marcelo Cejas hace 6 años (25 de junio de 2007) en Chicago-Tigre. Aunque en la B Nacional se levantó cuando el Estado se hizo cargo de la televisación de los partidos luego del descenso de River.

“La medida es buena desde lo coyuntural, porque incluye a todas las divisiones. Pero es un parche desde lo basal, porque es igual que cuando se habla del AFA Plus, del derecho de admisión o de la quita de puntos.

Llegó el momento de reconocer que se perdió la batalla y modificar sustancialmente las estructuras. Ese cambio implica un esfuerzo de todos y, especialmente, autocrítica”, dijo el ex juez Mariano Bergés, hoy en la ONG Salvemos al Fútbol.

“Hay que aprovechar este tiempo para formar un amplio grupo de trabajo con referentes de distintos sectores (dirigentes, jugadores, árbitros, ONGs, organismos nacionales, provinciales, municipales, de seguridad, legisladores, fiscales, jueces, etc) para reformular el esquema y conformar un protocolo de seguridad ”, agregó Bergés.

Y si el fútbol argentino está así ahora, a un año de Brasil 2014, ya hay que imaginar la escalada que se avecina cuando las disputas internas en las barras aumenten en el momento que busquen ganarse un lugar en el Mundial...

Que sea el prólogo de una

reestructuración profunda

por HORACIO PAGANI (Clarín.com 12-06-2013)

La violencia de todas las fechas, de todos los partidos y de todas sus circunstancias, se cobró otra muerte en el estadio Ciudad de La Plata. Y el partido Estudiantes-Lanús debió suspenderse al término del primer tiempo. Esta vez la responsabilidad recayó en la policía bonaerense. Daniel Gerez, hincha de Lanús e integrante de la Subcomisión del Hincha, recibió el impacto de una bala de goma en el pecho, disparada desde muy cerca, y falleció en el traslado hacia el hospital de Gonnet. Ricardo Casal, ministro de Seguridad de la Provincia ordenó la separación de tres efectivos, todos oficiales, identificados por las cámaras de seguridad, que estuvieron cerca de la víctima, y de esa forma aceptó la responsabilidad del cuerpo policial.

Las primeras versiones oficiales habían explicado de manera distractiva que el tumulto en el ingreso se produjo por un enfrentamiento interno de la barra de Lanús. Pero las contundentes evidencias las desmintieron rápidamente. Como consecuencia del hecho y ante el ambiente de gran tensión que rodea al fútbol en los últimos tiempos, el ministro Casal anunció que las últimas dos fechas del torneo Final se jugarán sin público visitante en las canchas de la Provincia.

Y que la medida continuará hasta que la AFA y la APREVIDE (Organismo de Seguridad provincial) garanticen la ausencia de violencia en los estadios. Por la tarde la AFA anunció que en concordancia con directivas emanadas del Gobierno Nacional, la medida se extendería a todas las canchas del país.

Está a la vista, día a día, que los fuerzas de seguridad no pueden prevenir ni controlar los brotes de violencia que provocan las barras bravas , por sus propias falencias, y por los intereses políticos y económicos que protegen insensatamente a los inadaptados que forman los grupos mafiosos. Entonces, ante la impotencia para actuar (que suele desembocar en el exceso y la brutalidad en la represión) y frente a la necesidad de hacer algo se recurre a la solución simplista: prohibición de concurrencia del público visitante. No de los violentos, de todo el público.

Y el fútbol pierde uno de sus atractivos folclóricos.

Algo había que hacer.

Y se acepta esta medida provisoria si es el prólogo a una reestructuración profunda.

Habrá que ver.

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Canadian Conflict Grows Out of Quebec
Soccer Federation’s Ban on Turbans

by SAM BORDEN & IAN AUSTEN (The New York Times 11-06-2013)

The newest intersection of soccer and cultural controversy has an unusual address — Canada.

The Canadian Soccer Association on Monday suspended the Quebec Soccer Federation, which oversees leagues of all ages in the province, after it refused to comply with a national directive permitting players who wear turbans to participate in games.

A spokeswoman for the national governing body said it sent a memo to all of its local associations in April, affirming its position that turbans and two other types of headwear — patkas and keski — were allowed to be worn by players. That provision was successfully applied everywhere in Canada, the spokeswoman said, except for Quebec; the Quebec Soccer Federation, known as F.S.Q., voted earlier this month to ban such headwear, saying it was concerned that it presented a safety issue.

Brigitte Frot, the director general of the F.S.Q., told reporters last week that she was unaware of any injuries directly caused by players wearing turbans, but believed they should be banned anyway. Asked during a teleconference what she would say to a young child who was unable to play because of the rule, she said: “They can play in their backyard, but not with official referees, not in the official rules of soccer. They have no choice.”

Aneel Samra, an 18-year-old student from Montreal who was affected by the ban on turbans, called Frot’s comments “one of the most disrespectful things I’ve ever heard.”

In an interview Tuesday, Samra added: “I’ve played for 11 years, but this year I didn’t even register because they told me I couldn’t play. It’s ridiculous.”

Frot and other F.S.Q. officials were not made available for comment Tuesday. Leaders of the organization were said to be planning a meeting for Tuesday night to discuss the suspension. Frot previously said her organization was taking its direction from FIFA, the governing body of world soccer, which does not clearly state that turbans are allowed.

Critics of the F.S.Q.’s decision note, however, that FIFA, which has explicit rules regarding uniforms, also does not unequivocally ban turbans in the way that it does, say, jewelry. Many other countries, including the United States, allow players to wear turbans and other religious head coverings, like skullcaps, as long as the referee does not deem them to be dangerous.

The turban ban has played out against a familiar backdrop. Quebec’s French-speaking majority long ago went from being dominated politically and socially by the Roman Catholic church to being the most secular people in Canada. Only about 15 percent of Quebecers attend church, and most people in the province long ago rejected its teachings on birth control, same-sex marriage and abortion.

But the question of how to deal with immigrants’ cultural religious practices remains a thorny issue in the province, where there are about 9,200 Sikhs, according to recent census data. Months of public hearings on the subject in 2007 and 2008 showed that many French-speaking Quebecers felt anxious that their identity and language would be threatened by making allowances for the ways of others. The special commission called that a crisis of perception, and the evidence suggested that the worry was strongest in parts of the province with relatively few immigrants.

Daniel Weinstock, a philosopher and a professor at McGill University’s law school in Montreal, said the fact that the soccer federation’s bans largely involved children’s play have made them stand out.

“Even if the motivations of the federation are completely innocent and bureaucratic, this has been set into a toxic culture of us and them,” Weinstock said. After initially staying out of the turban debate, Quebec’s separatist Parti Québécois government took the side of the federation Tuesday.

Speaking to reporters, Pauline Marois, the Quebec premier, avoided discussing the safety issues. She turned the issue instead into an example of Canada unjustly telling Quebec what to do, a common theme of the separatist movement.

“I think the Quebec federation has the right to establish its own regulations,” she said. “It is autonomous, not subject to the Canadian federation.”

Soccer was at the center of another accommodation debate during those hearings after the Quebec federation in 2007 banned the use of hijabs, Muslim head scarfs, from play, a move matched by the province’s taekwondo federation. Then, as now with turbans, safety was the soccer federation’s ostensible concern. The hijab ban was finally lifted last year.

The Canadian Soccer Association’s suspension of the FSQ does not affect the Montreal Impact, who play in Major League Soccer, but it does affect some youth teams, including all-star teams that compete outside the province. In addition, if the suspension continues through the summer, teams from Quebec will not be allowed to compete in Canada’s national championships. Further, nationally certified referees are prohibited from working games in Quebec.

Balpreet Singh, who serves as legal counsel for the World Sikh Organization of Canada, said his organization had been attempting to address the issue with the F.S.Q. for years.

Singh said in an interview Tuesday that his organization initially protested to the federation in 2007 when it would not allow a girl to play soccer because she was wearing a hijab. In 2011, Singh said, a referee in Quebec was not allowed to officiate because she was wearing a hijab. Last year. the policy disallowing turbans was unofficially instituted.

“We have reached out with letters and phone calls, and have received no response, not one, from the Quebec Soccer Federation,” Singh said, adding that his organization would consider legal action if the F.S.Q. did not reverse its decision.

“We’re not asking anyone else to wear a turban,” Singh said. “We’re not trying to give a message through our turban. It’s a personal expression of faith that is absolutely essential. But it’s not something that imposes a message on anyone else. It’s not something that should keep anyone from playing a game.”

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L’inchiesta scommesse
Svolta in 400 pagine
Il pm chiede un esperto di calcio

di ARIANNA RAVELLI (CorSera 13-06-2013)

MILANO — Le ultime novità sul mondo delle combine nel calcio italiano sono racchiuse in 400 pagine che in questi giorni vengono lette con grande attenzione dal procuratore di Cremona Roberto Di Martino. Sono le 400 pagine che compongono la relazione dello Sco (Servizio centrale operativo) della Polizia e che potrebbero imprimere una svolta all’inchiesta. Ci sono i tabulati che descrivono i contatti del famoso mister X, l’uomo che vendeva dritte sulle partite di A taroccate, e che portano a vecchi (e qui l’attenzione è puntata su Stefano Mauri) e nuovi nomi, anche di persone ancora coinvolte nel mondo del calcio. Ma ci vuole tempo per analizzare il materiale e quindi non ci saranno provvedimenti (nuovi indagati o, magari, richieste di arresto) prima dell’autunno. Di Martino, intanto, sta per chiedere un incidente probatorio per visionare il contenuto di 200 apparecchi elettronici, tra computer e smartphone, che appartengono agli imputati ancora sottoposti ad indagine. La prima cosa su cui si poserà l’attenzione sono le chat, utilizzatissime dai calciatori. Poi il procuratore ha già individuato una serie di parole chiave da cercare nei numerosi file: la curiosità è che Di Martino, per eseguire l’analisi, ai periti informatici intende affiancare un esperto di calcio, qualcuno, insomma, che sa bene cosa cercare e come interpretare certi termini. Sarà il giudice Guido Salvini a decidere se dare l’ok all’incidente probatorio. Infine è stato fissato il 26 giugno il patteggiamento di Carlo Gervasoni, il «pentito» più importante dell’inchiesta.

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Le perle de… Paolo&Aurelio


L’EX FUORICLASSE CHIEDE 2 MILIONI CHE USERÀ PER COSTRUIRE CAMPETTI IN PERIFERIA
E MARADONA FA CAUSA A DE LAURENTIIS
«NON HO AUTORIZZATO IL DVD CON I MIEI GOL»

di VALERIO ARRICHIELLO (IL SECOLO XIX 13-06-2013)

Maradona contro il Napoli. O meglio contro la dirigenza e il presidente De Laurentiis. Una sfida che nessun tifoso azzurro avrebbe mai voluto vedere. Il giorno è già fissato, 18 giugno 2013: per una partita che non si giocherà su un campo di calcio, ma nelle aule del tribunale di Napoli con il Pibe de Oro pronto a chiedere un risarcimento danni da due milioni di euro. La “colpa” è tutta di un dvd, realizzato dalla società partenopea, che mette a confronto i gol di Maradona e Cavani. Un prodotto che violerebbe i diritti d’immagine dell’ex numero 10 argentino. Ma andiamo con ordine.

“Maradona è meglio ‘e Pelè” cantavano i tifosi del Napoli. Ma anche il Matador non è niente male. Se ne sono accorte le big del calcio europeo. E se ne sono accorti la SSC Napoli e il presidente De Laurentiis. Cavani, si sa, quest’estate potrebbe lasciare la maglia azzurra. E allora meglio sfruttarne doti e qualità fino alla fine. Nasce così l’idea di un dvd per celebrare i cento gol in azzurro del campione uruguaiano, accostato per l’occasione a lui, il Pibe de Oro, Diego Armando Maradona: 115 gol in azzurro e sette anni di emozioni infinite. Un’idea che ha entusiasmato lo stesso Cavani, protagonista dello spot di lancio del dvd, ma non digerita da Maradona. De Laurentiis e i dirigenti azzurri, infatti, avrebbero realizzato il dvd senza informare Dieguito che di conseguenza non avrebbe rilasciato alcun consenso per l’utilizzo della sua immagine. Maradona ha così deciso di portare il Napoli in tribunale e di rivolgersi agli avvocati Scala e Pisani che già lo difendono nell’infinita battaglia con l’Agenzia delle Entrate. «Il Napoli detiene i diritti d’immagine di Cavani, ma non quelli di Maradona - spiega l’avvocato Scala - in realtà avevamo cercato di contattare i legali di De Laurentiis per evitare l’uscita del dvd e per prevenire questa situazione, ma non abbiamo avuto risposta».

E così, il 18 maggio scorso, sono arrivati nelle edicole “I primi 100 Gol di Edinson Cavani e i 100 Gol più belli di Diego Armando Maradona”. Reti spettacolari e prodezze inserite in un dvd venduto in allegato con il Corriere dello Sporto direttamente sul sito della società partenopea. Nell’udienza fissata per il 18 giugno i legali diMaradona chiederanno di vietare con un provvedimento d’urgenza la vendita del prodotto con il ritiro del dvd dalle edicole. Ma se si incrinano i rapporti tra Maradona e De Laurentiis resta intatto l’amore con la città di Napoli. Dietro i due milioni di euro richiesti come risarcimento danni c’è uno scopo nobile perché Diego ha già fatto sapere che i soldi sarebbero utilizzati interamente per costruire campetti di calcio nelle aree più disagiate di Napoli.

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Punti di vista differenti, stessa categoria… giornalisti?


Quotidiano Sportivo 04-06-2013

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High-profile touring trio cash in

as hosts wrestle with chaos
When Liverpool, Arsenal and Chelsea touch down in

Indonesia next month they will find a game in disarray
by OLIVER KAY (THE TIMES 15-06-2013)

In the space of 11 days next month, the multimillionaire footballers of Arsenal, Liverpool and Chelsea will perform in front of sell-out crowds in Jakarta. Indonesia is this summer’s must-visit destination for the giants of the Barclays Premier League, lured by the opportunity to flaunt their stars and their brands in a vast, growing, fanatical marketplace.

Sometimes these globe-trotting pre-season tours are about winning hearts and minds. In Indonesia, it is about preaching to the converted. These days the talk is of “engaging with our fanbase” rather than that loathsome phrase of “turning supporters into customers”, but Indonesia, frequently passed over in recent years by English clubs, has an obvious appeal — a population of 243 million, a booming economy and an insatiable appetite for Premier League football.

But Indonesian football has a dark soul. Its problems began under Nurdin Halid, who remained chairman of the PSSI (the Indonesian FA) while imprisoned on corruption charges, and, with Fifa turning a blind eye for years, it has escalated as the sport has been ravaged by the overbearing influence of politicians, the formation and near-disintegration of two rival leagues, administrative chaos and a disgraceful situation in which some players have now gone nine months without being paid.

As part of the charm offensive, some of Arsenal’s players have been filmed playing a gamelan, a traditional Indonesian music ensemble. But how much do Jack Wilshere or Santi Cazorla — or for that matter Steven Gerrard or Juan Mata — know about the situation in Indonesia? And if they do know, are they willing, amid the cheery visits to local soccer schools, with sponsors’ billboards in the background, to speak up in solidarity with their fellow players?

Fatal consequences
Diego Mendieta was a Paraguayan footballer who, like many in South America and Australia, found himself drawn to the money on offer in the Indonesian Super League (ISL). A journeyman player, he had spells with a succession of Indonesian clubs — PSSB, Persitara North Jakarta, Persis Solo — and the plan was that, by the end of his contract with Persis, worth £24,000 a year plus benefits, he would return to Paraguay and bring his family a little financial security. The reality was rather different. By last year, Indonesian football was in chaos. Competing political ambitions, with football the battleground, had led to the ISL being supplanted by the breakaway Indonesian Premier League (IPL).

Having failed to keep pace with the big-spending IPL, several ISL teams, such as Persis, fell into severe financial problems. With clubs struggling to make ends meet, players’ wages went unpaid — and the authorities in Indonesia did nothing about it.

Mendieta never received his final four months’ pay from Persis, worth approximately £8,000. When his contract expired, he could not afford his flight home or his rent. In any case, he felt too ashamed to return to Paraguay penniless. He hung on. He fell ill. He had typhoid diagnosed last November and then a cytomegalovirus, which attacked his weakened immune system. As his weight plummeted and his condition worsened, he went from one hospital to another, at first struggling and then unable to pay his medical bills.

Mendieta died in December at the age of 32. His widow, Valeria, said that Indonesian football had abandoned him. The PSSI confirmed as much, saying that it did not recognise the league in which Mendieta had played.

Mendieta is merely the most high-profile victim of Indonesian football’s troubles. Bruno Zandonadi, a Brazilian player, died last October in financial hardship. Moukwelle Ebanga Sylvain was owed nine months’ pay (about £14,000) by his club, Persewangi Banyuwangi, and was unable to pay his medical bills after having typhoid diagnosed. After Mendieta’s death, the IPL agreed to cover Sylvain’s costs and pay for his return to France.

Robbie Gaspar played for three Indonesian clubs before returning to his native Australia last year after five months without pay. “It was a tough time, but it was worse for the Indonesian players,” he said. “Indonesians can manage to live on pretty small amounts of money, but they had their whole families to support. There were players bursting into tears. It’s a disgrace, what has happened.”

Mendieta’s death has been regarded as a tipping point, leading to belated pressure from Fifa, the Asian Football Confederation and the Government on the PSSI to reform and to unify the leagues. There have been talks with the APPI, the Indonesian footballers’ union, and with FIFPro, the worldwide professional players’ union, about the unpaid wages.

Bobby Mubarak Faud, a spokesman for the PSSI, told The Times that the problems are in the past and that “the situation right now in Indonesian football is normal”.

Normal? Hardly. At least ten clubs, both from the ISL and the IPL, still owe up to nine months’ wages to players whose take-home pay each month, in theory, should range between £900 and £5,000. There is now an understanding that medical bills should be paid if the need arises, while some players — faced with no alternative, Gaspar says — have accepted settlement deals worth 20 per cent of the sums owed. But millions of pounds in wages, across the board, are still outstanding.

“It’s still not a good result for Indonesian football,” Valentino Simanjuntak, chief executive of the APPI, said. “The problem is that the players don’t have the courage to sue the clubs. They’re afraid of the clubs.”

Peter Butler, who spent several years coaching in Indonesia and is now working in Malaysia, went further. “The players in Indonesia are oppressed,” the former West Ham United and Southend United player said. “In that part of the world, you have to stand your ground. If you don’t, you get walked over. Players have died. They can’t afford to feed their kids. They’re being left destitute.

“I love Indonesia. It’s a wonderful country, wonderful people. But football there is in a terrible state and it all comes down to politics.”

Political football
As an unnamed PSSI official was reported as telling Reuters recently, “if you can control football, you are halfway to controlling Indonesia. No political party campaign can get such a noisy, devoted crowd.” That might go some way towards explaining why Indonesian football has been dominated — and, ultimately, severely damaged — by political conflict.

Under Halid’s ruinous leadership, the PSSI and the ISL came to be regarded as political and propaganda tools for the Golkar party. The breakaway IPL is associated with the centre-right democratic party. At a local level, individual clubs are frequently seen as platforms for politicians as well as sportsmen.

“I will not deny that, until now, that is part of the reality we have to deal with in Indonesian football,” Widja Widjajanto, the chief executive of the IPL, said. “It has been common for Indonesian football to be dominated by the local government strong guy. Too often they don’t have the knowledge or the business paradigm.”

Butler prefers to talk more bluntly, as his Yorkshire roots demand. “Everyone knows that Indonesian football is used to promote politics,” he said. “The ISL was the Bakrie family, which is Golkar. Aburizal Bakrie is running for president next year. The IPL was the same — politics.”

The theory goes that the IPL was set up, at least partly, in order to weaken the ISL and thus weaken the PSSI, Halid and Golkar. All of those objectives were achieved — and the political demise of Halid and the old PSSI regime should not be mourned — but with little or no regard for Indonesian football. It is precisely the type of political interference that Fifa claims to oppose. “And yet Fifa, for whatever reason, seemed reluctant to come down on them,” Butler said.

After Fifa finally threatened Indonesia with sanctions in December, the process of rebuilding the PSSI and unifying the leagues is now under way. But even that process is attracting suspicions of vested political interests.

“We’re cynical about it,” Brendan Schwab, chairman of FIFPro Asia, said. “We’re very nervous that the needs of the players won’t be addressed. It’s so overdue and it’s so urgent. In the absence of any real football governance, our view is that Indonesia should have been suspended from football by Fifa until the situation is properly resolved.”

Question of ethics
So what can be done? The English clubs can hardly be accused of making the situation worse. Yes, they will receive big appearance fees, estimated to be in excess of £2 million, for playing in Jakarta, and yes, there will be far greater long-term spin-offs in terms of sponsorship and other commercial growth in the region — Arsenal, Chelsea and Liverpool already have deals with Telkomsel, Bank Negara Indonesia and Garuda Airlines respectively — but the money comes from promoters, not from the PSSI, the clubs, the leagues, or any other branch of Indonesian football.

And while the prime motivation behind these Asian tours is unquestionably commercial, clubs always make an effort to engage with communities and invest in local sports facilities.

When asked about the ethics of funding these matches while players on their doorstep go unpaid, MyEvents, the Jakarta-based promoter of Chelsea’s visit, promised to get back to The Times with a response, but never did. Julian Kam, chief executive of ProEvents, which is organising Arsenal’s tour, said it was “not proper to comment”, adding that it was merely “helping the clubs to promote the games” and that the clubs would be better placed to answer.

Mark Gonnella, the Arsenal communications director, issued a statement, emphasising the importance of engaging with the club’s supporters in Indonesia, where, like Chelsea and Liverpool, they have more Facebook followers than in any other country. “We want to give our fans there the chance to see their heroes in action live,” Gonnella said. “This is our main focus and we do not believe it is appropriate for us to get into any politics surrounding the wider game in Indonesia.”

The KNVB — the Dutch FA — came out with a similar line when it was contacted by FIFPro and the APPI before the Holland national team’s match in Jakarta last week. The notion that football and politics do not mix is an admirable one, but in Indonesia, sadly, it is a million miles from the truth.

“We asked the KNVB about some solidarity action and they said they didn’t want to interfere in the situation in Indonesia,” Simanjuntak said. “The PFA in England say that they want to help and that they will speak to the players from Arsenal, Chelsea and Liverpool. Maybe they will say something. We keep waiting for good news because some solidarity would encourage the players here.” Whether they are being paid or not, the players in Indonesia are eagerly anticipating the English clubs’ visits.

“We’ve asked them and they want to play in these games,” Schwab said. “The situation certainly isn’t the fault of the English clubs or players. We just want the opportunity to explain to them the predicament of their fellow professionals there. It’s an important education process.” Wilshere, Gerrard and others should not underestimate the value of a supportive word — in public — for their Indonesian counterparts. But it is a measure of how bad things have got that words are seen as beneficial when the entire football community has been guilty of inaction as the game there has been torn apart.

“I understand why the clubs are going there,” Butler said. “And on one hand, Indonesia needs that. It’s great for the fans there. But does it really help the game in general there? No it doesn’t. If the clubs spent a bit of time there, trying to develop Indonesian football, that would be different, but instead it’s one match, tight schedules, vast sums of money.

“People ask the question: ‘Would that money be better spent on the domestic game there?’ Yes, of course it would. But it wouldn’t go to the domestic game. It wouldn’t be distributed properly. That’s the whole problem.

“It’s a wonderful country and I loved working there, but Indonesian football has been absolutely ravaged and it’s so sad. The fans and the players there really don’t deserve that.”

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Stampa in fuorigioco
CHE HAI DA RIDERE? CASSO!
MALESANI È RICORDATO (ANCHE) PER UN COLORITO SFOGO SOPRA LE RIGHE, MA SONO MOLTI GLI ALLENATORI E I GIOCATORI CHE CE L’HANNO CON I CRONISTI: L’INIZIO DELLE OSTILITÀ RISALE AI MONDIALI DEL 1982 QUANDO UN GIORNALISTA SCRISSE DI UN’AMICIZIA PARTICOLARE TRA CABRINI E ROSSI. POI SONO ARRIVATI LIPPI E MOURINHO
di SEBASTIANO VERNAZZA (SPORTWEEK 15-06-2013)

Beppe Grillo ha detto che «i giornalisti sono diventati più spregevoli dei politici perché li tengono in vita con servizi schifosi». Maurizio Bianconi del Pdl ha definito Gianantonio Stella e Sergio Rizzo del Corriere della Sera, autori del best seller La casta, due «tumori della democrazia». Più prosaicamente Enrico Preziosi ha aggredito un reporter del Secolo XIX di Genova e gli ha rotto la telecamera nel nome del diritto alla privacy, che se sei personaggio pubblico e passeggi per strada conta come il due di picche a briscola: il presidente del Genoa camminava fuori da un ristorante. Sono tre recenti esempi del tiro al giornalista, oggi sport nazionale tra i più gettonati. In rete o dal vivo c’è sempre qualcuno che ha una parola buona per chi fa informazione: sciacalli, avvoltoi, pennivendoli. Lungi da noi la tentazione di cedere al vittimismo e di difendere gli indifendibili. Nella categoria c’è chi se le va a cercare. Se reciti la parte del giornalista tifoso, non ti puoi lamentare quando quelli della parte avversa ti spernacchiano. Se inventi o diffami, non ne parliamo. Il peccato originale, per i giornalisti sportivi, è costituito dal Mondiale di Spagna 1982. Alla Casa del Baron di Vigo, sede del ritiro azzurro, scoccò la scintilla che provocò l’incendio. Un giorno Paolo Rossi e Antonio Cabrini si affacciarono insieme a una finestra: un inviato li vide, fece loro una battuta da osteria e la riportò sul giornale. Passò il messaggio di Rossi e Cabrini omosessuali. I giocatori azzurri decisero di entrare in silenzio stampa e di delegare il solo capitano Dino Zoff al rito delle interviste quotidiane. L’episodio però fu un pretesto. I rapporti tra squadra e inviati al seguito erano già molto tesi, gli azzurri e Bearzot avevano ricevuto critiche feroci, al limite del dileggio. Le vittorie con Argentina, Brasile, Polonia e Germania Ovest rovesciarono il panorama, trasformarono il sarcasmo in retorica dell’elogio.

Sul tema, molti anni più tardi, Vittorio Sermonti avrebbe scritto Dov’è la vittoria?, saggio che rende benissimo l’idea su come le opinioni possano mutare e i fatti essere plasmati a proprio uso e consumo. Già Azzurro tenebra, romanzo di Giovanni Arpino sulla disastrosa spedizione azzurra al Mondiale del 1974 in Germania Ovest, aveva spiegato molto dei rapporti tra stampa sportiva e calciatori. Arpino aveva diviso in due categorie i giornalisti che «coprivano» la Nazionale del ’74: le Jene, sempre a caccia di scandali, equivoci o malignità, e le Belle Gioie, paciose, patriottiche e pronte a prendersela con Giove Pluvio, l’arbitro o la sfortuna.

Bobo Vieri vendicò la virilità sfregiata di Rossi e Cabrini. All’Europeo del 2004, Vieri – che in Spagna, ai tempi dell’Atletico Madrid, chiamavano il Muto – «aggredì» i cronisti in sala interviste: «Avete scritto di un litigio tra me e Buffon parlando di alta tensione e così via. Oggi è l’ultima volta che parlo con voi. Tanto non me ne è mai fregato niente di voi. Io al mattino posso guardarmi allo specchio, voi no. Non potete permettervi di offendermi come uomo. Sono più uomo io di quanto siete uomini voi tutti assieme». Sottinteso: io ho le palle, voi no. Brusio in sala, ma neppure una pernacchia all’indirizzo di Bobone, perché i giornalisti sono ottimi incassatori.

Marcello Lippi – che alla Juve ebbe animate discussioni con Vieri – da allenatore dell’Inter alla Pinetina fece erigere un muro per evitare la promiscuità tra giornalisti e giocatori. Noi di qua, voi di là. Una parete a dividere la zona bar-ristorante dalla sala conferenze, unico luogo deputato agli incontri. Lippi può definirsi il teorico della sindrome da accerchiamento. Il “noi contro tutti” alza il tasso di aggressività, funziona da detonatore del gruppo. I successori di Lippi non hanno abbattuto la barriera in cartongesso. Tantomeno José Mourinho, noto fustigatore di giornalisti. Una domenica a Bergamo ne picchiò uno, tra i più miti e corretti della piazza milanese, per futili motivi. Un’altra volta pronunciò la fatidica frase sulla “prostituzione intellettuale”. I cronisti spagnoli però hanno mandato a pallino i filtri anti-spioni dello Special One: non c’è stato parola o segreto che non sia uscito dallo spogliatoio del Real Madrid “mourinhiano”. Prostituzione funzionale.

Lungo è l’elenco delle sceneggiate in sala stampa e dintorni. Tra le tante ne scegliamo una che è diventata un classico, la sfuriata di Alberto Malesani quando allenava il Panathinaikos. Il “Male” è persona mite, ma se gli parte la brocca, non c’è verso di stopparlo. Quel giorno Alberto stabilì il record mondiale di esclamazione di “casso”, parolaccia italoveronese. Ecco uno stralcio del suo sfogo davanti ai giornalisti di Atene: «E sono arrabbiato, non perché ho pareggiato... Sono arrabbiato perché è uno schifo ’sta roba qua! Io non ho mai visto una roba del genere! Ma come dove siamo, casso? Cos’è diventato il calcio? ’Na giungla, casso! No, no, calma… E ridono, e ridono, cosa ridete cosa? Vi divertite a scrivere cosa, dopo? Cosa ridete, che? Cosa ridete, casso? Cosa ridete? Abbiate il rispetto della gente! Con voi bisogna dire bugie e fare i ruffiani, come coi tifosi… Io non lo sono, casso!!!». Nel bene e nel male, stiamo col “Male”. Quando ci vuole, ci vuole.

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Idea Murdoch,

Champions estiva con i top club

Secondo il Guardian il tycoon avrebbe avviato i piani per creare una summer

league internazionale, un torneo a inviti con le sedici squadre più forti del

mondo (Juve, Milan e Inter per l'Italia) che si affronterebbero in precampionato

giocando in città dove di solito non capitano, come New York, Shangai e Dubai

di ENNIO FRANCESCHINI (Repubblica.it 15-06-2013)

LONDRA - Una ne fa, anzi questa settimana ne ha fatte almeno due, e cento ne pensa: Rupert Murdoch, a 82 anni, non si è stancato di intraprendere strade nuove. Negli stessi giorni in cui ha separato in due il suo impero mediatico (da una parte tivù e studios cinematografici; dall'altra giornali e libri) e in cui ha annunciato il divorzio da Wendi Deng, la sua terza moglie, cinese e di 38 anni più giovane, il tycoon avrebbe avviato piani per creare una Summer League internazionale di calcio. Si tratterebbe di un torneo a inviti, con le sedici squadre più forti (e più ricche) del mondo, dal Manchester United al Chelsea, dal Real Madrid al Barcellona, dal Bayern Monaco al Paris St. Germain, incluse prevedibilmente le più famose d'Italia come Juventus, Milan e Inter, e almeno un club americano come i Los Angeles Galaxy (in cui giocava David Beckham), che si affronterebbero durante il pre-campionato, tra metà luglio e i primi di agosto, giocando in città dove di solito non capitano, come New York, Shangai e Dubai.

Rivelato oggi in prima pagina dal quotidiano Guardian di Londra, il progetto punterebbe a fare adottare al calcio il modello Formula Uno, con alcune delle città più importanti e più glamour del pianeta che competono per ospitare le partite. L'obiettivo è duplice: da un lato trovare nuovi finanziamenti, per società che sono sempre più ricche ma che spendono anche sempre più soldi, ovvero per l'elite del calcio europeo e internazionale; dall'altro globalizzare sempre di più il football, penetrando nuovi mercati, interessanti dal punto di vista dei diritti televisivi e del merchandising, la vendita di maglie e souvenir, un business su cui molti club puntano con crescente impegno.

Il trend in un certo senso è già in atto: il Chelsea è partito per una tournée negli Usa appena finito il campionato e andrà in Malesia, India e Thailandia prima che cominci la stagione 2013-2014, cioè questa estate. Il Manchester United lo imiterà facendo alcune esibizioni di precampionato in Malesia, Thailandia, Giappone e a Hong Kong. E un mini torneo estivo fra grandi squadre è già in programma, la Guinness International Cup, con otto club fra cui Milan, Chelsea, Real Madrid, Juventus e Los Angeles Galaxy, fase preliminare in Europa, finali in agosto a Miami. C'erano già stati tentativi del genere in passato, si è parlato più volte di piani per creare una Super Lega Europea con le due-tre squadre più forti di Germania, Inghilterra, Francia, Spagna, Italia e qualche altra nazione, ma la Uefa è finora riuscita a bloccarli e varie difficoltà hanno creato altri ostacoli. Adesso ci riprova Murdoch. La sua Summer League dovrebbe partire nell'estate 2015. Il calcio globale del futuro potrebbe essere dietro l'angolo.

Rupert Murdoch’s

Dream Football League

by IAN (200% 16-06-2013)

It was noted at the time of the Dream Football League fiasco, in which a journalist from The Times newspaper was hoodwinked by the odd combination of a French football website and a fantasist with a chequered past over a non-existent story about the oil-rich of Qatar creating a super league paying absurd amounts of money to the biggest club sides in the world, that it was entirely possible that this story was likely to make somebody, somewhere start stroking their chin and wondering if this wasn’t something that they could make a reality. And whilst we are in the middle of football’s “silly season” for outlandish news stories, it hardly seems surprising that Rupert Murdoch is now being reported to be the man thinking exactly that.

There has long been a school of thought that Murdoch’s interest in football was never going to end with the mere televising of football matches. He attempted, of course, to buy Manchester United at the end of of the last century and, whilst this particular venture ended up being unsuccessful (although, it should be pointed out, only after the intervention of the Monopolies & Mergers Commission and not as a result of any intervention from within the game itself), his companies’ interests have come to define the calendar of the domestic season, with kick-off times routinely shifted and shunted about to suit their programme scheduling, whilst all football clubs – in particularly those of the Premier League – have come to find themselves to a lesser or greater extent dependent on the money that his television deals earn them.

The plans that have been leaked to the press are perhaps predictably sketchy. Sixteen European clubs will be invited to play in a summer tournament at venues across the globe, with cities bidding for the rights to host the matches, which will be broadcast live on Murdoch’s channels. It is believed that a significant motivating factor behind the plans could be Fox Sports’ loss of broadcasting rights for the Premier League to NBC, who will be lavishly covering the league in in United States of America, including twenty matches which will be shown on its main network channel. This could well prove to be a pivotal season for the Premier League in a potentially hugely profitable marketplace, and as things stand Murdoch is but a mere bystander, in stark contrast with the control that he has over broadcast rights in many European countries. This, we might reasonably surmise, was not a situation that a predatory plutocrat like Murdoch was not going to allow to pass unchallenged. In addition to this we should add the suspicion that BT Sport, whose Premier League coverage begins at the start of next season, may prove to be a more formidable rival to Sky Sports than either Setanta Sports or ESPN proved to be.

Football clubs being football clubs, the desire for more money to throw at players and their agents will never be fully satiated, so it is difficult to imagine that many of them would turn down the opportunity to milk yet another cash cow. What FIFA, UEFA, the FA and perhaps even the Premier League might make of it all, however, is a little more difficult to gauge. One of football’s great selling points in recent years has been its narrative and its unity. The game’s rich history hands a storyline that can be manipulated to create a context for matches that might otherwise just be considered akin to two corporations butting each other like fighting rams. That the game hasn’t had the sort of splintering that other sports such as boxing or professional darts have suffered is also a considerable asset. The Football League feeds into the Premier League, which feeds into the Champions League, and breaking that chain would be a step into the unknown with potentially disastrous side-effects for all but the very biggest clubs.

The matter may come down to a game of dare, with the key question being that of who, between the governing bodies and the broadcasters, will blink first. FIFA, UEFA and the rest would clearly not wish to surrender their authority over the professional game without a fight, but Murdoch’s bullsihness is hardly news and “compromises” – such as UEFA’s near-capitulation over the format of the Champions League and their accommodation of the European Clubs Association and its predecessor, the G-14 – have also been reached before. It may also be significant that the ECA’s Memorandum of Understanding with UEFA, which was first agreed in 2008 and was extended in 2012 and recognises the ECA as the sole body representing the interests of clubs at European level whilst agreeing the distribution of an amount of money from that earned from hosting the European Championships to national associations for them to pass on to clubs, expires in 2018. At that point, the nature of the relationship between the governing body and its biggest clubs may be up for review, and if Rupert Murdoch can jostle for position amongst that, then the nature of professional football might well change far beyond what many would wish for.

All of this points towards football’s great unhidden truth: that match-going fans are becoming less and less important to clubs that are now desperate to unpick the lock that is football’s “emerging markets.” Managerial complaints about having to play too many matches have become muted in recent years, with clubs increasingly flaunting themselves – as was seen in the haste with which Chelsea and Manchester City departed these shores for North America for an exhibition match at the end of last season – for the benefit of a different audience. Back at home, meanwhile, anger amongst supporters over ticket prices continues to flourish into increasingly organised protests, as can be seen from the Spirit of Shankly demonstration which has been scheduled for the nineteenth of June and which has been notable for its success in bringing together fans of different clubs in the pursuit of a common goal, largely through those clubs’ supporters trusts.

Perhaps the future of professional football does lay away from these shores and those pesky football supporters and their demands for “rights.” Perhaps an overseas audience will be altogether more supine, and will be happy to have their wallets opened and its contacts extracted by Murdoch and the clubs. Meanwhile, we will be able to congregate in sports bars at inconvenient hours of the day and watch the matches on giant screens. It will be just like being there, and those who did nothing while the working classes were priced out of the game will get to experience the authentic match day experience of those who used to be able to watch “the people’s game” but can’t any more. What’s that, you say? We don’t want any of that? Probably for the best that we start doing something about it, then. Because if we don’t, the only “people” whose game this will be in a decade’s time or so will be the likes of Rupert Murdoch.

Modificato da Ghost Dog

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Los derechos de la discordia

Los contratos de imagen, que suponen una importante cuantía de sus ingresos, tienen a Messi

en el punto de mira del fisco y son un punto caliente en la renovación de Cristiano Ronaldo

Según fuentes fiscales, el argentino habría utilizado “una ingeniería obsoleta”

El portugués posee ahora el 40% de sus derechos y pretende llegar al 60%

El delantero blanco suma más ganancias por publicidad que por su ficha

Neymar, el nuevo as azulgrana, tiene el patrocinio personal de 14 marcas

por LADISLAO J. MOÑINO (EL PAÍS 15-06-2013)

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Los ingresos por derechos de imagen o publicidad se han adueñado de la actualidad de Leo Messi y Cristiano Ronaldo, las dos grandes estrellas del fútbol mundial. Al primero le afectan porque la Fiscalía de Delitos Ecónomicos de Barcelona ha presentado una querella al considerar que el delantero argentino no declaró a Hacienda 4,1 millones de euros procedentes de dichos derechos entre 2007 y 2009.

En el caso de Cristiano Ronaldo, el porcentaje de la propiedad de dichos derechos forma parte de la tensa negociación que está librando con el Real Madrid para prolongar su contrato, que expira el 30 de junio de 2015. A los dos les afecta directamente ese concepto contractual por el cual sus cuentas corrientes engordan considerablemente año a año.

“Desde que las grandes marcas, las multinacionales e incluso las entidades financieras se dieron cuenta de que los grandes deportistas son iconos publicitarios muy rentables, estos han disparado sus ingresos por estas vías y muchos de ellos, por iniciativa propia o asesorados, tratan de reducir los impuestos sobre esas millonarias ganancias mediante la ingeniería financiera o fiscal”, aseguran fuentes de la inspección tributaria.

“Los derechos de imagen son una rendija que muchos deportistas han encontrado para tratar de evadir impuestos mediante la creación de sociedades interpuestas que tienen conexiones con paraísos fiscales”, abundan otras fuentes de los inspectores fiscales.

“En el caso de Messi, si finalmente fuera culpable, se puede decir que ha utilizado una ingeniería obsoleta. Probablemente, el que la diseñara pensó que sería suficiente crear una sociedad en un país de legislación no sospechosa, para después desviar los ingresos a un paraíso fiscal donde el anonimato estaría garantizado”, prosiguen esas mismas fuentes.

A principios de los años ochenta, los deportistas y los clubes empezaron a firmar contratos que establecían que una parte de su salario se percibía en concepto de derechos de imagen, que por entonces no tributaban. Muchos de ellos cobraban la mayor parte de sus emolumentos por este concepto y pagaban un porcentaje de impuestos muy bajo con respecto a sus ganancias. Sin embargo, desde hace años, la doctrina jurídica, apoyada en sentencias del Tribunal Supremo, considera que los derechos de imagen o de publicidad forman parte del rendimiento salarial de los deportistas y por lo tanto deben estar incluidos en la declaración anual del Impuesto sobre la Renta de las Personas Físicas (IRPF).

Los inspectores fiscales consultados por este periódico aseguran que “desde hace tiempo se está haciendo un rastreo y un seguimiento exhaustivo a deportistas con residencia fiscal en España cuyas ganancias por derechos de imagen son cuantiosas” y que el caso de Messi “no es el único”. En la situación del astro argentino, según la querella, aún no admitida a trámite, la ocultación a la Hacienda Pública de los ingresos por derechos de imagen y su no inclusión en la declaración del IRPF supondrían un fraude de 1.059.398,71 euros en 2007, de 1.572.183,38, en 2008 y 1.533.092,87, en 2009.

Si a Messi los derechos de imagen le han puesto en el punto de mira del fisco español, para Cristiano Ronaldo son uno de los puntos calientes en su negociación. Según el diario As, en estos momentos, el 40% pertenece al futbolista, otro 40% al Real Madrid y un 20% a la empresa Gestifute, propiedad de su representante, Jorge Mendes. Cristiano pretende que su porcentaje ascienda hasta el 60%, lo que supondría un salto considerable en sus ingresos por estos conceptos. El goleador, que maneja los tiempos de su renovación porque el más interesado en ella es el presidente, Florentino Pérez, no parece dispuesto a ceder en este punto. El futbolista anunció en las redes sociales: “Todas las noticias mi renovación son falsas”. Eso tiraba por tierra la cercanía del acuerdo que había proclamado el presidente madridista en algunas de sus comparecencias ante los medios antes y después de renovar su mandato.

El delantero portugués, según la lista anual que publica France Football, obtiene más ingresos por publicidad que por lo estipulado en su contrato con el Real Madrid. Según la revista gala, por sus acuerdos con firmas como Nike, Banco Espirito Santo y Emporio Armani percibió 16,5 millones de euros, casi cuatro más de los que ingresa por su salario como futbolista. En esta misma relación, Messi se coloca por delante del delantero madridista con 16 millones de euros en ingresos deportivos, y 22 millones procedentes de la publicidad de PlayStation y Adidas entre otras marcas que le han escogido como imagen.

Neymar, la gran adquisición del Barcelona de cara al curso que viene, quizá sea uno de los mayores ejemplos de lo que supone esa explosión de los derechos de imagen de la que pretende sacar mayor provecho Cristiano. De los 22,5 millones de euros que ingresó en el curso pasado, el 69% (15,5 millones) fueron procedentes de un mercado publicitario que se lo rifa.

Los amos del balón

Lo lógico habría sido que la noticia fuera anunciada desde un sillón del hemiciclo por el inefable Montoro

Si se sospechara de un actor o un músico, no habría presunción de inocencia que valiera

por ELVIRA LINDO (EL PAÍS 16-06-2013)

Debió de haber un tiempo, como contaba el otro día mi querido Patxo Unzueta, en que intelectuales y artistas amaban el fútbol en contra del tópico que reza que el intelecto está reñido con la competición física. También he escuchado no pocas veces que aquellos, los intelectuales, llevaban la afición futbolera casi en secreto, por aquello de que el fútbol era considerado por la izquierda un deporte reaccionario, la distracción del régimen para un pueblo oprimido. Puede que esto fuera cierto en aquellos tiempos, es decir, antes de que servidora alcanzara la edad para admirar a intelectuales y artistas, pero lo que queda hoy de aquello es el tópico descargado de sustancia: a los intelectuales les gusta presumir de que les gusta el fútbol y al mismo tiempo mantener la coquetería de que están en contra de lo que se espera de ellos, para que en su afición se vislumbre un toque de rebeldía, cuando ya no hay nada de eso. Los que están arrinconados en estos tiempos son aquellos a los que no les interesa en absoluto. Y que conste que a mí todo esto no me afecta: no soy intelectual, y con respecto al pasado debo decir que entre los militantes de izquierda que frecuentaba en mi juventud el forofismo se practicaba con naturalidad, tal vez porque se trataba de gente de barrio o de la radio, que venía a ser lo mismo.

Pero sí que es cierto que soy esa que cuando en una mesa, sea redonda o de un restaurante, irrumpe el asunto del balompié se queda callada, esperando con una sonrisa estática a que la conversación se desvanezca; por supuesto, después de que cada uno de los afectados exhiba su frase lapidaria sobre Mourinho y así pasemos a otra cosa. El fútbol cuenta, cuenta muchísimo, cuenta como para afianzar Gobiernos en Argentina o para que en España nuestros políticos, preguntados en los pasillos del Congreso sobre cómo contemplan el posible fraude fiscal del jugador Leo Messi, se encojan de hombros y salgan en el telediario hablando de la presunción de inocencia. Hurra. Toda la vida anhelando este momento. El de la mesura. Lo lógico habría sido, dado a lo que se nos tiene acostumbrados, que la noticia de esta investigación fuera anunciada desde un sillón del hemiciclo por el inefable Montoro, nuestro ministro de Hacienda, que tiene por costumbre amenazar a ciertos sectores con inspecciones que sacarán a la luz todo lo que están robando. Es costumbre de Montoro señalar a personajes del sector cultural o de la comunicación que, dicho sea de paso, han mostrado públicamente su desacuerdo con la política del Gobierno. Pero fuera de esa acusación montoriana se quedan siempre las grandes fortunas, entre las que se encuentran las de nuestros queridos futbolistas. Aun así, sería injusto afirmar que esta es una manía persecutoria exclusiva del ministro. En absoluto, responde a un sentimiento muy generalizado que conduce a pensar que cualquier creativo o intelectual cobra más de lo que merece y que exime a los futbolistas de cualquier resentimiento popular por una vida regalada. Porque, aun aceptando la idea de que Messi sea un genio del balón, ¿es lógica la desorbitada manera en que está remunerada esa destreza?, ¿no es insultante la diferencia entre la riqueza acumulada por una estrella del deporte rey y lo que gana otro genio, pero en este caso de la bioquímica? Y ya no digo de la literatura o la música porque persiste la idea de que el hambre agudiza el ingenio de los artistas. Estos son asuntos que ya nadie cuestiona, porque está socialmente admitido que los jugadores pertenecen a otro planeta, el de los habitantes del deporte estrella, y que, por tanto, es lógico que se muevan por otras reglas que nada tienen que ver con las del resto de los terrícolas. Comprendemos que reciban sueldos millonarios a pesar de que sus clubes tengan deudas con Hacienda o de que sus equipos estén subvencionados por las respectivas Administraciones. Y en este presente de economía raquítica tenemos a los futbolistas como los máximos embajadores de la marca España, los que sacan al pueblo entristecido a la calle a celebrar una victoria o los que aparecen en la prensa internacional como vencedores de algo, ¿cómo no mimarlos?, ¿cómo no compartir la épica de que los españoles deberíamos crecernos ante las dificultades y actuar como lo hace La Roja, todos coordinados, jugando en equipo y no poniéndonos la zancadilla unos a los otros? Si hasta a mí, tan poco dada a esas emociones colectivas, me dan tentaciones de abrazar esa idea.

De vez en cuando aparecen noticias de lo que los clubes deben o de lo que los futbolistas escamotean a Hacienda, pero se olvida rápido o queda sepultado por las hazañas del mismo juego, que no seré yo quien diga que es el opio del pueblo, aunque reconozcamos que a veces ejerce sobre él un efecto adormecedor. Nuestros políticos, tan humanos como nosotros, son un ejemplo del poder embriagador que ejerce el deporte. Si se albergara la sospecha de que un actor, un escritor o un músico conocido hubieran aligerado un dinerillo del arca común, no habría presunción de inocencia que valiera: estaría sentenciado de antemano. A un empresario se le querría juzgar en una plaza pública. Pero ellos son como nuestros niños, los que juegan al balón. Aplaudimos sus logros y comprendemos sus errores.

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(Mal)educazione fisica Le frustrazioni esistenziali irrompono nei campi da gioco

Il mio papà è un hooligan

Tifosi, delusi o disinteressati per finta:

così i genitori devastano lo sport e i figli

Padri e madri fanatici con la loro violenza degradano un evento educativo

al livello di un festival senza scrupoli, pieno di insulti e minacce rivolti verso

uno o tutti i partecipanti. L’arbitro è la vittima privilegiata ma non l’unica

di ALEKSANDAR M. AVAKUMOVIC (LA LETTURA 16-06-2013)

Aleksandar Avakumovic, 56 anni e padre di un ragazzo, è un avvocato, docente universitario e grande conoscitore dello sport giovanile con legami in Serbia, Italia e Svizzera. La settimana scorsa ha fondato l’Aga (Associazione genitori atleti), organizzazione europea con l’obiettivo di realizzare un codice di comportamento per i genitori di giovani atleti, programmare corsi di formazione e ridefinire in senso sociale il ruolo dei genitori nello sport. L’Aga ha aperto una sede a Belgrado e ne aprirà presto una a Milano. Il sito, in fase di costruzione, sarà in inglese, serbo-croato e italiano

Gli stadi e le arene sportive sono luoghi dove si riuniscono in maniera organizzata accumuli repressi e incontrollati di forte rivolta sociale, presenti sia a livello individuale sia di gruppo: sono, in realtà, una sorta di «reattore» nel quale si manifesta l’umore popolare, che si può controllare e canalizzare. Così, l’arena sportiva può diventare uno «sfogo» di energia pericolosa che corre il rischio di essere incanalata verso direzioni che sconfinano nella manipolazione sociale. Per questo rappresenta uno specchio (quasi perfetto) della realtà.

Purtroppo i protagonisti dello sport sono i giovani — spesso i bambini —, mentre nel pubblico sono presenti individui di tutte le età e le categorie sociali. Non solo: nello sport circola un’enorme quantità di denaro. I media seguono con attenzione esclusivamente lo sport «di alto livello», dimensione che si è allontanata già da molto tempo dalla cultura e dall’educazione fisica. Lontano dalla luce dei riflettori, dall’interesse di giornali e tv, si svolgono grandi drammi il cui centro è la famiglia. E l’aspetto più drammatico si riflette sul bambino, sul piccolo atleta, il protagonista del gesto sportivo, della gara, della partita: un giovane individuo messo in relazione con la propria famiglia, scuola e società tramite lo sport.

Qui si innesca un meccanismo delicato, addirittura pericoloso: la famiglia, turbata a causa di varie forme di crisi sociali ed economiche, lotta per sopravvivere e trasmette la pressione ai suoi membri più deboli, ma anche futuribili: i bambini. Molto spesso, quasi seguendo uno schema, i genitori si trasformano incoscientemente in persone violente, prima nei confronti dei propri bambini, e poi, con numerose scenate e sfoghi «vandalici », nei confronti dell’intero ambiente al quale appartengono. Si tratta di una forma contemporanea e sofisticata, tuttavia sempre più visibile, di vandalismo. Che si alimenta della matrice dell’hooliganismo classico, la cui culla cromosomica si ritrova nel calcio britannico.

Cerchiamo di seguire un percorso tormentato aiutati da queste parole chiave: bambini-atleti, hooliganismo, genitori, società.

Fenomenologia dell’hooliganismo

Tutto quello che è forte ha un’energia naturale di espansione. L’hooliganismo non è un’eccezione. Minaccia di «allagare » tutta la società. Molte dighe hanno già ceduto tempo fa e altrettanti paesaggi della struttura sociale sono «sommersi ». Modelli di comportamento hooliganistici sono presenti in vari strati, classi, caste, corporazioni, circoli, club e sezioni sociali. La scena pubblica, politica, economica, industriale, artistica, perfino culturale, alla quale, secondo alcune classificazioni, dovrebbero appartenere tutti gli sport, è piena di immagini hooliganistiche dagli esiti distruttivi. Così gli hooligan «innocenti» di cinquant’anni fa sono diventati gli eroi di un’epoca romantica…

Non esiste una parte di struttura sociale che non sia toccata dallo spirito hooliganistico. Purtroppo è influenzata in maniera forte e pericolosa anche la famiglia, che, in realtà, si comporta molto spesso in modo hooliganistico e violento nei confronti dei propri membri.

Il genitore assume il ruolo dell’hooligan più frequentemente del bambino. Anche il bambino lo diventerà, se non si distacca dall’abbraccio di preoccupazione dei genitori e di attenzione sociale. Queste righe vengono scritte nel momento in cui il fenomeno si sta diffondendo: la maggior parte dei genitori resiste, lo combatte con ogni sforzo, sentendo che la pressione è, comunque, così forte che ci sono tanti motivi per preoccuparsi e sollecitare l’adozione di provvedimenti per arginare questo tsunami sociale e limitarne i danni.

Qui saranno riportati alcuni modelli tipici (esempi, forme) e molto diffusi del comportamento hooliganistico dei genitori e del suo effetto.

Genitore tifoso

Questo tipo di genitore-hooligan degrada, con il suo tifo, un innocente evento sportivo, altamente educativo per i bambini, al livello di un festival senza scrupoli, pieno di insulti da stadio verso uno o tutti i partecipanti della gara. Non viene risparmiato nessuno dei presenti, anche se il bersaglio più conveniente è sempre l’arbitro, di regola considerato al livello tecnico degli stessi giovani protagonisti dell’attività sportiva. Il genitore-hooligan, come anche ogni altro collega, attacca sempre il più debole, visibilmente indifeso. Le misure di sicurezza di tali gare sono scarse o non esistono, così i rischi di crescita della violenza, dalla forma più bassa a quella più alta, sono enormi…

Rovinosi gli effetti della manifestazione, che si riflettono negli insulti e nelle minacce verso gli arbitri, gli avversari e i bambini della squadra avversaria (specialmente verso l’allenatore dei rivali), nella provocazione di conflitti tra singoli o tra gruppi di genitori della squadra avversaria (allora la situazione è particolarmente tragica perché si vede che la gente, in realtà, imita in modo inconscio i modelli di conflitti che hanno visto o ai quali hanno partecipato in occasione di manifestazioni sportive più grandi), nelle minacce, negli insulti e nel disturbo di tutti i presenti.

È particolarmente triste, e rappresenta la forma più drastica di hooliganismo dei genitori, capace di sottoporre a una tortura specifica (a volte solo verbale, sotto forma di grido; ma molto spesso anche fisica, davanti a tutti o a quattr’occhi) quel bambino-atleta che gioca e corre. E che cosa succede nell’anima e nella coscienza del bambino? È meglio non speculare, sappiamo che cosa succede dentro di noi, testimoni neutri di tali scenate.

Genitore allenatore

Molto spesso i genitori indirizzano i loro bambini verso lo sport che loro stessi praticavano o seguivano attentamente già quand’erano giovani. Del tutto logicamente trasferiscono e offrono questa passione ai loro figli, non esaminando l’affinità personale e l’umore del proprio bambino. Possedendo alcune conoscenze ed esperienze precedenti, costruiscono una convinzione sulle proprie elevate competenze e abilità come allenatori. Motivati ufficialmente dallo stare «sempre più vicini al bambino» si trasformano nell’allenatore del proprio figlio (spesso, se hanno quel tipo di capacità, fondano anche la propria organizzazione sportiva), nascondendo anche a se stessi un motivo recondito: il desiderio di essere allenatori anziché genitori attenti.

Evitano di rendersi conto che sovrappongono il loro bisogno al bisogno del bambino di cui, infatti, sanno pochissimo; e più spesso, non se ne interessano neppure. Si può immaginare una forma più perfida di violenza teppistica?

Genitore dirigente

I club e le scuole sportive dell’età contemporanea cercano per sé un management adeguato. Di regola, i club sono impreparati a tale ricerca, lo sport si sviluppa troppo velocemente a tutti i livelli per avere, sul piano del personale, una situazione favorevole. Una delle risorse umane più naturali, e quantitativamente ricche per il reclutamento nel mondo dei dirigenti sportivi, è proprio quella dei genitori dei giovani sportivi interessati a «seguire i bambini».

L’organizzazione sportiva «prega» spesso il genitore di prendere parte all’organizzazione. Capita che egli accetti quest’invito perché sa che tanto la scuola-club è organizzata male. Da questo momento, in un gran numero di casi, accade una graduale trasformazione (lenta o fulminea) in un nuovo tipo di genitore: il dirigente. All’improvviso gli cade dal cielo un po’ di potere, e tutto questo è collegato con la pratica dello sport di suo figlio. Spesso, anche senza fare nessuno sforzo, gli altri — forse per ipocrisia — cominciano anche a trattare il bambino diversamente dagli altri bambini, certo meglio. Lì comincia la violenza, specialmente nei confronti degli altri bambini-sportivi, i cui genitori non sono dirigenti, bensì sono fuori dal sistema, obbligati solo a pagare la quota associativa o la tassa scolastica. Si crea una perfida connessione tra la direzione e gli allenatori che sono pagati dai primi (nel maggior numero dei casi), diretta non allo sviluppo delle attività sportive, ma al soddisfacimento di singoli interessi dei genitori-dirigenti. Su questo punto lo sviluppo della scuola-club viene fermato e il club viene trasformato in un’organizzazione violenta che esegue gli interessi di piccoli dirigenti, trascurando completamente gli interessi sportivi, pedagogici e tutti quelli legati ad essi.

Proprio questo spirito, dietro il quale c’è spesso il genitore-dirigente/hooligan, rappresenta il freno più grande allo sviluppo dello sport. Una cosa sia chiara: i genitori-hooligan non lo consentono. Non lo possono né sopportare né permettere. Loro non soddisfano alcun criterio di qualità, e spesso nemmeno i loro bambini

Genitore falsamente disinteressato, ma deluso

Questo tipo di genitore-hooligan è particolarmente pericoloso, perché spesso si nasconde abilmente e a lungo. Si tratta di un hooliganismo dei genitori presente in maniera massiccia. Si riscontra tra i gruppi di persone che non hanno esperienze sportive e dunque neanche una cultura sportiva. Nella loro coscienza — insensibilmente, ma anche con forza — nasce una certa ambizione personale: che il loro bambino abbia successo. Con il tempo, e in particolare nel caso in cui il bambino mostri una certa qualità sportiva, la loro ambizione già formata si trasforma in una forte aspirazione, piena di immagini di grande successo, grandi quantità di denaro e gloria. A causa della loro immaturità e del loro squilibrio emotivo, questi genitori, nel caso vi sia un improvviso o graduale abbandono dello sport da parte del bambino, vivono tutto ciò come un crollo delle loro ambizioni. Non conoscendo lo sport, questi genitori cadono in uno stato psichico di delusione, arrivando al limite a forme gravi di depressione. Il bambino che abbandona lo sport, quasi sempre deluso anche lui, non ha neanche immaginato una conseguenza del genere, non capendo fino a quale punto e in quale maniera la sua pratica dello sport abbia influenzato lo stato psicologico dei genitori. Pensava che il genitore non avesse interessi, che, in realtà, fosse distaccato, che non avesse esercitato alcuna pressione. Il bambino spesso vive peggio la delusione dei genitori che la propria. Si arriva alla situazione di sconfitta generale del bambino su un doppio piano: la sensazione di colpa e la responsabilità per la delusione collettiva e per la sconfitta.

Genitore disinteressato

Questa forma di hooliganismo dei genitori è presente in maniera sempre più massiccia. E non è escluso che, alla lunga, si riveli il più pericoloso: si tratta di un vero e sincero disinteresse su come, con quali amici, dove e sotto quali condizioni il proprio bambino pratica lo sport. Si limitano a «parcheggiare» il bambino presso organizzazioni delle quali ignorano l’incompetenza, non curandosi dei possibili effetti che potrebbe avere sui loro figli. Il disinteresse che mostrano nei confronti dei propri figli è la base della violenza. Questa è una delle rare forme di hooliganismo parentale che viene esercitata attraverso la non-azione, la passività, spesso connotata da violenza.

Come uscirne

L’hooliganismo dei genitori è un avversario molto pericoloso dello sport contemporaneo, praticato in gran parte da bambini e giovani. L’hooliganismo dei genitori si è infiltrato nel mondo dello sport, attraverso quello dilettantistico, il che rende tutto il fenomeno ancora più complicato e radicale. Per fortuna, siamo ancora testimoni di un’epoca in cui prevalgono, per numero e influenza, i genitori normali, moderati, equilibrati, che hanno avuto (o anche no) esperienze sportive. Lo sport è ancora indiscutibilmente la forma migliore di utilizzo del tempo libero da parte dei bambini e dei giovani, ma solo a una nuova condizione: che non sia sotto il potere, controllo e influenza dei genitori-hooligan.

Che la cosa sia estremamente grave, di gran lunga più grave di quanto possa sembrare a prima vista, lo dimostra un serio calo d’interesse della famiglia nel consentire ai propri bambini la pratica dello sport. Questo si spiega in modo errato con varie ragioni, di natura soprattutto economica. Invece, non ci si rende conto che c’è una motivazione sempre più frequente: la famiglia sana ha ormai notato che nel mondo dello sport sono in agguato, già all’ingresso, i genitori-hooligan. Questo è il grande ostacolo per lo sviluppo dello sport contemporaneo.

Stadi e palazzetti

Il campione pedagogo che

combatte la deriva sociale

di DANIELE DALLERA (LA LETTURA 16-06-2013)

Ha ragione da vendere Aleksandar Avakumovic, l’hooliganismo dei genitori sta diventando un «fenomeno pericoloso a livello sociale»: basta frequentare campi e palazzetti dove si affrontano squadre giovanili, di calcio, di basket, di pallavolo... Perché la disciplina sportiva non seleziona la maleducazione genitoriale; la esalta. Lo ha compreso per primo Avakumovic, che ha studiato il fenomeno (e per «la Lettura» sintetizza un lavoro di ricerca che va avanti da anni) e non s’è certo fermato, anzi continua ad approfondire, restandone sempre più disgustato, il comportamento deviato di padri e madri. Avakumovic, una vita nello sport (e non solo) affrontata con spirito da educatore. Ottimo giocatore di basket una volta, ma la campionessa è la moglie Biljana Markovic, nazionale jugoslava e anche lei allenatrice sensibile alla crescita prima etica e poi tecnica dei ragazzi, ha fondato nel ’98 la Bam International Basketball Association, la prima scuola dei canestri per ragazzi riconosciuta dalla Fiba, la Federazione internazionale allora guidata da quel genio (non del potere) di Boris Stankovic. Che capì subito la forza di un progetto e che ha allenato ed educato milioni di talenti e di brocchi in tutta Europa.

Avakumovic è spaventato dall’aria che tira, inquinata dalla rabbia di genitori che seguono le partite e la carriera (embrionale) dei loro ragazzi, guastandola con l’insulto da dedicare all’avversario, anche lui ragazzino; all’arbitro, anche lui alle prime armi; all’allenatore rivale. Si sente di tutto, si vede di tutto su quegli spalti. È di pochi giorni fa l’episodio di rabbioso hooliganismo da genitori avvenuto a Crema durante una partita di volley. Under 13, una categoria che dovrebbe essere un inno alla gioia. Sulle tribune del palazzetto il silenzio tombale di un tifo violento per fortuna represso. Sì, dalle forze dell’ordine che avevano proibito l’ingresso dei genitori delle ragazzine perché una settimana prima l’incontro di andata era terminato non con una stretta di mano, ma con una gigantesca rissa tra adulti, sostenitori dell’una e dell’altra squadra. Candido Cannavò e don Rigoldi, il «pretaccio» amico del grande direttore della «Ġazzetta dello sport», avevano animato il progetto «Io tifo positivo». In loro soccorso le parole di padre Morell, un gesuita che aveva unito Vangelo e sport negli anni della guerra e del dopoguerra organizzando partite e tornei tra ragazzi. «Bisogna accettare la sconfitta e rispettare l’avversario: se non controlli le parole, poi non controlli le mani. Cominciamo dalle parole...», predicava padre Morell. Quegli hooligan, così ben descritti e catalogati da Avakumovic, prendano lezione da quel gesuita e lascino in pace i loro ragazzini e lo sport.

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Senza parole... ché già il caldo mi sta rincoglionendo abbastanza…


SOCIETÀ
Kant nel pallone
Ovvero come la filosofia
può salvare il calcio...

...e non solo: un brillante saggio di Elio Matassi ci spiega
perché in tempi di crisi (dello sport, ma anche della politica
e dell’economia) bisogna ritrovare i fili della narrazione

di CLAUDIA FUSARI (l'Unità 17-06-2013)

PERCHÉ UN GOL È «UN TAPPETO MUSICALE». UNO STADIO UN’ISOLA, UN CERCHIO, «UNA CIRCOLARITÁ COMPIUTA ». PERCHÉ «OLISMO METAFISICO» NON È UN CONCETTO COMPLICATO MA PUÒ ESSERE LA RICETTA PER FAR FUNZIONARE REALTÀ COMPLESSE, UNA SQUADRA DI CALCIO COME UN GRUPPO SOCIALE. PERSINO UN GOVERNO. Certo, siccome è il primato del tutto sulle parti, quello che serve e fa la differenza è il mister giusto, l’allenatore, il premier. È poi perchè per capire come cavolo abbia fatto Mourinho a fare il triplete (in una sola stagione, 2009-2010, scudetto, Champions e Coppa Italia) servono Kant, Hegel, Arendt e Canetti.

La bellezza salverá il mondo, diceva Dostoevskij. Aggiorniamo la citazione: la filosofia salverà il mondo. A cominciare dal calcio. Perchè in ogni fase di crisi profonda quello che serve è l’analisi che sa ricomporre il tutto e ritrovare un filo di narrazione. Succede così che un filosofo come Elio Matassi, tifoso consapevole e analiticamente convinto prima dell’Inter e poi di Mourinho, produca un saggio che parte dal calcio per arrivare a noi. S’intitola Pensare il calcio (edizioni Il Ramo), sono cento piccole pagine che si leggono d’un fiato, divertenti, leggere eppure complesse, con più livelli di lettura per cui ogni riga e ogni capitolo invita ad altre riflessioni, approfondimenti, suggestioni. Per dire: «La società nel suo complesso e, dunque, anche il calcio, hanno bisogno della stessa cura, non autoreferenziale come quella semplicemente economica, ma in primo luogo etica e culturale e dunque filosofica. Marginalizzare il ruolo della filosofia è un’operazione intellettuale che, ad intermittenza, viene riproposta ma è destinata all’insuccesso almeno per tutti coloro che auspicano un mondo migliore e soprattutto più giusto anche nel calcio».

Certo, all’origine del tutto c’è Josè Mourinho, l’allenatore portoghese che, scrive Matassi, «non è una forzatura né un paradosso considerarlo dal punto di vista filosofico perchè si è sempre ispirato esplicitamente nei suoi sistemi di allenamento come nelle sue scelte tattiche alla filosofia della vita del primo Novecento (Simmel e Bergson) per esaltare il ruolo delle motivazioni su quello delle competenze individuali e collettanee di una squadra di calcio». Si scopre, non a caso, che la moglie dell’allenatore è docente di filosofia e psicologia. E si arriva alla rilettura in chiave quasi magica di un gesto che ha segnato la storia del calcio degli ultimi anni, quando Mourinho fu deferito e squalificato perché rivolto all’arbitro aveva alzato mani e polsi intrecciati simulando manette virtuali. Un gesto di cui, secondo Matassi, non fu compresa la «bellezza estetica» che voleva dire «arrestatemi pure tanto riuscirò ancora una volta a liberarmi», una citazione della psicoanalisi di Adam Smith circa le arti della fuga. È che invece fu banalizzato in un gesto di offesa verso gli arbitri.

In una girandola di citazioni e contaminazioni, speculando sul pensiero da Aristotele a Kant, da Hegel ad Hanna Arendt, da Adorno a Bloch, si scopre che un gol è un «tappeto musicale» in quanto momento unico e irripetibile di pura fantasia e creatività. E che il calcio, in quanto giocato in uno stadio che isola dal resto del mondo non solo uno spazio ma anche gli uomini e le donne che vi prendono posto, «è una trasgressione che viola l’ordine di tempo e spazio». Viene in mente, sugli stessi presupposti (Elias Canetti Massa e potere), che anche l’emiciclo del Parlamento, in quanto spazio circolare rivolto su se stesso e che offre le spalle al resto del mondo, sia una trasgressione di spazio e tempo. Un luogo fin troppo autoreferenziale. Si arriva così al momento del saggio che forse appassiona di più il lettore semplice, non tifoso. Ed è quando Matassi mette insieme democrazia, economia, etica e calcio perchè «esiste un rapporto strettissimo tra la grave crisi contemporanea non soltanto economica e quella che sta distruggendo il calcio ». E parlando di calcio il tifoso Matassi lascia il posto al filosofo morale (l’autore è ordinario di filosofia morale ed è stato direttore del Dipartimento di Filosofia di Roma Tre) e, anche, osservatore politico. Le citazioni adesso sono Tito Boeri, Massimo Salvadori, Michele Ciliberto ed economisti bocconiani come Massimo Amato e Luca Fantacci. E così come il calcio muore di soli tecnici, ugualmente accade in democrazia. E in politica. Quindi la «crisi ormai irreversibile delle democrazie europee» è colpa «dell’economia globalizzata dove a dominare senza alcun controllo sono le nuove elites economiche tecnocratiche che si sovrappongono alle democrazie parlamentari ». La democrazia rappresentativa e partecipata rischia di trasformarsi in dispotica e autoritaria in mano a tecnici e tecnocrati. E la scommessa oggi diventa quella di salvare il mercato dal capitalismo finanziario che ha scambiato la moneta da bene comune a merce di scambio.

Così, se l’economista Tito Boeri ha scritto un saggio Parlerò solo di calcio per teorizzare, in quanto economista, che l’unica salvezza del gioco più bello del mondo è «esclusivamente un governo tecnico», il filosofo Matassi arriva alla conclusione opposta: solo la filosofia salverà il mondo, la politica e il calcio.

Inter e Juventus.

Profanazione e secolarizzazione

di ELIO MATASSI (ilFattoQuotidiano.it 17-06-2013)

La genealogia dei concetti, la storia del calcio e, più in particolare, quella di due squadre alternative come Inter e Juventus sono strettamente intrecciate. Il punto di partenza di questo intreccio concettuale si può ritrovare nell’interconnessione tra dimensione giocosa e dimensione sacrale.

E’ indispensabile tener presente che la maggior parte dei giochi conosciuti e, dunque, anche il calcio, deriva da antiche cerimonie sacre, da rituali e pratiche divinatorie che un tempo erano di competenza dell’ambito religioso. Per esempio, alle origini, il girotondo era un semplice rito matrimoniale, giocare con la palla, invece, rappresentava la competizione degli dei per il possesso del sole, mentre i giochi d’azzardo derivano da pratiche oracolari e la scacchiera rappresentava uno strumento di divinazione.

L’interpretazione più sottile della relazione tra giocosità e ritualità è stata compiuta da Émile Benveniste, che ha chiarito come il gioco, pur provenendo dalla sfera sacra ne costituisca in qualche misura anche il capovolgimento. Se la potenza dell’atto sacro risiede nel coniugare mito narrante e rito riproducente, il gioco lacera questa unità: come ludus, o gioco di azione, esso lascia cadere il mito conservando il rito; come Jocus, invece, ossia come gioco di parole, cancellando il rito lascia sopravvivere il mito. Con Benveniste: “Se il sacro si può definire attraverso l’unità sostanziale del mito e del rito, potremmo dire che si ha gioco quando soltanto una metà dell’operazione sacra viene compiuta, traducendo solo il mito in parole e solo il rito in azioni.”

Da questa polarità concettuale Giorgio Agamben mutua il concetto di ‘profanazione’: l’atto della profanazione implica il passaggio da una forma di credenza, ormai percepita come falsa e oppressiva, a una forma di negligenza che rende invece più autentica la credenza stessa.

A questo punto dell’argomentazione di Agamben entra in scena una seconda polarità concettuale, quella fra secolarizzazione e profanazione. Se la secolarizzazione è “una forma di rimozione che lascia intatte le forze”, la profanazione, invece, “implica una neutralizzazione di ciò che profana”. Si tratta, in entrambi i casi, di un’operazione politica: mentre la secolarizzazione ha a che fare con l’esercizio del potere, la profanazione, disattivandone i dispositivi, restituisce all’uso comune gli spazi che il potere aveva di fatto confiscato.

Secolarizzazione e profanazione sono una coppia concettuale che può trovare compiutamente un terreno d’applicazione nelle due squadre alternative per eccellenza: la Juventus sta alla secolarizzazione come l’Inter alla profanazione.

Se la secolarizzazione distrugge l’essenza stessa del gioco, appiattendosi nell’omogeneità più radicale, la profanazione, diventando il compito ‘politico’ del nostro tempo, restituisce dignità al calcio come ad ogni altra dimensione competitiva e innocente. Se le epoche della Juventus rappresentano la sanzione estrema della secolarizzazione, le epoche dell’Inter, molto più circoscritte ma intense e pregnanti, definiscono la profanazione.

Il quinquennio interista (2006-2010) ha segnato il momento culminante della profanazione, scandito, non a caso, dalle lamentazioni di tutti i nostalgici della secolarizzazione, che sono tornati d’attualità negli ultimi due anni con la ripresa juventina.

Ma gli araldi della nuova profanazione sono già all’opera…

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Spagna nata dalle seconde squadre
di LUCA VALDISERRI (CorSera 17-06-2013)

GERUSALEMME — C’è un dato che accomuna i 23 spagnoli, oltre al grande talento: provengono dalle «seconde squadre» che, anziché perdere tempo nel campionato Primavera, si confrontano in seconda o terza divisione contro avversari veri. Si va dalle 99 presenze di Nacho, capitano del Real Madrid Castilla, alle 19 di Iker Munian, che fin da piccolo era troppo bravo per l’Athletic Bilbao B. Dalla cantera del Barça vengono Montoya, Thiago Alcantara, Bartra, Tello e Marc Muniesa. Al Valencia Mestalla si mangiano le mani pensando che Isco viene proprio da lì.

Chi opera nel calcio giovanile dice che il modello spagnolo è la base per creare un gruppo di giocatori bravi, vincenti, uniti e preparati. Lo pensano anche Arrigo Sacchi (coordinatore delle nazionali giovanili azzurre), tutti i c.t. delle varie Under, gli allenatori delle squadre Primavera. Non lo pensano i dirigenti delle leghe e la maggioranza dei club, che si sono sempre messi di traverso, con poche illuminate eccezioni.

Quale è la differenza tra giocare in un club di B o di C italiana oppure in una «seconda squadra» spagnola? Le strutture, gli avversari, gli allenatori, la possibilità di essere «ripescati» dalla squadra maggiore in caso di necessità (limitando anche l’ipertrofia delle rose), la costruzione di un percorso formativo ad hoc. È un’idea così buona che in Italia non diventerà mai realtà. Il sistema delle «seconde squadre» ridurrebbe anche le deleterie comproprietà. I giovani in prestito non giocano, perché così vengono valorizzati a favore dei club di appartenenza; quelli in comproprietà giocano, ma solo nella speranza di farci poi un affare. Con la conseguente «tarantella» di buste più o meno trasparenti.

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Calcio triste Il presidente si chiama Roberto Benigni ma

pochi ridono. I tifosi imputano la retrocessione a club e calciatori.

Che vivono sotto assedio: la Digos a bordo campo deve proteggerli,

i giocatori marcano visita con certificati e sono costretti a riguardare
i video delle sconfitte come Fantozzi con la Corazzata Potemkin

Allenamenti sotto scorta
L’Ascoli in C,

non ci resta che piangere
di LUCA CARDINALINI (il Fatto Quotidiano 17-06-2013)

Il presidente si chiama Roberto Benigni, ma all’Ascoli, in questi giorni, pochi hanno voglia di ridere. La squadra è appena scivolata dalla serie B alla C, dopo undici anni di professionismo (un paio anche in A). È una delle retrocessioni più dure da digerire, viene meno la “mutualità”, cioè la quota pro capite dei diritti televisivi. La retrocessione, inoltre, è arrivata diretta, senza nemmeno i play out.

Sarà che ad Ascoli, calcisticamente, sono abituati bene, anche se le epoche delle vacche grasse distano ormai qualche lustro. Il mitico presidente Costantino Rozzi - quando al Processo di Biscardi stava raccontando di una trasferta dei bianconeri: “Ricordo che quando andiamo stati a Bergamo...”, e un giornalista pietoso gli sussurrò: “Quando siamo stati a Bergamo...”, lui gli rispose serio: “Perché, c’eri anche tu?” – è ormai solo il nome della curva degli ultras. Portò Mazzone e Dirceu, Boskov e Bierhoff, tifo caldissimo, anche troppo.

DETTO CIÒ, era matematico che la retrocessione non venisse vissuta olimpicamente. Lo si era intuito anche dopo il pazzesco 0-5 contro il Verona, quando, il lunedì sul campo d’allenamento, vennero ritrovate undici croci di legno.

Siccome la gratitudine, nel calcio come in molti altri ambiti, non va per la maggiore, il tifo organizzato se l’è presa (soprattutto) con i due gioiellini osannati all’inizio: il bomber Simone Zaza (in prestito dalla Sampdoria, 18 gol realizzati in stagione, ma nessuno negli ultimi due mesi) e Fossati (in prestito dal Milan, nazionale giovanile, reo di aver provocato un rigore a Brescia, di averne sprecato uno contro la Ternana e di un’espulsione nella decisiva sfida contro il Cittadella).

Finito il campionato, i tifosi si sono fatti vivi alle sedute di allenamento, con cori minacciosi, qualche spintone, manate alle auto e insulti in tutte le lingue del mondo.

I fine contratto e i prestiti, hanno imboccato la strada verso casa senza passare dal via. Un’epidemia ha poi colpito il Piceno, vista la quantità di certificati medici fatti recapitare alla società per evitare assenze ingiustificate: un concentrato di patologie e disturbi da richiedere l’intervento dell’Oms.

La società, malgrado l’aria pesante, ha imposto la continuazione degli allenamenti fino a fine stagione, due sedute al giorno, sotto l’occhio vigile di una pattuglia di carabinieri o polizia, a turno.“La presenza della Digos al campo è una cosa normale (sic!), non capiamo la curiosità di certa stampa”, spiegano. Si è fatta viva anche l’Associazione nazionale calciatori, chiedendo che agli allenamenti “venisse garantita l’incolumità dei calciatori”. Neanche fossimo in Colombia.

La presenza dei militari non ha impedito tentativi di aggressioni verso la truppa assottigliata e superstite. L’altro giorno, l’ultima corsa dell’allenamento per mister e allievi, è servita per guadagnare gli spogliatoi e barricarvisi dentro, inseguiti da un gruppo di esagitati.

È filtrata anche la notizia che qualche pomeriggio, al posto delle consuete riunioni tecniche, ovviamente non essendoci più partite da disputare, ai poveracci superstiti venga “offerta” la possibilità di rivedere alcune partite del campionato appena concluso. E sembra di vederli, raggianti, questi ragazzi di belle speranze e amare realtà, ancora addolorati per la piega presa dalla loro carriera sportiva, passare i pomeriggi a rivedersi contro il Crotone, la Pro Vercelli o la Ternana. Una specie di Corazzata Potemkin di fantozziana memoria, tortura proibita perfino a Guantanamo.

HA DETTO IL PRESIDENTE Benigni: “Devono considerarsi fortunati ad avere un lavoro, questo tempo permetterà loro di riesaminare gli errori fatti”. Da poco Benigni ha incontrato alcuni gruppi di tifosi. Prima ha voluto ascoltarli (“gli abbiamo detto che sono anni che la curva canta, durante la partita, e non fa prendere multe”), gli ha detto che purtroppo non siamo a Sanremo e poi li ha rassicurati nella volontà di risalire presto nelle “posizioni che ci competono”, come dicono tutti. Forse darà una mano Pietro Lo Monaco, ex ds di Genoa e Catania, probabile l’arrivo in panchina di Rosario Pergolizzi, un ex delle mille battaglie in bianconero. Sul fronte calciatori, per dire, piacciono Ali Sowe, un ragazzino gambiano in forza al Chievo, e Alessandro Sbaffo, che sta finendo di scontare 16 mesi, patteggiati, per la combine di Livorno-Piacenza del 2011.

Anche perché, prima, ci sono altre grane da risolvere, come l’iscrizione al prossimo campionato. Di sicuro il club inizierà anche il prossimo anno con almeno un punto di penalizzazione, visti i mancati versamenti Irpef per gli stipendi di gennaio e febbraio. Entro questa settimana dovranno essere pagati gli stipendi febbraio e marzo, con relativi versamenti Irpef, poi aprile e maggio, e così via, con probabile accumulo di handicap.

E siccome piove sempre sul bagnato, quest’anno, dalla serie D, sono saliti anche i rivali cugini della Sambenedettese. Ƥorco mondo.

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Cornu’s crusade:

How football must step up betting battle
by KEIR RADNEDGE & ZARIF RASUL (KeirRadnedge.com 16-06-2013)

Pierre Cornu, former UEFA chief legal counsel for integrity and regulatory affairs, fears the threat posed to football by the internet-fired explosion of Asian betting syndicates.

Cornu, now with the International Centre for Sports Studies (CIES) believes the betting industry boom is increasing the danger of criminal pressure on athletes.

He told AIPS Young Reporters* in Tel-Aviv that the manipulation of sport was nothing new: boxing had been ‘fixed’ at the ancient Olympic Games all the way back in 338BC.

However the problem has been exacerbated in recent years by the aggressive and worldwide match-manipulation strategy adopted by criminals serving the criminal interests in the betting industry.

As an illustration of the financial breadth of the industry, Cornu said that more than €1bn had been bet, in Asia alone, on the 2011 UEFA Champions League final between Barcelona and Manchester United.

One Asian bookmaker had taken €38m in bets ahead of and during Chelsea’s 4-4 draw with in the 2009 Champions League.

However, these were official, legally-accounted figures.

Cornu indicated around 35pc of the global market operated beyond legal regulation. This included 80-90pc of online operators, many of whom are located in Asia.

These Asian companies often existed in a complex matrix involving agents, super-agents and ‘foot soldiers’ operating at different levels; such a pyramid hampered attempts to track individuals’ involvement and follow the money-laundering.

In 1995 the industry comprised 250 operators. Now between 5,000 and 10,000 were many known, many of them based in tax havens and subject to light, if any, regulation. Betting was now possible all day, all year and on manners of competitions and events.

The challenge facing regulators and investigators had been excerbated because matchfixing for the sake of a sports result was not almost old-fashioned. This meant that ‘target’ matches were not so obvious while betting potential had been complicated by the emergence of spot-fixing.

However, sportsmen were being lured into a false sense of personal complacency in believing it was harmless to accept ‘easy’ money by generating a first corner or foul or throw-in.

‘Grey areas’

Accepting even a small sum, however, rendered the perpetrator vulnerable to blackmail for the commission of more serious and manipulative offences.

Cornu pointed out the difficulties posed by the grey areas of competitive sport and the absence of effective internationally unified legislation against sports fraud.

He posed instances of clubs fielding weakened sides in ‘dead’ matches, accepting third-party bonuses and even whether a prohibition should be enacted against shirt-advertising by betting companies.

“There used to be advertising for tobacco companies,” said Cornu. “Then the mood changed. Now people are discussing alcohol advertising. Maybe one day the mood will change for betting advertising too.”

* Pierre Cornu was addressing the Young Reporters course organised in Tel Aviv by the AIPS, the international sports journalists’ association, in association with UEFA

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Il patron del Genoa impegnato in una difficile ristrutturazione

A Preziosi si è rotto il giocattolo

Pesa la crisi del settore giochi. Allo studio un aumento di capitale per evitare il concordato

di ALESSANDRO DA ROLD & ANTONIO VANUZZO (LINKIESTA 17-06-2013)

Ha rotto la telecamera di un giornalista

, ma in realtà a Enrico Preziosi, patron della Giochi Prezioni e del Genoa calcio, è «il giocattolo» che rischia di rompersi. Il leader del settore giocattoli in Italia paga da due anni la congiuntura economica negativa e i numeri di un mercato in difficoltà. Lo ha messo nero su bianco Assogiocattoli, associazione che raduna i protagonisti del settore, lo scorso febbraio commentando i dati del 2012. Dopo avere registrato un calo del 3% dei fatturati nel 2011, il mercato «del Traditional Toys» in Italia si è chiuso anche nel 2012 con il segno meno: -2,2% in termini di giro d’affari e -1,9% sui pezzi prodotti a fronte di una lieve flessione (-0,3%) dei prezzi medi: a novembre (-8,7%) e dicembre in declino dello 0,6%, ma solo grazie al recupero per le festività natalizie nelle ultime due settimane (periodo 17-30 dicembre 2012).

Del resto in tutta Europa, a parte la solita Germania, il trend è negativo. E molte aziende italiane leader nel mondo hanno già portato i libri in tribunale. Come la "Mondo" di Gallo D'Alba che produce pavimentazioni, attrezzature sportive e giocattoli, protagonista alle ultime olimpiadi di Londra 2012. Nell'aprile scorso i vertici hanno depositato presso il Tribunale di Alba la domanda di concordato “con riserva” ai sensi dell’articolo 161, comma 6, della legge fallimentare: le difficoltà deriverebbero dalla «quasi impossibilità di incassare quanto dovuto sia dai clienti privati che dalle amministrazioni pubbliche italiane».

Le altre aziende reggono, ma con difficoltà. E un settore dove fa ancora rumore parlare del fallimento della Gig di Aldo Horvath nel 2001, azienda leader in Italia che nel 1995 fatturava 400 milioni di euro, distributrice del Nintendo, ma che poi fu costretta a chiedere il concordato preventivo quattro anni dopo anche sull'onda del successo della Playstation: Horvath poi finì sulle cronache perché suicida dopo aver ucciso la moglie nel 2009 tra lo stupore di tutta Firenze. Da allora è Preziosi il leader del mercato italiano, anche perché proprietario dei Toys Center e gestore in franchising di Giocheria, e quindi di fatto vero king maker del mercato.

Eppure, non è indenne da una crisi che ha colpito duramente la divisione italiana, traino del gruppo. In Italia le quote di mercato di Giochi Preziosi sono scese al 17% rispetto allo storico 25%, il che significa 100 milioni di fatturato in meno. Fortunatamente a fare da contraltare c’è stata la crescita in Inghilterra, dove l’azienda è al quinto posto con un aumento del giro d’affari del 5 per cento, secondo quanto raccontano alcune fonti interne a Linkiesta (il bilancio 2012 non è stato ancora depositato). A ciò si aggiunge la difficoltà di riscuotere i crediti da parte dei fornitori, un po’ per via di una politica commerciale aggressiva che – riempiendo i negozi di merce – ha portato a un alto tasso di invenduto, un po’ per le difficoltà stesse dei fornitori. Come è successo lo scorso Natale, quando la società ha avuto forti difficoltà nella riscossione dei crediti. Tant’è che in azienda si discute se sia il caso di imitare la Lego: niente pagamento anticipato niente prodotto.

C’è poi un tema che riguarda la moltiplicazione dei canali tematici sul digitale terrestre, e delle conseguenti licenze. Prima la pubblicità si concentrava soltanto su Rai2 e Italia1, ora si spalmano a ventaglio tra 25 stazioni e non è detto che i risultati siano uniformi. Infine, nel cahier de doléances, c’è da un lato l’aumento dei costi di produzione nelle fabbriche di Shenzhen – questione che riguarda tutti – ma anche i minori acquisti dei prodotti di fascia alta da parte delle mamme italiane. Uno su tutti il Cicciobello, bambolotto simbolo della Giochi Preziosi. Risultato? Da maggio i dipendenti delle sedi italiane sono in solidarietà.

La struttura proprietaria della società è cambiata nel 2008, quando il fondo Clessidra di Claudio Sposito e Intesa Sanpaolo sono entrati al piano inferiore della catena di controllo di Giochi Preziosi – con una quota del 52% – attraverso un’operazione di leverage buyout finanziata per 375 milioni da un pool composto da Barclays, BNP Paribas, Calyon, Intesa Sanpaolo, Natixis e UniCredit. Il 43% è controllato dal fondatore, Enrico Preziosi attraverso Fingiochi, mentre Idea Capital, fondo di private equity controllato dal gruppo De Agostini, possiede il 5 per cento.

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La catena di controllo di Giochi Preziosi

Salendo invece al piano superiore, Enrico Preziosi è a capo di una girandola di holding tra Cipro e Madeira. La cui testa, la E.P. Preziosi Participations (riportata in Italia dal Lussemburgo nell’estate 2011) controlla il 75% della holding Fingiochi. Il rimanente 25% è in capo alla Noitempor Consultores e Servicos, domiciliata nell’isola portoghese e amministrata da Brigida Ronchi, presidente di Holding dei giochi Spa, a cui fanno riferimento i 6 negozi della catena Toys Center sparsi sul territorio nazionale. La Noitempor ha chiuso il 2011 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita netta di 4mila euro su un capitale di un milione. Sempre al dicembre 2011, la E.P. Preziosi evidenziava «un utile di euro 5.042.045, derivante sostanzialmente dal dividendo deliberato dalla società controllata Fingiochi S.p.A.». Nonostante la perdita di 18 milioni e il debito di 70 milioni, Fingiochi nel 2011 ha infatti distribuito ai soci 10 milioni, attingendoli dalle riserve pari a 300 milioni. Sulle sue spalle, peraltro, ricade anche la quota parte dei 67 milioni di perdite del Genoa (al 2011) – controllato al 75% – e finanziata il medesimo anno con un prestito infruttifero da 27,3 milioni.

Fonti interne riferiscono che Giochi Preziosi entro l’anno sarà costretta a imboccare la strada del piano di risanamento preconcorsuale ex art 67 della legge fallimentare. La società ha chiuso i primi sei mesi del 2012 in rosso per 90 milioni, con ricavi da vendite in discesa del 23% su giugno 2011 a 262 milioni di euro, debiti a quota 535 milioni – la metà in scadenza alla fine dell’anno passato – cassa per 18 milioni di euro e un avviamento di 400 milioni circa, svaltuato per 50.

Allo scorso ottobre, riferisce l’agenzia Debtwire, Clessidra e il fondo Atlante Ventures di Intesa Sanpaolo erano impegnate nella vendita di Giocoplast per 25 milioni di euro. Contattati da Linkiesta, da Atlante Ventures non hanno rilasciato alcun commento sull’avanzamento delle trattative. A quanto risulta tuttavia, una delle ipotesi sul tavolo dell’istituto di credito sia di acquistare Giocoplast per finanziare indirettamente la società. Preziosi ha scelto Rothschild come advisor finanziario e Bain & Co. per la messa a punto del nuovo piano industriale. La rinegoziazione del debito con i creditori, dopo il mancato rispetto dei covenants (una leva a 2,2x rispetto all’attuale 3x), prevedono un aumento di capitale da 50 milioni di euro. L’unica soluzione per guadagnare tempo in attesa di un piano industriale in grado di invertire la rotta. Intanto, togliere dalle spalle di Fingiochi i debiti del Genoa potrebbe essere una prima mossa.

Modificato da Ghost Dog

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stanno meglio tanzi preziosi & c da falliti che io quando il lavoro va

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3 Conferences, 2 Weeks,

1 Global Problem: Match-Fixing – Part 1

by KEVIN CARPENTER (LawInSport 13-06-2013)

Over the past two weeks I have been fortunate to have been involved with three prestigious sports law conferences in different parts of the world. All of which focussed solely on or covered the hot topic of match-fixing. This two-part blog is a reflection on the themes and issues which arose out of the three conferences.

First I attended the Blackstone Chambers Sports Law Conference in London, then had the privilege to speak at LawAccord 2013 in St Petersburg, which is part of the SportAccord International Convention, and the “Don’t Fix It” training event in Budapest which was organised by the world football players’ union FIFPro and supported by the European Union.

The panel on match-fixing at the Blackstone conference featured some of the most prominent legal minds not just in sports law in the UK but in the law full stop. One of the speakers was Michael Beloff QC who has sat on many of the recent Court of Arbitration for Sport hearings in relation to match-fixing. He discussed some of the issues as regards detecting corruption and in particular the need to protect the anonymity of witnesses to encourage them to come forward with details of alleged cases

We then heard from the former Solicitor General of India, Harish Salvi SC, who gave an insight into sporting corruption in India. This was just at the beginning of what was emerging regarding the most recent Indian Premier League spot-fixing scandal, little did he or the audience know what dramatic events were to unfold in the coming days. The Head of Legal Compliance for a national governing body in the UK revealed his frustration at the lack of appetite from the police in the United Kingdom to prosecute alleged cases of match-fixing due to a lack of funds and the thought that “why would players do it?”. I took this one further when I spoke in St Petersburg by saying that compared to other integrity offences, particularly doping, match-fixing is “not fashionable”.

Given I have written and blogged previously on the proportionality of sanctions in relation to match-fixing, it was the words of Lord David Pannick QC, a preeminent human rights lawyer who has also acted in sports cases, which were of most interest. Although he said that life bans were in principle defensible due to the difficulty of detection and the deterrent effect required, he believes there are legal principles which can be applied to challenge the validity of life bans in the future. Not least of which that there may be a breach of human rights law because a life ban means you are banned from any activity in relation to a sport and therefore, in essence, you are losing your livelihood in its entirety even for a minor match-fixing infringement.

Having had plenty of time to consider this subsequently, I am strongly of the opinion that a case will come before the Court of Arbitration for Sport whereby arguments on the proportionality of a life ban will win through. There was the inevitable question put to the panel as regards the possibility of a WADA-type international body for match-fixing? The response from one of the panel was one that I had not thought of previously, in that an international body is necessary because there is a reluctance on the part of national governing bodies to act due to the disadvantages of both sporting competitiveness and commercial attractiveness of their sports if they so-called “out” one of their own.

The title of the LawAccord International Convention was ‘What regulatory framework is needed to combat match-fixing in sport?’. The morning conference was split into two distinct sections: one focussing on the role of sports governing bodies and the other one looking at the role of national and international laws. The panels were preceded by a key note speech from the leading academic and investigative journalist, Declan Hill, whose presentation provoked debate among the panellists and attendees later in the morning.

As part of the first panel, Dennis Oswald, a Court of Arbitration for Sport arbitrator and presidential candidate for the International Olympic Committee, lamented the fact that many countries do not have the necessary legal basis to enable sports bodies to act effectively in relation to match-fixing. There was also a short presentation from a member of the International Olympic Committee who talked about the success of the Joint Assessment Unit (‘JAU’) at the London 2012 Olympic Games. I have analysed the JAU previously and believe it can be a basis for an effective worldwide body in the future. A legal representative of FIFA’s early warning betting system (‘EWS’) revealed that there is now a new ethics and disciplinary reporting online system from FIFA which is completely confidential and anonymous and is available to anyone who has any suspicions in relation to match-fixing. These sort of reporting mechanisms are absolutely essential to be able to gather the evidence required to secure successful convictions in this field. A former Chief Executive of the International Cricket Council was strongly of the opinion that (ironically given the forum) it was time to stop talking about match-fixing and actually do something about it.

A pertinent comment made by a member of the audience was how were sports men and women supposed to have any faith in sports governing bodies to fight match-fixing when there are many instances of corruption that still arise at the very highest levels of sports governance? It was somewhat regrettable that one of the comments made in response was that although there is indeed corrupt governance in sport that ultimately it is the players on the field who carry out the fixing and it is their fault! Things became even more surreal as another member of the audience, a former head of a global governing body, passed comment to the panel that it was his opinion that this issue would be best served by making all sports gambling illegal!? Sat in the front row of the audience it is fair to say metaphorically, if not physically, my head hit the table with a loud thud! When will sports and governments understand that regulation of sports betting is needed, not prohibition, which simply drives into the black market and breeds corruption?

In the second part of this I will discuss the second panel of LawAccord and what emerged regarding match-fixing education from the “Don’t Fix It” training event.

3 Conferences, 2 Weeks,

1 Global Problem: Match-Fixing – Part 2

by KEVIN CARPENTER (LawInSport 17-06-2013)

Kevin Carpenter provides an update on match-fixing policy and possible reforms from Law Accord and the “Don’t Fix It” training event, part of a European Union funded initiative which was being led by FIFPro, alongside UEFA.

I began the second LawAccord panel saying it was pleasing to see countries such as Switzerland, Russia and India taking legislative steps to make match-fixing a specific criminal offence. I went on to question why betting companies should be allowed to use sport without making any set financial contribution to do so? This is what the French call a ‘betting right’. Commercially this is an anathema. Broadcasters aren’t allowed to use sport for free to drive revenues and the same principles should apply to sports betting companies. I also stated my strong belief that it is time to engage fully with sponsors to fight match-fixing as they are a stakeholder with a significant amount of influence as sport has become increasingly commercialised. This has been seen recently with Sahara withdrawing their support for the Board of Control for Cricket in India. Perhaps the lead could be taken from the US government’s novel approach using the Foreign Corrupt Practices Act to pressure sponsors of the International Olympic Committee to take strong action following the Salt Lake City corruption scandal.

My fellow panellists, who ranged from members of lottery bodies to former heads of legal at UEFA, members of government and of the United Nations and the Council of Europe, made a number of interesting comments. One of which that not only should there be a code of conduct for sports betting and match-fixing for participants in sport, but also for sport journalists because they often have access to sensitive inside information which could be used to manipulate betting markets. There was also a good legal analysis of the FC Gossau case in Switzerland which highlighted the deficiencies in their current legal framework for match-fixing when, despite there being extremely strong evidence to suggest a goal keeper had fixed a match, he was acquitted. Both the Council of Europe and the United Nations are working on trans-national match-fixing policies, with the Council of Europe’s International Convention against Match-fixing currently in the drafting process and the United Nations Educational, Scientific and Cultural Organisation passing its Berlin Declaration shortly after LawAccord.

Declan Hill’s and my paths were to cross yet again a week later in Budapest where we were both invited to be expert speakers for the morning of the first day of the “Don’t Fix It” training event. This was part of a European Union funded initiative which was being led by FIFPro, alongside UEFA. In attendance were representatives of national football associations, players, referees and other stakeholders from nine European countries.

Declan’s presentation focussed on the organised crime aspects of match-fixing, whereas my presentation was entitled “Match-fixing, Sports Betting & the Law: What This Means For You”. Declan stressed to the attendees that despite what people think, match-fixing is not a victimless crime unlike other forms of corruption. He used the tragic example of Robert Kutasi, a former Hungarian journalist who fought a crusade against match-fixing in the country, becoming a football manager and then a number of his players were implicated in match-fixing scandals which devastated him to such an extent that he took his own life very recently. Declan also dispelled the oft vaunted theory by many within positions of influence in sport that it is young players who are the most vulnerable and therefore the ones that education should target. In fact his recent research has shown that it is the older players that fix and so there needs to be a change of emphasis.

My presentation pointed firstly at the fines and penalties that are involved in match-fixing including those at the football association level, the sporting sanctions, and those from a governmental level, the criminal sanctions. I also stressed to the participants that they needed to consider the reputation of those accused and be very careful in pursuing investigations not to later fall foul of a claim being made against them for false allegations, and that this was particularly a risk to be considered when the sporting and criminal processes were running concurrently. I provided a number of case studies from the sparse case law to show how the justice systems work in reality as regards match-fixing.

The afternoon session began with a presentation by Andy Harvey of Birkbeck University, who is undertaking the principal research programme for FIFPro in this project, describing education in match-fixing as neither a panacea or a silver bullet, rather it needs to be more strategic and the message must cater not only to the heart but also to the head to be truly effective. The second group of speakers during the afternoon were a fascinating mix from different backgrounds and organisations. The football players’ union of Finland told the participants about a mobile app which footballers in the country are using to report suspicions of match-fixing entirely anonymously and confidentially. A representative of Transparency International spoke about their experiences in Germany through their EU funded project “Staying Onside”. Perhaps the most interesting presentation of all came from a psychologist working for INTERPOL, the international police organisation, whose compelling and enthusiastic presentation from a non-legal and largely non-sporting background certainly struck a chord with me. She stressed that if you don’t design a programme properly and do it well then there is no point in doing it at all, and that the message that trainers put across to players has to be more striking and motivating than what the criminals can offer, that is our main challenge going into the future.

I hope my reflections and comments on what was said over the three conferences show what a truly complex issue match-fixing is and the many different unique strands that require attention. I learnt a great deal during these two weeks and I hope I managed to impart some pearls of wisdom of my own during my presentations. However I think what struck me most is that although I often applaud any efforts to research and develop policies which seek to lessen the threat of match-fixing, sports betting and organised crime, I have begun to wonder whether there is actually too many actors getting involved? My specific concern is that there is a limited amount of resources to progress the fight, particularly in times of worldwide economic austerity. This is often an argument I have used when saying I believe a WADA-type international match-fixing agency is some way off. There appears to be a certain amount of politic posturing by certain organisations (I stress however not all) in wanting to be seen to take the lead. As members of various other panels I have discussed said, there may be a lot of talk but not currently a great deal of action. There does seem to be a duplication of resources and efforts to a certain extent. I hope that, moving forward, all of the different organisations who are seeking to do good work in the field come together and pool their expertise and resources to come up with the most efficient and effective policies.

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300 pagine di deliri.

Buon compleanno. :Io:.look

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Beato quel Paese senza calciatori

Oliviero Beha - olivierobeha.it - 18-06-2013

romario-620x420.jpg

Un sogno? A Lecce manifestavano Causio e Conte per ospedali e strade. In realtà al risveglio si scannava una città per la Serie B sfumata. Impariamo dal Brasile. E tra Balotelli e Romario scelgo il secondo

Ho fatto un sogno: fuori dallo stadio di via del Mare, a Lecce, prima, durante e dopo la partita Lecce-Carpi buona per la Serie B, si svolgeva una grande manifestazione all’ombra del Partito dei Lavoratori (sarebbe Sel, o qualche corrente del golfo del Pd, o il M5S, oppure non è nessuno davvero oggi in Italia?). Decine di migliaia di salentini chiedevano che invece che alla Serie B si pensasse agli ospedali, alle scuole, alle infrastrutture. Non solo: due ex campioni indigeni, il “mondiale” Franco Causio e l’allenatore titolatissimo della Juventus, Antonio Conte, erano alla testa dei manifestanti ribadendo “meno calcio e più equità sociale”…

Risveglio doloroso: a Lecce c’era stata sì una manifestazione, ma avendo perso la B il Lecce si era scatenata una purtroppo prevedibile guerriglia urbana… Nel frattempo, ma a Rio, fuori dal Maracanà (per ogni volta che in tv o alla radio o sulla stampa viene abbinato all’aggettivo “mitico” bisognerebbe forse imporre una multa), c’è stata effettivamente una grande mobilitazione per “scuole, ospedali, infrastrutture” e contro l’aumento anche infinitesimale dei biglietti del trasporto pubblico, con cui “si pagano i nuovi stadi” oggi della Confederations Cup e l’anno prossimo dei Mondiali Fifa. E tra i “testimonial” impegnati nella protesta c’era un certo Romario, idolo di vent’anni fa, che è come dire almeno Balotelli per noi oggi. Ma non disperiamo: magari tra vent’anni SuperMario – salvando la rima – svolgerà lo stesso ruolo sociale e politico di Romario in Italia, magari allora ci sarà almeno una frangia di partito che stia davvero, nella realtà, dalla parte dei lavoratori in un PT tricolore, insomma magari l’Italia riuscirà a diventare come il Brasile…

Nel frattempo dobbiamo accontentarci dell’epos un po’ ridicolo proprio di Balotelli, di scena al Maracanà per il debutto dell’Italia nella manifestazione vetrina che i manifestanti contestano usandola appunto anche loro da vetrina. Perché epos? Ma perché è sempre più la Nazionale di Mario, che ne è appunto l’eponimo nei titoli a essa riservati. E perché un po’ ridicolo? Ma perché sembra quasi costretto per contratto a togliersi la maglia, a mostrare i muscoli, insomma a fare il Balotelli non solo giocando, e bene, a calcio. E la cosa sta diventando grottesca anche nel modo in cui cronisti e commentatori la presentano: “In fondo stavolta non ha reagito troppo male, è stato sostituito e invece che schiaffeggiare Prandelli ha sorriso, si è perfino seduto in panchina…”. Davvero è una società mediatica che ha un disperato bisogno di “eroi” e li reperisce facilmente nel calcio così immediato e popolare, una dimensione certamente non solo italiota a giudicare dall’entusiasmo suscitato da SuperMario sugli spalti di uno degli stadi più famosi del mondo se non per certi versi “lo” stadio rotondofilo per eccellenza, almeno prima della ristrutturazione. Adesso è “soltanto” uno stadio bello e funzionale (e contestato…), da 78 mila posti, prima non era soltanto uno stadio, era il Brasile, le sue spiagge, le sue piazze, il Corcovado, tutto caleidoscopicamente contenuto in quella distesa sterminata di posti (180 mila) intorno a un appezzamento verde piuttosto irregolare (sotto i miei piedi, almeno, nel 1981…). Basta e avanza – pare – un semidio greco scolpito a puntino, dall’intuito pallonaro formidabile per scatenare l’enfasi delle moltitudini.

Beato quel Paese che non ha bisogno di calciatori. Il che non vuol dire beato quel Paese in cui non abbia diritto di cittadinanza lo sport, l’attività motoria, il rispetto di sé e degli altri attraverso il corpo e nei dintorni dell’anima: anzi. A questo proposito segnalo e propongo al neopresidente del Coni, Giovannino Malagò, così che ne possa promuovere la diffusione nelle scuole, nelle federazioni e anche al suo Circolo Aniene (che mi dicono ancora tenuto distinto dall’organigramma del supremo Ente sportivo), il libro di Alessandro Donati Lo sport del doping, ed. del Gruppo Abele, alla seconda edizione e insignito del “Premio Brera 2012 (questo è buffo perché Gioan Fu Carlo rifuggiva dal trattare questioni scabrose come questa, preferendo appunto l’epica…). Donati smonta e rimonta il giocattolo sport dal punto di vista del doping nel tempo, nello spazio e nelle diverse discipline. Sarebbe bene tenerlo a portata di consultazione tutte le volte che esce la notizia (commentata con il classico “non è una buona notizia, non fa bene allo sport” da una stampa che prima ignora il fenomeno fino all’inverosimile e poi lo smercia come scandalo infamando tutti e tutto senza alcun tipo di sensibilità) di uno sportivo trovato positivo: cioè praticamente ogni giorno.

A parte l’epopea al contrario dei ciclisti, l’ultima grande atleta finita nella rete è Veronica Campbell Brown, velocista giamaicana pluriolimpionica, mentre in Spagna è per la terza volta sotto accusa per valori anomali nel suo passaporto biologico la mezzofondista Marta Dominguez, una delle atlete più importanti nella storia della loro atletica leggera. Come se fosse successo alla nostra sciatrice Di Centa. E il dottor Capua, presidente della Commissione antidoping della Federcalcio, di recente ha suggerito che “sarà un caso ma dopo la vicenda Fuentes (il medico Cagliostro del doping, quello della Operacion Puerto che sembra aver toccato anche il calcio, ndr) ultimamente gli spagnoli non vincono più”. Vedremo stasera, negli Europei Under 21 in Israele con gli “azzurrini” di Devis Mangia in finale, vedremo in Brasile nella Cup summenzionata per la Nazionale maggiore. Ma Capua sul calcio italiano e i suoi valori, in prova e in provetta, metterebbe davvero le mani sul fuoco? Ce lo dica, Capua, La prego, non ozi

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Modificato da huskylover

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Joined: 20-Apr-2009
40693 messaggi

300 pagine di deliri.

Buon compleanno. :Io:.look

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