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Morpheus ©

29 Maggio 1985: per non dimenticare

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29 - 05 - 1985
 


ACERRA ROCCO
BALLI BRUNO
BRUSCHERA GIANCARLO
CASULA ANDREA
CASULA GIOVANNI
CERULLO NINO
CONTO GIUSEPPINA
FABBRO DIONISIO
GAGLIANO EUGENIO
GALLI FRANCESCO
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LUSCI in MARGIOTTA BARBARA
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Mai pi�.

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Mi risulta difficile trovare le parole davanti a una delle tragedie pi� grandi che la storia possa ricordare.

Mi risulta difficile non perch� io all'epoca non c'ero visto che sarei nato 3 mesi dopo, ma per il dolore che provo ogni volta che rivedo le stesse immagini, le stesse foto, le stesse storie.

Cose agghiaccianti, al limite dell'incredibile, un dolore che non si rimarginer� mai, una memoria che non dimenticher� mai. Ed � giusto cos�. E' giusto perch� lo dobbiamo a 39 persone cadute per una semplicissima partita di calcio.

Cadute a causa di assassini che hanno ucciso e poi umiliato queste persone. Questa gente che era andata l� per assistere alla propria squadra del cuore, e invece ha assistito alla morte. Una morte che non doveva esistere.

tifosibianconeri.com in occasione del 25mo anniversario della tragedia dello stadio Heysel di Bruxelles, avvenuto il 29 maggio del 1985, apre questa sottosezione per ricordare a tutti noi cosa sia la vita, cosa sia il calcio, e per far sentire a tutti quei 39 angeli che ora ci guidano dal cielo il nostro pensiero, un pensiero che non ci porter� mai a dimenticare, perch� loro sono presenti in ogni giorno della nostra esistenza nel nostro cuore, nella nostra mente, e nel nostro animo.

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Sempre con noi

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Bellissima idea.

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Il mio pensiero

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Sempre con noi!

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Sempre con noi. Mai più Heysel.

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Il 29 maggio 1985 morirono 39 tifosi allo stadio

Heysel, 30 anni dopo la tragedia

Storia di un monologo mai nato

di MAURIZIO ASSALTO (LA STAMPA 29-04-2015)

Sarebbe stato un bel segnale, dopo questi giorni di bombe carta e pullman presi a calci. Uno spettacolo allo Juventus Stadium per ricordare la tragedia dell’Heysel, 30 anni fa il 29 maggio: 39 morti, tifosi bianconeri (ma non solo) convenuti a Bruxelles per la finale di Coppa dei Campioni. Invece è saltato tutto. Qualcuno di quelli che amano rimestare nel torbido, salvo poi stupirsi se le loro parole diventano pietre in mano agli scalmanati, già ha insinuato che la colpa sia della Juventus. Se si va a sentire i diretti interessati, si scopre che non è vero niente. Non ci sono buoni e cattivi, solo diverse sensibilità che è giusto rispettare.

L’idea era nata un anno fa. Alla base un testo di Domenico Laudadio, creatore sul web della Sala della Memoria dell’Heysel: sarebbe dovuto diventare un monologo recitato da Omar Rottoli, un attore dilettante che vanta importanti collaborazioni con Marco Paolini. E proprio a Paolini e al suo Vajont era ispirato il progetto, affidato per la regia a Roberto Tarasco.

Le criticità

Il testo però presentava alcune «criticità»: immagini troppo forti («calvario», «luna di sangue», ricorda il regista), oltre a una denuncia delle responsabilità (degli hooligans inglesi, delle autorità belghe e della stessa Uefa) che secondo la Juventus strideva con l’intenzione di fare una commemorazione esente da animosità. Tanto più che tutte le colpe erano già state sanzionate in sede processuale. Era così stato costituito un gruppo di lavoro - a cui avevano preso parte anche l’autore del testo, il regista e l’attore - che aveva provveduto a una revisione. Nello spettacolo Rottoli avrebbe dato voce a un bambino di 11 anni morto all’Heysel, che racconta la tragedia al figlio che non avrà mai. Si immaginava il suo viaggio a Bruxelles, la visita ai monumenti, la giornata di festa, e poi... In scena anche un coro di 38 persone (le altre vittime) che alla fine avrebbe intonato MLK degli U2.

Un allestimento poetico e toccante, che però, sottoposto all’Associazione dei famigliari delle vittime, non ne ha ottenuto l’approvazione. Il presidente Andrea Lorentini dà atto a Andrea Agnelli e alla nuova dirigenza juventina di una sensibilità che in precedenza era mancata, ma il testo, a suo parere, è troppo edulcorato: non si punta abbastanza il dito sulle colpe. Argomenti che ricordano quelli riascoltati di recente, nella ricorrenza del 25 aprile, a proposito del sangue dei vinti e dei vincitori. Qui non ci sono due parti nemiche, ma evidentemente 30 anni non sono sufficienti a creare i presupposti per una memoria condivisa.

La messa di ricordo

Con dispiacere di tutti, ma anche con serenità, non se ne farà niente. Però l’Associazione dei famigliari sarà alla messa commemorativa che la Juventus farà celebrare a Torino, alla Gran Madre, nel trentennale della strage. Lo spettacolo è solo rimandato?

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ANGLETERRE

1985 L’ANNÉE MEURTRIÈRE

Il y a trente ans, l’Angleterre était secouée par trois drames dans des stades, l’émeute de Kenilworth Road,

l’incendie de Valley Parade et la tragédie du Heysel, qui allaient marquer à jamais l’histoire de son football.

par PHILIPPE AUCLAIR (FRANCE FOOTBALL 29-04-2015)

La tradition veut que la reine Elizabeth II, lorsqu’elle adresse ses vœux de fin d’année à ses sujets, évoque quelques-uns des grands événements qui se sont déroulés depuis son message précédent, avant d’en tirer une morale à la manière d’un fabuliste classique.

Elle n’y dérogea pas en 1985. Un tremblement de terre au Mexique, une éruption volcanique en Colombie, la famine en Éthiopie, un avion qui s’était abîmé en mer d’Irlande étaient parmi les tragédies qu’elle avait énumérées devant les caméras de la BBC, autant de rappels de la toutepuissance de la nature et de la fragilité de l’existence humaine. Mais, de son royaume, elle ne fit aucune mention – comme si l’Angleterre avait peur de se regarder dans un miroir. Il est vrai qu’elle avait d’excellentes raisons de ne pas le faire. Quelques mois seulement s’étaient écoulés depuis les émeutes raciales de Birmingham et de Brixton, qui avaient fait trois morts et des centaines de blessés, vite suivies d’une autre explosion de violence dans le quartier d’immigrés de Tottenham, où un policier, Keith Blakelock, avait été littéralement « haché à mort » par un gang armé de machettes.

1985 s’achevait comme elle avait commencé: dans la violence. 1985, l’année de Valley Parade,le stade de Bradford et de son incendie meurtrier (56 victimes). L’année du Heysel aussi, où 39 personnes périrent avant la finale de la Coupe d’Europe des clubs champions à Bruxelles à la suite de l’attaque d’une tribune par des supporters de Liverpool. L’année de l’émeute de Kenilworth Road enfin, le stade de Luton saccagé par les fans de Millwall. L’annus horribilis d’un hooliganisme devenu incontrôlable, qui valut au football anglais d’être mis au ban de l’Europe*.

MÖLBY: «NOUS ÉTIONS UNE NATION MALHEUREUSE.» Le football n’existe évidemment pas en vase clos, en Angleterre encore moins qu’ailleurs. Depuis l’exode rural massif et l’explosion des populations urbaines qui avaient accompagné l’industrialisation de l’ère victorienne, il servait de point d’ancrage à des communautés prolétariennesarrachées de leur sol, rassemblées par nécessité économique autour des puits de mine, des docks et des usines. Dans un pays de déracinés, un club est toujours « plus qu’un club », le point focal d’une nouvelle identité. Il en était ainsi depuis un siècle. Mais quelque chose avait changé depuis les années 70: le tribalisme s’était radicalisé, et, en 1985, il n’était pas un club en Angleterre qui n’eût pas sa propre firm, comme on appelait ses hordes de hooligans, et ses groupes de casuals. Il ne s’agissait pas d’ultras au sens où cela est entendu sur le continent; ces firms n’avaient pas d’autre siège social que les pubs; leur structure était lâche, leur composition sociale ambiguë. Ils existaient par et pour la violence. Mais, pour certains d’entre eux au moins, consciemment ou pas, cet appétit de violence était aussi une réponse à un autre type de violence – celle infligée à la classe ouvrière britannique par le gouvernement de Margaret Thatcher.

Comme nous le dit Jan Mölby, l’un des joueurs de Liverpool témoins de la boucherie du Heysel, « Nous étions une nation malheureuse. Un volcan qui menaçait d’exploser. De temps en temps, un groupe de jeunes hommes en colère se servaient du football pour évacuer leurs frustrations.» En 1985 comme jamais. Nous avons mentionné le Heysel et Kenilworth Road (voir par ailleurs). Nous aurions pu nous référer aux scènes terrifiantes de Stamford Bridge le 4 mars, lorsque les Shed End Boys de Chelsea attaquèrent les supporters de Sunderland lors d’une demi-finale de Coupe de la League: la police montée était encore sur la pelouse lorsque Colin West marqua le troisième but des Black Cats. Ce fut encore pire à St Andrews, le 11 mai, à l’occasion d’un match entre Birmingham City et Leeds, pendant lequel les supporters visiteurs–auxquels s’étaient semble-t-il mêlés des militants néonazis – tentèrent de mettre le feu à leur tribune, faisant s’effondrer un mur haut de six mètres, lequel écrasa un adolescent qui assistait à son premier match et qui, terrifié, tentait d’échapper au carnage. Il s’appelait Ian Hambridge, un nom aujourd’hui presque oublié. C’est que, ce même 11 mai, cinquante-six personnes avaient été brûlées vives dans l’incendie de Valley Parade à Bradford (voir par ailleurs).

DES TESTS DE VIRILITÉ. Qui étaient-ils, ces « jeunes hommes en colère »? Il y avait les laissés-pour-compte du libéralisme thatchérien, pour commencer. On comptait plus de trois millions de chômeurs au Royaume-Uni en janvier 1985, ce qui ne s’était pas vu depuis la récession des années 30. La vision des thatchériens était brutale, mais avait le mérite de la clarté: bridée par des syndicats toutpuissants, l’économie britannique devait devenir une économie de services, quitte à démanteler le tissu industriel qui en avait fait une grande puissance. Le coût social serait immense, mais justifié: deux millions d’emplois dans l’industrie furent perdus entre 1979, date de l’accession de Margaret Thatcher au pouvoir, et 1981.

Malgré un soutien populaire des plus ténus – le Parti conservateur traînait à la troisième place dans les sondages effectués au printemps 1985 –, le Premier ministre n’avait aucune intention de laisser des convulsions sociales, si sévères soient-elles, la faire dévier de son objectif. 1985, en cela comme en d’autres choses, fut une année charnière. En football, l’année de la mort de Jock Stein, le mineur du Lanarkshire devenu architecte du grand Celtic; l’année du premier match avec Newcastle d’un chien fou nommé Paul Gascoigne; l’année de la naissance de Wayne Rooney – trois âges du football liés par une même date.

Le 1er janvier, avec le carillon de Big Ben en fond sonore, un jeune entrepreneur londonien passait le tout premier coup de téléphone depuis un appareil portable (qui pesait cinq kilos). Au même moment, huit mille mineurs célébraient le nouvel an autour de braseros improvisés sur les piquets de grève. On avait faim dans cette Angleterre-là, on avait aussi la rage au ventre, et la culture populaire se nourrissait des nuances de ce désespoir.

L’atomisation d’une société et l’isolation des individus qui l’accompagne aiguisent naturellement le désir d’appartenir à un clan, une tribu, et le prolétariat contre lequel Margaret Thatcher donnait l’impression d’être partie en guerre (à tout le moins aux yeux du prolétariat) n’était pas la seule classe sociale dans laquelle les firms recrutaient leurs casseurs de jambes. Mark Glanville, fils du célèbre journaliste de football et romancier Brian Glanville, éduqué à Oxford, aujourd’hui chanteur d’opéra, faisait le coup de poing avec les Cockney Reds – les supporters londoniens de Manchester United – à l’époque. « Pour moi, c’était une expérience grisante, dit-il. Pas seulement à cause de l’adrénaline, mais aussi de ce sentiment bizarre d’appartenir à quelque chose, d’être accepté, alors que personne (dans ma famille) ne savait que j’étais là. Les types avec qui je traînais étaient beaucoup, beaucoup plus durs que ceux qui m’avaient tabassé à l’école. Avec eux, je pouvais tester ma masculinité, ma virilité.»

UN PAYS DIVISÉ COMME JAMAIS. Il n’était pas le seul fils de bonne famille à s’être laissé entraîner. Dans l’Angleterre de 1985, la violence était une façon d’être, au sens propre, et, pour beaucoup, il n’y en avait pas d’autre qui se proposait. Il suffisait d’allumer son poste de télé pour en être convaincu. Il faudrait quinze ans pour que les poseurs de bombes de l’IRA et des groupes paramilitaires dits « loyalistes » prennent leur retraite. Margaret Thatcher elle-même avait échappé par miracle à la mort lors d’un attentat perpétré à la convention annuelle du Parti conservateur en octobre 1984. En 1985, treize soldats et policiers britanniques périrent dans trois incidents distincts en Ulster. La tragédie, la violence et la mort étaient des compagnes assidues d’un pays divisé comme jamais. Dans les stades comme ailleurs. Il faudrait attendre encore quatre ans, avec la tragédie de Hillsborough et ses 96 morts, pour que pouvoirs publics et instances du football se décident à réagir. Enfin...

* À la suite du drame du Heysel, l’UEFA décida de suspendre les clubs anglais de toutes compétitions européennes pour cinq ans.

 

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Liverpool, ville sinistrée

Le drame du Heysel a sonné la mort de l’autre équipe de la ville de Liverpool,

Everton. Howard Kendall, l’entraîneur d’alors, Neville Southall, son gardien

de but, et James Corbett, historien du club, racontent leur Heysel à eux.

par PHILIPPE AUCLAIR (FRANCE FOOTBALL 29-04-2015)

Le désastre du Heysel, dans lequel 39 personnes, pour la plupart des supporters de la Juventus, trouvèrent la mort le 29 mai 1985, fit du football anglais un paria. La suspension sine die de ses clubs infligée par l’UEFA – avec le soutien et les encouragements du gouvernement de Margaret Thatcher – les priva de toute compétition internationale pendant cinq ans, six dans le cas de Liverpool, brisant ainsi la domination qu’ils exerçaient sur le football européen depuis la fin des années 70*. Au premier rang des clubs touchés par cette suspension se trouvait le doyen des clubs de Merseyside, Everton, une équipe sacrée championne cette année-là et alors entraînée par Howard Kendall, dont le gardien gallois Neville Southall venait d’être élu Footballeur de l’année. L’historien du club, James Corbett, était un enfant à l’époque, mais un môme auquel la signification de la tragédie n’avait pas échappé.

Réunis par France Football, les trois Evertoniens se souviennent d’une journée qui eut un impact catastrophique sur leur équipe et leur ville, où elle demeure un sujet tabou pour beaucoup. Trois hommes, trois regards bien différents sur un même événement.

HOWARD KENDALL: « LIVERPOOL N’EST PAS GLASGOW OU MANCHESTER.» « La suspension était dure à accepter. Nous avions gagné le Championnat et la Coupe des Coupes, et étions prêts à montrer aux autres que nous avions les moyens de devenir la meilleure équipe d’Europe, et je crois que nous l’étions. Ç’a fait tellement mal au club, aux fans... mais à la ville ? Je ne sais pas. Si l’on parle de la tragédie, je ne crois pas qu’il y ait eu ou qu’il y ait encore de l’amertume de notre part. Je sais que ça surprendra, mais nous ne sommes pas Glasgow, nous ne sommes pas Manchester, des villes qui sont coupées en deux par la fidélité à un club ou à un autre: vous avez plus de familles “ mixtes ” ici que n’importe où ailleurs dans le monde. Le père supporte Liverpool, le fils Everton, et ce n’est pas un problème. Alors, on ne va pas se bagarrer au sein de la famille, même si c’est à cause de ça que Gary Stevens et Trevor Steven sont partis aux Rangers et que je suis allé à l’Athletic Bilbao. Nous avions goûté à l’Europe, et nous voulions y goûter à nouveau, ce qui était impossible avec Everton. Mais ce fut un choc énorme.»

JAMES CORBETT: « LE HEYSEL A DIFFUSÉ L’IMAGE D’UNE VILLE DÉVORÉE PAR LA VIOLENCE.» « Howard est très diplomate. Pour moi, le Heysel transcende le football. Je me souviens de la réputation qui nous suivait dans les années 80 et de la façon dont les gens nous regardaient parce que nous étions de Liverpool. Il n’y avait pas que le Heysel. Il y avait aussi eu les émeutes de Toxteth (NDLR: le quartier de la ville où sont nés John Lennon et Robbie Fowler) en 1981, et les militants d’extrême gauche qui avaient pris le contrôle du conseil municipal. Les dealers d’héroïne dans les rues... Mais le Heysel a diffusé cette image d’une ville dévorée par la violence dans le monde entier, et c’est avec le Heysel que Liverpool a vraiment touché le fond. Je n’avais que sept ans en 1985, mais je me rendais parfaitement compte que venir de cette ville, c’était être stigmatisé, une sorte de “ nègre blanc ” sur lequel on avait le droit de taper.

Quand nous allions en voyage en Europe avec l’école, on nous avait interdit de dire d’où nous venions, et avisés de prétendre être de Saint Helens ou de Southport, parce qu’il y avait eu des incidents dans lesquels des étudiants italiens avaient attaqué des écoliers de Liverpool. Le plus dur à accepter n’était pas la destruction de notre plus grande équipe, mais le fait que nos voisins n’ont pas reconnu leurs responsabilités... Ce sont les dirigeants qui ont donné le ton – le directeur exécutif de Liverpool avait même rejeté le blâme sur des fans de Chelsea et des sympathisants du National Front. Les excuses présentées à la Juve sont venues beaucoup trop tard. Beaucoup de supporters de Liverpool se moquent toujours de nous quand nous disons que le Heysel a détruit notre plus grande équipe. Il a fallu attendre que Kenny Dalglish revienne au club en 2011 pour qu’il l’admette en public.»

NEVILLE SOUTHALL: « LE VRAI RESPONSABLE, C’EST L’UEFA!»

« Everton et Liverpool sont comme deux frères: on peut se massacrer entre nous, mais ne nous attaquez pas, parce que nous nous défendrons l’un l’autre. On peut dire ce qu’on veut de leurs fans et de leur équipe entre nous, et réciproquement, mais quand il s’agit de la Merseyside, vous avez une ville unie, et il en a toujours été ainsi. Vous le voyez bien quand nous avons le derby – les supporters en bleu à côté des supporters en rouge. Le week-end du match, nous nous insultons. Le lundi, tout est redevenu normal. Mais si quelqu’un de l’extérieur s’en prend à nous, on ne laisse pas passer. C’est ça qui est formidable dans cette ville. Ceux qui ont permis à ce match d’avoir lieu étaient des idiots.

Ceux qui ont choisi ce stade vétuste étaient des idiots. Ceux qui ont pensé que ça serait une bonne idée de remplir de bière des Italiens et des Scousers en espérant qu’ils feraient copains-copains étaient des idiots. La façon dont le match a été géré était choquante. L’UEFA en était responsable, et c’est de ce côté qu’il faudrait regarder. Or, personne n’a jamais été inculpé pour ça. Et ça, c’est criminel.» ¦

* Outre Liverpool, quatre fois champion d’Europe entre 1977 et 1984, Nottingham Forest remporta la C1 à deux reprises (1979 et 1980), ainsi qu’Aston Villa en 1982. Ipswich (1981) et Tottenham (1984) avaient aussi inscrit leur nom au palmarès de la Coupe de l’UEFA, et Everton à celui de la Coupe des Coupes, deux semaines seulement avant la tragédie du Heysel, après avoir battu le Bayern Munich en demi-finales.

 

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HEYSEL

Jan Mölby

« ON NE NOUS A RIEN DIT, SI CE N’EST DE JOUER LE MATCH »

Remplaçant lors de la finale Liverpool-Juve, le Danois des Reds se souvient.

par PHILIPPE AUCLAIR (FRANCE FOOTBALL 29-04-2015)

Stade du Heysel, Bruxelles, le 29 mai 1985. À vingt et un ans, Jan Mölby achève sa première saison à Liverpool.

Lui qui, trois ans plus tôt, jouait encore pour le club de sa ville natale (Kolding) en L1 danoise, va vivre une finale de Coupe d’Europe aux côtés de légendes comme Ian Rush ou Kenny Dalglish. Il n’est pas encore titulaire à part entière, mais être sur le banc du champion d’Europe en titre, qui a gagné quatre C1 depuis 1977, aurait dû constituer le premier aboutissement de sa carrière. Au lieu de quoi, il sera le spectateur incrédule et impuissant d’une tragédie quand, une heure avant la finale de la Coupe des clubs champions entre Liverpool et la Juve, des supporters des Reds attaquent une tribune où se trouvent des fans italiens, causant une immense bousculade.

Prisonniers des grillages et de la fermeture des accès à la pelouse, trente-neuf périront étouffés ou piétinés.

« C’était le seul trophée que nous pouvions gagner cette saison-là. Everton avait été champion et avait gagné la Coupe des Coupes. Vous imaginez l’enjeu pour un club comme Liverpool! Nous nous sommes vite rendu compte que quelque chose s’était passé. Vous vous doutez que si le coup d’envoi d’une finale de C1 est retardé d’une heure, c’est parce que quelque chose de grave est arrivé. Nous le savions. Mais quoi ? On ne nous a rien dit, si ce n’est de jouer le match. À vrai dire, je ne sais pas comment ceux qui s’occupent d’un match comme celui-ci peuvent gérer la situation lorsqu’il tourne au désastre. Nous avions vu notre capitaine, Phil Neal, et notre manager, Joe Fagan, aller parler à nos supporters, et nous avions vu leur visage à leur retour. Ils étaient secoués. Nous avions conscience qu’il y avait peut-être des morts. Quoi faire ? Obéir – aller jouer –, se reposer sur son professionnalisme. Je ne peux pas trouver de meilleurs mots.»

« DU MATCH LUI-MÊME, DU JEU, JE N’AI PAS LE MOINDRE SOUVENIR. C’EST DEVENU UN BROUILLARD.» « Nous autres, joueurs, n’avons pas eu le temps de nous réunir pour discuter de ce que nous devions faire. Comme j’étais remplaçant, je suis allé m’échauffer sur le terrain à la mi-temps. Mais, là non plus, on ne m’a rien dit(...) Du match lui-même, du jeu, je n’ai pas le moindre souvenir. C’est devenu un brouillard. En fait, je ne me souviens de rien jusqu’à ce que nous atterrissions à l’aéroport de Liverpool vingt-quatre heures plus tard. C’est là, et seulement là, que nous sommes devenus conscients de l’énormité du désastre. C’est très difficile de décrire l’impact que le Heysel a eu sur nous, joueurs. Bien sûr que nous en avons parlé entre nous, et souvent. Mais quand vous êtes pris dans un événement comme celui-là, bien souvent, il vous échappe. Vous espérez vous rendre à une célébration du football, vous espérez gagner – et tout ça vous est retiré d’un coup, dans les circonstances les plus tragiques. Comme c’était le dernier match de la saison, le groupe s’est séparé aussitôt pour ne rejouer ensemble que dix semaines plus tard, et cela nous a sans doute aidés à vivre avec le choc. Tous les sportifs de haut niveau ont en eux une forme de détermination et de persévérance qui leur permet de continuer. Une fois rassemblés, nous avons retrouvé des automatismes techniques, mais aussi psychologiques.

Quatre ans plus tard, c’était Hillsborough ...»

 

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RITORNO A BRUXELLES

Curva Zeta, niente selfie

qui sono morti in 39

JUVE-LIVERPOOL PER SALVARE LA MEMORIA: AL LUOGO DELLA TRAGEDIA SI DEVE

ARRIVARE DA SOLI E IN SILENZIO. IL SOPRAVVISSUTO: “OGNI NOTTE ME LO SOGNO”

di GABRIELLA GREISON (IL FATTO QUOTIDIANO 04-05-2015)

Quando arrivi sotto la gradinata Z, ci arrivi da solo. Vietato farsi un selfie, qui. E sono vietate anche tante altre cose. Non puoi raggiungere i seggiolini con un amico, non puoi scattare foto divertite, non puoi parlare con nessuno. Sono le regole. Puoi solo inquadrare con l'obiettivo esattamente quella parte di campo che si vede da questa posizione. Ci arrivi piano piano, perché il silenzio di uno stadio di calcio deserto mette paura. Sono le sensazioni. Ancora di più se conosci la storia, la letteratura già scritta su questo posto. Siamo nel settore crollato il 29 maggio del 1985, il dramma conosciuto come “tragedia dell'Heysel”: fece 39 morti e 600 feriti, e tra pochi giorni saranno passati esattamente 30 anni. Bruxelles, stadio Re Baldovino, l'orario delle visite è appena cominciato.

Simbolo di dolore e di vergogna

“La ricostruzione della curva Z, il recupero dell'intero stadio sono avvenuti molto velocemente”, racconta Tom Teirlinck, “anche perché per Bruxelles è stata prima di tutto una vergogna. Ma non è stato usato per molto tempo, nessuno sapeva bene come gestire questa cosa”. Tom Teirlinck è la guida che accompagna le persone ad una visita veloce sul posto dove è avvenuta la strage. Ha molti aneddoti da raccontarti, il suo punto di vista è nuovo, né inglese né italiano, proprio come i belgi sanno essere. Non vuole essere fotografato, e ti dice tutto prima di arrivare al cancello: “Tra pochi giorni ci sarà la cerimonia ufficiale in cui verrà cambiata la targa esterna in ricordo delle vittime, fino ad allora ci penso io ad accompagnare le persone che vogliono ricordare questa triste vicenda. Chi vuole entrare allo stadio con me, però, non può farsi autoscatti o scherzare con gli amici, ci entra da solo e in rispettoso silenzio, perché in un'occasione come questa devi solo abbracciare quegli angeli che sono volati in cielo per quella maledetta sciagura, e niente di più”. Poi, conclude: “L'Heysel e una Bruxelles impreparata non fecero male solo ai poveri tifosi che ci lasciarono la vita, ma anche al Belgio”. Ma non è finita, Tom ti prende sottobraccio, abbassa la voce, e ti consiglia un altro incontro: “Poi, lo vedi quell'uomo laggiù, che sta sistemando gli ultimi seggiolini per il giorno dell'anniversario? La sua famiglia lavora qui da generazioni, e allo stadio quel giorno era presente”. Seguiamo il suo prezioso consiglio. L'uomo si chiama Herman Lanoye, sa dirti uno ad uno tutti i nomi che campeggiano sulla targa incisa fuori dallo stadio.

Finale della Coppa Campioni, la Juventus di Michel Platini sfida il Liverpool di Kenny Dalglish. La scenografia è quella che tutti ricordano: gli hooligans inglesi che accesero lo scontro, la polizia belga che intervenne poco e male, lo stadio vecchio che crollò sotto i piedi di migliaia di persone, e quello che ne restò fu solo questione di numeri: 32 italiani, 4 belgi, 2 francesi e 1 irlandese, morti schiacciati sotto il peso della curva. La partita si giocò e si vinse, Platinì racconterà in seguito che a loro, ai giocatori non fu mai detto quello che era accaduto veramente. “Posso confermare, quella sera nessuno prendeva una decisione, si alternavano verità e bugie, chiunque scappava dal proprio incarico. Per questo, la colpa è di tutti. La colpa è del lassismo, la colpa è della codardia, la colpa è dello scarico di responsabilità, la colpa è di alcuni imbecilli, la colpa è di alcuni violenti, la colpa è dell'ignoranza”, dice Lanoye. E aggiunge: “Le curve delle due squadre erano contrapposte, ma accanto alla curva inglese, c’era una parte della tifoseria bianconera. Non il movimento ultras, ma semplicemente tifosi che avevano acquistato il biglietto, anche in Italia. Caricati dagli hooligans, che volevano lo scontro, i tifosi bianconeri provarono la fuga verso il campo ma la polizia caricò a propria volta. Fin quando il muro del settore Z non è crollato, tra chi è rimasto schiacciato e chi si è buttato nel vuoto per provare ad evitare la tragedia. Io ero molto giovane, ed ero presente. Non c'è una notte che non mi addormenti non pensandoci ancora”.

Alla celebrazione di metà maggio, qui allo stadio Re Baldovino, parteciperà anche Marc Tarabella, l'europarlamentare belga molto sensibile alle questioni legate al calcio: “È necessario stare vicino ai famigliari delle vittime, prima di tutto. Per noi quella dell'Heysel è una ferita ancora aperta, ci fa molto male. Ero presente anche alle celebrazioni cinque anni fa, fu tutto molto doloroso e commovente”. Verranno in tanti qui, ci sarà il momento del canto degl'inni, ci sarà il momento della deposizione delle corone di fiori, ci sarà il momento dei racconti di quella sera. La televisione di stato belga è già pronta, e con un giornalista molto in gamba, sta anche ultimando un reportage in Inghilterra e in Italia da mostrare a tutto il paese, ma a noi racconta le difficoltà che sta trovando nella raccolta delle dichiarazioni nel nostro paese: “E' molto difficile far parlare gli ex giocatori di quella partita, ed è impossibile riuscire ad avere interviste programmate di comune accordo con le due società”.

I parenti non dimenticano mai

Le associazioni delle vittime in Italia oggi sono rinate. Ognuna organizza i propri ritrovi, ognuna accoglie ricordi e dona abbracci. Ci sono anche i tifosi juventini che hanno aperto dei blog per stare insieme: alcuni passano, e lasciano il loro racconto, altri una poesia, altri ancora pensano ad una frase dolce per chi quella notte non riesce a togliersela dalla testa. Infine, ci sono quelli che postano foto e fiori. Ogni anno, sempre lo stesso mese, sempre lo stesso giorno. Così, da trent'anni esatti. C'è, anche, chi porta messaggi di pace allo stadio ogni domenica, nessun gesto estremo o disperato, solo il nome esposto su un piccolo drappo di stoffa, di uno dei presenti quella notte a Bruxelles. Poi, ci sono le singole iniziative portate avanti dai comuni: a Padova verrà inaugurata una mostra fotografica, a Bassano un torneo di calcio della categoria pulcini, a Cittadella una partita di beneficenza, a Torino ancora mostre fotografiche. Uno dei racconti più toccanti che si trovano in rete è quello di Matteo Lucii, a cui fu assegnato un biglietto del settore Z: “Ad un certo punto mi resi conto che stavo male che non respiravo più. Pensai di essere arrivato al capolinea. Feci appello a tutte le forze che mi erano rimaste e provai ad alzarmi nonostante il peso delle altre persone sopra. Alla fine ci sono riuscito. Come prima cosa pensai bene di uscire dallo stadio e cercare un telefono per avvisare a casa. Il mio primo pensiero fu quello, perché avevo perso pure la percezione del tempo. E invece quando io telefonai a casa erano le 19.40. Il collegamento con la Rai sarebbe iniziato soltanto cinque minuti dopo. La mia famiglia non si rendeva conto di quello che stavo raccontando. Capirono ben presto appena accesero la Tv. Così come fece tutta l’Italia. Non voglio immaginare l’angoscia di chi stava davanti alla Tv e aveva familiari o amici allo stadio”.

Gli ‘80 erano gli anni della Nintendo, della Perestrojka, della Guerra Fredda, delle Olimpiadi di Los Angeles boicottate, di Cernobyl, di Reagan come presidente degli Stati Uniti d'America, dei funerali di Berlinguer, ed erano gli anni della strage dell'Heysel. Del crollo di un settore che ha schiacciato bambini, uomini, ragazzi, tifosi, sotto il proprio peso, e sostenuto dall'ignoranza.

Oggi fuori dallo stadio Re Baldovino di Bruxelles i ragazzi della periferia nord della capitale organizzano partite di cricket. Ci sono anche dei campi di calcio per bambini, dietro una recinzione di ferro, dove i tornei vengono giocati scrivendo su fogli di carta le squadre allestite nello stesso momento in cui centinaia di ragazzini si presentano sul posto. C'è anche un cantante rapper che viene a cantare per loro. Questo è il paese di Stromae, e tutti quelli che si avvicinano alla musica vorrebbero diventare come lui, un giorno. Il ragazzo è molto bravo con le sue frasi in rima agguerrite e secche. Racconta che canterà pure il giorno della cerimonia in ricordo delle vittime della strage. Fuori dallo stadio Re Baldovino di Bruxelles, lui ci abita. Il suo nome è come quello del quartiere, e della metropolitana più vicina. Siamo a 10 chilometri dalla gare central, qui si arriva solo con i mezzi pubblici. La fermata si chiama Heysel. Nessuno ha mai pensato di dargli un nome diverso.

29 maggio, il giorno più triste

di MARC TARABELLA (IL FATTO QUOTIDIANO 04-05-2015)

RICORDO E SILENZIO

“L'ultima volta che ci siamo ritrovati allo Stadio Re Baldovino per ricordare le vittime della tragedia dell'Heysel è stato cinque anni fa.

Ricordo la commozione e il dolore nel volto dei presenti. C'erano tifosi, gente di strada, abitanti della zona, amici, parenti di quella maledetta lista di 39 nomi che campeggia sulle mura di questo stadio. Ci troveremo di nuovo, quest'anno, perché nessuno ha mai dimenticato la data del 29 maggio, come se fosse impressa con caratteri diversi sul calendario di tutti noi”.

*Deputato europeo, belga, a capo della delegazione per la cerimonia dei 30 anni dalla tragedia

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Romanzo di una strage

Tra le 100 partite di Coppa dei Campioni, ce n'è una che segna una ferita

profonda per noi italiani. Trent'anni fa, il 29 maggio 1985, l'Heysel entrò

nelle nostre case. Trentanove vittime, centinaia di feriti, una carneficina

attuata dagli hooligans e consentita dall'incapacità delle autorità belghe

di NICOLA CALZARETTA (GUERIN SPORTIVO | Giugno 2015)

Giuseppina Conti e Barbara Lusci. Ci sono anche due donne fra le trentanove vittime dell’Heysel. Oltre ad Andrea Casula, 11 anni di vita quando l’orda degli hooligans al seguito del Liverpool decise che una serata di calcio avrebbe dovuto trasformarsi in una tragedia. Era il 29 maggio 1985. Alle 19.08, la prima carica degli inglesi. Alle 19.15 la fine dell’aggressione. Due donne. Non una rarità per gli stadi la presenza femminile, si badi bene. Ma in quel triste elenco, una spia. Un segnale che, in quella che rimane una delle pagine più disperate e dolorose dello sport, più di una cosa non abbia funzionato a dovere.

UN APPUNTAMENTO ATTESO

Bruxelles, 29 maggio 1985. Alle 20.15 è previsto l’inizio della finale di Coppa dei Campioni. È l’appuntamento clou della stagione visto che in estate (è anno dispari) il calendario non prevede competizioni internazionali ufficiali. Si gioca all’Heysel, un vecchio impianto inaugurato negli anni Trenta e che oggi non esiste più, essendo stato demolito e ricostruito. I gradoni delle curve si sfaldano con un niente, sembra una costruzione giocattolo, simile al Lego, facilissimo da smontare e ogni pezzo diventa potenzialmente un’arma micidiale. Questo è l’Heysel, con le sue minuscole porte per accedere al campo, larghe non più di ottanta centimetri. È lo stadio della Nazionale belga, nel passato ha già ospitato alcune finali europee e la Uefa lo ha ritenuto idoneo anche per l’ultimo atto della Coppa dei Campioni stagione 1984-85. Il trofeo se lo contendono Juventus e Liverpool, di nuovo di fronte dopo la finale secca di Supercoppa Europea del gennaio precedente, che ha visto la prevalenza dei bianconeri. È una sorta di rivincita e la rivalità tra bianconeri e Reds è forte. Anche per questo si prevedono numeri consistenti di tifosi al seguito delle due squadre. Quelli della Juventus non stanno nella pelle. Al primo giro utile, Atene e la sua delusione potrebbero essere finalmente spazzate via nel dimenticatoio. Per questo il popolo bianconero è in fibrillazione e, fin dal giorno della conquista della finale, corre felice alla caccia dei biglietti per assistere al grande evento, con la buona speranza che stavolta l’esito sarà diverso da quello di due anni prima. Anche i tifosi dei Reds si mobilitano. Non faranno certamente mancare il proprio sostegno ai loro giocatori che, come recita il loro celebre inno, non “cammineranno mai soli”, figuriamoci stavolta. Sono temuti, ma l’anno prima nella finale di Coppa Campioni all’Olimpico di Roma coi giallorossi, grazie all’organizzazione italiana e a 5.000 agenti, gli hooligans sono stati comunque contenuti.

INGLESI GIÀ UBRIACHI

Bruxelles, 29 maggio 1985. È un mercoledì, un tempo sinonimo di Coppe europee. Classica giornata primaverile, la migliore cornice ambientale per giocarsi una finale europea e per assistere allo spettacolo dagli spalti. In realtà, l’atmosfera in città non è propriamente leggera. Gli inglesi la sera prima hanno dato già ampi e inequivocabili segnali di irrequietezza, mettendo a soqquadro il salotto buono di Bruxelles, nella Grand Palace. Trecento, quattrocento hooligans, ubriachi a dovere, hanno infranto le vetrine dei tanti negozi che si affacciano sulla piazza. Tutto questo tra volgarità assortite, strafottenza e cialtroneria. Uno scempio che è proseguito anche la mattina dopo, quella del giorno della partita. Birra ovunque, in lattina o bottiglie. Visi stravolti dall’alcol e atteggiamenti aggressivi e incontrollati di chi non ha saputo e voluto mantenere il controllo di se stesso. Di chi lo ha fatto deliberatamente, senza dover rispondere ad alcuna provocazione e, cosa ancora più grave, senza nessun intervento della gendarmeria locale, che è rimasta a osservare, mentre si accaniva contro alcuni tifosi bianconeri che si erano lasciati andare a cori rumorosi per le vie cittadine e per questo multati. La situazione non migliora con l’approssimarsi dell’inizio della partita. Nel pomeriggio, i tifosi dei Reds si accampano attorno allo stadio. Molti a petto nudo, qualcuno scoperto totalmente, sempre più gonfi di birra e in completo stato di ubriachezza. Segnali che le autorità belghe, incredibilmente, non colgono.

Tra gli italiani che hanno seguito la Juventus, oltre ai tifosi organizzati tra cui gli inevitabili ultras, c’è un po’ di tutto. C’è chi ha approfittato per farsi una gita culturale visitando la città sede del Parlamento Europeo e farsi magari una fotografia sotto l’Atomium. C’è chi ha trascinato con sé il babbo tifoso della Fiorentina, perché è pur sempre una finale di una coppa e quando ci ricapita? C’è chi ha portato con sé il figlio undicenne perché possa apprezzare il clima del grande evento così da poterlo raccontare poi ai suoi amichetti.

I BIGLIETTI DEL SETTORE “Z”

Si va allo stadio. I vari settori dell’Heysel sono contraddistinti dalle lettere dell’alfabeto. Ai tifosi del Liverpool sono destinati quelli di curva contrassegnati dalla “X” e dalla “Y”. Oltre diciassettemila posti. Ma i Reds sono venticinquemila, una fetta dei quali senza biglietto. Lo spicchio di curva individuata dalla lettera “Z” può contenere circa seimila persone. Nelle intenzioni degli organizzatori i biglietti di quel settore, vendibili solo in Belgio, sono appannaggio del pubblico neutrale di casa, in modo da creare una zona cuscinetto tra le due tifoserie. Giusta idea. Il guaio è che molti, moltissimi di quei tagliandi relativi al settore “Z” sono nel frattempo arrivati nelle mani di tifosi italiani, proprio quelli che erano andati a Bruxelles unendo l’utile al dilettevole. Famiglie, il babbo con il figlio undicenne, i tifosi di altre squadre italiane in compagnia di amici o parenti bianconeri. E diverse donne. Non certo i gruppi organizzati, né gli ultras in servizio permanente effettivo. È evidente che qualcuno ha pensato bene di andare ad acquistare i biglietti a Bruxelles, per poi rivenderli agli italiani, lucrandoci sopra per arrivare a un prezzo cinque o sei volte maggiore di quello originario. Questo anche tramite le agenzie di viaggi che offrivano pacchetti comprensivi dell’ingresso allo stadio a qualche Juventus Club. E che l’aria sia pesante lo si legge in alcuni articoli dei quotidiani italiani, i quali invitano i tifosi bianconeri che andranno nel “Bloc Z” a “passare in incognito”.

L’INGRESSO DEGLI HOOLIGANS

Si entra nello stadio. Gli italiani sono controllati da capo a piedi. Gli inglesi affluiscono a fiumana. I pochi inservienti destinati agli ingressi sono di fatto soli, poca o nessuna assistenza da parte delle forze dell’ordine. Gli hooligans hanno vita facile. Ubriachi, aggressivi, violenti, entrano con intere scatole di birra sotto braccia. Hanno coltelli e anche dei lanciarazzi. E poi spranghe di ferro e legno raccolte in un cantiere vicino lasciato incredibilmente incustodito. Passano anche molti di quelli senza biglietto. E chi non vi riesce attraverso gli accessi ordinari, scavalca il muro di cinta accanto alla tribuna, quello che poi crollerà. E il gioco è fatto. Le curve X e Y si popolano all’istante. Quasi gonfiandosi, al limite dell’esplosione. I tifosi bianconeri, di contro, prendono posto nel settore “Z”. Certo, la vicinanza con i supporters avversari un po’ preoccupa. Tuttavia rimane uno spazio vuoto tra le due tifoserie a fare da cuscinetto, anche se la rete che divide i due settori non ha la parvenza dell’invalicabilità. Qualcuno degli italiani ha dei timori e cerca di barattare i suoi biglietti con quelli di altri settori. Le forze dell’ordine scarseggiano. In prossimità della recinzione che divide il settore “Z” dagli altri si contano cinque agenti. Sul campo ce ne è uno in più, oltre a una poliziotta con un cane, più preoccupati di colpire chi invaderà il terreno di gioco che del resto. Fuori, circa trenta agenti sono impegnati a inseguire un rapinatore.

LE CARICHE E LA TRAGEDIA

Bruxelles, 29 maggio 1985. Alla partita manca poco più di un’ora, ma gli inglesi già da un po’ di tempo danno segni di nervosismo. E così partono le prime provocazioni verbali contro i “nemici” del settore “Z”. I tifosi bianconeri non replicano. Un’arrendevolezza che la dice lunga sullo stato d’animo di chi è andato allo stadio solo per godersi un grande momento di sport e che non aspetta altro che la gara abbia inizio. Ma gli hooligans hanno gli occhi velati di follia e la mente completamente offuscata dall’alcol. Dalle parole passano ai fatti. E iniziano i primi lanci di bastoni, bottiglie, lattine e pezzi di muro facilmente strappati dai gradoni fatiscenti dello stadio. Gli italiani a questo punto hanno paura. Si arrabbiano, si indignano, ma non rispondono in alcun modo alle offese ricevute. Forse confidando nell’intervento degli agenti, che invece non arriva. Sono le 19.08. Per gli “animals” è il momento di attaccare. La rete di divisione è divelta con facilità. In centinaia si avventano sugli italiani che indietreggiano, in preda alla paura e al panico. La tragedia ha inizio. In pochi secondi, nello spazio che potrebbe contenere mille persone, ce ne sono cinque o sei mila. La calca umana si infrange contro il muro di cinta che di lì a poco cede, crollando. Alcuni tifosi vengono letteralmente sommersi e schiacciati. Altri sono colpiti da spranghe, coltelli e pezzi di vetro, perfino da razzi. Crolla anche la recinzione che dà verso lo stadio. Chi non muore asfissiato o schiacciato, finisce sventrato o infilzato dalla rete. È un’ecatombe. Nella quasi totale inerzia della polizia belga. La follia degli hooligans prosegue per sette lunghissimi minuti. I nostri cercano in tutte le maniere una via di fuga. C’è chi si riversa in campo e viene anche manganellato. Sette minuti di follia. Sul terreno rimangono 38 corpi senza vita, di cui 31 italiani. I feriti non si contano. Alcuni di loro riescono a raggiungere gli spogliatoi per le prime cure. C’è anche il dottor La Neve, medico sociale della Juve, che presta i soccorsi. Le scene sono raccapriccianti. I corpi dei caduti vengono allineati in un corridoio dietro lo stadio. I volti sono coperti da bandiere bianconere. C’è spazio solo per lo strazio, la disperazione, il senso di impotenza. Mentre gli animali inglesi, non sazi, si accaniscono ancora, tirando in aria gli oggetti dei morti e dei feriti, senza alcun pudore. Tra i sopravvissuti appena scampati all’onda di morte, qualcuno si dispera, consapevole che la sua vita è letteralmente passata su quella di un’altra persona. Qualche altro con il volto insanguinato rivela di aver preso a bottigliate in faccia gli inglesi andando loro incontro piuttosto che indietreggiare. Scene di guerra, incredibile. E 38 morti, che poi diventeranno 39 nei giorni successivi. Ci sono anche loro, Giuseppina Conti e Barbara Lusci. Le due donne. C’è anche Andrea Casula, morto con il babbo. Con i suoi undici anni è il più piccolo tra le vittime delle furia degli hooligans. C’è chi ha provato a rianimarlo. Si chiama Roberto Lorentini, di Arezzo, ha trentun anni, è all’Heysel con il padre Otello, tifoso viola, e altri parenti. È medico. Si è salvato dall’attacco omicida. Potrebbe scappare verso la vita. Ma vede quel bambino esanime e torna indietro. Gli pratica la respirazione bocca a bocca. Pochi istanti dopo viene travolto anche lui dall’onda barbara. E muore. Per il suo gesto un anno dopo, il 29 maggio 1986, verrà insignito della medaglia d’argento al valor civile.

IL FREDDO DELLA MORTE

Sull’Heysel cala il gelo e il freddo della morte. In pochi minuti si è consumata una strage. E la partita? All’ipotetico inizio manca meno di un’ora. Sul terreno di gioco ci sono tifosi impauriti e feriti. Alcuni giocatori della Juve, quelli della panchina, Prandelli, Limido, Bodini, insieme a Koetting che è in borghese, vanno verso le curve. Cercano di capire. I loro tifosi gli dicono di non giocare, che ci sono dei morti. Il resto della squadra è nello spogliatoio. Le notizie arrivano anche lì. Non tutto è chiaro, quale sia il numero delle vittime forse nessuno lo sa con esattezza. Ma che là fuori è successo di tutto e che c’è stato l’inferno, questo tutti lo hanno capito. Sono scossi, impauriti, smarriti. Bodini, destinato alla panchina per far posto a Tacconi, seguirà la gara tenendosi la mano sullo stomaco per contenere i conati di vomito. Il più provato sembra essere Edoardo Agnelli, il figlio dell’Avvocato. Non si gioca. Questo dicono i giocatori della Juve. Invece si giocherà. Per motivi di ordine pubblico, come dirà nei giorni immediatamente successivi alla strage Jacques Georges, presidente dell’Uefa: «Mi sono trovato di fronte a un caso di coscienza, a una delle decisioni più gravi della mia vita. Ho ritenuto che annunciare il rinvio della partita avrebbe significato creare presupposti per un altro massacro. Gli spettatori si sarebbero riversati fuori dallo stadio e chi avrebbe controllato la loro furia? C’erano tante persone che avevano visto morire i propri cari o i propri amici. Ci saremmo trovati di fronte a una vera e propria guerra e oggi i morti sarebbero stati molti, molti di più». La decisione è presa. Brio, Cabrini e Tardelli vanno verso la curva “M-N-O” dei tifosi juventini per invitarli alla calma. Alle 21.30 i capitani delle due squadre, Scirea e Neal, dalla cabina radio dello stadio leggono un comunicato in cui spiegano il perché ci sarà la partita, con l’invito rivolto a tutti a mantenere la calma e a non rispondere alle provocazioni. Si gioca per motivi di ordine pubblico, quello che le autorità belghe non hanno saputo garantire. E appare veramente incredibile la serie di errori commessi dalle istituzioni della nazione ospitante, la cui inefficienza è apparsa a tutti colossale. Dall’inerzia davanti alle follie degli inglesi per le strade e le piazze, all’inadeguatezza delle forze fuori e dentro lo stadio.

INIZIA LA PARTITA

Bruxelles, 29 maggio 1985. Ore 21.41. L’arbitro Daina fischia l’inizio della partita. La telecronaca è affidata a Bruno Pizzul che avverte i telespettatori: si limiterà alla fredda cronaca. In campo le due squadre si affrontano come se fosse una partita vera. Anzi, la partita è vera. Non mancano scontri di gioco e rudezze. Tacconi svetta su tutte le palle alte. Boniek appare ispirato. Briaschi gioca con un ginocchio malconcio, ma è ficcante. Il primo tempo si chiude sullo 0-0. Nel frattempo, la gendarmeria belga si è organizzata. I tifosi feriti sono stati portati negli ospedali. I corpi delle vittime sono presso gli istituti di medicina legale per le autopsie che dovranno stabilire le esatte cause della morte.

Inizia il secondo tempo. E al 60’ si verifica l’evento decisivo. Fallo di Gillespie su Boniek lanciato a rete. Daina fischia il rigore, anche se l’intervento è fuori area. Sul dischetto va Platini e realizza il rigore spiazzando Grobbelaar, il portiere clown. Poi si lascia abbracciare dai compagni, l’espressione del suo volto tradisce rabbia più che gioia. Colpisce semmai l’esultanza della panchina che al gol scatta in campo. La gara prosegue. Il risultato non cambia. Vince la Juventus. La Coppa è consegnata nello spogliatoio, ma poi i bianconeri ritornano sul terreno e mostrano il trofeo ai tifosi. Segue giro di campo con annessa esultanza. Immagini stridenti dopo tutto quello che è successo. E fanno ancora più male le scene di giubilo per le strade cittadine in Italia. Come si può gioire per una Coppa insanguinata? Qualcuno chiede quasi all’istante che il trofeo venga restituito all’Uefa. La Juventus non ci sta. Giampiero Boniperti dice che quella Coppa è vinta proprio in nome di chi ha perduto la vita all’Heysel.

UN DRAMMA CHE RESTA

Bruxelles, 29 maggio 1985. Una triste data consegnata alla storia. Trentanove morti. Trentadue italiani, quattro belgi, due francesi e un irlandese. 257 i nostri connazionali feriti. L’Uefa assume subito duri provvedimenti contro le squadre inglesi che vengono escluse dalle competizioni europee per 5 anni, 6 per il Liverpool. Due partite a porte chiuse per la Juventus nella successiva edizione della Coppa dei Campioni come punizione per le intemperanze degli ultras avvenute lontano dal settore Z. Quella dell’Heysel è una delle pagine più nere nella storia del calcio e dello sport. Anche per la scia di dolore, recriminazioni, solitudine che si porta dietro. Come l’incredibile vicenda delle autopsie e degli scambi di cadavere. Corpi già martoriati da una morte atroce, vilipesi da interventi approssimativi dei medici belgi e poi ricomposti frettolosamente e adagiati in bare recanti nomi diversi. Effetti personali spariti e poi ricomparsi. Per tacere del comportamento delle autorità belghe, omertoso e offensivo. La battaglia legale, portata avanti con fatica, alla fine ha portato alla condanna dell’Uefa, considerata civilmente responsabile dei fatti accaduti all’interno dello stadio.

Quella dell’Heysel è una storia vera. Fatta di vite spezzate e di dolore permanente. E di una memoria che deve essere coltivata e non calpestata. Per questo si è ricostituita l’Associazione dei familiari delle vittime, presieduta da Andrea Lorentini, figlio di Roberto e nipote di Otello. «La memoria va allenata. Così come va promossa la cultura dello sport e dei suoi valori più autentici» afferma Andrea. «Questi sono i nostri obiettivi. E ci fa piacere constatare che Andrea Agnelli abbia dimostrato una maggiore sensibilità che ha portato a intraprendere un primo passo verso un percorso comune».

LE FAMIGLIE ITALIANE HANNO COMBATTUTO NEI TRIBUNALI. UN GIORNALISTA È STATO VICINO A LORO

«Da soli per avere giustizia»

di FRANCESCO CAREMANI (GUERIN SPORTIVO | Giugno 2015)

 

Ricordo ancora quella sera del 29 maggio 1985 e i giorni seguenti. Un ricordo violento, perché quello che accadde cambiò per sempre il mio essere ragazzo, tifoso, e ha cambiato anche il giornalista che sono diventato. L’Heysel è una cicatrice che fa male ancora oggi e che non se ne vuole andare, forse proprio perché in troppi hanno cercato di cancellarla, ma non c’è cura. Anzi, una ci sarebbe: una memoria condivisa che dovrebbe avere (ha) come assioma l’unica verità storica e processuale riconosciuta dall’Associazione fra i familiari delle vittime dell’Heysel, presieduta da Andrea Lorentini, che a Bruxelles perse il padre Roberto, giovane medico aretino medaglia d’argento al valore civile per essere morto mentre salvava un connazionale.

«Abbiamo sconfitto l’Uefa, abbiamo fatto giurisprudenza, ma in troppi se la sono cavata» mi ha detto Otello Lorentini prima di soccombere sotto gli acciacchi della vecchiaia e morire lo scorso maggio. Otello era il padre di Roberto e il nonno di Andrea. Lui le udienze del processo di Bruxelles se l’è fatte tutte. Prendeva l’aereo da Roma e poi cercava i giornalisti per informarli di quanto stava accadendo. Un processo per il quale i familiari delle vittime italiane si sono autotassati. Otello Lorentini fondò la prima Associazione per avere giustizia di fronte a una strage in cui tutti volevano farla franca: gli hooligans inglesi come l’Uefa, le istituzioni sportive come la politica belga. La paura era che le 39 vittime fossero uccise una seconda volta dall’ignavia, spesso in malafede, di un Paese che preferisce rimuovere le tragedie. Soprattutto per questo Otello e gli altri hanno litigato spesso, seppure a distanza, con Giampiero Boniperti. Perché, come mi ha detto Antonio Conti (che ha perso la figlia Giuseppina, 17 anni), guardandomi negli occhi: «Sono contento che se ne parli ancora, ma il dolore non se ne va».

In questi trent’anni non si è dimenticata solo la strage, ma anche la solitudine, la dignità e la forza con cui i familiari delle vittime sono andati avanti: «Mi hanno detto che m’avevano pagato il marito morto, che la macchina (che avevo anche prima) me l’ero comprata con quei soldi» ricorda Rosalina Vannini, vedova di Giancarlo Gonnelli. «Nessuno sa cosa ha significato andare avanti senza Giancarlo e con tutti i problemi che ha avuto nostra figlia Carla». Lei dell’Heysel non vuole ancora parlare.

E allora, cosa ci resta di una battaglia condotta in solitudine da 32 famiglie italiane, fattesi forza nella figura di un uomo che aveva perso l’unico figlio per una partita di calcio? Sicuramente c’è la condanna dell’Uefa, passata anch’essa sotto i tacchi di una certa inconsistenza giornalistica, che l’ha resa per sempre corresponsabile delle manifestazioni che organizza. Se gli stadi delle finali delle Coppe europee devono avere determinati requisiti di sicurezza (con biglietti nominali, dotati di microchip) non lo si deve certo all’evoluzione del calcio, bensì alla testardaggine di Otello Lorentini e allo choc di vedere tutti gli imputati assolti in Primo grado. Così il presidente dell’Associazione decise, insieme con gli altri familiari delle vittime italiane, di citare direttamente la Uefa, che è stata poi condannata in Appello e in Cassazione.

A Hillsborough, Sheffield, il 15 aprile 1989, morirono 96 tifosi del Liverpool. È la strage che ha dato il via ai grandi cambiamenti che fanno della Premier League il campionato più sicuro dal punto di vista degli impianti. Disorganizzazione e inadeguatezza delle forze di polizia sono forse le cause più importanti, ma questo lo stabilirà l’inchiesta ancora in corso dopo 26 anni. Ecco, se avessero imparato la lezione del 29 maggio 1985, se avessero riflettuto invece di respingere le accuse e cercare di nascondere la vergogna dell’Heysel, forse Hillsborough sarebbe rimasto solo il nome di uno stadio. In Italia, se possibile, è andata anche peggio. Nel 1995, per il decennale, a Otello Lorentini promisero una puntata del Processo del Lunedì ad Arezzo, ma poi non se ne fece niente. Nel 2010 ci fu la prima messa della Juventus, che con la presidenza di Andrea Agnelli ha intrapreso, con difficoltà, un cammino verso i familiari delle vittime. Dietro, 25 anni di vuoto. «Ho ricevuto l’invito ma non andrò, ognuno ha la sua coscienza» mi disse Maria Teresa Dissegna, che all’Heysel ha perso il marito Mario Ronchi, uno dei tre interisti morti a Bruxelles. Abbandono, fastidio, oblio: questo hanno continuato a subire i familiari delle vittime e coloro che sono morti il 29 maggio 1985, insieme alle continue offese negli stadi italiani, quasi mai sanzionate: «In tutti questi anni la Procura federale non mi è sembrata così pronta e attenta» dice Andrea Lorentini.

La memoria va allenata, perché non accada mai più. Lo dobbiamo a Otello Lorentini, Domenico Laudadio, Annamaria Licata, Claudio Il Rosso, il Nucleo 1985, lo Juventus Club Supporters Juve 1897, il Comitato “Per non dimenticare Heysel” di Reggio Emilia, Andrea Lorentini e a tutti gli altri famigliari. Senza edulcorazioni, ipocrisie di parte e interessi economici. Anche per questo vado fiero della scritta che posso esibire sul mio libro “Heysel, le verità di una strage annunciata”: «L’unico libro ufficialmente riconosciuto dall’Associazione familiari vittime Heysel». Chi ha ancora voglia di raccontare quello che è accaduto 30 anni fa, faccia i conti con le famiglie delle vittime. La storia dell’Heysel sono loro, nessuno si senta offeso.

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Juventus hope cup success will honour

memory of ‘forgotten’ Heysel victims

Thirty years after a night that scarred football, Ed Vulliamy reports on a bid by the Italian club’s fans to mark the loss

by ED VULLIAMY (THE OBSERVER 10-05-2015)

Juventus Football Club of Turin – one of the world’s most prestigious sides, and an Italian national institution – stands this week at a crossroads, epic even by the standards of its own illustrious history. A draw against Real Madrid on Wednesday would see the team qualify for the European Cup final, which Juventus won on 29 May 1985 – the night 39 of its fans died when a wall collapsed at the aged Heysel Stadium in Brussels. The tragedy was triggered by Juventus supporters attempting to escape a violent charge by Liverpool supporters.

By a twist of fate, if Juve qualify again, the final tie in Berlin will be played just two days short of the 30th anniversary of a football massacre that has been all but airbrushed from mainstream memory in Britain.

On 29 May, Juventus will hold a commemorative mass at the church of the Grande Madre di Dio in Turin. A statement by the club announcing the occasion is probably its strongest yet: “For too many years,” it reads, “these 39 victims have been subject to scorn with the sole aim of attacking the black-and-white colours. This is a vile action that has no place in any stadium or sporting debate. This anniversary should also serve as a period of reflection, ensuring that such behaviour is not repeated.”

In March, Juventus refused to allow England’s Football Association to lay a wreath at its new stadium before a friendly between Italy and England, lest it detract from Juventus’s own plans.

But behind the mass lie months of backstage planning and wrangling among followers of Juventus and the club, and 30 years of painful reckoning – and general failure to reckon – with what the title of a book by reporter Jean-Philippe Leclaire calls: Heysel: the Tragedy Juventus Tried to Forget.

Juventus’s reference to “scorn” refers to the glee with which rivals in Italian football have taunted the club over the tragedy. In the minds of the victims’ relatives, that word scorn will apply also to two decades during which Liverpool – city, club and supporters – failed to formally apologise for what its fans had done. On the 20th anniversary in 2005, Bruno Guarini, who lost his son Alberto in the tragedy, said: “We’ve heard nothing from Liverpool or its supporters, no apology, no solidarity, nothing to say they did anything wrong.”

But that year, by a twist of fate, Juventus drew Liverpool in the month of the anniversary: militant groups of Liverpool fans organised a mosaic reading Amicizia – friendship – across the Kop, and an official delegation finally visited Turin. Liverpool captain Sami Hyypia joined his counterpart Alessandro del Piero to read out the names of the dead.

Juventus’s announcement of the 29 May mass says it is the result of “a heartfelt and sincere dialogue with the Association for the Families of Heysel Victims”, but thereby hangs a tale. Soon after the killings, a group of victims’ relatives was established in Arezzo by Otello Lorentini, whose son Roberto, a doctor, was killed while trying to administer first aid to other fans. The association had become a focal point for those who felt the club had done too little for the bereaved and wounded.

The campaign for justice was always championed by Juventus’s organised fans, the ultràs – who gathered in groups with names such as Viking or Drughi (from the Droogs of A Clockwork Orange) on their favoured terrace, the Curva Filadelfia. “We were,” says one Drughi veteran, Salvatore, “always in the front line for truth and justice, to get the dead at Heysel honoured in the proper way.”

The club’s reticence changed dramatically in 2010 when Andrea Agnelli – nephew of the man whose name is synonymous with Juventus, the late Fiat boss Gianni Agnelli – took over as president. Agnelli presided over a moving 25th anniversary ceremony at which he said: “I was nine years old – I watched on television and saw the horror in my parents’ faces. I grew up that day, became mature.”

Agnelli ensured a beautiful monument at the new stadium of 39 falling stars to represent the dead, and at its opening in 2011 the words “In Memory” were picked out in fire across the pitch. “The atmosphere was transformed,” says Beppe Franzo, one of the veteran fans’ leaders, who has written two books about the Curva and the legacy of Heysel. “The club was involved, the taboo lifted.”

“Juventus seemed finally to have made peace with Heysel,” says Domenico Laudadio, designer and curator of the relatives’ association’s “virtual museum”.

For this month’s commemorations, Franzo and Laudadio set to work on projects more ambitious than the mass. One was a striking theatrical production designed by Laudadio. It envisaged strong imagery – Calvary, a “river of blood” – and a passage that squarely blames Liverpool fans and European football’s governing body Uefa for the massacre.

Franzo had for two years laid plans for a day of collective memory in Turin, to include Laudadio’s text, which “would bring together everyone: fans, relatives and the Juventus club, as it should be. It was also to include our partisans of both extreme right and left, united by their feelings of antagonism. A commemoration from the Curva and the street that belonged to us all: every fan, every family, and Juventus.”

Neither plan came to fruition. Laudadio’s drama failed to win the club’s backing: “They totally modified the rhythm, form and words,” he says. “The relatives’ association has decided not to accept the changed text.”

Otello Lorentini died last year, but his association was relaunched this January by his grandson Andrea Lorentini, who issued an impassioned plea: “The memories of Heysel, sadly, are solitary ones (I lost my own father there), and we’re happy every time anyone wants to share it with us. We thank Juventus, but we claim our role as guarantors of the memory … We’ll participate in the mass for the fallen; as our only shared [anniversary] moment with the club”.

Franzo approved of Juventus’s script changes, but counsels: “If we’re not united, leave it. We know who is to blame, we know who did it – now is the time for something more ambitious. On one hand, there is the private memory of each of the families, to be respected. But we also need collective tribute, collective commemoration and collective memory, so that what happened can belong to the history of Juventus and all its fans, as well as the private memories of those who suffered loss.”

“To lose your son in that way,” says Guarini in Puglia, “killed by those people, is beyond sorrow. It is something time cannot cure. It leaves you dead in your heart.”

A young fan unborn at the time, Alessandro Borghi, added: “Ironically, the families of 96 people in Liverpool know the feeling well. But still we’re mostly forgotten.”

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SETTE GIORNI DI CATTIVI PENSIERI

di GIANNI MURA (LA REPUBBLICA 17-05-2015)

Trent’anni fa, l’Heysel. Dove ai cretini si sommarono i violenti, gli ubriachi, i disorganizzati. E fu una strage di innocenti, di persone che erano andate a Bruxelles per vedere una partita e si ritrovarono in una trincea di metallo e cemento, schiacciate dalla furia degli hooligans. Su quella notte sono freschi di stampa tre libri, che meritano tutti uno spazio nello scaffale del dolore.

Il primo l’ha scritto Francesco Caremani: “Heysel, le verità di una strage annunciata” (ed. Bradipolibri, 227 pagine, 15 euro). Si basa in gran parte sulla testimonianza di Otello Lorentini, padre di Roberto, il medico morto mentre cercava di soccorrere gli altri. E sulla lunga battaglia legale che seguì quella tragica notte, il cui orrore è testimoniato dalle foto di Salvatore Giglio. Anche Otello era all’Heysel, e di un lutto privato seppe fare una battaglia civile. Se oggi gli stadi sono più sicuri è anche merito suo. È morto un anno fa. E nel libro denuncia insensibilità che s’aggiungono alle violenze: «I nostri familiari al momento dell’autopsia erano stati sezionati come maiali e neanche ricuciti. Questa storia è venuta fuori al processo. I medici belgi hanno dichiarato che non gli pagavano gli straordinari e che il governo italiano aveva fretta di riavere i corpi».

Il secondo l’ha scritto Emilio Targia, giornalista romano: “Quella notte all’Heysel” (ed. Sperling&Kupfer, 175 pagine, 14,90 euro). Anche lui c’era, quella notte. Il suo è un racconto “da dentro”, come quelli che ha raccolto da altri sopravvissuti. Il dolore, la rabbia, la paura, l’angoscia delle voci che rimbalzano: i morti sono sette, i morti sono venti. È un libro per non dimenticare. Perché senza memoria, per usare parole sue, saremmo luci spente.

Il terzo libro è scritto a quattro mani: “Il giorno perduto” (ed. 66thand2nd, 329 pagine, 18 euro). Le mani sono di Gian Luca Favetto ed Anthony Cartwright, un italiano e un inglese. È un romanzo, è la storia di un viaggio a Bruxelles di Mich, juventino della Valchiusella, e di Christy, disoccupato di Liverpool. Un viaggio verso la felicità e la gloria che l’Heysel sembra promettere, una storia di destini incrociati scritta a montaggio alternato.

 

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HEYSEL

Ireland’s untold stories

Thirty years on, four men reflect on the tragedy that changed their lives, writes Michael Foley

by MICHAEL FOLEY (THE SUNDAY TIMES 17-05-2015)

The only Briton killed in last night’s football disaster was an Ulsterman. With the death toll at 38, with more than 350 people injured, police in the Belgian capital of Brussels today named the man as 37 year-old Patrick Radcliffe. A native of Belfast, Mr Radcliffe worked as an archivist with the EEC in Brussels.

Belfast Telegraph, May 30, 1985

It began with a phone call from Belfast to Brussels. The European Cup final between Liverpool and Juventus was on television but George Radcliffe didn’t need to consider his timing. His brother was never interested in football. Patrick and George had grown up in east Belfast, a pair of academically-minded twins destined for college in Oxford and good jobs. George would lecture in accounting at Queen’s University. Patrick worked in Brussels as an archivist for the European Commission. He married Sarah and settled in Hoeliaart, a suburb of Brussels. But tonight, Patrick wasn’t home.

George didn’t know Patrick had gone to the game with a Dutch friend from work. He didn’t know that English fans had rioted and forced thousands of supporters into a crush in one part of the Heysel stadium. He didn’t know a wall had collapsed under the pressure. He didn’t know dozens of people already lay dead on the terraces. He didn’t know his brother was lost somewhere among them. Sarah had already called the police to report him missing. “She didn’t know what had happened,” says Radcliffe. He bought an airline ticket that night and headed for Brussels.

Since Ireland had joined the EEC the Irish population in Brussels had been swollen by diplomats and officials. A GAA club had been formed. Most of its members also played for a local soccer team, FC Irlande. A new team kit had arrived that month with an offer to provide tickets for the European Cup final. The club took 26 tickets for a neutral section at the corner of the ground, Pen Z.

It was a night that drew people from everywhere. Ronan Harbison met Gerry O’Sullivan, a 70-year-old man from Mallow, whose daughter worked in Brussels. He fell into conversation with a Wolves fan. “I thought I’d come seeing as I’ll probably never see Wolves play Juventus,” he said. They passed through the turnstiles together into Pen Z without noticing any trouble. “The crush started,” says Harbison, “but you expected a bit of crushing on the terraces at that time.

“Then stones started coming in. They were taking off crumbling pieces of concrete. The English fella with me got hit on the head. The concrete landed on my shoulder. There was nowhere else for it to go. I got some of his blood on me. As the crush developed, something had to give. Then the wall broke. People fell like water flowing out of a bottle.”

Liam Breslin from Mullingar was further up the terrace, wedged in the crowd with two friends. The mood there was different. Before Breslin had even entered the stadium another Irish friend with his son decided to go home. As the crush got tighter one of Breslin’s friends forced his way to the wall, climbed up and braved the steep drop on the other side. “I saw people around me getting hit by rocks and going down. The crowd was so tight they were trampled on. We were like sardines. I kept looking up to avoid getting hit. There was some fine, stout Italian fellas who had been having great fun. Once they went down they never came back up.”

When the wall collapsed, the surge of people tumbled towards the bottom of the terrace. Breslin held his feet. When it stopped, he looked around him. “I noticed heaps around the place. They were a grey colour. They were heaps of bodies. To get down to the pitch I had to walk over these bodies.”

Ciaran Fanning had travelled to the game with his father, Pat, and an Egyptian schoolfriend, Mohib. In a way, it was a farewell to Brussels. His father was among Ireland’s permanent EEC representation. Ciaran was 17 and finishing school before heading home that summer. Football was their shared passion. Brussels had been their gateway to some great games.

They also knew Heysel and how to find the best spots: enter the terrace at the top where the crowd was always heaviest, edge down to the bottom by the wall and swing back up to the space down front. This time, they were swallowed by a swamp of people. Ciaran and Mohib were quickly separated from Pat and tumbled out on the edge of the crush, looking across at the vast no-man’s land created by the rioters.

“Missiles were being thrown across: stones, flagpoles,” says Fanning. “Below us we then noticed loads of belongings, bits of clothes, bags. There were a few people just sitting down in these empty areas with their heads in their hands.”

Ciaran and Mohib stood on the edge of chaos. The crush was behind them. Across the empty terrace, through the line of hooligans firing missiles, they could see space at the Liverpool end. Their Liverpool scarves were their passport. “We ran across,” says Fanning. “We got beyond these guys, they weren’t people you wanted to come across. We moved through the crowd and found some space.”

As the Belgian police finally formed a line to hem in the Liverpool support, Fanning looked back at the empty terrace they had just crossed and spotted his father walking up the steps, looking for his son. Ciaran tried to break the police line to reach him, but the police refused to let him through. He had to stay and watch the game.

Back in Pen Z, Ronan Harbison was imprisoned in the devastation caused by the crush. He stopped by a young boy on the ground. His face was black and blue. “If he wasn’t dead,” he says, “he was very close to it.” He turned to the rioters and threw his hands in the air. “Stop!,” Harbison shouted. “There’s people dying here!”*

“F*** off you Italian bastard!,” replied one. “They were in a frenzy,” says Breslin.

Harbison looked around and saw an Italian man cradling a woman in his arms, screaming for help. Harbison took her hand to find a pulse. He checked her neck. Nothing. He reached inside her denim jacket to feel for a heartbeat.

“Batte?,” asked the Italian. “Beating?”

Harbison laid her on the ground and administered the kiss of life. Inside a few moments, she exploded in a fit of coughing, throwing up mouthfuls of blood all over Harbison. “The last time I saw them they were hugging each other,” he says. “There was a man there in his 70s and someone who’d seen me with the girl asked if I could do the same for him, but he was too far gone.”

Another man lay howling in pain with broken ribs. Harbison and another man snapped the belt on his trousers to provide some relief. Gerry O’Sullivan, the pensioner from Mallow, scrambled out of the crush without his shoes and socks. Harbison saw someone with a broken leg carried away on crash barrier, a young policeman in riot gear wandering aimlessly down the steps through the dead. He saw Juventus fans turning on a BBC reporter and the blackened faces of the crushed and dying. He saw a policeman crying uncontrollably. They had come too late. It was all too late.

Liam Breslin was down on the pitch looking up at the terrace, still transfixed by the piles of bodies. He wandered into the main stand. By kick-off time he found himself in the VIP area as the game played itself out. Afterwards he went back to the Green Anchovy, an Irish pub in Brussels. Some of his friends were there. More weren’t found safe till the morning.

Ronan Harbison was carried away to hospital covered in other people’s blood. Pat Fanning had gone back to his office. Ciaran was still missing. He thought about the panic he could start if he called home now. He decided to wait until the end of the game before going home. Ciaran would surely be back by then.

But he wasn’t. Somewhere in the middle of Brussels, Ciaran Fanning was being herded along with the Liverpool supporters, trying to break away and catch a tram home. When he did, he had a choice of two trams to two different stations. As he got off at the other end, his mother was waiting for him.

“She hugged me, she couldn’t believe I was fine. I knew dad hadn’t been in the stadium so I assumed he was fine. But I couldn’t believe so many people had died. When I realised what had actually gone on and what dad and mam had been through, that was very upsetting. But there was nothing I could have done.”

By the time George Radcliffe reached Brussels on Thursday morning, he already knew. Patrick was lying in a military hospital near Heysel. Sarah had identified him. George stayed behind at their house. “It was very disturbing,” he says. “Very upsetting. But what could you do?”

The newspapers in Belfast carried the story that morning. George described him as a “true European”. As the family grieved, Kevin Sheehy, Radcliffe’s sister’s boyfriend, spoke to reporters. “We were shocked that Patrick was at the match at all, because he had little or no interest. It’s important people know that Patrick was not involved in what went on. We’re all completely stunned and shattered.”

On June 10, Barry McGuigan stood on a stage in Belfast city centre shaking his world featherweight title belt as thousands came together on the warring streets of Belfast for the first time in years. In Downpatrick a congregation at the local church were remembering Patrick Radcliffe. Six months later George was visited by Denis, his brother’s friend who brought him to Heysel. “He talked a bit about it,” says Radcliffe. “He was thrown forward and Patrick wasn’t. That’s how he explained it.”

Liam Breslin lives in Brussels and still savours sport’s biggest days, but never shook from his memory the grey dust that lingered over the bodies of the dead. Ronan Harbison suffered nightmares for a while, but they passed in time. Once, on a trip to Pairc Ui Chaoimh a few years ago for a hurling game between Cork and Tipperary, he felt the same fear as Heysel again as the crowds choked the tunnel beneath the main stand after the game. The same chill ran through Ciaran Fanning once at Lansdowne Road at a rugby international when the crush at the Havelock Square end got too much.

Back in Belfast George still exchanges Christmas cards with Denis, his brother’s companion at Heysel. They didn’t look for reasons or answers to explain.

“I certainly didn’t blame,” says Radcliffe. “Patrick was in the wrong place at the wrong time. Football doesn’t interest me. It’s not something I wanted to get into. Obviously Patrick and I were very close but I’ve managed to go on. That’s how it goes. Death just happens.”

 

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TRENT’ANNI FA LA TRAGEDIA

H e y s e l

Il massacro ha cambiato l’Europa

Stadi sicuri, hooligan cancellati

Ma in Italia rimangono i problemi

Senza colpevoli Nessuno ha pagato per la gravità di

ciò che è accaduto, soprattutto gli organizzatori belgi

di ROBERTO PERRONE (CORSERA 25-05-2015)

«Le football assassiné». Il titolo migliore, il 30 maggio, lo fa l’Équipe. Juventus-Liverpool, finale di Coppa dei Campioni, 29 maggio 1985, la tragedia che cambia il calcio europeo, arriva improvvisa come un animale feroce che attacca, le fauci spalancate. Così, a uomini, donne e bambini del settore Z, devono apparire gli hooligan del Liverpool, a cui sono mischiati i famigerati «headhunters», cacciatori di teste del Chelsea. Alle 19.08 lo stadio maledetto, l’Heysel di Bruxelles, ora Re Baldovino, inghiotte 39 vite. Raccontarlo, a trent’anni di distanza, ha ancora senso non tanto per ricordare, quanto per ragionare. Ad esempio sulla contraddizione tra chiedere rispetto per i morti e insultare i vivi. La strage ha molti padri. «Sono la stupidità umana degli hooligan e gli errori organizzativi e tattici a provocare la “catastrofe”» racconta Roland Vanreusel, allora commissario aggiunto incaricato per l’ordine pubblico. Già alla vigilia appare chiaro che lo stadio è fatiscente e la disorganizzazione sovrana. Non ci sono i cartelli precisi e colorati che i tifosi troveranno a Berlino. I belgi e l’Uefa, prima degli inglesi ebbri, preparano il disastro. L’Heysel è inadatto. Ai tifosi bianconeri vengono venduti i biglietti del settore Z, agli inglesi quelli adiacenti X e Y. Il confine? Reti posticce e pochi gendarmi. I biglietti sono uguali, su quelli degli inglesi c’è una segno sopra la Z. Su quelli degli italiani, la cancellatura è su XY.

Fa caldo, la birra (quella belga è buona, niente da dire) è un fiume in piena nel sangue delle bestie venite dalle sponde povere e depresse della Mersey. Accoltellati un anno prima dai tifosi (?) giallorossi a Roma, meditano vendetta. Attaccano, i cocci di bottiglia come armi, le facce stravolte. Le retine vengono travolte, i gendarmi spariscono salvo manifestarsi a bordo campo, a manganellare gli juventini che cercano di scappare verso il prato. Il resto è noto. I tifosi inglesi non ammazzano, direttamente, nessuno: 39 persone finiscono schiacciate da altre persone e dal crollo di un muro. I sopravvissuti si presentano, anche con i vestiti insanguinati, in tribuna stampa chiedendo di telefonare per rassicurare i parenti.

Finita la strage comincia il circo dello scaricabarile. Alla fine non paga nessuno, certo non con pene adeguate alla gravità di quanto accaduto. A battersi, ostinato ma mai aggressivo, resta un uomo solo, Otello Lorentini di Arezzo. Otello ha perso un figlio, Roberto, nel massacro. Medico, è in salvo ma tornato indietro per soccorrere i feriti. Otello è solo, in aula, nel 1990 quando la corte condanna l’Uefa. Siamo a ridosso delle «notti magiche» del Mondiale ’90. Cinque anni e la strage è già un peso. Show must go on. Le squadre inglesi, cacciate dalle coppe, sono già tornate, il Liverpool lo farà nella stagione 1991-1992 e la prima italiana ad affrontarlo sarà il Genoa. Quel giorno, a Bruxelles, si stabilisce un precedente. L’Uefa è responsabile per tutte le manifestazioni che organizza. Non per l’Heysel, ma per i soldi, nasce la Champions League portando controlli, sicurezza, organizzazione, obblighi. Il calcio europeo impara dai propri errori. Gli inglesi avviano riforme concrete che diventano incisive dopo Hillsborough, 15 aprile 1989, 96 morti, ancora il Liverpool di mezzo. È la semifinale di FA Cup con il Nottingham Forrest. Anche qui vittime schiacciate da quelli che spingono cercando di entrare senza biglietto. Gli hooligan spariscono. Si manifestano ancora in Europa, gli ultimi danni a Charleroi, a Euro 2000. L’Inghilterra, avvisata, interviene nuovamente. Secondo la controinformazione dei nostri ultrà non è vero che gli hooligan non esistano più. Sarà, ma negli stadi non ci sono. Gli unici a non cambiare siamo noi. Dall’Heysel in poi abbiamo avuto tragedie, morti, e leggi speciali, ma restiamo sull’orlo dell’abisso. Nel 2014, nei giorni della finale di Coppa Italia, Napoli-Fiorentina, con l’ultima vittima «calcistica», Ciro Esposito, a 89 anni se ne va Otello Lorentini. Suo nipote Andrea, 3 anni nel 1985, qualche anno prima aveva detto: «Allora noi eravamo le vittime e forse non ci siamo sentiti in dovere di cambiare». Quando la Juventus torna a incrociare il Liverpool, nel 2005, a Torino un piccolo esercito circonda i tifosi dei Reds. Non perché tema qualcosa da loro, ma per proteggerli. Trent’anni dopo gli hooligan siamo noi.

 

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LA_GAZZETTA_DEL_MEZZOGIORNO 25-05-2015

29 MAGGIO 1985 Alla gioia per lo scudetto e alla trepidazione per la finale di Berlino, si mescola la memoria di un giorno brutto e doloroso

LA TRAGEDIA Nel settore Z dello stadio di Bruxelles 39 tifosi juventini furono travolti dalla furia degli hooligans prima della finale contro il Liverpool

Heysel 30 anni dopo

il ricordo atroce della coppa maledetta

Alla gioia per lo scudetto conquistato e alla trepidazione del popolo bianconero per la finale di Berlino si mescola il ricordo più brutto e doloroso: la tragedia dell’Heysel con le sue 39 vittime innocenti di cui proprio in questi giorni ricorre il trentennale. Tifosi juventini - 32 erano italiani - andati a Bruxelles con la speranza di festeggiare la prima Coppa dei Campioni bianconera e che invece trovarono una morte orribile nel settore Z dello stadio, travolti dalla furia degli hooligans inglesi ubriachi, schiacciati contro le balaustre o precipitati dalle gradinate, poco prima che iniziasse la finale Juve-Liverpool. Morti, però, anche per l’inadeguatezza dell’Heysel e dei servizi di sicurezza ed ordine pubblico.

Un ricordo ancora oggi terribile per i parenti delle vittime, per i sopravvissuti, per chi aveva seguito le cariche degli hooligans, il caos e la disperazione dei tifosi che cercavano scampo dagli altri settori dell’Heysel o in tv. Una «Coppa maledetta» che la Juve aveva inseguito per 30 anni, sfuggita già due volte, nel ‘73 a Belgrado, dieci anni dopo ad Atene. Un trofeo che oggi molti protagonisti dell’epoca non sentono come un trofeo conquistato, ricordando che in pratica furono obbligati a giocare. Ma ci sono anche tifosi juventini che, al contrario, la considerano un premio alla memoria delle 39 vittime, allineate nelle stanze dello stadio mentre sul campo si consumava la partita più surreale nella storia del calcio europeo, vinta dalla Juventus con un calcio di rigore segnato da Platini. Una partita giocata con un intero spicchio dell’Heysel, senza più tifosi, transennato davanti alle macerie e agli oggetti ed effetti personali persi dai tifosi nella calca.

«Non sapevamo cosa era davvero successo, avevamo avuto notizie di un morto, forse due, ma non potevamo immaginare una tragedia così grande», avrebbero detto poi i giocatori bianconeri. I neo campioni d’Europa avevano festeggiato sotto la curva dell’Heysel subito dopo il 90’, ma il giorno dopo, al rientro a Torino, quando le notizie sulle tragedia erano diventate ufficiali e chiare nella loro drammaticità, ogni traccia di gioia era scomparsa dai loro volti. Sergio Brio, scendendo sulla scaletta dell’aereo, stringeva la Coppa, ma senza esultare.

All’Heysel il club bianconero aveva consegnato al delegato Uefa Gunther Schneider la nota ufficiale spiegando perchè aveva detto sì alla richiesta di giocare comunque: «La Juve accetta disciplinatamente, anche se con l’animo pieno di angoscia, la decisione dell’Uefa, comunicata al nostro presidente, di giocare la partita per motivi di ordine pubblico». Il presidente di allora, Giampiero Boniperti, non ha mai voluto riparlare di quella finale così dolorosa. Neppure per l'attuale massimo dirigente bianconero, Andrea Agnelli, è facile tornare sull’argomento: «Ho sempre fatto fatica a sentire mia quella Coppa - ha detto in occasione del venticinquennale dell’Heysel - anche se i giocatori mi hanno sempre detto che fu partita vera». E Marco Tardelli, in un’intervista alla Rai, qualche anno fa ha spiegato e chiesto scusa: «Era impossibile rifiutarsi di giocare, ma non dovevamo andare a festeggiare, l’abbiamo fatto e sinceramente chiedo scusa».

Le vittime dell’Heysel saranno ricordate a Bruxelles con una cerimonia pubblica e a Torino in una messa alla Chiesa della Gran Madre di Dio, alle 19.30.

«La giornata del 29 maggio - sottolinea la società bianconera - sarà dedicata al ricordo da parte di tutti i tesserati Juventus. Per troppi anni quelle 39 vittime - rimarca sul sito ufficiale - sono state oggetto di scherno finalizzato unicamente ad attaccare i colori bianconeri: un’azione vile che non dovrebbe trovare cittadinanza in nessuno stadio ed in nessun dibattito sportivo. Questo anniversario dovrà essere utile anche alla riflessione per evitare che simili comportamenti si ripetano».

 

«IMMAGINI CHE PORTERÒ DENTRO DI ME PER SEMPRE»

L’altro urlo di Tardelli

«Fu una sconfitta per tutti»

«Quella notte un gruppo di selvaggi mise in croce decine di poveri cristi, per questo non ho mai voluto sentir parlare di quella coppa: io la vivo come se avessimo perso, e d’altra parte fu una sconfitta per tutti». Marco Tardelli urla ancora, e stavolta non per un gol mondiale. Trenta anni dopo la tragedia dell’Heysel, racconta all’Ansa, «il dolore e la tristezza restano fortissimi, come su tutto fosse avvenuto ieri. Insisto: quella Coppa dei Campioni non l’ha vinta nessuno, piuttosto in Belgio è stata vissuta una delle peggiori pagine della storia del calcio». Ma anche per i calciatori? Si disse che non sapevano fino in fondo la verità? «Certo - ricorda Tardelli - anche per noi: eravamo lì e come potevamo non entrarci in quella brutta storia? Comunque sapevamo che c’era stato un morto, siamo anche usciti a parlare con i tifosi, avevamo visto qualcosa. Anche se quello che è accaduto realmente, con le vere dimensioni della tragedia, io l’ho saputo il giorno dopo, in Messico, dov’ero volato con la Nazionale. Le immagini del vero dramma le ho viste lì. Quando la tv messicana ha mostrato quei corpi per terra, mi sono sentito male di nuovo: sembravano morti di guerra».

Al tempo si discusse molto sull’opportunità di giocarla, quella finale. «Non è che prima della partita non sapessimo proprio nulla - prosegue Tardelli - dunque certo che ho pensato che sarebbe stato meglio non giocare: ma questa decisione non dipendeva da noi, questa è la semplice verità». Flash rimasti impressi nella memoria, Tardelli ne ha molti. «Ma la faccia terrorizzata di un padre con un bambino sotto choc in braccio, entrambi riusciti a scappare alla furia degli hooligans ed approdati chissà come negli spogliatoi, quelli non li dimenticherò mai». «Con i parenti delle vittime - prosegue Tardelli - invece non ho mantenuto contatti, non ne ho conosciuti: ma i nostri tifosi li avevo visti arrivando allo stadio, avevano volti dolci e felici, li porto tutti dentro di me». I tifosi inglesi, invece «Ci fecero un’impressione pessima, al contrario dei giocatori, che erano a loro volta sconvolti. Grobbelaar, il portiere sudafricano del Liverpool, venne sul nostro pullman a chiedere scusa alla fine della partita. Ma dopo era tutto inutile, quella tragedia bisognava prevenirla, l’errore enorme lo commisero le autorità belghe: non avevano capito il problema, le strutture dello stadio non erano adeguate, non si potevano mettere nella stessa curva con i tifosi italiani gli hooligans, che in quel periodo erano famigerati per la loro bestialità. Ora restano solo le lacrime. E una coppa inutile, perchè nessuno l’ha vinta».

PARLA IL SUPERPOLIZIOTTO RESPONSABILE DELL’ORDINE PUBBLICO

«Le cause? Stupidità, errori organizzativi, stadio inadeguato»

Sono stati la «stupidità umana degli hooligans e gli errori organizzativi e tattici» a provocare la «catastrofe» allo stadio dell’Heysel, il 29 maggio 1985. Il superpoliziotto Roland Vanreusel, allora commissario aggiunto incaricato dell’ordine pubblico per la finale della Coppa dei Campioni di calcio Juventus-Liverpool, in questi ultimi trent’anni si è trovato più volte a ripensare ai motivi di quell’inferno, con 39 morti - 33 gli italiani - e 600 feriti. Salito negli anni al vertice della polizia di Bruxelles, e da poco in pensione, Vanreusel traccia un’analisi lucida degli sbagli, che furono fatti da autorità belghe, Lega calcio e Uefa. Tutti fattori che concorsero al dramma. «Il primo errore fu la scelta dello stadio». Allora si chiamava Heysel, oggi Re Baldovino. Il poliziotto spiega: «Era vetusto. Si potevano staccare pezzi di cemento dalle gradinate. Le recinzioni, aggiunte tra il blocco Y e Z (dove avvenne la tragedia) avevano la forza di reti per pollai. Dopo 30 anni mi chiedo ancora come la Uefa possa aver accettato di tenere una partita in uno spazio così inadeguato». Il secondo sbaglio - evidenzia Vanreusel - «fu quello di dividere il servizio d’ordine pubblico all’interno dello stadio tra polizia (settori M,N,O) e gendarmeria (X,Y,Z). La consuetudine era la polizia all’interno e la gendarmeria fuori. La decisione fu presa dal commissario di polizia Poels e dal generale Beernaert, su richiesta di Beernaert, che voleva visibilità. Questo assetto creò gravi problemi di coordinamento. Tra l’altro i transistor dei due corpi non erano in grado di comunicare tra loro, ed i telefoni cellulari non esistevano. Le lascio immaginare». Il terzo errore secondo l’esponente delle forze dell’ordine, fu nella vendita dei biglietti dei settori Z e M. «In teoria avrebbero dovuto essere blocchi neutri, destinati ai belgi. Ma in Belgio c’è una grande comunità di italiani. il settore Z, vicino a quello Y dove erano gli hooligans, si riempì di juventini».

 

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29 maggio 1985 Il tramonto, il presagio, l’attesa: poi l’invasione del settore Z in cui si trovavano

le famiglie italiane. Juventus-Liverpool doveva essere la sfida più bella. Finì con trentanove vittime

“Guarda, attaccano” l’Heysel trent’anni dopo

Gli hooligans e la Coppa

come una partita diventò una tragedia

La notte del calcio

di MAURIZIO CROSETTI (LA REPUBBLICA 25-05-2015)

La ragazzina aveva piccole labbra rosse di sugo, come se avesse mangiato marmellata di fragole e poi si fosse addormentata. Il cielo era invece di un rosso più tenue, soffuso e morbido, voleva prendersi tutta l’aria. I tifosi del Liverpool erano vestiti di un rosso elettrico molto vivo, e sembravano assai più numerosi degli italiani, forse dipendeva proprio dal colore dominante. I muri di pietra della città avevano, infine, un tono rossastro di sangue raggrumato, e i mattoni parevano croste. C’era, già dal mattino, qualcosa di strano, una specie di minaccia impossibile da chiamare per nome.

Trent’anni sono un tempo definito, esatto. I figli riescono a trovare un lavoro e magari sposarsi, un mutuo si estingue finalmente, e una carriera lavorativa si completa oppure si conclude. La memoria, lei fa sempre quello che vuole, aprendo cassetti dove tutto è in disordine ma anche nitido: oggi, adesso è di nuovo quel giorno.

La città era lurida, la percorrevano ruscelletti di birra e piscio. Alle dieci di mattina, la Grand Place era piena di vetri spezzati. Gruppi di inglesi ubriachi ronfavano nel mezzogiorno, distesi sul selciato, le teste appoggiate a cartoni di bottiglie usate come cuscini. A un certo punto, da una finestra d’improvviso spalancata volò un oggetto di cristallo, una specie di centrotavola scagliato per disperazione contro la marea urlante degli hooligans, ed esplose come una bomba. Si rischiava di ferirsi anche solo passeggiando, nell’attesa della partita. Ed era un giorno tiepido, dolcissimo.

Arrivammo allo stadio Heysel su un autobus con sopra scritto “Italian press”, non proprio un’ideona: un gruppo di rossi feroci si accostò ululando, e quando scendemmo ci vomitarono addosso gli aliti alcolici. Era dunque questa, la partita più bella del mondo?

Saranno state le sei del pomeriggio, salimmo subito in tribuna. Il tramonto era meraviglioso, proprio dietro la curva alla nostra sinistra, quella del settore Z e della tragedia. Si trattava di aspettare, è quel rito che precede i grandi eventi sportivi, l’appassionato respira tutto, ricorderà tutto, figurarsi l’inviato giovane alla prima trasferta vera. Non c’erano telefonini, si scattavano foto con gli occhi.

Poi, di colpo, verso le 19.20 la curva prese a ondeggiare come un mare impazzito, un mare assurdo nell’assenza di vento. I rossi tiravano cose da sinistra verso destra, pietre, fumogeni, e intanto si spostavano compatti. «Guarda, attaccano!», disse qualcuno. Una, due volte. Gli italiani, che erano pochi (la maggioranza stava nella curva opposta: chi era capitato lì lo aveva fatto comperando da sé i biglietti, si può morire anche per distrazione) presero a indietreggiare, però senza vie di fuga. Qualcuno trovò spazio e salvezza verso il prato, da dove però i gendarmi belgi provavano a respingere le persone con i manganelli. Finché il muretto divisorio cedette, e quasi tutti restarono sotto la massa che sfondava, corpi calpestati, schiacciati, soffocati.

Dalla tribuna si capiva e non si capiva. «Ci sono dei morti», disse una voce, e subito ci precipitammo giù dalle scale verso l’antistadio. E li vedemmo. Erano già allineati, cinque, otto, dodici corpi morti in fila e senza nessuno accanto. Corpi soli, irreparabili. Transenne di ferro venivano usate come barelle, la polizia a cavallo andava avanti e indietro, soffiando nei fischietti e roteando bastoni. C’erano infermieri, pochi, e medici, ancora meno. C’era morte dappertutto.

Trent’anni sono un tempo lunghissimo e un nonnulla, dietro le porte del cervello c’è solo mistero, chissà chi archivia le immagini lì dentro, chi sceglie, chi scarta. Malinconia per le nostre vite intatte. Nel ricordo c’è l’uomo con la pancia enorme e un altro uomo arrampicato su quella collina di carne, per tentare un massaggio cardiaco. C’è il ragazzo con la gola tagliata, è una tracheotomia: morirà entro pochi istanti. C’è un silenzio assurdo. C’è la ragazzina con la marmellata sulle labbra piccole. Porta scarpette bianche e blu.

Persone attorno, tante. Ora sale anche il rumore. La gente italiana vede i pass che penzolano al collo dei giornalisti, allunga mani, porge foglietti con numeri di telefono, per favore chiamate casa, dite a mia mamma che sono vivo. Non esistevano cellulari, computer, internet in quella preistoria dell’uomo. In tribuna stampa, noi di Tuttosport avevamo un telefono a disco di bachelite nera e sì, qualcuno di quei numeri ignoti lo componemmo ma pochi, c’era prima da lavorare, da dettare i pezzi a braccio, nessuno scrisse una riga battendo i tasti delle Olivetti, fu semmai una narrazione orale e corale, un disperato racconto nel buio, una pioggia di parole intrise di sangue. Non si poteva comprendere, c’era solo da guardare, salire e scendere scale, descrivere come meglio si poteva, cioè malissimo. Il senso di inadeguatezza, di vuoto non è mai svanito, insieme alla vergogna di prendere appunti. Eravamo bimbi tra i lupi.

Il resto lo sanno tutti. Gli appelli dei capitani di Juve e Liverpool, la voce del povero Scirea (è ancora viva anche lei, con quel tono di quieta timidezza, il sussurro di un uomo buono, «restate calmi, giochiamo per voi»), la partita che comincia alle 21.40 invece che alle 20.15 (allora le finali iniziavano alle otto e un quarto e c’era solo la Rai, solo la cadenza sbigottita e impotente di Bruno Pizzul). I rossi e i bianconeri, il fulvo Zibì Boniek atterrato fuori area però l’arbitro dà il rigore, tira Platini, gol, poi il francese festeggia roteando il pugno, assurdamente. L’atmosfera sospesa, irreale, e la gara non fasulla perché c’è qualcosa di diabolico e disperato nella resistenza umana. Vince la Juventus, in campo ci si abbraccia ma intanto Claudio, un collega più anziano, piange accanto al cronista ragazzino, e ripete «è finita, adesso è finita».

Saranno trentanove, i morti, in fondo a quella fine che invece ricomincia ad ora incerta, almeno una volta all’anno ricomincia nel tepore di maggio, e negli anniversari tondi come un pallone, e nel ricordo delle voci dei parenti come Otello Lorentini che li rappresentava tutti, e adesso anche lui se n’è andato. La fine ricomincia nell’imboscata di certi sogni, o nella memoria a bruciapelo di una vita intera di stadi, passione, pelle d’oca, felicità, partenze, solitudine, stanchezza, viaggi, città, parole. E sempre ritornano quelle labbra piccole, rosse, che non avranno baci, mai più.

 

La verità cercata da Grobbelaar

“Quell’assalto fu scatenato dall’estrema destra di Londra”

Una vita in porta con i Reds, dalla finale vinta con la Roma alla tragedia in Belgio

“Ho indagato da solo, sono stato nei locali del National Front, ma non ho prove”

di ANGELO CAROTENUTO (LA REPUBBLICA 25-05-2015)

Era il clown. Così chiamavano Bruce Grobbelaar. Perché in campo rideva e perché una sera, l’anno prima, s’era messo a danzare sulla linea di porta per parare i rigori alla Roma, in finale di Coppa dei Campioni. «Joe Fagan, l’allenatore, mi mise un braccio sulla spalla e fece: tranquillo, nessuno s’aspetta niente da te, se ti fanno gol non te ne faremo una colpa. Mi tolse un peso. Allora inventai quel balletto con le gambe, gli “Spaghetti Legs”, e Bruno Conti sbagliò. Funziona, mi dissi, lo rifaccio. E sbagliò pure Graziani. Gli italiani mi diedero del pagliaccio. Ma vincemmo la Coppa. Pagliaccio a chi?». Dodici mesi dopo, Grobbelaar era all’Heysel. Un’altra squadra italiana. «Prima di ogni partita facevo un giochino. Calciavo il pallone contro l’interruttore, per colpirlo e spegnere la luce. Pensavo che riuscendoci, avremmo vinto noi».

Il vostro spogliatoio era il più vicino al settore Z. Sentiste un tonfo. E poi?

«Mancavano cinque minuti al riscaldamento, capimmo che era successo qualcosa: arrivava gente nella nostra zona. Quattro o cinque di noi s’affannarono a dare una mano. Passammo dall’interno dei secchi d’acqua, prendemmo degli asciugamani dalle docce e li lanciammo fuori. Riuscimmo a fare solo questo, ma ormai sapevamo abbastanza per non voler giocare».

L’Uefa lo impose. Com’era il clima in campo?

«Uscimmo, e nella mia area di rigore c’erano tre coltelli a terra. Li avevano lanciati dal settore alle spalle. Questo era il clima. Eravamo là ma con la testa altrove. Sia noi sia loro. Dall’inizio alla fine per me è stato un istante. Un flash. Fino al silenzio totale in hotel, dopo la partita».

Si è chiesto cosa sarebbe accaduto se avesse vinto il Liverpool?

«Eravamo andati in Belgio per alzare il trofeo, credo che lo avremmo fatto. Alla Juve è stato rimproverato di non aver restituito la Coppa. Perché avrebbe dovuto? L’errore quella sera fu giocare, la Juve fece un gol, la Coppa è sua».

Cosa è stato dopo l’Heysel per lei?

«Ho cercato la verità. Non furono autentici tifosi del Liverpool a causare la tragedia. Molti avevano trascorso la mattina con quelli della Juve, giocando a calcio per le strade, andando a bere una birra insieme. Non posso credere che l’atmosfera sia cambiata allo stadio. Io credo a un’altra cosa».

A cosa?

«C’era gente di Londra all’Heysel. Venuta apposta per fare quel che fece. Scatenarono l’assalto e andarono subito via. Perciò non li hanno mai trovati».

È la tesi dei suoi dirigenti dell’epoca. Il motivo?

«Liverpool era odiata, c’era invidia per i suoi successi nel calcio. Mia suocera era venuta alla partita, si era imbarcata con un traghetto. Anche mia madre era lì, per la prima volta si muoveva dal Sudafrica per la finale: la chiami, confermerà tutto. Mia suocera mi raccontò che all’imbarco c’erano dei tipi che distribuivano volantini su cui era scritto che sarebbe stata l’ultima partita in Europa del Liverpool. Avevano le braccia tatuate con gli stemmi di alcune squadre di Londra. Erano del National Front, l’estrema destra. Ho provato a indagare».

In che modo?

«Sono stato diverse volte a Londra, nei locali del National Front, cercando di agganciare qualcuno che sapesse qualcosa. Ho provato a prendere informazioni, avevo un amico poliziotto. Ma non sono riuscito ad arrivare alle prove. Né io né altri».

Ha mai sognato quella notte?

«Incubi ne ho avuti, tanti. Ero all’Heysel, ero a Sheffield quattro anni più tardi nel giorno della tragedia di Hillsborough: 96 tifosi morti. E fra i 17 e i 19 anni ho fatto la guerra civile in Rhodesia con l’esercito, ai confini con il Mozambico. La guerra sconvolge, ti porta negli occhi la tragedia. La vita è preziosa, sopravvivere è un regalo che arriva da qualche parte. Per questo giocavo a calcio ridendo».

Perché oggi vive in Canada?

«È il posto dove ho iniziato. Ci sono buone scuole, buoni medici, si vive bene. Alleno i portieri dell’Ottawa Fury, tre ragazzi che lavorano duro, a cui piace imparare. L’unica cosa che a un portiere non insegni è la personalità. O ce l’hai o non ce l’hai».

Lei come scoprì di averne?

«A sette anni vidi mio padre giocare. Ho sempre voluto fare il portiere, è stata la prima decisione presa in vita mia. Gli altri ragazzini volevano stare tutti in attacco, mi sono sempre parsi matti, in venti dietro la palla e solo uno poteva averla. Se non eri bravo abbastanza da stopparla, rischiavi di non toccarla mai. Meglio stare in porta. Ero più sveglio io o loro? Oggi uno sveglio è Buffon. Il migliore. Non è uno dei soliti matti. Come non lo era Zoff. Zoff mi ha ispirato più di tutti, anche se non giocavo come lui, ognuno ha il suo stile. Il mio era aggressivo. Uscivo dai pali, andavo a fermare i pericoli prima possibile. È come nella vita. Se permetti ai problemi di venirti incontro, i problemi non finiscono mai».

Bruce, è mai tornato all’Heysel?

«Ogni uomo dovrebbe tornare nei luoghi dei suoi orrori, fare i conti con i demoni, liberarsene. Sono tornato nei posti in cui ho fatto la guerra, in Mozambico, in Zimbabwe, in Sudafrica. E sono tornato all’Heysel. C’è una targa, una data, i nomi delle vittime. Non mi pare abbastanza, forse il Belgio potrebbe fare qualcosa in più per le famiglie degli italiani. Così come sarebbe splendido se Juve e Liverpool giocassero una partita ogni anno, per sempre. Per sentirsi uniti da quella tragedia. Sono passati trent’anni, all’epoca la nascita di mia figlia mi aiutò, ora ho questo bel lavoro in Canada. Gli incubi sono finiti. Adesso sono in pace».

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La Bradipolibri ripropone, anche in versione inglese, l’unica opera ufficialmente riconosciuta dai parenti delle vittime della strage del 1985

Heysel, la verità di una strage annunciata

di LUCA MANES (ALIAS 23-05-2015)

Il 29 maggio 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles, prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, morirono 39 tifosi bianconeri. Morirono nel settore Z, schiacciati e soffocati dalla calca, sotto i colpi degli hooligans inglesi con l’evidente connivenza delle autorità e della polizia belghe, incapaci di prevedere e d’intervenire. In Heysel, le verità di una strage annunciata, Francesco Caremani, giornalista e juventino, ricostruisce quanto accaduto in quelle drammatiche ore di 30 anni fa, ma soprattutto quanto accadde dopo, nei lunghi anni del processo che ha portato alla condanna di una dozzina circa di hooligans del Liverpool, per pene dai 4 ai 5 anni di reclusione. Anche l’Uefa è stata dichiarata colpevole e obbligata a pagare i risarcimenti (da un minimo di 14 a un massimo di 400 milioni di vecchie lire) in quanto ritenuta responsabile per aver fatto giocare una partita così importante come l’atto conclusivo della Coppa dei Campioni in un impianto fatiscente, dove la gestione dell’ordine pubblico e della sicurezza da parte delle autorità locali fu, come accennato, del tutto deficitaria e inadeguata. Edito nel 2003 dalla casa editrice Bradipolibri, nelle ultime settimane è stato riproposto in libreria e ne è stata prodotta una versione in inglese. È l’unica opera ufficialmente riconosciuta dai parenti delle vittime dell’Heysel, cosa di cui Francesco Caremani va giustamente fiero, come ci ha ribadito di persona nel corso dell’intervista che ci ha concesso.

Qual è il tuo ricordo personale di quel giorno?

Avevo 15 anni e in realtà sarei dovuto essere anche io all’Heysel a incitare Platini e compagni. Non ci andai solo perché avevo un’insufficienza in latino e i miei non mi diedero il permesso. Così vidi la partita a casa di un mio amico. Lì l’anno prima avevamo visto la finale di Coppa delle Coppe che la Juve vinse con il Porto e quindi ci sembrava giusto non cambiare «sede». Dell’incontro non ricordo assolutamente nulla, sebbene l’abbia visto. Rammento solo perfettamente che mia madre mi chiamò per dirmi che Roberto Lorentini, un nostro amico di famiglia, era ferito. In realtà era una bugia, perché il padre Otello, che era con lui, sapeva già della morte del figlio. Quando tornai a casa vidi delle persone che festeggiavano nel centro di Arezzo, la mia città. Ci rimasi molto male. Poi la mattina abbiamo scoperto la terribile verità sulla sorte del nostro amico. Roberto Lorentini era un medico e, nonostante si fosse salvato dopo la prima carica degli inglesi, ritornò indietro per soccorrere un bambino ferito, secondo alcune testimonianze Andrea Casula, la vittima più giovane di quella tragedia (aveva solo 11 anni, n.d.r.). Morì travolto da una seconda carica degli hooligans mentre era chinato a praticargli la respirazione artificiale.

Ci racconti un po’ la genesi del libro?

In realtà non avevo mai pensato di scrivere un libro sull’Heysel, sebbene conoscessi molto bene come ti ho detto Otello Lorentini, che poi è diventato il presidente dell’Associazione dei parenti delle vittime. Fu proprio lui a chiedermi di farlo. Fui colpito dalla luce nei suoi occhi, dalla sua voglia che si facesse finalmente chiarezza su come i familiari dei 39 tifosi morti quel maledetto 29 maggio fossero stati lasciati soli, dimenticati e soprattutto messi a tacere. Tanto per farti capire che cosa intendo, Otello in quegli anni è stato intervistato più dalle televisioni straniere che da quelle italiane, soprattutto nel decimo e nel ventesimo anniversario. Eppure lui è stato un testimone diretto di quanto accaduto nel settore Z e di quello che si è verificato dopo, in particolare durante il processo. Per questo io dico sempre che il mio è un libro di parte, la parte giusta.

Perché dici che i parenti delle vittime sono stati messi a tacere?

Perché era meglio non parlare di Heysel, era un argomento scomodo. La polemica tra il direttore della Gazzetta_dello_Sport, il compianto Candido Cannavò, e il presidente della Juventus sull’opportunità di restituire o meno la Coppa è esemplificativa. Per Boniperti quella coppa doveva rimanere nella bacheca del club. La posizione della Juve era che i giocatori non sapevano nulla di quanto accaduto nel settore Z prima di entrare in campo, eppure prima Stefano Tacconi nel 1995 e poi Paolo Rossi nel 2004 hanno fatto dichiarazioni che vanno in direzione contraria. Con l’avvento di Andrea Agnelli la società bianconera ha iniziato a fare qualcosa per ricordare l’Heysel. C’è una sezione sulla tragedia nel museo dello Stadium e nel 2010 è stata celebrata una messa in ricordo delle vittime. Anche il prossimo 29 maggio ci sarà una messa, ma credo che si dovrebbe fare molto di più.

Eppure le colpe di quanto accaduto non sono certo della Juventus...

Esatto, sono degli hooligans del Liverpool, delle autorità e della polizia belga e, non dimentichiamolo, dell’UEFA, come dimostrano le sentenze emesse dal tribunale di Bruxelles.

Chi ti ha aiutato di più a scrivere il libro?

Otello, che purtroppo dall’anno scorso non c’è più, è stato senza dubbio di un’importanza fondamentale, era il mio Omero che mi ha trascinato all’interno di quel dramma. Ma non vorrei dimenticare Daniel Vedovatto, avvocato italo-belga e all’epoca consulente dell’ambasciata italiana a Bruxelles, che nella causa si è battuto contro principi del foro assoldati dal governo belga, dall’Uefa e dagli hooligans inglesi e che mi ha dato una grossa mano per redigere l’appendice del libro dedicata agli atti processuali. Vedovatto è convinto che, visti i mezzi a disposizione all’epoca e nonostante precedenti giurisprudenziali non favorevoli, giustizia sia stata.

Che cosa stai facendo in queste settimane che precedono l’anniversario?

Molte presentazioni del libro un po’ in tutta Italia; in particolare, nella settimana dell’anniversario, in varie località del Piemonte ne ho anche 3-4 al giorno! Nelle scuole superiori incontro ragazzi che nel 1985 non erano nemmeno nati. È importante spiegare loro che cosa ha voluto dire quella tragedia e anche che cosa voglia dire andare allo stadio, vivere il momento della partita nella maniera più giusta e corretta possibile. Questa esperienza mi sta arricchendo molto e sono molto rincuorato dalla reazione dei ragazzi. In una scuola di Bologna hanno apprezzato così tanto l’incontro che mi hanno chiesto di tornare nel giro di un mese.

Come vivono il ricordo i tifosi della Juve?

In maniera non del tutto omogenea. Tanti ultrà criticano il gesto di aver alzato la coppa. C’è un gruppo che si chiama Nucleo1985 proprio in memoria dell’Heysel. Però altri la pensano in maniera differente e purtroppo spesso ci sono polemiche che io ritengo a dir poco sterili, come quando la rinata Associazione dei parenti delle vittime ha chiesto di ritirare (simbolicamente) la maglia numero 39 della Nazionale e tanti juventini hanno criticato questa iniziativa.

Quale lezione ha tratto il mondo del calcio in generale e il calcio italiano in particolare dalla tragedia dell’Heysel?

Il calcio italiano non ha imparato nulla. Nei nostri stadi si è continuato a morire e nemmeno le norme emergenziali hanno risolto un granché. La mancata memoria di quell’evento così luttuoso è la cartina di tornasole di un movimento malato, dove non c’è cultura sportiva, tutto è subordinato alle vittorie e le società continuano a essere ricattate dalla parte negativa del mondo ultrà, i «fucking idiot» per intendersi. Nonostante la richiesta di una memoria condivisa da parte dei parenti, in un’Italia spaccata tra antijuventini e juventini i cori a dileggio dei morti dell’Heysel ci sono sempre stati. Ci hanno messo 29 anni prima di sanzionare gli ultrà della Fiorentina che li facevano (cioè la società, n.d.r.), tanto per farti un esempio.

Invece in Inghilterra le cose sono cambiate...

Sì, è vero, ma non dopo l’Heysel. C’è voluta un’altra tragedia, quella dell’Hillsborough, quando 96 tifosi del Liverpool morirono schiacciati in una curva dello stadio dello Sheffield Wednesday, per far sì che anche loro imparassero la lezione.

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La storia Il 29 maggio 1985 a Bruxelles si giocava la finale di Coppa dei Campioni

Heysel, quando la furia hooligan

travolse l’innocenza del calcio

Trent’anni fa la tragedia con 39 morti prima di Juve-Liverpool

32 italiani, 4 belgi, 2 francesi e un irlandese persero la vita travolti per l’assalto al settore Z

La partita La gara si giocò lo stesso i bianconeri vinsero 1-0 con un gol di Platini

di MARCO CIRIELLO (IL MATTINO 25-05-2015)

Quella partita no, non fu un mattino del mondo, come diceva Georges Haldas delle grandi sfide, perché l’imprevisto al quale si aprì fu una tragedia. Chi aspettava un incontro di calcio, trovò la sera della fine. Si mossero a onde, come il mare, battendo e ribattendo, e invasero il settore Z, occuparono lo spazio e l’aria, volevano prendersi la curva, spinsero così forte che venne giù tutto e a chi guardava uscì il sangue dal naso. Erano gli hooligans, e l’Europa li scoprì nel peggiore dei modi, pagando col dolore italiano la sua ingenuità. Calarono con la velocità dei terremoti, la violenza dei campi di battaglia, l’indifferenza che ha il male quando governa le masse, precipitarono sulla normalità delle vite che consideravano il calcio una festa, e scoprirono che invece, no, non lo era più. Il viaggio che doveva portare a un successo sportivo divenne una tragedia. La gioia di 39 persone normali (32 italiani, 4 belgi, 2 francesi e un irlandese) si trasformò in un incubo. Tutto il carico di una grande partita si sciolse negli ultimi respiri di chi rimase per sempre a Bruxelles, allo stadio Heysel.

Il 29 maggio del 1985, Juventus e Liverpool si giocavano il trono dell’Europa calcistica, e nessuno pensava che quella sera sarebbe cambiato il calcio, il modo di andare ai campi, la perdita dell’innocenza. Trent’anni dopo è ancora difficile capire come fu possibile che l’Uefa avesse scelto uno stadio di cartone per una finale di Coppa dei Campioni, che ci fosse un numero esiguo di forze dell’ordine, e che il loro comportamento potesse essere così ottuso, cieco, impietoso. Che l’organizzazione fosse carente da ogni punto di vista. Che non ci fossero soccorsi adeguati e venisse meno la pietas. Tutto questo, più seicento feriti, fu l’Heysel, poi anche una partita di calcio, con un rigore procurato da Boniek e trasformato da Platini. Vinse la Juventus, in molti gioirono nella confusione delle mancate verità, alzarono la coppa e ci girarono il campo, dopo, con gli anni, e le immagini, arrivarono le scuse, cominciarono i pentimenti e la vergogna. Una via crucis che faceva prendere coscienza a tutti del dramma. Ma quella sera di maggio era carica di ordini e contrordini, basta vedere le immagini, sentire la voce di Bruno Pizzul che commentò con «tono il più neutro, impersonale e asettico possibile», leggere il ritardo di una ora e mezza sul fischio d’inizio, e l’assurdo comando di giocare come se niente fosse, come se non ci fossero morti, in un imperativo che aggiungeva assurdità al sangue, normalità a una situazione che non lo era, ordinarietà a una manifestazione che non aveva più nulla di sportivo, come scrisse nel sottopancia la tv austriaca mandando senza audio le immagini dell’incontro.

Il Belgio per l’Italia è sempre stato lutto più che luce, prima speranza di lavoro poi morte. Nessuno pensava che dopo Marcinelle si potesse ancora piangere collettivamente da quelle parti, che si dovesse ancora pagare il pizzo alla morte. Ma esiste una geografia pure della sofferenza, con luoghi che hanno promontori di dolore e tunnel e pozzi e tombe sempre per gli stessi. E anche oggi che l’Heysel è stato storicizzato, che è diventato molti libri e persino un film – “Appuntamento a Liverpool” di Marco Tullio Giordana – rimane ancora intatta la ferita da sopruso subito, l’ingiustizia protratta negli anni e delle lievi condanne e per pochi, anche se l’esclusione delle squadre inglesi e l’altra tragedia – quella di Hillsborough – hanno portato la normalità nell’Inghilterra del calcio. Non ci sarà mai normalità, purtroppo nelle famiglie coinvolte nel lutto, le ha raccontate Francesco Caremani, in “Heysel, le verità di una strage annunciata” (Bradipolibri) partendo dalla storia di Roberto Lorentini, un medico, che nonostante si fosse salvato dalla prima carica degli inglesi, tornò indietro per soccorrere un bambino ferito: Andrea Casula (11 anni), e morì schiacciato dalla seconda carica degli hooligans mentre era a terra e gli stava praticando la respirazione artificiale.

Fu una sera senza pietà, si apparecchiò un intero stadio alla morte e poi si fece finta di niente. Si giocò una partita che pareva indifferente alla storia, ma la colpa maggiore era e resta dell’Uefa che in nome di una possibile guerra civile mandò in campo le squadre come clown, nella speranza – poi vana – di soprassedere, lasciò trapelare il meno possibile quasi che si potessero nascondere le storie di chi era morto e trasformare i testimoni in fantasmi. Nel caos si scelse il peggio, bisognava pensare in fretta e si pensò male. Per tutti, valgono le parole di Michel Platini, che nel suo libro “Parliamo di calcio” ha raccontato il suo stato d’animo: «La morte di uno spettatore francese, un mio tifoso venuto a vedermi, mi ha ossessionato. Lui era il riassunto di tutti gli altri morti. Lui era per me, prima dell’Heysel, un tifoso come tanti che avevo conosciuto, quelli che mi parlavano, che mi chiedevano gli autografi e posavano con me nelle fotografie, ma all’Heysel era diventato il volto del dramma. Il volto della mia colpa, anche». Quei volti non si sono sbriciolati, grazie alla memoria ostinata di quelli che hanno compreso la tragedia, patito la perdita, ed hanno smesso di concepire il calcio come contrapposizione tra parti, scontro tra diversi ma l’hanno ricondotto alla semplicità del gioco.

 

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‘If there had been no violence,

there would’ve been no disaster’

The game’s landscape may have changed beyond all recognition, but football should still pause for thought.

by RICHARD SUTCLIFFE (THE YORKSHIRE POST 25-05-2015)

“The past is a foreign country. They do things differently there.”

So wrote LP Hartley at the start of his 1953 classic The Go-Between, but the novelist’s words have proved apt in many contexts, including football.

In a month that marks the 30th anniversary of not only the Bradford fire disaster but also Heysel and a riot involving Leeds United fans that ended with a teenager losing his life, Hartley’s words seem almost prescient when it comes to how differently things are done today compared to the past.

Certainly, should any supporter under the age of 35 be whisked back in time, Marty McFly-style, to a month that brought shame on a game that, by then, was far from beautiful then he or she would surely see little that was familiar.

Instead, the sight most likely to meet those disbelieving eyes from a very different era would be of hooligans running amok on an almost weekly basis at grounds that, with the odd exception, were a crumbling mess.

Attendance levels would also be something of a shock. White Hart Lane, for instance, was almost 33,000 under capacity for the visit of Sheffield Wednesday in May, 1985.

Six days before a crowd of 15,679 watched the Owls lose 2-0 at Spurs, a hardy 13,789 were at Stamford Bridge to see Chelsea claim another three points en route to finishing sixth in the old Division One.

Today, both fixtures would be sell-outs, as surely would a Merseyside derby. And yet on May 23 that year, just 15,045 were sprinkled around Goodison Park as champions Everton beat Liverpool, by then through to the European Cup final and all but guaranteed to finish the season as runners-up in the league.

Matters did not improve the following season, either, with Spurs and Aston Villa both having sub-10,000 attendances in the top flight.

Another aspect of football 30 years ago that would surely render speechless any modern day fan able to travel back in time would be television coverage of football.

Put bluntly, there wasn’t any as the 1985-86 campaign got under way. An inability by the TV companies and the Football League to strike a deal meant football disappeared off the nation’s screen for seven months.

That meant no live games and no highlights, quite a contrast to today’s wall-to-wall coverage of everything from the Premier League through to the Conference and most leagues in Europe.

A deal was finally struck – for what can now only be seen as a paltry £1.3m – in December, meaning the blackout ended when the BBC cameras were at Selhurst Park early in the New Year to screen Charlton Athletic, at the time lodging with Crystal Palace, host West Ham United in the FA Cup.

It would be the first of only 13 League and Cup games shown live that season, again something that the modern fan would find hard to fathom.

What those time travellers from 2015 would also find very strange is how football fans were regarded as little more than pariahs by not only the rest of society but also the Government. And it was the events of May 29, 1985, in the Belgian capital of Brussels that cemented that belief.

Thirty nine spectators died following a stampede at one end of the Heysel Stadium ahead of the European Cup final between Liverpool and Juventus.

The stampede, caused by Liverpool supporters in one section of the terrace trying to attack Juventus fans in a supposedly neutral area next door, was typical of the time.

Hooliganism had been rife all season in the Football League and few grounds had remained untouched by what the rest of Europe had dubbed “the English disease”.

What made trouble turn to tragedy in Heysel, however, was that the Juventus fans, panicked by the charge from the Liverpool section, fled towards a wall that then collapsed under the sheer weight of bodies.

For the next hour, bodies were being pulled from the rubble. As this was going on, trouble continued to rage as Juventus supporters, including one brandishing a gun, poured over the security fence at the opposite end to attack the English.

Chaos reigned until, finally, a semblance of order was restored. Incredibly, the final went ahead 90 minutes late. Juventus won 1-0 but, in truth, that day brought only losers.

Action was swift. Margaret Thatcher called an emergency cabinet meeting the following morning and also made it clear to the football authorities that all English clubs must be withdrawn from the three major European competitions.

This was duly done 24 hours later. A ban that would eventually last five years followed from UEFA, a far from knee-jerk reaction to a problem that the English had been exporting to the continent for more than a decade.

In the immediate aftermath of Heysel, a whole variety of reasons were put forward as to the cause. These ranged from the dilapidated state of a stadium that didn’t even meet guidelines laid down three years earlier by European sports ministers to ticketing, poor segregation and a policing operation that appeared flawed at every turn.

As much of a role as these factors may have played, however, the true reason why so many lost their lives was hooliganism. If there had been no violence, there would have been no disaster – no matter how rundown the stadium had become or how unprepared the local authorities seemed.

Thatcher, already appalled by the violence that had seen Millwall run riot in Luton two months before Heysel, insisted on further measures being brought in.

These included a ban on taking alcohol on football coaches or into the stadium. CCTV, then in its infancy, was also to be extended, while the Prime Minister also made clear her support for an identity card to be introduced to keep out the troublemakers.

That latter edict would not make it on to the statute book, the Hillsborough disaster four years later – and the subsequent inquiry by Chief Justice Taylor – saw ID cards fall by the wayside.

Despite these measures, the hooligans did not go away. Not initially, at least. But, in time, matters improved and football started to move towards a time when outbreaks of thuggery became the exception and not the norm.

This coming Friday will be the 30th anniversary of that awful night in Heysel. And while the game’s landscape may have changed beyond all recognition in the intervening years, football should still pause for thought and remember those dark, dark days. And pay grateful thanks that the game we still love today bears little relation to the often ugly beast it had become in the not too distant past.

 

Heysel proved last straw for authorities

Brussels awoke to a warm and sunny moming on May 29, 1985.

The city's Heysel stadium was to host its fourth European Cup final and the stage seemed to be set for a classic match.

Liverpool, the holders of the famous old trophy, were hoping to continue England's stranglehold on Europe's top prize, while Juventus were looking to make history by becoming the first club to lift the European Cup, UEFA Cup and European Cup-winners' Cup.

By nightfall, however, disaster had struck and 39 football supporters were dead. Thirty two of thosewere from Italy, the remainder being made up of four from Belgium, two from France and one from Northern lreland.

Two days later, UEFA announced an indefinite ban on all English clubs competing in their competitions and, in time, arrests followed. Fourteen English fans were eventually convicted of manslaughter and handed three-year sentences.

Three guilty verdicts followed in trials involving those officials who were supposed to guarantee the organisation and safety of the match.

Heysel, meanwhile, was closed after the disaster. The stadium was rebuilt at a cost of €37m and re-opened in 1995 'Stade Roi Baudouin'.

 

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Nessuno ha rimosso l'Heysel. Anche se tutti cercano di dimenticarlo. Soprattutto quelli che l’hanno vissuto, che erano lì, e che ancora lo soffrono: tifosi, giocatori, giornalisti, telecronisti, dirigenti. Il racconto della partita che finì prima di iniziare in un questo documentario che torna a Bruxelles e ripercorre le ore drammatiche di quel 29 maggio 85. Non solo la vigilia arruffata, non solo il crollo del muro nel settore Z, ma anche il dopo: il rientro delle bare, lo scambio di cadaveri, le polemiche, il processo, ma anche le sentenze, che danno solo un’ammenda a chi organizzò male l’evento. Niente vie di fuga, porte strette, almeno dieci uscite di sicurezza bloccate da lucchetti di cui nessuno trovò le chiavi, tre cancellate metalliche trasformate in trappola mortale tanto che i vigili del fuoco dovettero spezzare le catene con le cesoie per far passare i soccorsi.Parlano i testimoni di quella drammatica finale di Coppa Campioni. Paolo Rossi: «Non si sarebbe dovuto giocare. Non c’è da essere fieri di quella Coppa. Non rifarei quel giro di campo. 39 morti meritano rispetto». Marco Tardelli: «L’Inghilterra dopo l’Heysel ha fatto sparire gli hooligans, da noi invece gli ultrà ancora comandano. Il nostro calcio urla tolleranza zero, ma permette tutto». Antonio Cabrini: «Abbiamo giocato quella partita solo per motivi di ordine pubblico. Ci avevano detto che c’era un solo morto. Siamo responsabili perché non abbiamo avuto subito le dimensioni di quella tragedia, ma siamo stati anche noi vittime. Non abbiamo perso la vita, ma ci è stato rovinato un momento sportivo che poteva essere bello, il traguardo di una vita, e che invece ora è un ricordo doloroso e senza gioia». Bruno Pizzul, telecronista Rai di quella finale. ««Per me è stata una serata di imbarazzo e di difficoltà. Alcuni ragazzi mi chiesero di avvisare i loro genitori, ma io non potevo farlo, per riguardo alle altre famiglie. E ancora mi rammarico di non essere stato più severo con chi festeggiava».Parlano anche i sopravvissuti. Matteo Lucii, allora aveva poco più di 16 anni: «L’Heysel era uno stadio inadeguato. Mi sono ritrovato schiacciato da due file di persone. Non so come ho trovato la forza per rialzarmi, sopra avevo un peso di 250 chili. Dopo ho cercato un telefono, ma nessuno mi permetteva di chiamare». E Antonio Conti, papà di Giusy, 17enne che lì perse la vita. «Le ho lasciato la mano perché non volevo trascinarla come me, quando mi hanno travolto. Ho perso conoscenza e quando ho ripreso i sensi lei non c’era più. Era sotto una coperta, l’ho riconosciuta dalle scarpette»

di Emanuela Audisio

 

http://video.repubblica.it/sport/heysel-la-notte-del-calcio-1985-2015/201917/200974?ref=HRER3-1

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