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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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CALCIOSCOMMESSE/ DOMENICA A PALERMO TORNERÀ IN PANCHINA

Conte, il purgatorio è finito. I guai no

Scontata la squalifica di 4 mesi, il tecnico Juve deve ancora affrontare due inchieste penali

di ROBERTO SANGALLI (IL SECOLO XIX 07-12-2012)

CHISSÀ QUANTI messaggi avrà ricevuto ieri Antonio Conte. Tanti, tantissimi. Molti avranno voluto congratularsi per la bella impresa della Juventus in terra russa, altri avranno sottolineato il fatto che la partita con lo Shakhtar era l’ultima che il tecnico doveva guardare dal purgatorio di un gabbiotto televisivo. Mercoledì sera è terminata la squalifica inflitta a Conte nella vicenda del calcioscommesse: quattro mesi per omessa denuncia in relazione alla partita Albinoleffe-Siena nella stagione 2010-2011 quando il tecnico sedeva sulla panchina dei toscani. Domenica, a Palermo, tornerà in panchina.

Il messaggio più gradito? Forse quello che non ha ricevuto. Mittente, Zdenek Zeman, allenatore della Roma, da sempre acerrimo nemico dei bianconeri. Il testo, affidato ai microfoni della Rai: «Buon rientro, senza di lui la Juve ha fatto bene, ma lui può dare qualcosa in più alla squadra ».

Signora omicidi. Lo scorso anno nelle prime quindici partite di campionato la Juve di Conte aveva messo in cassaforte 31 punti, frutto di 8 vittorie, 7 pareggi e nessuna sconfitta. Quest’anno, senza Conte ma con Carrera prima e Alessio dopo in panchina, i punti raccolti nello stesso arco di gare, 15, sono stati addirittura 35. Arrivati grazie a 11 vittorie, 2 pareggi e 2 sconfitte. Anche il rapporto gol fatti-subiti è migliore. Un anno fa i bianconeri avevano segnato 25 reti subendone 11. Oggi ne hanno messo a segno 32 contro le 10 subite. Tutto meglio senza Conte.

La rabbia repressa. Quattro mesi passati dietro un vetro. Sarà un Conte ancora più furente quello che tornerà alla guida della squadra. Una rabbia alimentata dalle controverse sentenze della Disciplinare e del Tnas. «Sono innocente», ha scontinuato a urlare il tecnico della Juve. «Crediamo ciecamente in lui», gli ha sempre fatto eco il presidente Andrea Agnelli che non ha mai voluto sentir parlare di una sostituzione, neppure dopo le sentenze di primo e secondo grado quando i mesi di squalifica erano 10. E Marotta, il dg: «Ha pagato e sofferto per colpe non sue». E di chi allora? Antonio Conte è stato condannato per omessa denuncia. La partita in questione è Albinoleffe-Siena. Secondo il procuratore federale Stefano palazzi alcuni giocatori delle due squadre si incontrarono davanti all’albergo dove erano in ritiro i toscani. Con loro c’era anche l’allenatore in seconda del Siena Stellini, poi passato nello staff tecnico della Juve. E Conte? Non c’era ma secondo i giudici non poteva non sapere. Anche perchè il pentito Carobbio lo ha sempre messo nel mirino: «Sapeva tutto». La sentenza non ha cancellato i dubbi. E la rabbia di Conte è aumentata.

Fronti aperti. Ma insieme alla collera resta la paura. Archiviata la sentenza della giustizia sportiva Antonio Conte deve affrontare due inchieste penali. La prima è quella di Cremona dove la procura lo scorso 24 ottobre ha chiesto una proroga di sei mesi per indagare sul tecnico della Juve ma anche su Bonucci e Criscito e altre 30 persone tra cui Sculli e l’ex interista Bobo Vieri. La seconda è invece aperta a Bari. Nel capoluogo pugliese i pm stanno indagando su presunte combine effettuate nei campionati 2007-2008 e 2008-2009. Quelli nei quali Conte era allenatore. Attualmente il tecnico non è indagato ma figura solo come persona informata sui fatti. Ma nei verbali il suo nome compare spesso. Quanto basta, pare, per mettere nuovamente in moto la procura federale.

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EL PAÍS 07-12-2012

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IL | Dicembre 2012

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LA GUERRA JUVE-INTER E

LO SCUDETTO SBAGLIATO

di MARIO SCONCERTI (IL CALCIO DEI RICCHI | Baldini Castoldi Dalai editore 2012)

Il grande problema di questi ultimi anni di calcio è stato il rapporto tra Juventus e Inter. Tutto quello che ha portato il dopo-Calciopoli. Non è stata semplice rivalità sportiva, si è navigato in mezzo a un vero e proprio odio di principio. Gli uni contro gli altri, semplicemente per appartenenza. Molte volte il calcio ha prodotto situazioni simili, ma non situazioni come quella del dopo-2006, che resistono con forza tutt’ora. Quello scudetto è stato l’unico di un campionato tolto a una squadra e dato a un’altra. Non si è trattato di un responso solo sportivo, ma anche e soprattutto morale. All’Inter è stato dato uno scudetto per indegnità dell’avversario e per ovvie normalità proprie. Per avere lo scudetto della Juve non si richiedeva all’Inter un comportamento eroico, ma una normale onestà sportiva. E questa gli è stata in quel momento riconosciuta.

Allora tutto questo sembrò normale, perché evidenti erano le prove a carico dei dirigenti della Juve. C’erano intercettazioni telefoniche chiarissime. La stessa Juve non impiegò più di due ore a licenziare Moggi in diretta televisiva. Lo stesso Moggi non impiegò più dello stesso tempo per capire che era finito dentro un ingranaggio distruttivo inevitabile. Finì in quel momento un’epoca del calcio. Non eravamo ancora campioni del mondo, lo saremmo diventati due mesi più tardi. L’aspetto tecnico del calcio sembrò concludersi insieme all’aspetto politico. La Juventus aveva vinto gli ultimi due scudetti in modo netto. Ora veniva detto dalle telefonate che si era aiutata con quella che i tribunali della Repubblica hanno definito un’associazione a delinquere. C’era poco da discutere allora, c’è, nel merito, poco da discutere adesso. Moggi faceva il suo lavoro con metodi e solerzia che non erano né da regolamento sportivo né da leggi di questo Paese.

Dunque, nell’estate del 2006, tutto sembrava chiaro, i cattivi da una parte, i buoni dall’altra. Non a caso lo stesso legale della Juve chiese in pratica un patteggiamento al processo sportivo. Davanti alla possibilità concreta che la Juve fosse mandata in C1, l’avvocato disse che gli sarebbe sembrato corretta una sentenza che disponesse la retrocessione in B e una penalizzazione di una quindicina di punti. Cosa poi esattamente verificatasi.

In seguito la Juve ebbe ancora la possibilità di attaccare le sentenze che la condannavano. Si arrivò cioè a dover decidere se rivolgersi o meno al Tar. Questo avrebbe significato uscire fuori dalla giustizia sportiva per affidarsi a quella ordinaria. La conseguenza sarebbe stata mettere la Juve fuori dall’ordinamento sportivo. Il calcio è un club privato che ha leggi proprie. La loro importanza non supera quella del codice penale, ma pesa moltissimo sulla convivenza nel club. In parole povere, se vuoi rimanere a quel tavolo, è buona eleganza accettare le sue regole nel bene e nel male. Non è un principio di sola arroganza. Serve per poter andare avanti nel gioco e non fermarsi ad aspettare che la giustizia dello Stato decida. Il calcio si gioca ogni tre giorni, la giustizia impiega per ogni decisione almeno tre anni. È chiaro che serve un accordo di principio.

Tra leggi sportive e leggi dello Stato

Quando la Juve arrivò al punto finale, se scegliere le leggi dello Stato o quelle del calcio, preferì scegliere quelle del calcio, rimettendo le cose nella loro normalità e contribuendo a chiudere la ferita dello scandalo. Nel frattempo la Juve aveva sopportato la decisione più pesante della storia del calcio, cioè la revoca di due scudetti. Se allora parve inevitabile, subito dopo è cominciata a sembrare una decisione troppo dura. Due scudetti rappresentano il massimo della storia di grandi società come Fiorentina, Lazio o Napoli, praticamente quanto la Roma. Il danno era fortissimo ed evidente, di una durezza che non impiegò molto a divenire insopportabile.

Non solo, ma uno dei due scudetti revocati venne dato all’avversario diretto, a un’Inter arrivata terza nel 2006 e giudicata allora sopra le parti. Una figura candida di vittima designata.

Ripensare la sentenza

Credo sia l’ora di ripensare seriamente la sentenza. Tutto è prescritto, ma non il buonsenso. Con gli anni sono emersi fatti nuovi molto importanti che non possono non influenzare il giudizio. Sono state ascoltate centinaia di nuove intercettazioni telefoniche, si è riaperto il caso davanti alla giustizia sportiva. Il 4 luglio del 2011, nella sua requisitoria, il procuratore Federale, Stefano Palazzi, ha parlato esplicitamente di illecito sportivo per l’Inter e per Facchetti, allora presidente dell’Inter. Nelle sue motivazioni, Palazzi è stato molto chiaro e molto duro.

Scrive infatti che dai documenti «è emersa l’esistenza di una rete consolidata di rapporti, diretti ad alterare i principi di terzietà, imparzialità e indipendenza del settore tecnico arbitrale, rapporti instaurati in particolare fra i designatori arbitrali Paolo Bergamo e Pierluigi Pairetto (ma anche, in forma minore, con altri esponenti del settore arbitrale) e il presidente dell’Inter, Giacinto Facchetti».

«Dalle carte in esame e in particolare dalle conversazioni oggetto di intercettazione telefonica, emerge l’esistenza di una fitta rete di rapporti, stabiliti e protratti nel tempo, con l’obiettivo di condizionare il settore arbitrale».

«La suddetta finalità veniva perseguita sostanzialmente attraverso una fitta corrispondenza telefonica fra i soggetti menzionati alla base della quale vi era un consolidato rapporto di amicizia. Come evidenziato dal tenore particolarmente confidenziale delle conversazioni in atti».

«Assume una portata decisiva la circostanza che le conversazioni citate intervengano spesso in prossimità delle gare che dovrà disputare l’Inter e che oggetto delle stesse sono proprio gli arbitri e gli assistenti impegnati con tale squadra».

«In relazione a tali gare il presidente Facchetti si pone come interlocutore privilegiato nei confronti dei designatori arbitrali, parlando con essi delle griglie arbitrali delle gare che riguardano la propria squadra, nonché della stessa designazione della terna arbitrale interagendo con i designatori nelle procedure che conducono alla stessa individuazione dei nominativi degli arbitri da inserire in griglia e degli assistenti chiamati ad assistere i primi».

«In alcuni casi emerge anche l’assicurazione, da parte dell’interlocutore, d’intervento diretto sul singolo direttore di gara, come rivelato da alcune rassicurazioni che il designatore rivolge al proprio interlocutore, in cui si precisa che l’arbitro verrà predisposto a svolgere una buona gara. O, con uguale significato, che è stato preparato a svolgere una bella gara. O ancora, affermazioni del designatore volte a tranquillizzare il presidente Facchetti sulla prestazione dell’arbitro, nel senso che gli avrebbe parlato lui o che gli aveva già parlato».

In un caso addirittura, il designatore arbitrale, nel tentativo di tranquillizzare il proprio interlocutore e sedarne le preoccupazioni sulle tradizioni negative della propria squadra con un determinato arbitro, afferma che «questo arbitro è stato avvertito e sicuramente lo score dell’Inter sotto la sua direzione registrerà una vittoria in più in conseguenza della successiva gara di campionato».

Continua Palazzi: «Tale capacità di interlocuzione in alcuni casi diventa vera e propria manifestazione di consenso preventivo alla designazione di un arbitro e rappresenta un forte potere di condizionamento sui designatori arbitrali, fondato su rapporti di particolare amicizia e e confidenza che il presidente Facchetti può vantare nei confronti degli stessi designatori. E che trovano la loro concretizzazione espressiva nell’effettuazione anche di una cena privata con Bergamo e nello scambio di numerosi favori e cortesie (elargizione di biglietti e tessere per le gare dell’Inter, di gadget e borsoni contenenti materiale sportivo della squadra, etc…) e non meglio precisati “regalini”».

Palazzi su Moratti

Per quanto riguarda invece Massimo Moratti, il giudizio di Palazzi è meno grave. «Comunque informato della circostanza che Facchetti avesse contatti con i designatori, come emerge dalle telefonate commentate, nel corso delle quali è lo stesso Paolo Bergamo che rappresenta tale circostanza al suo interlocutore (…). Ne consegue che la condotta del tesserato in esame, Moratti, in considerazione dei temi trattati con il designatore e dalla frequenza dei contatti intercorsi, appare in violazione dell’articolo 1», (cioè condotta antisportiva, non illecito), «sotto i molteplici profili indicati».

Come noto, a Palazzi non fu possibile portare avanti la sua durissima accusa perché i fatti erano già prescritti. Solo il Consiglio federale, cioè l’intero gabinetto di governo del calcio, avrebbe potuto riaprire il caso ma, poche settimane dopo, lo stesso Consiglio federale dichiarò la propria incompetenza.

Moratti rispose invece parlando di «un attacco grave e assolutamente inaccettabile». Disse: «Palazzi si sbaglia, non c’è nessun elemento nuovo. Stiamo giudicando quello che si era già visto e che altri avevano valutato poco consistente e poco ingombrante. Mi sembra di essere tornati nel clima che vivevano quando c’era davvero Calciopoli e nessuno sapeva o si faceva finta di non saperlo. Senza processo si può dire ciò che si vuole, ma io non l’accetto e l’Inter non l’accetta».

E ancora. «Considerare Facchetti come nelle accuse della Procura federale è offensivo, grave e stupido. I tifosi dell’Inter conoscono perfettamente Facchetti e lo conoscono perfettamente anche i signori che ci stanno giudicando».

Fatti nuovi

Ho riflettuto a lungo in questi anni su questa vicenda. Non ho perso il sonno, ma ho cercato comunque di capire. Sono arrivato alla conclusione che non è più giusta la soluzione trovata dal calcio. Non sto a rivangare tutta la storia, la do per conosciuta. Ma le dichiarazioni del procuratore federale sono la sintesi di fatti nuovi, mai ascoltati fino al 2006. Davanti a fatti nuovi bisogna capire se le vecchie verità resistono.

La risposta alla prima domanda è sì, le vecchie verità resistono. Qualunque accusa all’Inter non toglie niente alle verità delle accuse contro Giraudo e Moggi. La Juve è certamente colpevole attraverso i suoi dirigenti.

Ma nell’arringa di Palazzi non ci sono opinioni, ci sono dati. Facchetti parlava con i designatori, chiedeva di migliorare lo score con quel tipo di arbitro. Non conta che persona fosse Facchetti. L’ho conosciuto, era timido, introverso, certamente straordinario nel suo bisogno di calcio privato. Non stiamo discutendo l’onestà di Facchetti. Stiamo discutendo i suoi mezzi per combattere quella che l’Inter era convinta fosse la disonestà degli altri. Facchetti era convinto di doversi difendere da un gioco sporco, ma è evidente che alla fine non gli era rimasto altro che accettare le stesse regole.

Questo è il punto della storia: non ci sono innocenti. Ci sono semplicemente due colpevoli. Uno colpevole molto più dell’altro, ma due colpevoli.

Moratti dice: voi sapete chi era Facchetti, tutti sanno chi era. La risposta è sempre sì, tutti lo sapevamo. Ma per il rispetto che si deve alla sua figura non si può dimenticare che Facchetti continuava a parlare con i designatori arbitrali, che cercava di avere gli arbitri migliori, che andava a pranzi e cene con i vertici della categoria, che faceva loro regali, che chiedeva e otteneva di avere alla partita successiva l’arbitro che «certamente migliorerà il suo score con l’Inter». Questo è un puro inizio di illecito. Moggi faceva quasi certamente peggio, ma la regolarità di comportamento non si misura dal numero di errori, ma dall’assenza di quegli errori.

Perché i fatti nuovi dopo la prescrizione?

Palazzi non porta opinioni, porta dati. Il problema è semmai perché li porti così tardi, quando il caso è già in prescrizione. Si può discutere sulla differenza tra Facchetti e Moggi, sulla loro diversa statura morale, ma è dimostrato, dalle stesse telefonate che hanno incastrato Moggi, che Facchetti si difendeva commettendo lo stesso peccato. Ha cercato di portare all’Inter arbitri favorevoli alla causa dell’Inter. Non si può. Non è regolare. A torto o a ragione prefigura una lunga serie di illeciti.

Penso che Moggi sia stato il primo a muovere questo tipo di acque, ma devo anche prendere per buona la sua giustificazione. Moggi dice: lo facevo non per attaccare il sistema, ma per difendermi. Il Milan aveva Mediaset e le moviole da far vedere agli arbitri. L’Inter aveva Telecom e la sua televisione, la sua forza aziendale. Moggi si sentiva solo. Mi resta francamente difficile pensare a un Moggi in difesa e a una corazzata come la Juventus in balia della corrente, ma devo anche prendere atto delle novità che il tempo ha portato.

Non avrei per esempio nemmeno mai pensato che una società, una grande azienda, fosse capace di far pedinare i propri dipendenti, controllarne i tabulati telefonici. Invece è stato fatto dall’Inter attraverso Telecom, la società di Tronchetti Provera. E proprio in quel periodo. Tanto che il 4 settembre del 2012 il tribunale di Milano ha condannato l’Inter al pagamento di un milione di euro a favore di Bobo Vieri per violazione della sua privacy. L’Inter, durante mesi compresi fra il 2005 e il 2006, lo aveva fatto appunto pedinare e aveva controllato i tabulati del suo telefono. Aveva in pratica messo sotto controllo la sua vita privata senza averne alcun diritto. Una spavalderia compiuta attraverso la sicurezza privata della Telecom e costata appunto un milione.

Si possono trovare cento spiegazioni per questo comportamento societario, ma resta illegale. Non lo dico io, lo dice il codice penale di questo Paese. Lo dice la sentenza di primo grado contro l’Inter. Esattamente come una sentenzia di primo grado dice che Moggi è colpevole di associazione a delinquere legata al calcio. Capisco la diversità delle colpe, ma sono due modi di comportarsi che prevedono una discreta mancanza di rispetto dei diritti degli altri. In sostanza, quello che voglio dire è questo: chi fa pedinare i propri tesserati, non è straordinario che telefoni al capo degli arbitri. C’è la stessa disinvoltura.

A favore di Moratti c’è una sua dichiarazione di poco tempo fa. In fondo a un’intervista delle sue, cioè di pochi secondi in strada, ha detto che «in quel periodo molto cose furono sbagliate». Non era chiaro a cosa si riferisse ma, conoscendo la correttezza di fondo di Moratti, la stessa che mi aveva meravigliato fosse andata in vacanza nel caso Vieri, tendo a credere si riferisse proprio ai pedinamenti.

Il diritto di essere illegali

Molti dicono che l’Inter aveva diritto di pedinare Vieri perché il ragazzo andava in discoteca e stava dimenticando la severità della vita di un atleta. Vieri forse sbagliava, ma non può essere corretto dimostrarlo attraverso un atto illegale. Si commette lo stesso errore imputato al giocatore, il mancato rispetto delle regole. Vieri era probabilmente un lavativo, si faceva abbastanza i fatti propri. Ma se non lavorare come si dovrebbe è un reato morale, pratico, controllare chi lavora male pedinandolo è invece un reato ufficiale, penale. Così come pagare chi lo pedina. Questa è una certezza. Altrimenti siamo in una giungla dove ognuno fa solo quello che gli conviene. Non esiste morale che non sia la propria convenienza.

L’Inter ha avuto uno scudetto dalla Federcalcio non perché era più forte degli avversari e un errore tecnico l’aveva privata del risultato. Lo ha avuto perché era la prima in classifica tra gli innocenti. Gli atti ora dimostrano che questa innocenza, quantomeno, era discutibile. Certamente non era da premiare. Perché questo ha avuto l’Inter: un premio. L’Inter non aveva i requisiti per essere altrettanto colpevole della Juve, ma non aveva nemmeno quelli per essere premiata.

È stato commesso un errore che dovrà essere riparato. Il fatto che tutto sia in prescrizione non può coprire uno sbaglio ormai evidente. L’Inter non ha nulla da pagare, ma non può incassare. Tutto qui.

Capisco e conosco le argomentazioni dei tifosi, ne conosco la parzialità. Facchetti era una persona onesta, evidentemente costretto dall’avversario a usare metodi diretti. E li usava, lo dicono i fatti. A seconda dei punti di vista, può anche essere considerato un eroe: quello che faceva non era a fini personali, era per la società. Però lo faceva. E non era regolare. Dovrà pur contare qualcosa, questo. Non possiamo negare i fatti a seconda della nostra fede. Possiamo dare una gerarchia alle colpe. Diciamo che la Juve da uno a dieci commetteva colpe da 9 e che l’Inter commetteva colpe da 3. Imparagonabili, tre volte più leggere, ma commetteva colpe, non poteva avere il Premio.

Il destino degli Altri

Si può dire: così facevano tutti. Non è vero, non tutti risultano coinvolti in questa storia. Anzi, questo è il problema vero della moralità nelle intercettazioni di Facchetti. Si parlava di arbitri che favorissero l’Inter non contro la Juve, che era l’avversario naturale, ma contro chiunque. Chi paga i danni di questi chiunque, dei terzi, dei quarti, dei quinti coinvolti nella storia, insomma: delle altre squadre?

Siamo sempre stati abituati a vedere Calciopoli come uno scontro tra Juve e Inter, ma i veri danneggiati erano gli altri, quelli che rispettavano le regole e non parlavano con gli arbitri. Quando, come dice Palazzi in dichiarazioni ufficiali, Facchetti chiedeva un buon arbitro per una partita contro la squadra x, chi era quella squadra? Quale danno ha subito per rimettere a posto lo score di quell’arbitro con l’Inter? Quella era la vera danneggiata, chiunque fosse. Non la Juve, che infatti si difendeva da sola.

Il vero problema del calcio di questi anni va in sostanza ribaltato due volte. Una sul concetto di scudetto-premio, che non regge più in base ai fatti in mano alla stessa Federcalcio. L’altra perché fino a oggi si è discusso soltanto su chi fosse meno colpevole tra Juve e Inter, dimenticando che Juve e Inter erano comunque entrambe colpevoli. Il problema vero è: che tipo di danni hanno subito gli innocenti dalla colpevolezza di Juve e Inter? Contro chi arbitravano gli arbitri? Fino a oggi abbiamo solo considerato a favore di chi.

Le decisioni di Guido Rossi

Nel 2006 Guido Rossi premiò l’Inter a scapito della Juve. Una situazione molto grave fu gestita in cinquanta giorni come forse meglio non si sarebbe potuto. È vero che Guido Rossi era interista, ma pensare abbia commesso irregolarità per favorire l’Inter contro la Juve è come ammettere che siamo tutti un popolo di ladri sciocchi. Non è vero, ognuno è quello che dice la sua storia. La storia di Guido Rossi non è mai stata quella di un ladro, tantomeno sciocco. Non sono sotto accusa i cinquanta giorni di Guido Rossi, ma tutti i mesi dopo, gli anni successivi. Sono in discussione le migliaia di intercettazioni successive. Possiamo far finta che non esistono solo perché il tribunale di Napoli, concentrato su Moggi, non le ha ritenute importanti?

Le nuove intercettazioni non hanno portato opinioni. Non hanno chiesto giudizi morali su Facchetti, tutti sappiamo che uomo fosse. Hanno portato fatti. Ora sappiamo che Facchetti faceva l’interesse dell’Inter cercando di predisporre gli arbitri verso un risultato favorevole. È inutile, ogni volta che si parla di Facchetti, tornare ai massimi sistemi. Facchetti li valeva. Ma telefonava ai designatori. Decidiamo quanto vale questa evenienza: un punto, due, cinque in meno nella scala morale? Non lo so, non mi azzardo. Però Facchetti lo faceva, secondo me ne aveva anche il dovere, ma così facendo si metteva fuori della legalità sportiva.

Questo è il problema di fondo: non si può essere sempre giusti e bravi. Gestire il potere significa avvicinarsi molto alla soglia dell’errore. Moggi quella soglia l’aveva certamente superata, ma Facchetti lo inseguiva, non cercava un altro mezzo, era sulla stessa soglia. Non è disonestà, credo sia assuefazione. Mezzi per una guerra che era certamente in corso. E qui si ritorna al punto vero: due colpevoli non fanno un’innocenza. Fanno solo due colpevoli.

Una cosa dunque appare evidente in mezzo a questo cumulo di macerie: lo scudetto andava tolto alla Juve ma non andava consegnato ad altri. Lo scudetto è un fantastico premio: come si fa a premiare chi commetteva errori molto simili alla società a cui è stato tolto lo scudetto? Sinceramente non lo so.

Conclusione

Si può uscire da questo corridoio lungo, stretto e non molto luminoso? Il governo della Federazione si è detto incompetente per paura di cause civili da parte di qualcuno dei soggetti coinvolti. Come può una Federazione sentirsi incompetente davanti a una denuncia del proprio ufficio inchieste? Anche questo è singolare. Da parte sua l’Inter si è tenuta la prescrizione dicendo che non aveva niente da cui difendersi. Resta però il problema di chiarezza.

Se si vuole, il caso può essere riaperto. I fatti nuovi sono abbondanti. Ed è evidente che c’è qualcosa che stride. Non si deve decidere ancora se la Juve è stata innocente o colpevole. La Juve era colpevole, Moggi e Giraudo lo erano. Hanno pagato, stanno pagando. Punto e basta. Né si deve decidere l’innocenza dell’Inter che infatti non è accusata di niente. Bisogna solo rispondere a una domanda: l’Inter, quell’anno, meritava uno scudetto in premio? Secondo me no, ma io non conto niente. Posso solo chiedere che finalmente a rispondere sia il Calcio.

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Napoli, sarà penalità

per le scommesse

Rischia fino a 2 punti

Lunedì comincia il nuovo processo sportivo: l'ex Gianello

patteggia e inguaia il club, che ora studia le contromosse

di VALERIO PICCIONI (GaSport 08-12-2012)

Meno due all'inizio del nuovo processo calcistico di scommessopoli e si fa strada quella che ormai da impressione è diventata certezza: la richiesta di patteggiamento di Matteo Gianello — ma la situazione non sarebbe cambiata comunque a meno di un'inimmaginabile proscioglimento — porterà come conseguenza automatica la penalizzazione del Napoli per responsabilità oggettiva. Sull'entità della sanzioni, invece, siamo ancora al bivio. Se il club azzurro opterà per il patteggiamento, la zavorra sarà di un solo punto. Altrimenti, è scontato che si arrivi a due.

Attesa Queste sono ore comunque febbrili per le difese che preparano il processo. Quella di Gianello, però, è una strada obbligata. Lui ha confessato la tentata (ma non portata a termine) combine di Samp-Napoli davanti alla giustizia ordinaria, confermandola pure di fronte agli inquirenti sportivi. Di qui la scelta del patteggiamento per limitare i danni. Diverso è lo scenario per quanto riguarda l'atteggiamento difensivo della società di De Laurentiis (nel processo rischiano anche Gianluca Grava e Paolo Cannavaro, deferiti per non aver denunciato la presunta «proposta» del compagno di squadra, pur rifiutandola). Da una parte c'è uno sconto immediato. Dall'altra i due punti, ma anche la possibilità di verificare se nel seguito del percorso giudiziario ci possa essere la chance di cavarsela con una maxi-multa senza riflessi sulla classifica. Dopo la Disciplinare, infatti, l'Appello sarà di competenza della Corte Federale del calcio. Difficile che in secondo grado si smentisca la Disciplinare in modo così clamoroso. Diverso è il discorso sul terzo grado, quel Tnas che nelle ultime settimane si sta specializzando in pronunciamenti «innocentisti» che hanno cancellato, o comunque ridimensionato, diverse sentenze sul calcio scommesse. Questa potrebbe essere la tentazione del Napoli: evitare il patteggiamento come questione di principio, sperando che i 2 punti siano restituiti nell'ultimo tratto del percorso. Immaginare, invece, che la Disciplinare possa dare in prima persona un colpo alla responsabilità oggettiva, facendo giurisprudenza sportiva con una sentenza storica con sanzioni solo pecuniarie, è davvero molto faticoso. A quel punto si tratterebbe di un provvedimento «liberi tutti» che porterebbe una grandinata di ricorsi delle società già punite nei precedenti processi.

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Il caso Deferimento della Procura federale

«Tollerò le violenze

dei tifosi»: processo

per la Juve Stabia

Calciatori minacciati nel 2009:

la società teme una penalizzazione

di GAETANO D’ONOFRIO (IL MATTINO 08-12-2012)

Castellammare di Stabia. Il fulmine a ciel sereno alla vigilia di una delle gare più importanti del campionato, a Terni. A rompere la “calma apparente” che tanto preoccupa Piero Braglia, giunge il deferimento da parte della Procura federale in merito all’inchiesta “Golden Gol”, che accende, e non poco, l’ambiente gialloblu. Accusati Roberto Amodio, ex direttore sportivo, e Franco Manniello, presidente del club nel torneo 2008-2009, entrambi rei di “non aver ostacolato l’organizzazione da parte di alcuni esponenti della tifoseria locale di più azioni dirette all’intimidazione ed alle minacce nei confronti dei calciatori, poste in essere dal 29 marzo al 5 aprile 2009 (data del derby con il Sorrento, per il quale è stata acclarata da tempo la combine), con la conseguenza che a seguito di tali azioni si è determinato l’allontanamento dalla squadra di alcuni tesserati».

Il riferimento all’episodio accaduto la sera del 29 quando, al ritorno della squadra dalla trasferta di Pistoia, i calciatori presenti furono invitati a togliere le divise sociali, ed alla risoluzione del contratto, nelle settimane seguenti, dei calciatori Gerardi, Cristea e Biancolino (Radi era già andato via in precedenza). «Non capisco cosa vogliono ancora – laconico il commento di Amodio, che intanto sta scontando una squalifica di tre anni -, quella sera c’era anche la polizia al campo, cosa avrei dovuto fare? Basterebbe sentire i calciatori interessati per capire come si sono svolti i fatti... Resto allibito. Mi dispiace, ancora una volta, essere tirato in ballo per colpe non mie. Vedrò nelle sedi competenti di spiegare ancora le mie ragioni».

Tuona, invece, il patron Manniello: «Io non capisco proprio cosa vogliano da noi. Forse stiamo dando fastidio a qualcuno? Essere deferito per cosa? Io quella sera non ero neppure a Castellammare, cosa avrei dovuto fare? E poi c’erano le forze dell’ordine presenti. Come sempre abbiamo fiducia nei nostri legali, faremo valere le ragioni della verità». A far tremare i tifosi soprattutto il deferimento della Juve Stabia «a titolo di responsabilità diretta e oggettiva con riferimento ai fatti imputabili al proprio presidente e legale rappresentante pro tempore, nonché per i fatti imputabili al proprio direttore sportivo Amodio Roberto». A rassicurare l’ambiente interviene l’avvocato Eduardo Chiacchio, impegnato in questi giorni nella vicenda del deferimento dell’ex portiere Gianello, che seguì la vicenda anche lo scorso anno: «Siamo consapevoli della severità del deferimento, la società è stata chiamata in causa in via diretta e oggettiva, ma per quanto riguarda la squadra mi sento di rassicurare i tifosi, la sentenza non intaccherà l’aspetto sportivo. Non ci saranno penalizzazioni per queste contestazioni. Per quanto riguarda i tesserati, poi, non conosco bene la questione di Amodio, essendo stato difeso da un altro legale. Quanto a Manniello, è certo che lui fosse a Milano con la famiglia, e su questo punteremo sicuramente in sede di dibattimento».

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La fabbrica nel pallone

Una raffineria rischia la chiusura insieme alla squadra aziendale

A Petit-Couronne, in Francia i lavoratori della Petroplus vicini alla

disoccupazione. La loro lotta e l’impegno per la società dilettantistica

di FRANCESCO CAREMANI (l'Unità 08-12-2012)

PETIT-COURONNE È UNA PICCOLA CITTÀ CHE SI AFFACCIA SULLA SENNA, ALLE SPALLE ROUEN DAVANTI LA MANICA. In Normandia la gente è tosta, per storia e dna, qui la sostanza viene sempre prima della forma, ma il 16 ottobre scorso la messa in liquidazione della raffineria Petroplus (gruppo svizzero) ha segnato un punto di non ritorno. «Era un martedì e la notizia è arrivata come un colpo alla testa, ho pensato che per noi era finita, è stata molto dura – racconta Mohammed, operaio e calciatore - Ma la sera sono andato lo stesso all’allenamento, non volevo rimanere solo, volevo parlare, partecipare. Ero così nervoso che mi sono infortunato».

A Petit-Couronne, infatti, dal 1971 gli operai della raffineria hanno una squadra di calcio che nel ’73 riuscì a conquistare i sedicesimi di finale della Coppa di Francia. Lo scorso 28 aprile i dilettanti del Quevilly hanno perso la finale di coppa contro l’O. Lione per 1-0, dopo aver eliminato il Rennes e l’O. Marsiglia: due città attaccate, identica razza, stessa stoffa.

Oggi il Cocer Petit Couronne è ultimo in classifica nella Promotion d’Honneur della lega normanda con zero vittorie: «Questa è la terza generazione di calciatori – racconta Dominique Sentis, operaio e presidente della sezione sportiva della raffineria –. Andiamo allo stadio (Marcel-Ragot, ndr) per ritrovarsi, lo sport ci permette di reggere il colpo, è un surrogato».

La raffineria a Petit-Couronne è nata nel 1929 con Jupiter, nel 1948 passa al gruppo anglo-olandese Shell che dopo sessant’anni la vende agli svizzeri di Petroplus. Nel 2011 l’azienda annuncia il taglio di 120 posti di lavoro e nel gennaio di quest’anno è stata messa in amministrazione controllata. Il 16 dicembre scade il contratto con la Shell che riforniva la raffineria di petrolio grezzo, la chiusura definitiva è vicina.

Quando giocano il vero spettacolo è nelle tribune con Yvon Scornet, portavoce dei sindacati, che si è battuto davanti ai ministeri competenti per la sopravvivenza dell’azienda. Con lui c’è anche Joël Bigot, vice sindaco di Petit-Couronne: «La Petroplus paga al comune 850. 000 euro d’imposta patrimoniale, se verranno a mancare questi soldi dovremo interrompere i servizi pubblici o aumentare le imposte locali», senza dimenticare i 480 lavoratori che perderanno il posto e le ripercussioni sulle loro famiglie. Joël Leloup, ex giocatore di calcio e rugby, ha dato 35 dei suoi anni alla Shell ma continua ad andare al campo: «L’ambiente è familiare, è un piacere stare insieme ed è per questo che sono ancora nel comitato organizzatore. Oggi gioca mio figlio Johan (un omaggio a Cruijff, ndr) e spero che faccia meglio di me».

Non stiamo parlando di una fucina di campioni ma di amici: «Lo sport ci permette di non perdere la testa - sottolinea Dominique Sentis –, di canalizzare la rabbia. Anche se non sappiamo bene quale sarà il nostro futuro intanto ci facciamo delle gran sudate». Dopo gli allenamenti e le partite i giocatori affollano il bar, bicchieri di birra e whisky scorrono tra i tavoli, qualcuno guarda sul cellulare cos’ha fatto il Rennes. Guillaume Bréant, allenatore in seconda, voleva essere “shellista” come suo padre e suo nonno, pensava a un lavoro sicuro dentro un grande gruppo, ma la fine è vicina e con la raffineria potrebbe sparire anche la squadra di calcio: non è sicuro che quello che è in cassa basterà per arrivare alla fine della stagione.

Arnaud Montebourg, ministro del Rilancio produttivo, ha in mano il dossier Petroplus e la possibilità che la raffineria riprenda a funzionare grazie a un fondo d’investimento libico. Il futuro di Petit-Couronne e della sua gente si deciderà ai calci di rigore.

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SIGLATO L’ACCORDO

Il Mecs entra in tutte le scuole

Rivera: Un risultato importante

grazie al sostegno del Ministero

di ETTORE INTORCIA (CorSport 08-12-2012)

ROMA - Il Mecs (Movimento per l’etica nello sport) entra ufficialmente in tutte le scuole d’Italia: dopo le prime edizioni pilota del concorso “SegnalEtica”, che inizialmente hanno visto partecipare solo alcune regioni, da quest’anno l’iniziativa coinvolgerà tutti gli istituti secondari di primo grado (le scuole medie, per intenderci) d’Italia. L’accordo è stato siglato ieri presso il Miur, il ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, alla presenza di Gianni Rivera, presidente del Mecs, e della dott.ssa Giovanna Boda in rappresentanza del ministro Profumo. La convenzione avrà durata triennale: gli studenti delle scuole medie potranno partecipare al concorso “SegnalEtica” realizzando un video da pubblicare su YouTube. I lavori saranno esaminati da una commissione di cui faranno parte lo stesso Rivera, il prof. Paolo Del Bene per il Mecs e padre Paolo Scarafoni, rettore dell’Università Europea di Roma. «E’ un riconoscimento importante per il Mecs, sempre più impegnato nelle sue attività e sempre più capace di relazionarsi con le istituzioni», spiega Paolo Del Bene, tra i fondatori del Mecs.

RIVERA - In questa e in altre iniziative il Mecs gode dell’appoggio del Settore giovanile e scolastico della Figc, di cui è presidente proprio Gianni Rivera. L’ex Golden Boy esprime grande soddisfazione per l’accordo con il Miur: «Entrare in tutte le scuole non è facile, l’accordo con il ministero può dare una continuità importante a tutte le nostre iniziative. Il Mecs ha anche il sostegno della Figc, tutti crediamo alla possibilità di migliorare tante situazioni tristi del nostro Paese. Entra in campo lo Stato, è importante: nelle scuole, senza dimenticare però le famiglie, si può fare tanto per combattere una cultura negativa che sta prendendo piede. Parliamo di una minoranza, per fortuna, ma bisogna combattere certi fenomeni diffondendo i veri valori».

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CALCIOPOLI / GLI ASSOLTI

Dondarini: «Alla fine hanno

riconosciuto le follie dell’accusa»

«Prove contro di me? Un gol annullato mai esistito e un articolo in cui si diceva

che avevo negato un rigore alla Lazio, pubblicato dal sito... della Lazio»

di GUIDO VACIAGO (TUTTOSPORT 08-12-2012)

TORINO. C’è un momento in cui l’incubo sconfina nella farsa, in cui i contorni del racconto si sfrangiano nell’incredibile. Ma è andata veramente così: Paolo Dondarini mercoledì è stato assolto, ma il 14 dicembre 2009 si era visto condannare, nel rito abbreviato di Calciopoli, a due anni. L’incubo. La farsa iniziava con la lettura delle ragioni per le quali era stato riconosciuto colpevole di associazione a delinquere con la finalità della frode sportiva. All’arbitro emiliano veniva, infatti, contestato un arbitraggio di Juventus-Lazio troppo favorevole ai bianconeri, quindi segno inequivocabile della sua affiliazione alla cupola moggiana. «E per provare che la mia direzione non era stata imparziale, viene allegato un articolo uscito sul sito della Lazio... E’ pazzesco». Di sicuro non imparziale, anche perché altre evidenze dei presunti vantaggi alla Juventus non ce ne sono e se la Lazio protestava per un rigore negato, altrettanto faceva la Juventus (nessun articolo del sito bianconero, tuttavia, venne inserito nelle informative) per un penalty non fischiato su Ibrahimovic. Ora, il fatto che un’informativa dei Carabinieri possa considerare una “prova oggettiva” l’articolo di un sito di una società apre scenari potenzialmente mostruosi, considerata l’inveterata abitudine dei dirigenti e allenatori italiani a lamentarsi in modo sistematico.

WWW Ma i due anni, Dondarini, non li ha beccati solo per colpa di... Internet. L’altro capo di imputazione, riguardante Fiorentina-Chievo, però è altrettanto virtuale. Colpevole «per non avere convalidato un gol al Chievo negli ultimi minuti della partita, favorendo così la Fiorentina». Piccolo particolare, spiega l’ex arbitro: «Quel gol non è mai stato segnato. L’unico gol segnato dal Chievo è stato convalidato, poi nonce ne furono più. L’informativa conteneva una topica mostruosa, che non è stato possibile far valere in primo grado di giudizio». E così per queste due accuse, la cupola moggiana ha acquisito un altro affiliato e Dondarii si è beccato due anni.

FURTO Il paradosso è che neppure la giustizia sportiva, di solito più severa, l’aveva fermato. Condannato dalla Corte d’Appello Federale in primo grado, era stato prosciolto a titolo definitivo nel successivo giudizio di fronte alla Corte Federale. Tant’è che aveva continuato la sua attività di arbitro e ne aveva avviata una da dirigente dal 2009, fino alla condanna penale. Tre anni dopo l’assurdità, il ritorno alla normalità. Sereno, ma non troppo, come ha spiegato ieri pomeriggio a RaiSport: «Quello che mi è stato tolto non potrà mai restituirmelo nessuno, quello che avverà in futuro ancora non lo so», ha spiegato preannunciando battaglie legali contro chi lo ha diffamato sui giornali (una decina di querele sono pronte) e contro chi ha commesso quegli errori madornali in fase di indagine (c’è un esposto denuncia presentato qualche mese fa a Roma). «La mia vicenda è costellata da una serie di errori evidenti, clamorosi. Si è arrivati alla fine dell’incubo grazie ai miei avvocati e a un professionista come Nicola Penta capace di scovare intercettazioni mai ascoltate e in grado di dimostrare la mia estraneità. Le schede svizzere? Non son preparato sulle schede svizzere: è un argomento che non conosco. Vorrei invece sottolineare che riguardo alle telefonate ritrovate dai nostri avvocati per dimostrare la nostra innocenza, mi farebbe piacere capire perché intercettazioni così rilevanti sono state escluse dalle indagini e non ritenute importanti, quando grazie attraverso il loro ritrovamento siamo stati assolti». Già, anche se nel suo caso sarebbe più semplicemente servito solo un po’ di buon senso.

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La compagnia aerea araba rinnova l’alleanza con il club calcistico londinese fino al 2028

Arsenal, 185 mln da Emirates

Accordo su sponsorizzazione e diritti sul nome dello stadio

di MARCEL VULPIS (ItaliaOggi 08-12-2012)

Pioggia di denaro sull’Arsenal. Il club londinese ha rinnovato con Emirates, compagnia di bandiera con base a Dubai, un nuovo accordo di sponsorizzazione del valore di 185 milioni di euro fino al termine della stagione 2028. L’intesa, siglata direttamente all’Emirates stadium, porterà nella casse dei «Gunners» circa 12,3 milioni di euro annui.

Il primo contratto di sponsorship tra i due partner è stato firmato nel 2004, prima di arrivare, due anni più tardi, a un partenariato globale, dove alla sponsorizzazione di maglia si è aggiunta la titolazione del nuovo impianto, che continuerà a chiamarsi Emirates stadium almeno fino al 2028 (nei giorni delle gare impiega più di 2.500 persone, tra personale adibito all’ospitalità e steward sulle tribune).

Il contratto per la divisa di gioco scadrà nel 2019, ma si prevede il prolungamento per arrivare in parallelo al termine della partnership a sostegno dello stadio.

«Continuiamo a vedere il valore strategico delle nostre sponsorizzazioni nel mondo dello sport», ha spiegato ai media lo sceicco Ahmed bin Saeed Al Maktoum, presidente e amministratore delegato di Emirates, «e la nostra sponsorizzazione con l’Arsenal non è diversa. Il club è stato un importante fattore di crescita dell’attività aziendale negli ultimi dieci anni. Questa collaborazione conferma la perfetta combinazione di due marchi veramente globali».

L’impianto londinese è anche la struttura calcistica al mondo più avanzata tecnologicamente, in grado di offrire momenti di intrattenimento, diversificato per età e categorie di target. Ormai la stragrande maggioranza degli ospiti degli sponsor (un intero anello di sky-box gira attorno all’Emirates stadium) rimane in seno allo stadio anche un’ora dopo il termine della gara. I tifosi dei Gunners possono sfruttare i nuovi servizi S.Port, attraverso console portatili e la tecnologia wi-fi presente nell’arena. La sperimentazione di questa nuova piattaforma consentirà ai supporter di vedere i replay delle azioni di gioco, osservare le statistiche in tempo reale, scoprire i risultati delle altre partite della Barclays Premier league (la massima serie di calcio inglese) e molti altri servizi che verranno lanciati per venire incontro alle esigenze di intrattenimento della fan base. Tra i punti di forza, inoltre, c’è il «Diamond club», l’area ospitalità più esclusiva dello stadio, con una offerta enogastronomica coordinata dalla scuola di Gordon Ramsey (con un passato nella prima divisione del calcio scozzese), lo chef divenuto famoso anche in Italia per il format tv Hell’s kitchen.

Il nuovo contratto siglato tra il club di Premier League e la più importante delle compagnie aeree del golfo Persico prevede, infine, una serie di iniziative marketing a supporto della sponsorizzazione, con il coinvolgimento dei tifosi dell’Arsenal sia nel Regno Unito che all’estero. Emirates è già partner di maglia del Milan in Italia e del Paris Saint Germain in Francia ed è attualmente il principale investitore mondiale nel mercato delle sponsorizzazioni sportive.

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CONTROVERSIE di SILVIA GUERRIERO (SPORTWEEK | 8 dicembre 2012)

PAZZA INTER

PAGALA

ROSITA CELENTANO, CHE DETIENE I DIRITTI DELL’INNO “OSCURATO”

DEI NERAZZURRI, RISPONDE ALLE POLEMICHE SCOPPIATE SUL WEB

Se l’Inter è “pazza”, come cantano da dieci anni i suoi tifosi,anche la vicenda del suo ormai ex inno non è da meno. La polemica è scoppiata su Twitter – e non accenna a placarsi – in seguito all’improvviso oscuramento del brano ufficiale, Pazza Inter appunto, sostituito all’inizio della stagione con il vecchio inno C’è solo l’Inter. I tifosi, imbufaliti, se la sono presa con Rosita Celentano, che detiene i diritti del brano (le edizioni musicali sono della Luna Park, che le appartiene), ipotizzando chissà quale richiesta economica al club nerazzurro. «Me ne hanno dette di tutti i colori, mi hanno minacciata, mi hanno accusata di essere stata io a far sospendere la riproduzione dell’inno allo stadio», commenta amareggiata l’interessata. «Ma io non ho mai chiesto all’Inter una cosa del genere, non ho fatto ricatti, anzi: non ne sapevo niente!». L’ha scoperto a fine novembre, con il primo di una lunga serie di minacciosi tweet da parte dei tifosi, «cui sono seguite tante di quelle notizie false che mi hanno lasciato basita. Volete sapere come sono andate veramente le cose?». Prego. «L’estate scorsa sono stata chiamata dall’Inter perché volevano regalare l’inno a chi faceva la tessera. Che bello, ero stracontenta! A quel punto ho colto l’occasione per chiedere di regolarizzare i pagamenti di quanto mi era dovuto dal 2003 a oggi, cosa che non era ancora stata fatta e che io ingenuamente non avevo mai sollecitato, dando per scontato che prima o poi si sarebbe risolto tutto. Non ho chiesto chissà che: ho letto cifre assurde, tipo un milione e mezzo di euro, ma se volete proprio saperlo tra tutto non si arriva neanche a 100mila euro. Poco, per quasi dieci anni. E sarebbe solo il pagamento di quanto previsto dalla legge e da sfruttamenti pubblicitari non autorizzati (ormai Pazza Inter è diventato un vero e proprio brand, ndr), dato che per usare la canzone mi avranno chiesto il permesso 2 volte su 100. Senza dimenticare che io ho sempre pagato l’Inter per l’utilizzo del marchio ufficiale e dell’ologramma». La risposta? «Non è mai arrivata. Da lì in poi sono stata contattata solo dall’ufficio legale. Da gente, tra l’altro, neanche preparata in tema di leggi discografiche: mi hanno chiesto di regalare i diritti, senza nemmeno sapere che anche volendo non potrei farlo. Quelli appartengono agli autori: Dino Stewart e Paolo Barillari, che hanno scritto il testo, e Goffredo Orlandi, che l’ha musicato». Autori di un successo che è andato al di là delle aspettative e che ha subito oscurato l’inno precedente (e seguente…). C’è solo l’Inter è una dichiarazione d’amore, un romantico omaggio all’Inter e all’avvocato Prisco, scritto – in modo per lui inconsueto – dal nerazzurro Elio, leader degli Elio e le Storie Tese, e cantato da Graziano Romani. Però Pazza Inter, per i tifosi, è un’altra cosa: è più orecchiabile, più diretta, più da stadio. E anche più “vincente”, perché associata ai trionfi degli scorsi anni e cantata dagli stessi giocatori: nel 2007, all’indomani della conquista del 15° scudetto, e nel 2010, l’anno del Triplete. Perciò il popolo (nerazzurro) di Internet la reclama a gran voce, cantando sul web “Pagala, Pazza Inter pagala…”. «Tutti la rivogliono, a partire da mio papà che è un grande tifoso, oltre che ex Pulcino dell’Inter», racconta Rosita, lei che da piccola ha giocato nel Milan («Avevo la maglia numero 10 di Rivera») e ora gestisce una scuola di tango argentino, pilates e body rolling in corso Europa a Milano, nello storico spazio di Dimensione Danza, con la cugina Alessandra (www.lecelentano.it). «Anche papà ci è rimasto molto male. Chiamerò direttamente Moratti per chiarire, ma vorrei anche pubbliche scuse da parte dell’Inter. Questa storia è una pazzia, ma purtroppo non nel senso buono che intendiamo noi».

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Il pallone di Luciano

A Palermo la Juve

può prendere il largo

di LUCIANO MOGGI (Libero 09-12-2012)

Come un fulmine a ciel sereno è arrivato a Conte un «in bocca al lupo» da Abete. Può dare la parvenza di un semplice atto istituzionale, ma anche l’impressione di una presa per i fondelli, dopo le lunghe schermaglie a livello di società su una sospensione che Conte e non solo lui ha sentito assolutamente ingiusta. In più, il presidente della Figc si è avventurato sul binario della «vita fatta di passaggi più o meno difficili in cui c’è sofferenza da un punto di vista professionale e personale». Sembrerebbe un moto di solidarietà, ma è solo un tentativo di lavarsi le mani nella vicenda. È troppo pensare che in qualche modo abbia voluto chiedere scusa. Meglio avrebbe fatto a tacere. Avevano ragione i troiani quando dicevano: temiamo i greci soprattutto quando portano doni o, come nel caso, parole di miele.

Oggi muore comunque un’ingiustizia, il tecnico torna al suo posto. La soddisfazione è grande ma resta il rammarico del tempo perduto lontano dalla panchina, al pari - ma per loro è stato assai più lungo e grave - degli arbitri assolti a Napoli nell’appello dell’abbreviato di Calciopoli. Chi ridarà a queste persone ciò che è stato loro tolto in termini di serenità familiare e carriera? Torneremo a breve sull’argomento ma abbiamo già la nostra convinzione: chi svolge funzioni inquirenti e di accusa e fa richieste di condanna (sia in campo sportivo che nell’ordinario) dovrebbe sentire il dovere e la coscienza di soppesarle con maggiore attenzione valutando l’intero incartamento processuale, e non solo parte di esso.

La Juve gioca oggi a Palermo, stadio di molte simpatie bianconere, per questo scelto nel passato come campo di elezione per la Champions, ma Buffon & C. non potranno attendersi accoglienze di favore. La vittoria sul Catania aveva fatto dimenticare qualche ambascia alla squadra di casa, la caduta a San Siro contro l’Inter, sia pure per un’autorete, ha ridestato i fantasmi della B. Prevedibile un Palermo che si batterà allo spasimo contro una Juve esaltata dall’ impresa in Champions e tentata dalle favorevoli prospettive di giornata. Napoli e Inter si scontrano infatti a San Siro. Indipendentemente da come va a finire, la Juve può avvantaggiarsene a patto di fare bottino pieno al Barbera. Un pari proporrebbe tutt'altri scenari. E siccome in tal caso i gufi ironizzerebbero sul valore aggiunto, ne viene di conseguenza che la squadra può salutare bene il ritorno di Conte solo con un successo.

Appare aperta ad ogni risultato Inter-Napoli. I nerazzurri si sentono più forti con Cassano ma insistono per vil moneta, seppure assai sonante, a privarsi di Sneijder. Chi l’avrebbe detto che il signore del petrolio Saras avrebbe dovuto fare i conti anche con il valore del denaro. Sulla questione manca, però, sempre un pm che voglia fare chiarezza, e c’è sempre la giustizia sportiva che dorme. Possiamo mettere la partita come una sfida tra Cassano e Cavani, a meno che Stramaccioni non si schieri più prudentemente emetta in stand by proprio il barese. Attenzione all’assenza di Samuel in difesa, potrebbe arretrare Cambiasso, ma appare un punto di debolezza.

Il Milan altalenante di Allegri punta a recuperare forze e ambizioni a Torino. La partita è anche più importante per i granata, che battuti dalla Juve se la passano molto male in classifica. A Milanello c’è chi pensa di inserirsi nelle posizioni di testa, se è così i rossoneri possono proporsi solo di vincere.

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Il processo Domani udienza alla Disciplinare

Caso Gianello, il club ribadisce:

non chiediamo il patteggiamento

art.non firmato (IL MATTINO 09-12-2012)

ROMA. «Il patteggiamento non sarà neanche un'ipotesi che prenderemo in considerazione. Il club è parte lesa». Il legale del Napoli, Mattia Grassani, esclude così che la società possa essere penalizzata nel processo sullo scandalo del calcioscommesse al via domani davanti alla Commissione Disciplinare: il club è stato deferito per responsabilità oggettiva; Cannavaro e Grava per omessa denuncia. «Affronteremo il processo in maniera aperta, confrontandoci con l'accusa e chiedendo il proscioglimento del Napoli e dei suoi tesserati» ha spiegato l'avvocato ai microfoni di Radio24, sottolineando che la penalizzazione di 2 punti è solo una «ipotesi giornalistica» e il club «in questa vicenda non ha alcuna responsabilità ed è tutto da dimostrare il coinvolgimento a titolo oggettivo. Il presidente De Laurentiis è fortemente determinato a scongiurare questo pericolo e a far valere la totale estraneità del Napoli».

L'ipotesi di patteggiare una penalizzazione di 1 punto in classifica viene esclusa perchè «per il Napoli sarebbe un danno enorme e quindi, se non dovesse andare bene subito davanti alla Disciplinare, tenterebbe di far valere con ogni strumento e ad ogni costo la propria innocenza in tutti e tre i gradi». Inoltre «ci sono anche gli interessi di Cannavaro e Grava e un patteggiamento li coinvolgerebbe quasi determinandone l'automatica responsabilità».

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DA DOMANI IL PROCESSO LE RIVELAZIONI DELL’EX GIANELLO INGUAIANO GLI AZZURRI, CHE VANNO VERSO LA PENALITÀ. GRASSANI: «CHIEDEREMO DI ESSERE PROSCIOLTI»

«Per le scommesse

niente patteggiamento»

Il legale della società di De Laurentiis:

«La responsabilità oggettiva del club è tutta da provare»

di GAETANO IMPARATO (GaSport 09-12-2012)

A viso aperto. Puntando al proscioglimento. Senza patteggiamento, compromesso dal sapore di ammissione di una colpa che il Napoli ritiene non avere. L'avvocato Mattia Grassani anticipa le sue mosse, le sue richieste: andrà al confronto davanti la Disciplinare a spada tratta, nel nuovo processo di scommessopoli al via domani. Il Napoli è in ballo per le rivelazioni dell'ex Matteo Gianello che, col suo tentativo di combinare la gara con la Samp (1-0, maggio 2010), sondò Cannavaro e Grava: si rifiutarono ma non lo denunciarono.

Strategia difensiva Il «teorema Grassani» è studiato a tavolino: il patteggiamento comporterebbe un -1 in classifica automatico. Meglio, quindi, un duello, in fatto e diritto, con Palazzi e confidare, nella peggiore delle ipotesi, nel morbido Tnas. «La responsabilità del Napoli è tutta da provare, perciò non prendiamo in considerazione il patteggiamento», ha sottolineato l'avvocato dal suo studio, concetto ripetuto a Radio 24, ai microfoni di A tempo di sport. «Affronteremo il processo in maniera aperta, confrontandoci con l'accusa e chiedendo il proscioglimento del Napoli e dei suoi tesserati», conferma il legale, che ritiene la plausibile penalizzazione di 2 punti solo una proiezione, codici sportivi alla mano, che non reggerebbe. «Non tiene conto come in questa vicenda il Napoli sia parte lesa, non ha alcuna responsabilità ed è tutto da dimostrare il suo coinvolgimento. Del resto, De Laurentiis vuole fermamente scongiurare la penalizzazione e fare valere la totale estraneità del suo club». Quindi, con questi presupposti, il patteggiamento è una strada assolutamente impercorribile. «Per più motivi: il -1 che ne scaturirebbe sarebbe un danno enorme per il club. E se anche non dovesse andare bene il verdetto della Disciplinare — anticipa Grassani —, continueremo per vedere riconosciuta l'innocenza del club negli altri due gradi del giudizio sportivo».

Responsabilità oggettiva La scelta, secondo Grassani, tenderebbe a preservare anche Cannavaro e Grava. «Secondo me il patteggiamento, indirettamente, li penalizzerebbe determinandone quasi l'automatica responsabilità: il Napoli vuole preservare sia la sua classifica sia la possibilità di utilizzarli entrambi». Ma la confessione di Gianello racconta di avere proposto, ai compagni, la combine: un dato che peserà. Intanto, parte l'ennesima crociata contro la responsabilità oggettiva: «Con un giocatore a fine contratto o carriera — considera Grassani riferendosi a Gianello —, che può imbastire discorsi insidiosi coi compagni, nell'ultima giornata del torneo, far scattare le conseguenze gravissime della responsabilità oggettiva è assurdo». Battaglie in diritto a parte, si ha la sensazione che il Napoli punti ad arrivare davanti al Tnas, divenuto ormai uno «scontificio» di pena, per uscire indenne da tutto.

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Domani il dibattimento sportivo: deferiti società (responsabilità oggettiva), Cannavaro e Grava (omessa denuncia)

Caso Gianello, rischio penalizzazione

"Ma il club non pensa al patteggiamento"

di DARIO DEL PORTO (la Repubblica - Napoli 09-12-2012)

C´è un´altra, delicatissima partita che il Napoli si prepara a giocare nelle prossime ore. Non si disputa questa sera a San Siro, ma domani all´hotel Parco dei Principi di Roma. In palio ci sono un paio di punti in classifica che il Napoli rischia di vedersi togliere per responsabilità oggettiva nell´illecito sportivo contestato all´ex terzo portiere Matteo Gianello, deferito sulla base delle ammissioni rese prima davanti alla magistratura ordinaria, poi davanti al procuratore federale Stefano Palazzi.

Al vaglio della giustizia sportiva ci saranno anche le posizioni del capitano Paolo Cannavaro e di un´altra bandiera dello spogliatoio, Gianluca Grava, mai indagati dalla magistratura ma deferiti a titolo di omessa denuncia. A loro infatti Gianello si sarebbe rivolto per chiedere, senza successo, di combinare l´incontro Sampdoria-Napoli, ultima giornata del torneo 2009-2010. Proposta rifiutata seccamente, secondo la ricostruzione dell´ex terzo portiere, e gara disputata regolarmente. Ciò nonostante, la società e i due calciatori devono adesso fare i conti con il processo sportivo. Gianello è pronto patteggiare per evitare una lunga squalifica. Diversa la linea del Napoli: «Il patteggiamento è un´ipotesi che non prenderemo neanche in considerazione», afferma il legale del club, l´avvocato Mattia Grassani, che aggiunge: «Affronteremo il processo in maniera aperta, confrontandoci con l´accusa e chiedendo il proscioglimento del Napoli e dei suoi tesserati. In questa vicenda il club è parte lesa, non ha alcuna responsabilità, anche il coinvolgimento a titolo oggettivo è tutto da dimostrare». Anche Cannavaro e Grava sembrano orientati a dare battaglia e hanno sporto querela nei confronti dell´ex compagno di squadra. E proprio sull´attendibilità di Gianello, che ha ammesso l´episodio di Samp-Napoli solo nel corso di un lungo interrogatorio e dopo numerosi tentennamenti, si deciderà il processo sportivo.

Con il patteggiamento, il Napoli potrebbe cavarsela con un solo punto di penalizzazione, rispetto ai due che potrebbero essere chiesti dalla Procura federale, i calciatori con una squalifica non superiore ai due mesi. Sanzioni che sarebbero scontate immediatamente. «Ma anche un solo punto sarebbe un danno enorme - replica Grassani - la società intende preservare la sua posizione in classifica, ma anche la possibilità di continuare a utilizzare Cannavaro e Grava». Nessun accordo, dunque, ma un braccio di ferro che, in caso di condanna, proseguirebbe davanti alla Disciplinare ed eventualmente dinanzi al Tnas.

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Il caso

Il capitano del Palermo visto dai militari del Ros mentre era in macchina assieme a Francesco Guttadauro

Miccoli con il nipote del superlatitante

di SALVO PALAZZOLO (la Repubblica - Palermo 08-12-2012)

Un’altra amicizia ingombrante per il capitano del Palermo, Fabrizio Miccoli. L’anno scorso, la stella rosanero era finita suo malgrado alla ribalta della cronaca non per l’ennesima goleada, ma per le frequentazioni con il figlio del latitante Antonino Lauricella, Mauro. Adesso, dalle indagini su Matteo Messina Denaro salta fuori l’amicizia del calciatore con il nipote del superlatitante trapanese, Francesco Guttadauro.

L’estate scorsa, gli investigatori del Ros tenevano sotto controllo Paolo Forte, ritenuto uno dei favoreggiatori storici di Messina Denaro: all’improvviso, videro arrivare due persone davvero particolari nel distributore di benzina che un tempo era stato suo, a Mazara. Erano Francesco Guttadauro e Fabrizio Miccoli: iniziarono a chiacchierare con Forte. È Guttadauro junior che conosce l’imprenditore, che sarebbe stato incaricato di realizzare un distributore su un terreno di proprietà di Rosalia Messina Denaro, la madre del giovane Guttadauro. Probabilmente, Miccoli non sa chi è Paolo Forte, l’uomo che vent’anni fa fornì la propria carta d’identità a Messina Denaro per iniziare la latitanza. O forse, sa solo che è stato il presidente della Folgore calcio. Forte è morto a ottobre: la Procura chiedeva di arrestare anche lui, ritenendolo organico a Cosa nostra.

Miccoli ha solo un’affettuosa amicizia con Guttadauro junior, che fino ad oggi non ha mai avuto guai con la giustizia. E certamente non è una colpa essere il figlio della sorella di Messina Denaro oppure avere un padre in carcere con l’accusa di aver fatto da postino fra Provenzano e Messina Denaro. Però, adesso, l’ultima indagine lancia un’ombra su Guttadauro: uno degli arrestati avrebbe cercato di raggiungere il latitante proprio attraverso il nipote. Così diceva: «Gli ho fatto arrivare l’altro messaggio. Accuddì a linea diretta... ci dissi a so niputi, Guttadauro». Ma neanche oggi Guttadauro jr risulta indagato. Come l’altro amico di Miccoli, Mauro Lauricella. Così, questa è solo un’altra delle tante storie di costume che vedono protagonisti calciatori e fan (più o meno vip) nelle sere della movida palermitana.

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PALERMO PER LA 2aVOLTA

I carabinieri riprendono Miccoli con il nipote di un boss

di FABRIZIO VITALE (GaSport 09-12-2012)

Era la sua vigilia: Fabrizio Miccoli che torna in campo per fare lo sgambetto alla Juve. E invece, suo malgrado, è tornato alla ribalta per un'altra amicizia ingombrante. Dopo le frequentazioni con Mauro Lauricella, il figlio del boss latitante Antonino, ecco spuntare quella col nipote di Matteo Messina Denaro, Francesco Guttadauro. Sull'edizione palermitana di Repubblica è emerso come i Ros, nelle indagini sul superlatitante che ha portato a una serie di arresti, la scorsa estate, tenendo sotto controllo uno dei favoreggiatori storici del boss, Paolo Forte, videro arrivare al distributore di benzina di sua proprietà Guttadauro e Miccoli. È molto probabile che l'attaccante del Palermo neanche sapesse chi fosse Forte e che avesse solo accompagnato Guttadauro. Inoltre il nipote di Messina Denaro finora non ha mai avuto problemi con la giustizia e non risultano indagini sul suo conto.

Reazione La vicenda ha comunque infastidito il Palermo. L'a.d. Pietro Lo Monaco ha annullato la conferenza di Gasperini per intervenire direttamente. «Non ci è piaciuto l'accostamento del nome di Miccoli a certe vicende, alla vigilia di una sfida importante come quella con la Juve — afferma Lo Monaco — Miccoli è un giocatore buono e generoso con tutti. È sconcertante cavalcare un episodio che farebbe capire chissà che cosa. Miccoli è il capitano che va alle feste di beneficenza, un uomo buono, disponibile con tutti ed è l'emblema della nostra squadra. Penso che legare il nome di un personaggio famoso permetta di dare risonanza a un fatto che risonanza non ne ha. Sono sicuro che Miccoli darà una risposta importante sul campo ma prima che capitano la darà da palermitano, da uomo che ama la città. Sarà una gara tosta, maschia e combattuta e noi intendiamo giocarcela». E in effetti il Romario del Salento può essere l'uomo in più del match. L'ultima vittoria due anni fa al Barbera, dove la Juve finora è caduta ben quattro volte, porta anche la sua firma. Miccoli, che in settimana aveva pronosticato un 2-1 per il Palermo, finora è andato a segno tre volte contro i bianconeri e questo pomeriggio potrebbe rimpinguare il suo bottino.

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Cashing in and crashing out

The riches splashed out on Premier League clubs in television contracts make their dismal performance in the Champions League look a poor return

by HUGH MCILVANNEY (THE SUNDAY TIMES 09-12-2012)

With a £3bn three-year television contract long since glitteringly wrapped and set under the tree, the Premier League can have itself a merry little Christmas and needn’t try too hard to hide its habitual smugness while toasting the future benefits of yet another prodigious financial coup. Mammon’s favourite sports organisation could hardly be expected to worry overmuch about the contrast between unprecedented commercial success and the other kind of records broken by the collective inadequacy of English clubs’ performance in the Champions League group stage that ended last week.

But the rubble of embarrassing statistics must trouble anybody interested in the externally measured competitive status of the country’s football. The Premier League’s contenders for inclusion in the knockout phase of the tournament accepted as the most reliable guide to how domestic standards compare with those prevailing in the other European strongholds of the game have just produced the worst aggregate results seen in the 10 years England has been providing as many as four entrants.

Putting their figures alongside the group-stage fortunes of previous English quartets reveals that this season’s representatives have amassed fewest points (35), won fewest matches (10), suffered most defeats (9), conceded most goals (35) and kept fewest clean sheets (3). Manchester City became the first English club to go through an entire programme of group matches without a victory and Chelsea made themselves the first holders of the Champions League trophy to fail to take their attempt to defend it as far as the knockout rounds.

That litany attaches a sense of the parochial to the fever stirred by today’s meeting of City and Manchester United at the Etihad stadium. United can protest that they qualified comfortably from their Champions League group, attributing losses in their concluding two fixtures to the luxury of being able to field weakened teams. But they are scarcely portrayed as frighteners of Europe in the odds of 11-1 still available to any brave souls who want to back them to secure club football’s greatest prize at Wembley next spring — a price that places them fifth on the betting lists behind Barcelona, Real Madrid, Bayern Munich and Borussia Dortmund. As England’s second surviving threat, Arsenal are, as my racing friends say, out with the washing at as long as 33-1.

The bookmakers’ scepticism towards the Premier League’s chances of intruding tellingly at the continental party is understandable. This season has yet to show us a single team in the top division playing consistently at an outstanding level. Instead there has been confirmation that the world’s most lucrative league rarely lives up to the propagandists’ assessments of its quality. Claims concerning its entertainment value are largely sustainable, and that is something to be gratefully appreciated, but nobody can convincingly describe it as dazzlingly rich in excellence.

Even last season, which saw Chelsea emerge triumphant from the Champions League final, was much less than a flawlessly impressive advertisement for the Premier League. Winning is winning and Chelsea have every right to celebrate having their achievement forever enshrined in the record books but a majority of neutrals felt it was reward for being the luckiest rather than the best team in the competition. They trailed in 25 points behind the best teams in their homeland’s title race, Manchester’s overwhelmingly dominant big two, who were separated in a photo-finish only by City’s superior goal difference. Once City and United had both found their 2011-12 European challenges crushed in group action, what Chelsea went on to do was sure to seem more of a freakish accomplishment than a true reflection of the Premier League’s standing outside its own boundaries.

City’s struggles in that Champions League campaign were miserable enough. But for a squad assembled at monumental expense from the ranks of internationally established footballers to perform as they did this time around, scraping together just three of the 18 points on offer to them, was unforgivably appalling. Presumably neither Roberto Mancini nor the men he supervises will risk further mockery by pleading that City are Champions League novices. The club may be. The manager and players certainly aren’t.

It’s not experience they lack but spirit, cohesion and commitment. And if those deficiencies are exacerbated in Europe to create an extreme discrepancy between their form in that context and in English football, perhaps they are being discouraged less by a difference in conditions than a difference in the opposition encountered. Hopes that the Premier League’s tidal wave of money would sweep leading English clubs to new heights of European authority have proved as illusionary as the always dubious promises that a swamping influx of foreign players would help the national team by exposing native talent to the inspiring example of the incomers’ skills. On the contrary, opportunities for development have been smothered. All that cash has, predictably, turned out to be an end in itself.

Eyes glaze at the sheer volume of it supplied by television (the £3bn earned from the 2013-16 deal with BSkyB and BT could, we’re told, be swollen by as much as £2bn in overseas rights). Under existing TV contracts, the payout to Manchester City as 2012 league champions was £60,602,289 and Wolves, who were relegated as bottom club after winning only five of their 38 matches, received more than £39m. The new domestic deal is a 70% improvement on its predecessor, so clubs’ shares of the spoils will be hugely increased. It is little wonder that Celtic — the reigning Scottish champions, who gained a meagre £2m from broadcast revenues last season but magnificently succeeded in outperforming Manchester City and Chelsea in the Champions League by involving themselves in the December 20 draw for the knockout stages — crave a place in the Premier League. Glory might be elusive there but gelt would be plentiful.

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LA COMPETENZA DELLO SPETTATORE

(E LA STRANA FINE DEL GIORNALISMO)

di MARIO SCONCERTI (IL CALCIO DEI RICCHI | Baldini Castoldi Dalai editore 2012)

Il più grande cambiamento del calcio di oggi non riguarda gli schemi di gioco e nemmeno i metodi di allenamento. Riguarda il pubblico. L’equilibrio delle squadre sul campo è sempre lo stesso, il modo di crescere delle partite anche. La vera rivoluzione sta nella gente che le guarda. Per la prima volta nella storia del calcio la gente sa quello che vede. Può interpretare e capire. Prima il calcio era il gioco di tutti ma stava nell’interpretazione dei pochissimi che avevano il diritto di raccontarlo. Erano i giornalisti che lo spiegavano a un popolo di lettori che non andava allo stadio. Questo generava uno sbilanciamento insopportabile tra i pochi e i tutti. Non esisteva il calcio oggettivo, esisteva solo il calcio di chi poteva scriverlo. La cultura popolare passionale e un po’ stracciata del Bar Sport nasce così, discussioni davanti a un bicchiere tra chi cercava di rivendicare un giudizio su qualcosa che non conosceva. Le ironie sulla povertà intellettuale di queste discussioni erano legittime, ma dovute alla mancanza di argomenti. Il calcio, in sostanza, era un grande amico sconosciuto.

Proviamo a capire con un esempio illustre. Quarant’anni fa, Gianni Brera era il più grande romanziere del calcio. Raccontava le partite quasi in dialetto, vedeva parti del gioco che gli altri non vedevano, inventava problemi, rovesciava i giudizi, trasformava le parole. Sono decine e decine i termini che Brera inventò e che sono rimasti in uso per decine di anni. Il più celebre è «libero», poi adottato in tutto il mondo. Quel tipo di giocatore che sta dietro alla difesa si chiama così dovunque, ancora oggi. Brera inventò altri nomi per tutti, da Rombo di tuono per Riva alle Rondinelle bresciane, dall’Abatino Rivera a Mutter Lombardei, che nel suo leghismo socialista e ante litteram significava una differenza profonda e non molto innocente tra i lombardi e gli altri italiani. Per lui i barbari longobardi scesi in Italia intorno al 576 non erano barbari qualunque, spinti oltre le alpi da barbari più forti: erano i padri del diritto, e almeno in parte aveva ragione. Alcuni dei loro re costruirono un codice di giustizia pragmatico che bene si adattava ai tempi e che in quel periodo sostituì in parte il diritto romano.

Il volo charter

Incontrai Brera con devozione quando avevo poco più di trent’anni e lui poco più di sessanta. Capitammo vicini su un charter della Nazionale, si andava a Parigi a giocare contro la Francia di Platini, era il febbraio dell’82. Lui mi chiese da dove venissi e che studi avessi alle spalle. La teoria delle provenienze era una sua piccola ossessione. Dissi che venivo da Firenze e Brera rispose: «Bene, di Firenze non mi vergogno…»

Io rimasi a bocca aperta. I fiorentini non conoscono niente di più puro e importante di Firenze. Brera veniva da San Zenone Po e fortunatamente non si vergognava di chi veniva dalla città dell’Arno. Era un po’ paradossale ma era un grande privilegio poter ascoltare Brera, valeva la pena lasciare in disparte Firenze per una sera. Più bello ancora erano le poche volte che riuscivo a contraddirlo. Non molte, e quasi sempre a tradimento, ma qualche volte ci riuscivo.

La sera a cena gli dissi che i suoi Longobardi forse non erano germani, cioè di sangue tedesco, la cosa che per lui nobilitava fortemente tutto. Erano forse polacchi, popoli slavi, brillanti e incostanti, tutt’un’altra storia, più istintiva e meno gloriosa. Lui mi guardò stupito e scocciato. Ero un ragazzo davanti al maestro. Che cosa volevo dire veramente? Dissi che i longobardi erano arrivati dalla Slesia, cioè una grande regione a metà fra la Germania e la Polonia. Il loro tipo di razza dipendeva solo dalla parte di Slesia da cui erano partiti. Se erano a sinistra dello spartiacque, erano sicuramente tedeschi. Se venivano dalla destra, erano slavi. Un cambio di mondo verticale, un rovesciamento di prospettive, due culture opposte, una che nobilitava, l’altra che rimaneva dalla stessa parte della confusione italiana. Tutto in pochi chilometri.

Eravamo in un ristorante che aveva davanti un banco dove si vendevano ostriche. Brera alzò una mano, chiamò il cameriere e indicò l’ostricario. Ne ordinò altre sei poi mi guardò e disse: «È una cazzata enorme». Risposi che probabilmente era vero, ma Federico il Grande, nel Settecento, era diventato il fondatore dello stato prussiano, quindi tedesco, proprio conquistando la Slesia in territorio polacco. Il problema è che la storia è come il calcio, ognuno la tira dalla propria parte.

Brera sorrise e cominciò a mettere limone nelle ostriche. Parlammo tutta la notte, nacque una grande amicizia durata fino all’ultimo giorno. Quarantotto ore dopo quella serata a Parigi, Brera accettò la proposta di Scalfari e venne a scrivere per «Repubblica», il mio giornale di allora. Io acquistai un Maestro, Brera trovò il giornale della sua età matura e i longobardi rimasero tedeschi.

Non il vero, il verosimile

Cosa voglio dire? Che avevo involontariamente fatto, quella sera con Brera, una tipica operazione di giornalismo calcistico, avevo operato al buio e spinto al limite le conseguenze. Avevo detto cose verosimili lasciando a chi ascoltava il dovere di dimostrare che avevo torto. I longobardi erano tedeschi, lo sapevo anch’io, ma l’importante, come nel calcio, era saper tenere la posizione. In fondo in fondo c’è anche chi dice che Mediolanum sia stata fondata dai liguri o perfino dagli etruschi, cioè toscani. E l’editto di Rotari, quello che inorgogliva Brera, era stato scritto dai longobardi in latino, la lingua di Roma. Questo lo avrebbe fatto arrabbiare molto di più.

Quello che volevo dire era che non esisteva controprova di niente. Contava solo come portare avanti la teoria. Allo stesso modo Brera costruì un calcio che vedeva solo lui. Era quasi impossibile il contraddittorio. Lui portava in più il suo straordinario italiano, la capacità di inventare un linguaggio sportivo che ancora non esisteva e che restò inimitabile nonostante centinaia di tentativi malriusciti. Lo mescolò con un’epica a volte alta, altre volutamente da osteria. Ma quando parlava di schemi, di partite, di uomini, non poteva che scrivere di cose che solo pochissimi fisicamente vedevano.

Il calcio era un gioco misterioso, nascosto in uno stadio, piuttosto costoso da seguire. Nel raccontarlo, nel farlo immaginare agli altri, occorreva la bravura dell’artista, non la competenza, tanto non era possibile nemmeno un minimo di contraddittorio, una piccola discussione tecnica. Decidevano la magia degli aggettivi, le sue fantastiche visioni. Ma Brera era due volte privilegiato. Era il migliore, qualunque cosa avesse fatto con una penna. E poteva vedere ogni domenica la partita più importante. Pochissimi in Italia avevano l’opportunità di studiare calcio come lui.

La rivoluzione televisiva

Questo è stato il grande cambiamento. Fino a vent’anni fa non esisteva il calcio in televisione. Si vedeva, la domenica alle sei e quarantacinque del pomeriggio, solo il secondo tempo di una partita, quando tutti sapevano già i risultati. E ognuno era già campanilisticamente orgoglioso che alla Rai facessero vedere la sua squadra una volta ogni tanto. Di quell’orgoglio vivevamo. Per vedere il calcio bisognava andare allo stadio. E si dipendeva dalle cronache di pochi giornalisti. Erano loro la scienza. La raccontavano in molti modi, con pochi o tanti aggettivi, ma nessuno poteva contraddirli, non sulla vastità tecnica della partita, sul suo sviluppo. A loro andavano aggiunte quelle poche decine di migliaia di persone che non avevano nessuna possibilità di discussione o confronto ma erano comunque andate allo stadio. Poche migliaia su cinquanta milioni di italiani.

Questo portava divertimento, ma non conoscenza. Si era vinto, si era perso, si tornava a casa contenti o infelici, ma non si era aggiunto niente alla consapevolezza di quel che si era visto. La partita era una specie di cerimonia sentimentale. Non è un caso che il grande slogan della Stock, l’azienda triestina che sponsorizzava il calcio alla radio, per decenni abbia spinto tutto proprio su questo sentimento lineare diventando alla fine un proverbio. La squadra del tuo cuore ha vinto? Brinda con Stock. Ha perso? Consolati con Stock. Il calcio non era che questo: un brindisi dell’anima. Un gioco il cui svolgimento e risultato erano molto meno importanti di come quel gioco e quel risultato fossero arrivati. Non c’era nessuna coscienza tecnica.

Un po’ di storia dei diritti televisivi

Quella dei diritti televisivi nel calcio è stata una lunga marcia trionfale. Non tutti gli effetti sono stati immediati. Per circa trent’anni è stato naturale in Italia non vedere nessuna partita. La Rai spiegava che il calcio era un problema da stadio e di Stato. Se avesse trasmesso partite in tv, avrebbe danneggiato gli incassi allo stadio. Cioè delle città che avevano una squadra in serie A, i cui spettatori andavano protetti. Aprire alle telecamere avrebbe potuto significare spopolare gli stadi, danneggiare le città. E lo Stato era pur sempre l’editore della Rai. Non poteva danneggiare se stesso, le proprie città.

Non esisteva, né alla Rai né tantomeno nel calcio, l’idea che le partite in diretta potessero essere un formidabile affare per tutti. Così, fino al 1981, in Italia non sono esistiti diritti tv sul calcio. Anche quando sono cominciate a nascere le televisioni private, verso la metà degli anni Settanta, a nessuno è venuto in mente di portare una telecamera in uno stadio. Eppure avrebbero potuto, non c’era legge che lo impedisse. Ma le televisioni private non avevano forza né voglia di anticipare un diritto che avrebbe messo in grande difficoltà la Rai. Né si riusciva a immaginare ritorni pubblicitari all’altezza delle spese.

Con il loro agitarsi intorno al calcio della città, lentamente le televisioni private finirono per mettere la pulce nell’orecchio al colosso Rai, da tempo assopito nella pigrizia del monopolio. Così, nel 1981, si arrivò al primo accordo con la Lega. Non si parlava ancora di riprendere le partite. Il calcio professionistico pagò una cifra praticamente simbolica, tre miliardi di lire, per «l’ammissibilità delle telecamere» durante una partita.

La cifra, divisa fra tutte le società di A e B, era un’inezia, ma serviva a sancire che dentro lo stadio potevano entrare da quel momento solo telecamere Rai. Si mettevano cioè fuori tutte le televisioni private, prevenendo la loro possibilità di allargarsi. Presidente della Lega era Antonio Matarrese. Quasi in silenzio, senza ancora capirlo, il calcio cambiava completamente utente, dallo spettatore cominciava a passare al telespettatore.

Diritti criptati

Da quel momento l’accordo tra Rai e Lega continuò a crescere in modo straordinariamente asimmetrico. Prima miliardi, poi decine di miliardi, infine centinaia. E sempre senza dare una partita in diretta. Questo era il paradosso. La Rai comprava tutti i diritti del calcio, ma praticamente non li usava. Li pagava perché non finissero nelle mani dei concorrenti ora che alcune televisioni private erano diventate grandi network. Era un errore tecnico e di principio. Ciò che accade deve poter essere visto. Nel momento in cui accade diventa di tutti. Non si può tenere per sé la realtà. Non per molto. Soprattutto quando quella realtà può rendere un mucchio di denaro. È il principio minimo di chi vive nell’era della tecnica. Si possono avere altissimi valori morali, ma se una tecnica permette di fare una cosa, quella cosa verrà fatta. Nessuno accetta il dovere dell’ignoranza se ha la scienza per farla. E secondo me è giusto così. Si arriva quindi al 1993 quando passa il concetto anglo-americano dei diritti cripitati. È un idea semplice e devastante. La Rai si tenga pure il suo monolite inesistente, il suo costosissimo buio. Nessuno toccherà i suoi diritti sulle immagini in chiaro. A essere venduti saranno altri diritti, quelli non in chiaro, quelli appunto criptati. Il risultato è che chi pagherà una cifra prefissata avrà diritto a vedere in diretta la partita trasmessa. Ad acquistare i nuovi diritti è Telepiù, la prima televisione commerciale a pagamento. Era nata tre anni prima come conseguenza della legge Mammì. I maggiori azionisti erano il tedesco Leo Kirch, il cui 45% pareggiava la somma del 35% di Vittorio Cecchi Gori e del 10% di Silvio Berlusconi.

Arrivano le partite

Molti dicono che fu la caduta del muro di Berlino, la fine del comunismo, a lanciare la moda di tutto quello che era tecnologia di immagine americana. Certo diventò più facile, anche in un Paese fortemente bloccato su un monopolio, poter cercare altre strade. Non è qui il caso di rifare l’intera storia di Telepiù e delle sue tre piattaforme (Uno, Due e Tre). Credo però che la spinta di Berlusconi abbia soltanto accelerato qualcosa che era inevitabile.

Telepiù non ebbe molto successo. Serviva un decoder, i prodotti offerti a pagamento si scontravano con uno scoglio profondamente culturale: difficile pagare volentieri quando si è abituati ad avere un servizio gratuito. Dopo sette mesi, a metà del 1991, Telepiù perdeva 150 miliardi. Ci furono rinnovamenti e cambi di pacchetti azionari, ma fino al 1993 la società continuava a perdere.

Fu questa rimessa continua a cambiare lo spettacolo del calcio in Italia. Telepiù decise di tentare il vero salto di qualità. Nel giugno del 1993 firmò un accordo con la Lega professionisti per la trasmissione in diretta a pagamento di una partita di A e una di B. La partita di A sarebbe andata in onda la domenica alle 20 e 30, (nasce così il posticipo). Quella di B il sabato, sempre alle 20 e 30 (l’anticipo).

Il 29 agosto 1993 fu trasmessa in Italia la prima partita a pagamento. Era un Lazio-Foggia e finì zero a zero, non un grande inizio per uno spettacolo del calcio. Il mondo non si fermò più. Oggi i diritti televisivi in Italia valgono un miliardo di euro. Gli abbonati Sky e Premium sono circa 7 milioni (dati dicembre 2011), 5 per Sky e 2 per Premium. Il che significa che il calcio in diretta tv viene visto complessivamente da un numero di italiani che va dai 14 ai 25 milioni.

L’handicap di chi va allo stadio

Alla fine di questa lunga strada il risultato è dunque sorprendente: chi vede meno calcio è proprio chi va allo stadio. Una partita contro la possibilità di vederle tutte. Non solo, ma il piacere complesso di un pomeriggio in tribuna, le file, i controlli, spesso le perquisizioni, contro la calma delle tv, le decine e decine di spiegazioni, interviste, dibattiti che le televisioni offrono e a cui i protagonisti, per contratto, non possono sottrarsi.

Va da sé che niente rende il calcio come vederlo da una buona tribuna dello stadio. Ma questo, soprattutto in Italia, è spesso difficile e anche costoso. E comunque la televisione moltiplica in modo esponenziale le possibilità di vedere. Non impedisce di andare allo stadio, dà semplicemente la propria possibilità. Uno stadio è per quarantamila persone, la partita in tv è per milioni e milioni di abbonati. Non sono fenomeni in concorrenza. Uno satura l’altro.

La televisione ha moltiplicato in modo infinito le possibilità di vedere calcio in qualunque modo. Vent’anni fa un cronista di stadio, un raccontatore di partite, aveva totale libertà di interpretazione. Vinceva la sua capacità di vedere la partita, giusta o sbagliata che fosse, non c’erano controprove. Tutto questo moltiplicato per ogni giocatore e per ogni azione della partita. Pensate alle radiocronache di Niccolò Carosio, la più bella voce del calcio. Raccontava davvero quello che vedeva? Sapeva davvero descriverlo? E fino a quando, con quale approssimazione? E soprattutto, chi poteva dirlo? Chi lo ascoltava era a casa, non vedeva la partita. Chi era allo stadio non ascoltava Carosio. Nel 1962, partita dell’Italia in Ungheria, Carosio non si accorse che Gigi Riva, un debuttante, aveva preso il posto di Pascutti. Per tutto il secondo tempo continuò a chiamarlo Pascutti. Oggi sarebbe stato costretto quantomeno a giustificarsi. Allora non se ne accorse nessuno.

Il calcio era niente più di un’opinione. Oggi qualunque giornalista ricorre prima di tutto alla televisione per capire se quello che ha visto è accaduto realmente. E qualunque persona è ben felice di contestare al giornalista qualunque discordanza con i propri pareri. È strano che un fenomeno con un risultato finale e cento minuti visibili funzioni ancora come qualcosa di estremamente volatile. Qualcosa di scientifico dovrebbe pur esserci con tante telecamere in giro. Qualcosa di minimamente esatto. Non è così. Questa è la vera grande rivoluzione del nostro tempo, quello che Baumann chiamerebbe il Calcio liquido, il diritto di tutti a pensare in libertà su un tema piccolo, evidente e universale.

Il giornalista, l’opinionista classico, è stato spazzato via per essere sostituito da un Tutti che quasi sempre significa Nessuno. Se i pareri sono troppi si cancellano l’un l’altro. Quindi alla fine esiste solo un’opinione di parte che però non fa opinione, fa partito. Vince il pregiudizio di tutti, il calcio visto da una parte infinita di menti. Così, alla fine del giro, non per quello che non vediamo, ma per come lo vediamo, la verità nel calcio di nuovo non esiste.

La conquista della Competenza

Al di là dei pregiudizi il calcio in televisione ha comunque costruito nel tempo una grande novità: la competenza dello spettatore. In un paio di decenni siamo passati da uno spettatore inesistente a uno che vede cose mai viste e che nemmeno avremmo pensato di voler vedere (campionati tedeschi, spagnoli, argentini, russi, francesi). Il famoso limite di una partita a settimana, la domenica pomeriggio, è stato travolto da un continuo spettacolo calcistico. Così è successo qualcosa di inevitabile, lo spettatore si è scolarizzato, è diventato autodidatta, ha imparato la lingua che è stato costretto ad ascoltare. Oggi tutti sanno molto. Ci sono ragazzi che conoscono le formazione ucraine a memoria e sono disposti a giurare su cinque-sei giocatori finlandesi che potrebbero andare bene in serie A.

D’altra parte nessuno ha torto, tutto può accadere. Uno dei giocatori più importanti al mondo si chiama Jovetic ed è montenegrino, non brasiliano, argentino o italiano. Un montenegrino è fuori da qualunque geografia abituale dei vecchi tempi del calcio. Un altro si chiama Giovinco ed è alto 164 centimetri. Il Brasile, che è sempre stata la colonia naturale per ogni buona squadra europea, non solo non offre più grandi giocatori, ma quelli che ha se li tiene, non li vende più. È diventato ricco quanto noi più poveri… Il calcio è diventato lo stesso mercato globale che è la vita di tutti i giorni. In questo ribaltamento completo di valori, la scienza nel calcio non è una conquista impossibile, ma il premio di chiunque. Non esiste più scuola, esiste sguardo. Tutti possono come sempre sbagliare, ma qualcuno, contro ogni vecchia legge dell’esperienza, può anche azzeccare il giocatore giusto senza averlo mai nemmeno visto in faccia. Solo di spalle e in televisione. È improvvisamente nato il dubbio che lo spettatore possa avere ragione nelle sue visioni, nelle sue lente operazioni di scouting. E come se il paziente superasse il chirurgo. È la democrazia dell’informazione globale. La verità sta sempre da un’altra parte, quindi chi conosce la verità è per definizione un bugiardo. Ma di sicuro la verità non è solo quella che ci viene raccontata. È anche la nostra. Siamo tutti pari. È la democrazia dello zero a zero.

La spinta di Internet

L’altro mezzo di scolarizzazione infinita è stata la Rete. La televisione ha dato immagini, la Rete ha dato informazioni su quelle immagini. Improvvisamente non c’è stato più bisogno di intermediari tra il calcio e la gente, una vera svolta luterana. La Rete dice tutto, sa tutto. Non è un opinione, è un dato. E racconta di qualunque partita, qualunque calciatore. È una rivoluzione molto più grande dell’Enciclopedia di Diderot e D’Alambert, è un sapere diffuso, capillare, sulla materia preferita, e arriva sul telefono di tutti, cioè senza nessuna fatica. Un motore di ricerca fa il lavoro di decine di persone in un secondo.

Non solo, ma quello impersonale di Internet è anche il sapere che la gente vuole perché è il suo, non quello di un giornalista, per definizione diverso da chi legge o ascolta, perché dentro il privilegio di seguire quello che gli altri adorano in forma religiosa, e forse non della stessa religione di chi ascolta. Questa è l’altra conseguenza della competenza: l’universalizzazione della religiosità del calcio. Lo spettatore si è organizzato, ha espanso fino alla conoscenza il proprio vizio di tifoso e ora riscuote. Sulla Rete trova i riscontri che cerca, ascolta migliaia di pareri identici ai suoi. Rafforza la propria idea di competenza, la propria visione del calcio. Trova i nemici, quindi materia per fare di nuovo gruppo. Trova argomenti, produce Fondamentalismo. La discussione sul calcio è ufficialmente il più grande argomento di conversazione nel mondo. Se ne occupano tre miliardi di persone ogni giorno, un abitante del pianeta su due.

In sostanza il calcio è diventato una fede senza poterlo essere. Il calcio è fenomeno, accade, non può essere al centro di troppe discussioni. Ha una parte di scientificità. Ma alla fine ci sono i risultati e ci sono anche conseguenze chiare che a quei risultati portano. Perché allora un pubblico che ha ormai imparato a guardare il calcio, a farne direttamente parte, non riesce a distinguere la fede dal fenomeno?

Perché non ha nessun interesse a farlo. Anzi, ha un discreto bisogno di rimanere nel proprio angolo di paradiso, lontano dai dubbi, consolato dal parere di chi la pensa come lui. Da sei anni si discute se l’Inter abbia diritto allo scudetto datogli a tavolino al termine del campionato 2006. Qualcuno dei milioni coinvolti nella discussione, interisti o juventini, ha mai cambiato parere, ha mai avuto un dubbio in un senso o nell’altro? Assolutamente no. Eppure sono cambiate cose, testimonianze, intercettazioni telefoniche. Ci sono state prescrizioni del tutto impreviste, nuovi pareri, un intero mondo che ha continuato a camminare. Ma non è cambiato niente. Come al centro di un grande disegno religioso, juventini e interisti hanno resistito nella propria convinzione: i nostri, i loro, sono tutti innocenti. Per principio, per definizione, ma anche e soprattutto per certezza intima, privata.

Questa è forse la verità definitiva: non esiste un calcio diverso da quello che vogliamo. E se esiste, non è vero.

Secondo convenienza

Anche in questo caso la Rete ha divulgato le proprie informazioni. Migliaia e migliaia di pagine sulle sentenze delle varie Calciopoli, ma ognuno le legge secondo convenienza. Anche questo però è stata evoluzione, cultura. Quando nel 1980 scoppiò il primo calcioscommesse, i tribunali della Repubblica furono costretti ad assolvere tutti perché il fatto non sussisteva. Ed era vero. Il reato era frode sportiva, ma la frode sportiva allora non esisteva come reato. Adesso esiste, la gente ha imparato il linguaggio della giustizia sportiva e perfino quello penale, anche se lo usa sempre dalla parte della propria fede. Però conosce, archivia, usa tutto per difendere la propria squadra. Il calcio è diventato argomento trasversale. Il pubblico fa parte di un grande partito di promozione complessiva dell’evento, quindi un grande movimento di parte. Ma per la prima volta, in Italia e in una grande democrazia occidentale, un movimento di parte diventa una soluzione collettiva. L’errore del calcio e quello di essere di due tipi. Uno interno, cioè il tifo per la propria squadra. E uno esterno, cioè il tifo per il calcio, il movimento, la competizione che la mia squadra deve comunque vincere. Ma per difendere uno devo difendere l’altro. È uno straordinario trabocchetto morale che fa diventare il calcio un autoregime volontario. E forse perfino felice.

Le conquiste del Fantacalcio

Il terzo grande mezzo ad aver portato Competenza è stato il Fantacalcio. È un semplice gioco, ma per giocare bisogna conoscere le carte. Quelle del Fantacalcio sono i calciatori e le loro qualità. Portato in Italia nel 1990 da Riccardo Albini, un giornalista geniale che otto anni prima aveva creato la prima rivista italiana di videogiochi, il Fantacalcio «costrinse» gli spettatori del calcio ad occuparsi di tutto il campionato, non solo della propria squadra. Il gioco italiano nacque ispirandosi a Fantasy Baseball, molto in voga allora negli Stati Uniti. È curioso ricordare che il Fantasy Baseball veniva chiamato spesso la Rotisserie (rosticceria), perché i primi giocatori si riunivano in una famosa Rotisserie di New York.

Il Fantasy Football si gioca ormai in tutto il mondo occidentale. Come certamente saprete, consiste nel formare e guidare una squadra di fantasia formata da giocatori veri. Le variazioni sul tema sono moltissime. Si calcola che in Italia, tra Fantacalcio ufficiale, gestito adesso dall’Editoriale l’Espresso, e i vari derivati (per esempio il famosissimo Magic della «Ġazzetta dello Sport»), i giocatori siano circa una decina di milioni.

Per capire che tipo di business mondiale sia diventato il Fantacalcio, basta dire che l’Uefa, cioè la Federazione ufficiale europea del calcio, quella diretta da Michel Platini, gestisce ben due tipi di giochi. Uno sulla Champions League e uno sull’Europa League. Le regole di base sono molto vicine a quelle del Fantacalcio inglese, il Fantasy Premier League.

I giochi di fantasia sul calcio sono stati i primi a far uscire lo spettatore dal suo guscio esclusivo di tifoso. Per giocare bisogna saper scegliere giocatori di rendimento dovunque si trovino, anche nelle squadre che dal punto di vista del tifo sono le più detestate. Hanno dunque costretto alla ricerca, alla lettura, al rischio della competenza. Hanno fatto diventare familiari non solo i giocatori di qualunque altra squadra italiana, ma anche quelli di altri campionati. Oggi soprattutto i giovani, e per giovani intendo anche i cinquantenni, hanno una conoscenza così profonda, così larga, da passare dagli aspetti tecnici al gossip su giocatori inglesi, spagnoli, portoghesi, tedeschi, brasiliani, argentini, perfino russi. Quando nel 1990 il gioco partì, una competenza così profonda e un’informazione così trasversale non esistevano nemmeno riguardo i giocatori della squadra di cui siamo tifosi.

Mescolanza e scommesse legali

I tre mezzi della Competenza, cioè diretta televisiva, Rete e Fantacalcio, si sono mescolati a vicenda. La Rete ha coperto tutte le informazioni, la televisione ha portato le immagine adatte a completare il giudizio, il gioco ha trasformato tutto in divertimento, cioè il modo migliore per apprendere.

Negli ultimi anni, a questi si è aggiunto un altro mezzo di Competenza: la legalità delle scommesse sul calcio. Mettere il proprio denaro su un risultato è stata una novità assoluta, quasi travolgente. La Competenza che nel frattempo era stata acquisita non serviva solo per discutere, per emanciparsi dai giudizi dei giornalisti, per capire di più, ma addirittura per fare soldi.

Questo ha costruito una vera categoria di osservatori professionisti del calcio. Si cerca di tutto, dal rendimento di Cristiano Ronaldo a quello della squadra decima in classifica nella serie B irlandese. E si scommette su tutto. Su chi farà il primo fallo, su chi avrà il primo calcio d’angolo, sul risultato dopo dieci minuti, dopo quindici e così via.

Come il Fantacalcio vent’anni fa aveva portato lo spettatore in modo abbastanza paternalistico oltre il tifo per la propria squadra, anche le scommesse hanno reso obbligatorio conoscere gli altri. Si prendono informazioni dovunque, tutto è divertente e da giocare, tutto impone conoscenza.

Il dibattito

A sua volta la conoscenza ha creato voglia di dibattito. Questo è l’ultimo anello della catena. Lo spettatore è diventato Spettattore, non solo guarda lo spettacolo, ma partecipa così tanto alle sue informazioni da diventarne parte.

C’è un bisogno continuo di pubblico dovunque si parli di calcio. Nello stadio, davanti alla tv di Stato, davanti alle tv commerciali, nei post-partita, perfino nel silenzio di uno spogliatoio prima e durante la gara. E naturalmente su Facebook e Twitter, nei blog, su migliaia e migliaia di siti e pagine che in Rete si occupano di calcio. È come se il calcio fosse l’inizio di tutto. Questo è un Paese che si sta aprendo, cresce la curiosità per qualunque cosa. Si fanno festival di letteratura, di filosofia, di scienza estrema, ma tutto ruota sempre intorno all’informazione. Il bisogno di credere in una squadra in questi ultimi anni è aumentato in modo esponenziale proprio grazie alla comunicazione dei grandi spettacoli calcistici. Ore e ore di pubblicità di eventi che vogliono ricostruire un orgoglio di squadra, un clan familiare, una tribù perduta di amici, una piccola, sincera volgarità che riassume la vita di tutti i giorni dentro un semplice gesto da stadio.

Non è mai successo qualcosa del genere per un sentimento. Una fede che si reclamizza attraverso eventi quotidiani, con un dibattito largo e capillare su qualunque mezzo di comunicazione. Milioni e milioni di persone, miliardi nel mondo. Pensate se potessero fare altrettanto le religioni, le fedi classiche! Pensate da quanti messaggi saremmo invasi sulla Rete, sui giornali, in televisione. In America i predicatori hanno ore di trasmissioni ma sono lontani dall’invadenza del calcio.

Non ho nessuna voglia di apparire blasfemo, ma nei primi secoli dopo Cristo, dei grandi problemi della fede si parlava dovunque: nelle panetterie, dagli ortolani, dai parrucchieri, negli stadi. E le domande erano sul ruolo di Gesù, sulla sua divinità, su cosa davvero significasse lo Spirito Santo. Erano argomenti nazional-popolari come adesso le grandi squadre. Perché le grandi religioni o sono nazional-popolari o non possono essere.

Quello che davvero manca alla vera Fede, qualunque sia, per avere la stessa forza mediatica, è la possibilità di avere un nemico viscerale. Il cristianesimo stesso ha dovuto ammettere la forza del Diavolo nonostante Gesù lo avesse rimandato al mittente definitivamente nel giorno delle Tentazioni.

La vera Fede esclude il dibattito, il calcio è solo quello. La vera Fede cerca proseliti, il calcio non ne vuole, è esclusivo. O sei dei nostri o sei un nemico. È questa spettacolare ostilità sparsa per ogni giorno dell’anno, continuamente ravvivata da chissà quante moviole, che rende il calcio una formidabile macchina di consenso e di salvezza. Che brucia la rabbia quotidiana e la riporta al livello in cui diventa una risorsa. Al contrario delle Chiese non troverà nessuna scienza a restringerle il campo. Non c’è bisogno di un Progetto Intelligente. Nel calcio si crede per partecipare, non per sapere la verità. Anzi, la verità non esiste, non è vera se non è dalla parte della mia squadra. Il calcio è davvero la religione perfetta, indimostrabile ma eternamente dimostrata. Fantastico!

Perché in pochi allo stadio?

Resta un ultima domanda. Perché questo pubblico diventato estremamente competente insiste nel non andare allo stadio? La prima risposta è quasi certamente anche la più giusta: perché in Italia gli stadi sono scomodi. I bagni sono lontani, spesso irraggiungibili perché bisogna passare tra la folla. Per entrare allo stadio bisogna passare attraverso lunghe file per entrare e spesso anche essere perquisiti. Non esiste altro spettacolo al mondo per assistere al quale si debba fare qualcosa oltre a pagare. Nel calcio italiano andare allo stadio è una prova d’amore. Non ha nessun rapporto con i diritti del cliente.

La particolarità italiana è di aver avuto e mantenuto uno strato di tifosi ultras decisamente oltre la soglia della sopportazione. Credo invece meno in quel che si sente dire riguardo il rapporto promiscuo delle società con i peggiori dei loro tifosi. Nessuno vive per fare la guerra, questo è evidente, ma nessuno vive nemmeno per essere continuamente sotto ricatto, credo. Perché le società dovrebbero convivere con i loro teppisti? Che vantaggi avrebbero? Ormai potrebbero facilmente essere tutelate da forze dell’ordine che hanno archivi lunghi come autostrade sull’argomento. È più facile pensare che difendersi sia difficile per tutti.

Ho fatto il dirigente sportivo, non ho mai avuto un buon rapporto con gli ultras, ma non mi è mai successo niente, né sono dovuto ricorrere a massicce dosi di privilegi. Aggiungo che il fenomeno è sotto controllo, la Digos sa tutto e ha suoi infiltrati dovunque. Non si tratta di reprimere, gli ultras sono troppi, circa settantamila in Italia. Un esercito. Si tratta di gestire con calma le situazione nel tempo, aspettando che il tempo cambi le situazioni.

Dunque, stadi scomodi da vivere e da raggiungere. D’altra parte è anche improprio che una squadra di A o B giochi in uno stadio non suo. Come si può essere aziende da cento-duecento milioni di fatturato e dipendere dai comuni per mandare ogni settimana in onda il proprio lavoro? Non c’è nessun senso d’impresa. Oggi lo hanno capito tutti, si lavora per costruire stadi più piccoli ma infinitamente più comodi. D’accordo. Ma anche in Europa non sono molte le situazioni diverse. Su 750 squadre di A che vanno dagli Urali all’Oceano Atlantico, solo il 19% ha uno stadio di proprietà e quasi tutta questa cifra si esaurisce in Inghilterra. Eppure in molti Paesi la gente continua ad andare allo stadio, anzi aumenta. C’è dunque qualcosa di più. Ma cosa?

Proviamo intanto a vedere le cifre.

Per capire meglio riporto in percentuale le differenze nel numero di spettatori tra il 1996 e il 2011.

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La differenza è enorme. Si può pensare che una parte di colpa sia delle televisioni. Portando le partite a casa, hanno chiuse le porte dello stadio. Può essere, ma le televisioni ci sono state anche in Inghilterra e in Spagna. E allora? Proviamo ad analizzare meglio. Queste cifre dimostrano alcuni dati molto interessanti.

L’Inghilterra nel 1997 è seconda dietro la Germania per numero di spettatori negli stadi. La cifra è buona, non straordinaria, 28 mila spettatori in media a partita. Nel 2000 la Germania è però già superata, si passa dai 28 mila di tre anni prima a 30.700, comincia il lungo dominio inglese sul movimento europeo. Siamo una quindicina di anni dopo la tragedia dell’Heysel, in fondo a una lunga campagna che ha realmente messo spalle al muro i teppisti. Bisogna però anche notare che nel 1996 l’Inghilterra ha organizzato gli Europei. Non è andata benissimo in termini tecnici, è arrivata in semifinale, ma la spinta pubblicitaria data alla manifestazione ha certamente spinto a sua volta la Premier League. Questo è un dato che troveremo anche in Germania, direi anzi soprattutto in Germania. Il mondiale del 2006 non solo ha portato una media di tremila persone in più negli stadi, ma ha invertito una rotta. È come se la gente si fosse di nuovo innamorata del calcio, non ha più smesso di volerlo guardare. Per l’Inghilterra è curioso notare un altro particolare: una flessione di pubblico c’è e arriva nel momento in cui comincia a vincere il Chelsea. Abramovic acquista la società nell’estate del 2003, gli inglesi impiegano cinque anni a tornare allo stadio con i numeri di prima dell’acquisto del Chelsea. Questo è molto interessante. Perché proprio in quel momento? Non ho certezze, ma ho abbastanza esperienza di calcio e rivalità cittadine. Il Chelsea non era una grande società tradizionale, uno scudetto solo in tutta la storia, cinquant’anni prima. Direi che i risultati più importanti, a parte lo scudetto del 1955, li ha ottenuti Luca Vialli vincendo la Coppa Uefa e le coppe nazionali. In sostanza la mia impressione è che la crescita del Chelsea, il suo status di quasi invincibile pagato molto denaro dal suo proprietario, abbiano presto stancato gli inglesi. Succederebbe la stessa cosa in Italia se Sampdoria, Fiorentina, Bologna, Genoa eccetera mettessero nell’angolo le grandi di sempre. È bello che a vincere siano anche gli altri (e lo dice un tifoso degli altri), ma non è un affare per il calcio. Il contrario della Forza è un’eccezione. Il mercato quotidiano, la ricchezza comune di un movimento, si fa con la normalità, cioè con le vittorie tradizionali. Gli altri si accontentino eventualmente di vincere. Il Chelsea non può pretendere anche di essere amato. Tornato il Manchester a comandare, sono tornati e aumentati gli spettatori.

La Francia paga soprattutto il suo modo di essere Paese. Ha poche grandi città. Parigi ha una sola squadra, il Paris Saint-Germain che peraltro è la squadra di un paese della cintura, Saint-Germain en Laye. Come se Ostia fosse la vera squadra di Roma. Londra ha otto squadre tra prima e seconda serie. Il calcio francese è in sostanza un calcio fatto di province, quasi un terzo della popolazione vive in centri dove il calcio ha tradizionalmente suscitato poco interesse. Anche in Francia si vede comunque benissimo l’effetto del mondiale, quello del 1998. Dai 14mila spettatori medi del 1997 si passa ai 21. 700 del 2000. La curva tende a rimanere alta finché la Francia ottiene risultati. Quando alla fine del 2006 si spengono i risultati della nazionale (battuta in finale a Berlino proprio dall’Italia), la Francia perde in poco tempo circa duemila spettatori medi, cioè quarantamila a domenica. È comunque molto sopra alle cifre del 1996-97, anno d’inizio della ricerca.

La Germania è la somma dei due slanci, quello degli stadi e quello dell’evento. In Germania molte squadre si sono costruite negli anni duemila uno stadio proprio. Il massimo lo ha ottenuto il Bayern Monaco con la sua Allianz Arena. Sono 69mila posti a sedere, e per tutta la stagione i biglietti venduti sono stati 69mila. È l’unico stadio in Europa occupato al cento per cento, l’intera capienza. La Germania si è, come detto, innamorata di nuovo del calcio attraverso la spinta formidabile dei mondiali giocati nel 2006. Non so esattamente perché, ma è stato qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri effetti seguiti a un grande evento. È come se i tedeschi si fossero veramente divertiti nel sentirsi dentro qualunque telecamera attraverso il calcio. Forse la Germania è il Paese dove il calcio moderno è vissuto meglio, cioè come qualcosa che aiuta a vivere meglio e non una colpa in più, una preoccupazione ulteriore. Le società per statuto non possono avere deficit. Non hanno giocatori troppo importanti. Il loro mercato è pieno di latinoamericani di seconda fascia e di slavi, polacchi, serbi, slovacchi, boemi, croati oppure austriaci. Maradona non avrebbe mai potuto giocare in Germania. Sarebbe costato troppo. Credo sia questa leggerezza di fondo, vissuta senza inferiorità, come un divertimento reale, a rendere gradito e gradevole il calcio alla gente. Non c’è rancore, c’è tifo per il tempo della partita, poi basta. È probabile che attraverso il mondiale i tedeschi abbiano ritrovato nel calcio un vecchio amico che avevano dimenticato. Altra spiegazione, più specifica, più sottile, è che siano finiti gli effetti della riunificazione, i sentimenti contrapposti. Il calcio è stata la prima fotografia della Germania unita e ne ha scontato anche i primi malumori, gli scetticismi, le differenze di abitudini. Unire nell’anima è un processo lungo, quasi impossibile, comunque lungo, che non può essere veramente dovuto a niente e nessuno in particolare, in nessun luogo. Ma non c’è dubbio che in Germania il calcio sia stato il primo a prendere per mano la nuova nazione.

L’Italia è l’unica tra le cinque nazioni principali del calcio in cui la gente che va allo stadio continua a diminuire. Non credo sia un problema di costo del biglietto. In Inghilterra è nettamente più caro. L’esosità del costo del biglietto è diventata anzi un mezzo per cambiare il ceto della popolazione dello stadio. Fuori il pericolo nazional-popolare degli hooligans proprio raddoppiando i costi delle curve, da tempo intorno ai quaranta euro. Di sicuro in Italia, da tempo, non esiste il marketing del calcio, l’ultima grande manifestazione organizzata è stato il mondiale del 1990. Ma credo ci sia anche un’altra ragione. Gli anni Duemila sono stati gli anni della grande crisi del nostro calcio. Sono fallite un centinaio di società professionistiche, tra cui società storiche come Napoli, Fiorentina, Torino. Abbiamo inventato le plusvalenze, lo spalmadebiti (attraverso una legge dello Stato firmata da Berlusconi, presidente del consiglio e presidente del Milan, una delle cinque società che ne ha poi usufruito per circa duecento milioni: è stata la prova provata delle leggi ad personam ma pochi se ne sono accorti); siamo andati avanti con la finta cessione del marchio, la finta cessione degli immobili (centri sportivi), è stato concesso a una società (la Lazio) di saldare con il fisco un debito di 140 milioni addirittura in 23 anni. Abbiamo usato e abusato del factoring, cioè il farsi scontare subito in banca gli incassi futuri. Abbiamo portato fideiussioni per iscriversi al campionato senza che sia successo niente, se non ottenere il permesso di iscriversi un mese dopo. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Abbiamo falsificato passaporti per far diventare italiani giocatori stranieri, scommesso su partite truccate, mandato Rolex d’oro agli arbitri come ingenui regali di Natale (e gli arbitri, con i loro capi, li hanno accettati). Non ci siamo insomma fatti mancare niente. Questo ha finito per non creare entusiasmo. Per quanto cieco possa essere l’amore, un po’ di distanza tra la gente e il calcio è nata. Almeno rispetto all’amore incondizionato di un tempo. È venuta a mancare la presunzione di innocenza, sempre e comunque. Abbiamo cominciato a pensare che tutti hanno un trucco nascosto sotto il cappotto. Non è venuto meno il grande pubblico, è cominciato a mancare il pubblico marginale, quello che però alla fine fa statistica. Fatto sta che proprio dagli anni più profondi delle crisi economiche e dei fallimenti, l’inizio del duemila, la gente ha cominciato a non andare più allo stadio. Si è passati dai 29. 100 spettatori del 2001 ai 25. 500 del 2003 fino ai 21. 400 del 2006. Il grande scandalo di Calciopoli ha poi fatto crollare il tetto sotto i ventimila, addirittura 18. 900 quando la Juve ha giocato in B. Ma è stata proprio Calciopoli a riaccendere lo spirito. È ricominciata la crescita della Juve, vero fattore di spinta di tutto il movimento, ed è nel frattempo iniziata anche la guerra della Juve contro tutti, più specificatamente contro l’Inter. In questo subito ricambiata. Il nostro è adesso un calcio rancoroso, maldicente, sospettoso, diffusamente disonesto, ma vivo. Come direbbe Pirro, vecchio comandante greco chiamato in Italia da quei vecchi greci che erano i tarantini, dateci altre due vittorie di questo genere e avremo definitivamente perso la guerra. Ma questo è. Oggi viviamo soprattutto di rancore. Non cerchiamo vittorie, cerchiamo vendette. Tutti. E non vedo ancora modo di far passare la nottata.

La Spagna è forse la più deludente. È rimasta sostanzialmente al pubblico di quindici anni fa nonostante le squadre più spettacolari e vincenti che abbia mai avuto, la nazionale, il Barcellona e lo stesso Real dei cento punti conquistati da Mourinho. Pesa sulla Spagna la sua grandezza geografica e la non troppa popolazione, circa quaranta milioni, un terzo meno dell’Italia. Le grandi città sono Madrid e Barcellona, poi Valencia e Siviglia, il resto sono bellissime città normali. Ha avuto, anche la Spagna, le sue disillusioni economiche nel calcio, più di noi è legata e sottomessa alla forza delle due grandi società di vertice, forse c’è un po’ di stanchezza per uno spettacolo straordinario ma ormai quasi privato tra Real e Barcellona. Serve altro tempo per capire il perché di una stasi così lunga. Il problema economico del Paese è destinato a dare ancora più forza a Barcellona e Real. Hanno cento e centocinquantamila soci che ogni anno pagano la loro quota. Soldi che vanno nelle banche, non vengono presi in prestito. In un Paese senza contante, questa differenza è decisiva.

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Da questa tabella ricaviamo dati molto importanti.

1) Le squadre inglesi più importanti riescono a utilizzare i propri stadi in modo impressionante: Manchester United al 99% con 74.800 spettatori; Arsenal al 99% con 59.800; Chelsea al 99% con 41.800; Liverpool al 95% con 43.000.

La migliore delle italiane è la Juventus, che riempie il proprio stadio all’85% ma con 22.400 spettatori. Va ricordato che il 2010 è però l’ultimo anno della Juve senza il proprio stadio e anche l’anno più disagiato, con capienza ridotta a 28.000. Il Milan mette 41mila persone in uno stadio da 80mila, cioè ne utilizza il 52%. La Roma addirittura solo 36mila in uno stadio da 72 mila, utilizzato al 50%.

Questo vuol dire che il Manchester ha incassato nel 2010, con le gare nel proprio stadio, 122 milioni contro i 39 dell’Inter e i 17 della Juve, una cifra che lo mette in condizioni di grandissimo vantaggio su chiunque. E che rischia di chiudere qualunque confronto tecnico senza l’intervento massiccio dei vari azionisti. Incontriamo qui per la prima volta la dittatura della disuguaglianza […].

2) Nei sei anni dal 2004 al 2010 il fatturato del Real

Madrid è passato da 273 milioni di euro a 439.

Quello del Barcellona da 208 a 398.

Quello del Manchester United da 246 a 350.

Quello dell’Arsenal da 171 a 274.

Quello del Bayern da 190 milioni a 323.

Poi arrivano le grandi italiane.

Il fatturato dell’Inter è passato da 177 a 225.

Quello del Milan da 234 a 236.

Quello della Juve da 229 a 205,

Quello della Roma da 132 a 123.

Le differenze sono chiare e valgono risultati tecnici. Ma nessuno, nemmeno gli altri, può essere contento. L’Italia è stata la prima a indebitarsi e la prima pagare con i fallimenti di inizio duemila. Ma essendo dovunque i debiti ormai irrecuperabili e riguardando le più grandi squadre europee, o la soluzione arriverà per tutto il continente o non sarà una soluzione.

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È vuoto in media un posto su due, peggio nei Pigs: in Irlanda, Portogallo e Grecia

la crisi sta colpendo il divertimento più popolare. E pure la Spagna ora trema

Addio cari stadi

Povera Europa, il calcio è un lusso

Gli impianti inglesi e tedeschi sono i soli a restare sempre pieni persino quando si tratta di serie B

Prezzi alti e impianti vecchi. In Italia gli spettatori sono calati del 7,8%. Solo la Juve fa l’esaurito

di FRANCESCO SAVERIO INTORCIA (la Repubblica 10-12-2012)

Mezzo pieno, mezzo vuoto. Ogni maledetta domenica una poltroncina su due resta libera negli stadi europei. La crisi svuota le tribune insieme ai portafogli e aumenta il suo peso fra i fattori della desertificazione degli spalti. Investe il continente, ma produce effetti diversi a seconda del tessuto economico dei singoli paesi. Fra i primi venti campionati, dall’Inghilterra fino alla Bulgaria, la percentuale media di riempimento degli impianti sfiora il 50 per cento. Cattedrali sprecate, ma non per tutti. Perché l’Europa a due velocità ha uno specchio fedele nelle code al botteghino. Da un lato le sofferenze dei Pigs si ripercuotono anche sui club. Dall’altro, Germania e Inghilterra continuano ad avere stadi pieni.

RICCHI E POVERI

Il pallone diventa un bene superfluo, se non di lusso, e risente della riduzione di spesa delle famiglie nei paesi maggiormente colpiti dalla crisi: è una voce da tagliare. Fra i Pigs, i paesi con i conti pubblici in disordine e un’economia nazionale poco competitiva, i dati sull’affluenza allo stadio sono una fotografia lucida e disarmante. La Grecia, campione d’Europa solo otto anni fa, oggi è al diciottesimo posto per media spettatori, con un’emorragia di pubblico irrefrenabile (in questo inizio stagione ha perso un altro 4,8%) e un indice di riempimento degli stadi al 28,3%. E questo nonostante si possa accedere a una gara di Super League anche con 10 euro, se non si hanno grandi pretese.

Non va meglio al Portogallo. La Super Liga ha registrato un calo del 19,2% della media paganti, scesa a 8.851. Le strutture si riempiono per il 38,3%, fuori portata anche i 15 euro nel settore più popolare per una partita del Porto (8 per i soci). Affluenza ai tornelli in picchiata anche in Irlanda: solo il 29,5% dei posti disponibili. Qui la media spettatori è storicamente bassa, ma con la crisi si è registrato un ulteriore calo del 25%.

LA RESISTENZA SPAGNOLA

Un caso a parte è quello spagnolo. In apparenza, la Liga non perde spettatori e resiste al terzo posto fra i campionati più seguiti d’Europa. Ma all’interno del Paese corrono due binari: il fascino internazionale di Barcellona e Real con la sfida fra i due giocatori più forti del mondo (Messi e Ronaldo), poi il resto della povera compagnia. Soltanto 7 volte si è registrato finora il sold out, e sempre con il Barça in campo. Senza i due club che da otto anni si litigano lo scudetto, la percentuale di stadi pieni sarebbe poco superiore al 50, in media con i dati grigi d’Europa. Eppure per vedere la prossima gara dei blaugrana al Camp Nou contro l’Atletico non si spendono meno di 57 euro. Roba da ricchi. «Il calcio è un bene di lusso», ha detto a El Paìs il presidente del Getafe, Angel Torres. Il pallone specchio del paese anche in questo: la Spagna è al secondo posto per diseguaglianza sociale interna secondo Eurostat (34 di coefficiente Gini, la forchetta di reddito fra ricchi e poveri). E l’economista José Maria Gay de Liébana, presentando il suo annuale report su calcio e finanza, è stato drastico: «Entro cinque anni il calcio spagnolo rischia di chiudere ». Propone una “liga” iberica, allargata ai portoghesi.

LA LEZIONE ANGLOTEDESCA

Il calo nei nostri stadi è una costante: -7,8% rispetto all’anno scorso. Dall’avvento della crisi a oggi, seimila spettatori in meno (in un campionato intero, 2,3 milioni di biglietti persi). Solo lo Juventus Stadium fa sempre il tutto esaurito. Nonostante la fuga, i prezzi restano cari come nel resto d’Europa, a fronte di servizi scadenti. La Germania da due anni doppia l’Italia: in media 42mila spettatori contro 20mila, l’indice di riempimento è 86% contro 48%. La Serie A è sui livelli della Polonia (45,7%) e un po’ meglio solo di Romania, Portogallo, Irlanda e Grecia. Se la Francia resiste — ma l’iniezione di petroldollari e campioni non ha riempito gli stadi (66,6%) — l’Inghilterra galoppa. Arene piene al 94,6%, quasi impossibile trovare un ticket per United, City, Chelsea, Arsenal, Liverpool e Newcastle. Unico campionato ad aver aumentato (3,3%) le presenze. Eppure un biglietto per i Red Devils in offerta si trova a 32 sterline, non meno. Ma il dominio anglotedesco è certificato da un altro dato: al settimo e ottavo posto fra i tornei più seguiti ci sono Championship e Zweite Liga: la serie B inglese (69%) e tedesca (75%) riempiono gli stadi come il resto d’Europa può solo sognare.

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Pubblico 10-12-2012

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DAVID CONN

«Multinazionali e sceicchi,

il football si è venduto

l’anima alla modernità»

Intervista allo scrittore britannico, autore del libro

«Richer than God» dedicato al suo Manchester City

«L’arrivo dei signori di Abu Dhabi è una gigantesca operazione di marketing»

«La working class è stata allontanata dagli stadi per eliminare gli hooligans»

«Mario Balotelli è un talento complesso, incompreso e ancora in parte inespresso»

di LUCA MANES (Pubblico 10-12-2012)

David Conn è uno dei più apprezzati giornalisti e scrittori sportivi britannici. I suoi articoli sul Guardian e i suoi libri svelano le magagne che si annidano dietro la facciata glamour del calcio moderno, concentrandosi con enorme sensibilità sugli impatti sociali che i cambiamenti nel mondo del football hanno provocato negli ultimi decenni. Dopo il grande successo di pubblico e di critica raccolto con The Football Business (1998) e The Beautiful Game? (2005) , con il suo ultimo libro, Richer than God, si sofferma sulla storia recente del Manchester City, sulla sua ascesa da cugino povero dello United a club ricco e vincente. Nato a Manchester 47 anni fa, Conn ha iniziato a frequentare le gradinate del vecchio stadio del City, il Maine Road, quando era bambino, in un’epoca in cui il football non aveva ancora venduto la sua anima, come ricorda spesso nelle sue opere.

Ma perché lo sceicco Mansour Al Nahyan ha acquistato il Manchester City?

Sebbene fosse reduce da stagioni deludenti, il City è pur sempre un grande club, membro della Premier League ormai da qualche anno e con un grande seguito di tifosi. Mettici pure che aveva appena avuto in «dono» dall ’amministrazione comunale uno stadio nuovo di zecca, il City of Manchester Stadium realizzato per i giochi del Commonwealth del 2002, e capirai perché hanno scelto di investire i loro soldi su una realtà di questo tipo. Più in generale quella dello sceicco Mansour è stata una gigantesca operazione di marketing, che gli ha assicurato più visibilità di decine di contratti petroliferi da sogno e che ha inoltre l’obiettivo di fornire un’immagine positiva di Abu Dhabi a tutto il mondo occidentale.

Non a caso il livello di professionalità dell ’attuale società è molto alto, o sbaglio?

No, è esattamente così. Sanno gestire con maestria ogni situazione. Hanno rispetto della storia del club e dei suoi tifosi, elementi che ritengono degli asset da valorizzare. Quando il City ha vinto il titolo hanno invitato ai festeggiamenti tante vecchie glorie del passato e mantengono un dialogo proficuo e continuo con i supporter. Poi stanno puntando forte sulle giovanili e hanno destinato quasi 300 milioni di euro per la realizzazione del nuovo, avveniristico centro allenamenti.

Però in Champions League le cose sono andate male. Due eliminazioni consecutive al primo turno, non è che Roberto Mancini rischia?

Tutte le illazioni apparse sui giornali in merito a un suo possibile licenziamento non hanno senso. Qui non parliamo di gente come Roman Abramovich, che caccia gli allenatori a suo capriccio. In questo caso siamo di fronte a persone che programmano a lungo termine. Certo, ora si aspettano che Mancini rivinca la Premier e, dopo le brutte figure in Champions League, monitoreranno il suo lavoro con ancora maggiore attenzione. Ma non credo proprio lo cacceranno nel corso della stagione, anche se il City dovesse andare male. Poi è pur vero che la stampa non lo ama più, ma i tifosi lo adorano. Per me rimane un allenatore di spessore, molto concreto – non a caso appena arrivato a Manchester ha subito messo mano alla difesa – che però, vedi la lunga diatriba con Tevez, a volte trova difficoltà nella gestione dei giocatori.

E invece di Mario Balotelli che idea ti sei fatto?

Un grande talento ancora parzialmente inespresso, che al City ha avuto qualche momento negativo di troppo, in campo e fuori, come quando la scorsa stagione si è fatto espellere in maniera molto sciocca in un match di fondamentale importanza con l’Arsenal, oppure quando ha lanciato delle freccette contro un ragazzo delle giovanili. Tuttavia ho sempre pensato che della sua complessità si è compreso ben poco nel mondo del football, ossessionato com’è dalle prestazioni all’interno del rettangolo di gioco. Non dimentichiamoci che sulla sua personalità ha inciso molto un’infanzia problematica.

Nel 2014-15 sarà operativo il fair play finanziario. Che impatti avrà su squadre «spendaccione» come Manchester City e Chelsea?

Non credo che Al Mansour e Abramovich si faranno trovare impreparati, anzi, ci stanno già lavorando. Quest’anno il Chelsea ha fatto registrare profitti per quasi due milioni di euro, non era mai successo nelle stagioni precedenti. I nuovi contratti televisivi ancora più ricchi e l’aumento del costo dei biglietti comporteranno un incremento delle entrate. È indubbio che sarà più difficile spendere e spandere come fatto di recente, ma tanto il City ha già costruito una buona base, investendo quasi un miliardo di euro sul mercato giocatori, ricchissimi contratti compresi.

Tu hai sempre tifato City, eppure nel libro «Richer than God» racconti come da tempo sia avvenuto un forte distacco tra te e il club che andavi a sostenere al vecchio Maine Road da bambino.

La differenza tra gli anni settanta e adesso è che, anche grazie al mio lavoro, sono mio malgrado perfettamente a conoscenza di che cosa è diventato il mondo del calcio, di quanto gli interessi economici abbiano preso il sopravvento a scapito della passione. Prima per noi il Manchester City era un club e basta. Sapevamo, e bene, solo i nomi dei giocatori, gente come Colin Bell e Franny Lee. Loro erano in campo quando andai allo stadio per la prima volta nella mia vita, insieme a mio padre. Era una fredda sera del novembre del 1975, il City umiliò lo United nella semifinale di Coppa di Lega. Finì 4-0 davanti a 40mila tifosi in delirio, che ancora non si immaginavano che nell’arco di pochi anni sarebbe iniziato un declino durato circa 30 anni. Io e i miei amici quasi non sapevamo chi fossero i proprietari, anche perché non sedevano nel «board of directors» per fare soldi. Già negli anni ottanta, quando i primi club sono stati quotati in borsa, è iniziato a cambiare tutto. Ora sono delle multinazionali e basta. Nel libro parlo di come nel 1994 proprio uno degli eroi della mia gioventù, quel Franny Lee di cui avevo il poster in camera e che fu protagonista della vittoria in campionato nel 1968 insieme a Bell e Mike Summerbee, divenne presidente solo per guadagnare soldi. Nonostante volesse far credere di averlo fatto per amore del club. Riuscendo a capire che cosa c’era dietro a tutta una serie di azioni, ho iniziato a vivere il mio rapporto con la squadra in maniera differente. Anche quando nel 1999 il City vinse ai rigori lo spareggio per tornare in seconda serie contro il Gillingham ai rigori, dopo aver segnato due gol nei minuti di recupero dei tempi regolamentari, non sono riuscito a gioire come avrei fatto un decennio prima. Diciamo che il mio distacco ha radici profonde, che coincidono con l’affermazione del calcio moderno.

A proposito di proprietà molto discutibili, prima dello sceicco Mansour c’era l’ex premier thailandese Thaksin Shinawatra, non proprio uno stinco di santo.

Sì, però i tifosi, ma soprattutto la Premier League, lo hanno accolto a braccia aperte. Eppure stiamo parlando di una persona che quando era al potere si è reso responsabile di serie violazioni dei diritti umani, autorizzando omicidi extra-giudiziali di centinaia di persone, e di gravissimi atti di corruzione.

Anche ad Abu Dhabi gli sceicchi hanno i loro problemi.

Sì, hanno costruito parte della loro fortuna sfruttando per pochi soldi i migranti impiegati nel settore estrattivo e delle costruzioni. Paghe da fame, pessime condizioni di lavoro e diritti ridotti al lumicino hanno rappresentato la prassi per decenni, ora ci sono stati dei miglioramenti, ma ancora abbastanza timidi.

A Manchester, sponda United, i fan hanno inscenato proteste contro il possibile arrivo di Rupert Murdoch. Poi, una volta che la società è stata rilevata dalla famiglia americana dei Glazer, causa dell’immenso debito attuale dei Red Devils, alcuni hanno deciso di creare un club tutto loro, l’FC United. Perché i sostenitori del City non hanno fatto altrettanto?

I tifosi del City non si sono fatti scrupoli perché la squadra, a differenza dello United, non vinceva nulla da troppi anni. Anzi, avendo subito umilianti retrocessioni anche in terza serie, non vedevano l’ora che arrivasse qualcuno in grado di riportarli ai fasti del passato, chiunque fosse. Poi nel caso dell ’FC United c’è da dire che l’iniziativa è partita soprattutto da alcuni singoli con un approccio molto «politico» e questo alla fine ha fatto la differenza.

Manchester si ritrova con due delle squadre più forti al mondo e giocatori strapagati. La cosa non stride con la situazione tutt’altro che rosea della città?

Assolutamente sì. Pensa che l’area dove gioca il City, nella parte est della città, è una delle più povere d’Inghilterra. Lì la disoccupazione raggiunge punte del 40%, eppure a pochi metri da migliaia di famiglie indigenti giocano calciatori come Carlos Tevez, che guadagna una decina di milioni di euro l’a nno. Manchester è stata la culla della rivoluzione industriale, la città dove sono nati i sindacati e si sono sviluppati importanti movimenti sociali, ma a partire dalla salita al potere di Margaret Thatcher nel 1979 non si è fatto nulla per invertire l’inesorabile declino delle industrie locali. Sono mancate le alternative, o meglio non li si è cercate. Le autorità cittadine hanno accettato il nuovo modello, fatto di tagli e privatizzazioni, qualcosa è stato fatto per il centro, ma le periferie, in particolare quelle della parte orientale, sono state abbandonate. Mentre si spendevano oltre cento milioni di euro di soldi pubblici per realizzare lo stadio diventato la nuova casa del City, i campi di calcio e gli impianti sportivi venivano lasciati in condizioni disastrose. A Manchester chi vuole praticare sport a livello di base ogni anno incontra sempre più difficoltà.

In Italia quando accadono episodi di violenza legati al mondo del calcio, come l'ultimo che ha visto protagonisti ultrà romani contro tifosi del Tottenham, in tanti invocano il cosiddetto «modello inglese». Ma è proprio così esemplare?

No, al di là del fatto che non potrai mai estirpare del tutto la violenza dal football, da noi si è esagerato con normative molto draconiane o per esempio con l’impiego della telecamere a circuito chiuso per controllare i tifosi. Sebbene a fare a botte allo stadio fosse una minoranza, pur cospicua negli anni Ottanta, hanno pagato tutti. Un altro elemento spesso sottovalutato di quello che chiamate «modello inglese» è stato l’au - mento vertiginoso dei biglietti, che pure dopo il disastro dell’Hillsborough nel 1989 era stato indicato come un errore da non commettere dalla commissione indipendente istituita ad hoc, che poi produsse un documento di fondamentale importanza come il Taylor Report. Negli anni ‘70 e ‘80, anche quando c’erano periodi di crisi, tutti i giovani tra i 18 e i 25 anni si potevano permettere di andare allo stadio perché era a buon mercato. Ora l’eta media degli spettatori si è alzata moltissimo e intere fasce d’età sono penalizzate. Certo, così si sarà anche tenuto lontano qualche hooligan – ma non tutti – però si è colpita duramente la working class, da sempre grande appassionata del football. Ovvero uno sport che prima era sinonimo di coesione sociale. Ora non più.

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il Fatto Quotidiano 10-12-2012

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CALCIOSCOMMESSE

Il Napoli va al processo

Rischio penalizzazione

La responsabilità oggettiva potrebbe costare al club azzurro due punti, con

il patteggiamento uno. Ma De Laurentiis rifiuta qualsiasi ammissione di colpa

di EDMONDO PINNA (CorSport 10-12-2012)

ROMA - Oggi il giorno. Il Napoli che finisce alla sbarra (sportiva) per colpe che De Laurentiis rifiuta di pensare del suo club. Gianello ammise di aver contattato Cannavaro e Grava, di aver tentato timidamente con loro la proposta illecita, rigettata al mittente. Samp-Napoli di metà maggio 2010 si doveva giocare secondo i crismi sacri, non dovevano esserci ombre. Ecco cosa risposero i compagni al loro (ora ex) terzo portiere, ecco cosa sosterranno in aula i legali di parte partenopea. Che rifiutano il patteggiamento, che pure è lì, a portata di mano. Non ci sarà nessun tormentone stile-Conte, avanti senza paura anche nella aule di giustizia, il Napoli non conosce altro credo.

PENALIZZAZIONE - Due punti o uno, la scelta è un bivio che dalle parti di Soccavo hanno già risolto. Perché due punti sono la pena minima che è stata comminata dai giudici per le responsabilità oggettive. Ed è oggettivamente che il Napoli deve rispondere del comportamento non solo di Gianello (che sarà difeso dall’avvocato Chiacchio), ma anche di Cannavaro e Grava (i cui interessi sono nelle mani dell’avvocato Malagnini, i due rischiano sei mesi) che ai giudici della Disciplinare presieduta da Sergio Artico dovranno confutare l’omessa denuncia. Due punti, che diventerebbero uno per il Napoli in caso di patteggiamento. E’ successo così per Torino, Samp, Atalanta, tanto per citare i casi più recenti. Ma De Laurentiis considera il patteggiamento un’ammissione di colpa, il presidente del Napoli guarda lontano, oltre i due gradi di giudizio endofederali (Disciplinare e Corte federale). Guarda a quel Tnas che fino ad oggi ha regalato più gioie che dolori a chi vi si è appellato (pensate a Conte, per pensare a tutti gli altri che lì si sono rivolti). Oggi si comincia, sarà solo il primo passo.

PROCESSO - Si comincia oggi, poco prima dell’ora di pranzo, si proseguirà presumibilmente anche domani, perché c’è pure un’altra partita, Portogruaro-Crotone (29 maggio 2011), la presunta combine, ad impegnare i giudici. Deferiti Furlan, Andrea Agostinelli, David Dei, Gianfranco Parlato, Silvio Giusti, il Portogruaro a titolo di responsabilità oggettiva e il Crotone per responsabilità presunta.

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Calcioscommesse Oggi a Roma si apre davanti alla Disciplinare il

procedimento per il filone napoletano: Palazzi spinge per la linea dura

Via al processo,

il Napoli in attesa di giudizio

Gianello vuole patteggiare, la società rischia una multa e una penalizzazione

La difesa Noi non facciamo accordi: siamo stati coinvolti senza ragione

di PINO TAORMINA (IL MATTINO 10-12-2012)

Le uniche certezze, il processo al calcio scommesse che fa tremare il Napoli e che stamane a Roma alle 11 aprirà le porte ad avvocati e imputati, le regala già prima di iniziare. La prima è che il club azzurro, Gianluca Grava e il capitano Paolo Cannavaro respingeranno qualsiasi ipotesi di patteggiamento che dovesse proporre Stefano Palazzi. Il secondo punto fermo è che, invece, Matteo Gianello, assistito dal suo legale Eduardo Chiacchio, è pronto a discutere l’ipotesi di un accordo con il procuratore federale. L’ex terzo portiere azzurro per il tentato illecito da lui ammesso sia davanti ai pm della procura di Napoli che dinnanzi agli 007 federali in sede istruttoria, rischia la pena massima: la radiazione. Come è noto, avrebbe alla vigilia di Sampdoria-Napoli del 16 maggio 2010 tentato (solo tentato dopo aver detto di sì a Silvio Giusti, ma per la giustizia sportiva mordi e fuggi cambia poco) di combinare il match. Ovvio, quindi, che essendoci in ballo la sua carriera futura (vuole fare l’allenatore) è disposto a trattare anche un eventuale lungo stop, dai due ai quattro anni.

I legali del Napoli (Mattia Grassani), di Cannavaro jr (Ruggiero Malagnini) e di Gianluca Grava (Luisa Delle Donne) intendono invece andare in dibattimento per mettere in dubbio la credibilità e le parole di Gianello. È questa la strategia e la volontà imposta fin dal primo momento dal patron Aurelio De Laurentiis. «Mai e poi mai Gianello ha proposto a Cannavaro e Grava di combinare la partita», la strenua difesa dei due azzurri. Le ammissioni di Gianello sono alla base del procedimento che porta alla sbarra il club azzurro, costretto a rispondere per responsabilità oggettiva dalle accuse di omessa denuncia (per Cannavaro e Grava) e di illecito sportivo (quello per cui è imputato Gianello).

La tattica del club è chiara: si va dritti in giudizio alla ricerca dell’assoluzione. O la va o la spacca. In tal caso il procuratore Palazzi potrebbe richiedere il -2 in relazione alla responsabilità oggettiva che il club sarebbe costretto ad accollarsi per l’illecito tentato e andato a vuoto di Gianello.

Per l’omessa denuncia c’è solo l’ammenda, dai 200 mila euro a salire. Se è vero, ma loro negano anche il rifiuto, che Cannavaro e Grava hanno ricevuto e rispedito indietro indignati la proposta di Gianello di combinare Samp-Napoli, i due avrebbero dovuto informare gli inquirenti federali. I giocatori rischiano fino a quattro mesi di squalifica tenendo conto del recente precedente del tecnico juventino Antonio Conte dinnanzi al Tnas.

Il Napoli non ci sta. Uscito completamento pulito dalla minuziosa indagine della Procura napoletana, non intende macchiare la propria immagine con una penalizzazione. I tempi sono brevi: la sentenza della Disciplinare potrebbe arrivare già tra sette giorni. C’è poi il secondo grado: Corte di Giustizia federale. Quindi, l’arbitrato del Coni.

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I tempi Procedure rapide

Le sentenze tra sette giorni

poi due gradi di appello

di PINO TAORMINA (IL MATTINO 10-12-2012)

All’inizio della prossima settimana sono attese le sentenze di primo grado del processo sportivo sul filone napoletano di calcioscommesse. Probabilmente già da venerdì, dopo aver ascoltato le arringhe difensive, la Disciplinare di Sergio Artico si riunirà in camera di consiglio per esaminare le richieste formulate dal procuratore federale, Stefano Palazzi, in base alle intercettazioni e alle rivelazioni contenute nell’informativa della procura di Napoli. In questi giorni si preannuncia un braccio di ferro intorno al ruolo di Gianello per la cui credibilità si scontreranno accusa e difesa. Artico, per prima cosa, dovrà valutare la congruità delle eventuali ipotesi di patteggiamento che Palazzi presenterà in questi giorni. Il secondo grado, la Corte di giustizia, potrebbe iniziare già dopo sette giorni. Ma c’è l’incognita delle feste di Natale che potrebbe far slittare tutto ai primi giorni del 2013.

Il grande accusatore sarà il napoletano Stefano Palazzi, 52 anni lo scorso settembre, magistrato presso la Corte militare d’appello, dal 2007 il capo della Procura federale, l’indiscussa guida degli 007 della Figc. È descritto come magistrato preciso, pignolo, accentratore. Pochi mesi fa il rinnovo dell’incarico, che svolge praticamente a titolo gratuito, da parte di quello che è un po’ il Csm del calcio italiano, la Commissione di garanzia della Federcalcio, presieduta da Pasquale De Lise. Palazzi, collabora con la Federcalcio dal ’90 ed ha assunto la guida della Procura federale nel 2005. Due anni dopo è a capo della Superprocura, che assorbe anche le funzioni del vecchio Ufficio Indagini, diretto nell’ultimo anno di vita da Francesco Saverio Borrelli. Recentemente, ospite al tribunale di Napoli per un convegno, ha ribadito la necessità di avere altri strumenti normativi per poter meglio fronteggiare l’emergenza delle scommesse nel calcio.

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CALCIOSCOMMESSE

Presunto illecito Samp-Napoli

Oggi il via al processo sportivo

Gli azzurri tremano per la confessione dell'ex Gianello. Il club contesta il -2 «automatico»

di VALERIO PICCIONI (GaSport 10-12-2012)

Comincia oggi a Roma il processo sportivo per i presunti illeciti in Sampdoria-Napoli e Portogruaro-Crotone. La copertina è del primo caso: il terzo portiere del Napoli, Matteo Gianello cerca di combinare la gara per favorire i doriani. Tutto «confessato» ai magistrati e poi ribadito agli investigatori Figc.

Scenario Questa mattina l'avvocato di Gianello, Eduardo Chiacchio, patteggerà con la Procura federale. È probabile che alla fine Gianello invece dei cinque anni, possa scontare tra i 18 e i 20 mesi di squalifica. E il Napoli? L'avvocato Mattia Grassani ribadisce che «la società è parte lesa» e contesta l'automatismo dei due punti di penalizzazione. Il Napoli spera che la Disciplinare indichi una nuova strada della giurisprudenza sportiva, escludendo la responsabilità oggettiva in casi particolari. Comunque si andrà fino al Tnas, di recente campione di sconti e cancellazioni.

Cannavaro e Grava Quanto a Cannavaro e Grava (deferiti per omessa denuncia), Luciano Malagnini, difensore dei due con Luisa Delle Donne, punta a «smontare» il deferimento per la scarsa attendibilità di Gianello. Nel processo saranno giudicati anche Portogruaro e Crotone (che patteggeranno), AlbinoLeffe, Avesa. Fra i tesserati oltre a Gianello, Paolo Cannavaro e Grava, ci saranno Giusti, Furlan, Agostinelli, Dei, Parlato, Cossato, Zamboni e Passoni.

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la Repubblica 10-12-2012

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L’INCHIESTA

Gegic di nuovo sotto torchio

ora risponde al pm Di Martino

Dopo l’audizione dal gip Salvini doppio interrogatorio oggi e domani per

“confermare” i pentiti Carobbio, Gervasoni e Micolucci. Ilievski a gennaio

di ANDREA RAMAZZOTTI (CorSport 10-12-2012)

MILANO – Dopo il doppio interrogatorio di garanzia da parte del gip Salvini del 29 e 30 novembre, Almir Gegic stamani sarà ascoltato dal pm Di Martino. Molti gli aspetti della vicenda da approfondire visto che il serbo ha svolto un ruolo importante in una quarantina delle partite considerate truccate e finite nell’inchiesta del calcio scommesse. Di fronte al giudice per le indagini preliminari, una delle due menti del clan degli zingari ha cercato di sminuire il suo ruolo, spiegando che si è “solo” limitato ad acquistare informazioni dai giocatori “infedeli”. Prima lo ha fatto da solo poi, quando il giro si è allargato, ha coinvolto nell’affare l’amico d’infanzia Ilievski. Gli inquirenti non hanno creduto alle spiegazioni fornite da Gegic, ma dal suo racconto hanno comunque raccolto significative conferme sulla versione di Gervasoni che viceversa l’ex centrocampista del Chiasso ha etichettato come un «bugiardo».

APPROFONDIMENTI – Il pm Di Martino in questi giorni ha riletto buona parte delle carte processuali e, per ogni partita nella quale il serbo è coinvolto, ha preparato una serie di domande utili a confermare i racconti già fatti dalle persone interrogate e dei pentiti Micolucci, Gervasoni e Carobbio. Il faccia a faccia davanti al pubblico ministero si preannuncia molto lungo e non a caso è stato diviso in due parti: la prima stamani, la seconda domani mattina. In base all’esito di due interrogatori il difensore di Gegic, l’avvocato Bianchi, deciderà se presentare istanza di revoca della misura cautelare. L’ex centrocampista è nel carcere di Cremona da lunedì 26 novembre quando si è consegnato alle autorità italiane dopo essere arrivato a Malpensa con un volo partito da Belgrado. Anche Ilievski è deciso a costituirsi per raccontare la sua verità, ma a questo punto è probabile che lo faccia solo a gennaio. Idem per Suljic, l’altro componente del clan degli zingari che non è ancora stato interrogato dagli inquirenti di Cremona.

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L'ÉQUIPE 10-12-2012

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L’INCHIESTA

Grande distribuzione

calciatori di qualità

Dai supermercati alla proprietà di Neymar e Ganso

tutti gli affari dei Sonda, i fratelli che finanziano i club

Hanno versato denaro fresco in cambio dei “diritti federali” sugli atleti

L’esplosione di Nilmar (19 gol in 36 partite) primo sintomo di un grande fiuto

La Fifa, nonostante le severe regole contro le “parti terze”, tace

di PIPPO RUSSO (Pubblico 11-12-2012)

Immaginate se la Coop fosse proprietaria del 50 per cento di El Shaarawi e del 75 per cento di Verratti. O se l’Esselunga controllasse tutto Balotelli e il 55 per cento di Destro. Una situazione assolutamente strampalata rispetto alla realtà italiana. Ma del tutto normale in Brasile, specie dopo l’ingresso di Delcir Sonda nel mondo del calcio. Ma chi è costui?

Si tratta di un distinto signore che ha fatto i soldi nel settore della grande distribuzione. Ultimo di quattro figli, partecipa assieme ai fratelli e al padre Andréa alla fondazione del primo supermercato di famiglia negli anni Sessanta. L’apertura di quell’esercizio commerciale è l’inizio di una scalata che forse nemmeno i protagonisti immaginavano. Nel giro di mezzo secolo quella piccola attività si trasforma nel primo anello di una rilevante catena brasiliana della grande distribuzione. Nel 1974 viene fondato il gruppo “Sonda Supermercados”, sotto il quale sono adesso raggruppati 23 punti vendita che fanno della catena la sedicesima del settore nel ranking nazionale e la quinta nello stato di San Paolo. Al gruppo fanno capo anche i sei punti vendita dal marchio Cobal e il supermarket virtuale Sonda Delivery. Vi lavorano 5.000 addetti. Dunque, si sta parlando di una realtà economico-finanziaria forte ma non fortissima. Eppure basta essere attori di questa taglia per entrare nel gioco grande del calcio brasiliano, e annettere ai prodotti da grande distribuzione anche i principali calciatori del paese.

L’iniziativa di espandere al calcio il portafoglio delle attività del gruppo è dei fratelli Delcir e Idi Sonda. E, stando alla rappresentazione pubblica che viene fatta di questo avvicinamento al mondo del pallone, in origine non vi sono ragioni speculative: Delcir Sonda è tifoso dell’Internacional Porto Alegre, e si presta a soccorrere finanziariamente il club in difficoltà versando denaro fresco in cambio di quote dei “diritti federali” di calciatori. Naturalmente nessuno è in grado di smentire questa versione “sentimentale” dell’ingresso di Delcir Sonda nel mondo del calcio, e non sarebbe nemmeno interessante farlo. La sola cosa sicura è che per condurre questo tipo di operazione viene istituito il fondo D.I.S. (Delcir Ide Sonda) Esporte e Organização de Eventos LTDA. Che progressivamente fa incetta dei migliori talenti in circolazione sul mercato nazionale. In tal senso, e al di là del giudizio negativo da dare riguardo a questo stato delle cose nel mercato sudamericano dei calciatori, una cosa va riconosciuta a Delcir Sonda: sarà anche un neofita nel mondo del calcio, ma appena dopo avervi fatto ingresso si ritaglia un ruolo strategico accaparrandosi alcuni fra i giovani di maggior talento, in un paese che rimane il più grande vivaio calcistico del mondo. Il suo fiuto si rivela già dalle prime operazioni condotte per “aiutare” l’Internacional Porto Alegre. A settembre 2007, oltre a versare al club denari per acquisire compartecipazioni sui giocatori, Delcir Sonda porta l’attaccante Nilmar. Del quale, casualmente, possiede il 50 per cento del cartellino. Nilmar, il cui valore di mercato è in quel momento di 3 milioni di euro, è anche reduce da una cattiva esperienza a Lione e da un infortunio. Il suo ritorno all ’Internacional (nelle cui giovanili ha iniziato la carriera esordendo in campionato nel 2002) avviene tra le perplessità. Invece l’attaccante segna 19 gol in 36 partite e nell ’estate del 2009 viene venduto al Villarreal per 11 milioni di euro. Plusvalenza del club? No, in gran parte guadagno personale di Sonda. Che continua a mostrare un fiuto straordinario per gli affari calcistici. A maggio del 2010 il settimanale economico Istoé Dinero celebra i suoi successi da boss della grande distribuzione dei calciatori rilevando lo spaventoso aumento di valore di alcuni suoi investimenti. Se i principali titoli del portafoglio Bovespa (un indice finanziario della Borsa di San Paolo che valuta prestazioni e prospettive delle principali società quotate) si attestavano su un rendimento del 9 per cento, gli investimenti calcistici di Delcir Sonda denotavano un aumento di quotazione del 1.024 per cento. Il motivo di un così spaventoso aumento? Due semplici nomi fra i tanti che fanno parte della scuderia, quelli delle più grandi promesse del calcio brasiliano: Paulo Henrique de Souza, meglio noto come Ganso, del quale il fondo DIS aveva acquistato pochi anni prima il 45 per cento per 2,2 milioni di euro e che al momento della stesura dell’articolo ha un valore stimato di 50 milioni di euro; e Neymar, il cui 40 per cento viene acquistato nel 2008 per 3 milioni di euro e il cui valore totale tocca soltanto due anni dopo i 35 milioni. In quel momento entrambi giocano nel Santos, club col quale Sonda ha «ottimi rapporti». Nel senso che gli lasciano fare i traffici senza il minimo disturbo. Dura finché dura, ma nel 2012 i rapporti fra Santos e DIS si rompono. L’oggetto del contendere è Ganso, la cui quota di proprietà da parte dei Sonda è salita nel frattempo a 55 per cento. Il club tenta di tacitare gli appetiti dell’ingombrante socio proponendo di cedere il 70 per cento dei diritti d’immagine sul giocatore, e qui siamo davvero a qualcosa che ricorda il meccanismo dei subprime. Sonda dichiara che Ganso non giocherà più nel Santos. Si va in tribunale, e la DIS si vede dare ragione. Immediatamente Sonda “aiuta” il San Paolo a acquistarlo, portando la partecipazione sul cartellino al 68 per cento. Ma stavolta gli dice male. Il giocatore è di cristallo. A settembre s’infortuna per l’ennesima volta e in modo grave. Il presidente del club, Luis Alvaro de Oliveira Ribeiro, si lascia scappare che Ganso non tornerà più a giocare. Il successivo comunicato ufficiale di smentita è una pezza peggiore del buco. Si vedrà, ma intanto il fondo DIS registra il primo insuccesso, unito alla permanenza di Neymar al Santos. In tutto questo, la Fifa che nel 2008 aveva emanato severe regole contro le “terze parti”, guarda e tace. Come sempre. Prova invece a reagire l’Uefa. Durante l’Esecutivo della scorsa settimana Michel Platini ha annunciato che entro quattro anni verrà impedito di giocare nei tornei europei ai calciatori controllati da “terze parti”. Pare che in quella occasione sia circolato il nome del Doyen Group e che si sia parlato dell’ingaggio di Ola John da parte del Benfica, come cattivo esempio. Cose che su queste pagine vi abbiamo raccontato un mese fa. In Italia non ne parla nessuno, e nessuno ha dato notizia della presa di posizione di Platini. Dovremmo essere orgogliosi dell’esclusiva offerta ai lettori di Pubblico , e invece c’è poco di che stare allegri al cospetto di disinformazione e pusillanimità così pertinaci.

(6 / continua)

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