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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Un libro intenso e drammatico

con elogi agli azzurri e critiche ai Bleus

«Materazzi, l'Italia

i rigori: che incubo

la finale a Berlino»

Autobiografia dell'ex c.t. francese Domenech

«Il 2006 una tragedia. Buffon un esempio»

Dagli insulti di Anelka agli eroi negativi, storia di un allenatore scomodo e diretto

«La testata di Zidane fu un messaggio negativo per la squadra»

di ALESSANDRO GRANDESSO (GaSport 21-11-2012)

Da solo. Si intitola così il libro di souvenir del c.t. più odiato del calcio francese e pure italiano. E' la storia di Raymond Domenech che portò la Francia a un passo dal trionfo mondiale, nel 2006, negatogli dall'Italia di Marcello Lippi, e poi giù nel baratro sportivo, mediatico e sociale nel 2010, passando per l'Europeo disastroso del 2008. Una parabola emozionante ricostruita in un libro di 361 pagine. Pagine intense, drammatiche, spietate, ma sempre lucide su sei anni vissuti nel segno della provocazione che però non impediscono all'ex c.t. di rendere omaggio, a modo suo, proprio agli italiani Marco Materazzi e Gianluigi Buffon.

Tragedia «La finale del 2006 — scrive Domenech, c.t. dal 2004 — la vedo come una tragedia per la struttura drammatica, il dolore che provoca. Ma se a teatro amo rivedere le pièce, quella finale non l'ho mai rivista (...). Le immagini però hanno popolato le mie notti per molto tempo». Un incubo incarnato anche da Materazzi a cui Domenech riserva un omaggio velenoso: «Mi è stato rimproverato di averlo definito come il vero protagonista della finale. Eppure fu così: Zizou segna su rigore provocato da un fallo di Materazzi su Malouda. Materazzi stesso pareggia (...), senza dimenticare la capocciata di Zidane a Materazzi. Magari con Zidane avremmo perso comunque, ma quel dramma introdusse un messaggio negativo alla mia squadra nel momento più intenso della finale (...)». Una finale persa anche se la Francia «dominava e mise l'Italia sotto pressione, ma gli azzurri seppero attendere, sopravvivendo al colpo di testa di Zidane parato da Buffon, riuscendo ad arrivare ai rigori».

Disastro Il resto è noto. Ed è l'inizio della fine per Domenech che decise, contro il suo istinto, di rimanere c.t. anche dopo la rivincita nel settembre 2006 (3-1, qualificazioni a Euro 2008) e di riprovarci con un gruppo orfano di Zidane e già perduto nell'egocentrismo. Degli «imbecilli», come sentenziò due anni dopo, la sera dell'eliminazione (2-0 dall'Italia) un Lilian Thuram a fine corsa, augurando buona fortuna a un c.t. che aveva appena chiesto la mano della compagna in diretta tv: «Un'ingenuità, un errore fatale». Eppure Domenech viene confermato da una dirigenza debole, «guidata da un dilettante». Inizia così il capitolo più buio che porta al Mondiale 2010, quello dello sciopero della vergogna che trasformò lo spogliatoio dei Bleus in specchio di una società francese divisa tra tensioni etniche e sociali. Domenech parla solo di implosione provocata da leader nefasti come Anelka che alla fine del primo tempo contro il Messico lo insultò davanti a tutti («Razza di strǫnzo fattela da te la tua squadra di ɱerda»), senza mai scusarsi. «Mi sorprese — ricorda l'ex c.t. — di più il fatto che mi desse del tu, rompendo la barriera dell'età, schemi, gerarchia». Gli insulti, deformati, finirono sulla prima pagina dell'Equipe provocando il putiferio.

Esempio Tra gli eroi negativi anche Ribery, Malouda, Evra, Gallas, Henry: «Tutti incoscienti». Senza dimenticare gente come Nasri, simbolo di una generazione emergente, malata di soldi facili e protagonismo, che dovrebbe invece ispirarsi a Buffon: «Quando lo vedi a 34 anni cantare l'inno ad occhi chiusi, a squarciagola... Non è nazionalismo, ma voglia di mostrare alla gente l'attaccamento alla maglia, l'emozione per i valori, la storia che rappresenta, l'imminenza della battaglia. Se si è capaci di lasciarsi trasportare come Buffon, significa che si è capaci di dare tutto per la propria squadra». Come Materazzi, come gli azzurri nel 2006.

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Ha vinto la Roma!

Confermato lo 0-3

ma Cellino esplode

La Cgf decreta la sconfitta a tavolino del Cagliari

Il patron: «Uno schifo». Probabile ricorso all’Alta Corte

di MASSIMO CECCHINI & VALERIO PICCIONI (GaSport 21-11-2012)

La coda è così velenosa da oscurare persino un verdetto non inatteso. Cagliari-Roma del 23 settembre finisce (per ora) quasi due mesi più tardi, con la Corte di Giustizia Federale (Cgf) che conferma lo 0-3 e il presidente Massimo Cellino che attacca a tutto campo, ribadendo il mistero intorno alla proprietà della Roma e incassando la solidarietà di Claudio Lotito, pronto a giurare che i presidenti la pensino come lui. Insomma, un polverone in cui annaspa il calcio italiano.

I fatti Il match non si disputò perché il Prefetto di Cagliari decise all'ultimo momento il rinvio visto che Cellino aveva invitato gli abbonati a recarsi allo stadio, nonostante la sfida fosse a porte chiuse per i ritardi nei lavori all'Is Arenas. Il club rossoblù, oltre che al Tar della Sardegna, si appellò alla Cgf, che il mese scorso decise di chiedere un supplemento d'indagine alla Procura federale. Ieri, quindi, la sentenza, che con molta probabilità sarà appellata presso l'Alta Corte di Giustizia del Coni (o eventualmente al Consiglio di Stato). «La verità è che la Roma non ha voluto giocare la partita e questo non è sportivo — accusa Cellino —. È come simulare un fallo da rigore o segnare con la mano e non ammetterlo. Sono amareggiato. La Roma, era una società amica. Ora invece non conosco né proprietà né presidente, ha voluto vincere a tutti i costi, anche con i sotterfugi. Il Cagliari è una società seria, con un presidente che non si nasconde dietro istituti di credito o fondi di investimento. Con questa sentenza lo sport non c'entra nulla. Ripenserò il mio impegno dopo 21 anni in cui ho dato tutto. È uno schifo». E il web rossoblù, infatti, si è infiammato.

Fenucci in difesa Giudicato inopportuno far incontrare di nuovo il d.g. Baldini con Cellino, tocca all'a.d. Fenucci raccogliere la sfida. «Abbiamo chiesto solo il rispetto delle regole. L'istruttoria ha chiarito i motivi che hanno portato al rinvio. Lo sport vince se vengono rispettati i regolamenti. La Roma non ha bisogno di regali da nessuno. La nostra proprietà? È rappresentata da me, Baldini o Pannes, visto che il cda ha attribuito a noi le deleghe».

Solidarietà Lotito Ma Cellino non si placa. «Negli uffici Figc ho avvertito una sensazione strana. Ero ospite di una casa dell'orrore. È una lotta impari. Il mio unico difetto è non essere rappresentato da una banca, di non avere il peso politico degli altri. La Roma se vuole i punti così, magari la prossima volta buchiamo le ruote del pullman e gliela diamo vinta. Mi trattano come uno stupido. La Roma non so di chi sia. È di UniCredit? Vorrei saperlo. Prima c'erano i Sensi e ora? Chi è Pallotta? Io non l'ho mai visto. L'Atalanta poteva non venire a Cagliari e prendersi la partita vinta e invece è venuta, il calcio è fatto per essere giocato. Il caso? Volevo fare il comunicato la sera prima, poi per questione di fuso orario l'ufficio stampa l'ha fatto quando non aveva piu senso». A lenire l'amarezza di Cellino arriva la solidarietà di Lotito. «Non parlo da presidente della Lazio. Chi sbaglia deve avere una sanzione, ma che c'entra un'altra squadra? Viene meno la par condicio. Le partite vanno giocate. Se uno commette degli errori, non possono usufruirne altri. E i presidenti sono d'accordo con me».

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IL RE MIDA DEL PALLONE

Non sognate il calciatore

Beckham lascia l’America

Per cercarne un’altra

Lo sportivo-azienda chiude l’avventura a Los Angeles

Ovunque è stato, ha creato utili. Ma non è un salvadanaio in

tempi di crisi: la sua parabola è quella dell’ultra capitalismo

di MARCO BUCCIANTINI (l'Unità 21-11-2012)

IL SUO SEGRETO È L’EFFETTO. QUEL MODO DI CALCIARE E QUEL MODO DI SEMBRARE. UNA ROTAZIONE IMPRESSA AL PALLONE, UN SORRISO IN FAVORE DI TELECAMERA, UNA FOTO IN MUTANDE: LO STESSO IMPARABILE EFFETTO. David Beckham è stato il primo calciatore a essere misurato in soldi: oggi che lascia i Los Angeles Galaxi - come quando abbandonò Manchester o Madrid - non viene salutato con un bilancio sportivo ma con un rendiconto economico. È un’azienda, un’ottima azienda: fa utili, per lui (che è l’azionista di maggioranza di se stesso) e per gli altri. Infatti: da quando è arrivato negli Stati Uniti, nel 2007, la patetica Major League Soccer è diventata un campionato quasi serio, certamente popolare, con nuove, sparse e importanti franchigie (Montreal, Portland, Vancouver, Philadelphia, Seattle, San Josè e Toronto). Delle 19 squadre che partecipano alla lega, 15 hanno costruito uno stadio esclusivo e di proprietà (prima dell’arrivo di David erano appena 5). E la gente si è appassionata al soccer: l’affluenza negli stadi è di 19mila spettatori a partita, in media, non troppo lontana da quella della nostra Serie A (22 mila). Così nessuno scrive in questo addio: Beckham lascia Los Angeles con 20 reti in 124 partite, buoni piazzamenti ma non eccezionali. E nessuno si accorse che Beckham a Madrid - galattico fra i galattici, come erano chiamati los blancos - partecipò, senza incidere, e che l’unico scudetto sottratto al Barcellona arrivò quando Capello lo accomodò in panchina. Però quando se ne andò lo ringraziarono di cuore (e di tasca): Forbes stimò che grazie al «prodotto» Beckham il Real aveva aumentato i ricavi del 137%, e in euro facevano 500 milioni.

Considerato verso l’epilogo della carriera e sostenuto da i suddetti dati, il centrocampista che guadagna 46mila euro al giorno dalle sponsorizzazioni sembrerebbe un salvadanaio in tempo di crisi. L’investimento solido al posto della speculazione. Il contante che viaggia, sempre e comunque, attratto e rigenerato dal capitale. Invece simbolizza pienamente il lato scuro della recessione, il cedimento all’ultra capitalismo. Nella trasformazione da calciatore a prodotto commerciale c’è il malinteso della globalizzazione «verticale»: diffusa dall’alto verso il basso, governata dai meccanismi pubblicitari disinteressati al valore intrinseco del «bene da piazzare, anzi: lo truccano, lo spogliano per rivestirlo (nel suo caso, lo lasciano anche nudo) e lo abbelliscono, lo guarniscono, in sostanza: lo vendono. E non più per quello che è ma solo per quanto denaro «muove». Creando un palese corto circuito di senso: secondo la rivista France Football David è stato il calciatore più pagato del mondo nel 2012 dopo Lionel Messi. L’argentino del Barcellona s’intasca 33 milioni di euro l’anno, l’inglese 31,5 (e così è stato per tutto il periodo americano: fino al 2011 Beckham era invero il primo di questa classifica). Solo che Messi è il calciatore più forte del mondo (e forse di sempre) e nel suo sproporzionato stipendio c’è almeno questo riconoscimento di valore. Beckham non è fra i migliori 100 in circolazione (non lo è più, se mai lo è stato). C’è dunque lo smantellamento di un fondamento economico: il rapporto fra i compensi e la prestazione (e se fosse un bene di consumo: fra il prezzo e il prodotto). Beckham è finanza creativa, è rendita di posizione svincolata dal lavoro. Ma i soldi ci sono, e allora l’azienda va avanti, cambiando Stato, annusando i mercati come un predatore. A 37 anni, e dopo la finale della Mls Cup contro la Houston Dynamo del primo dicembre (chissà adesso che affare vendere uno spot da quindici secondi dentro l’ultima partita di Beckham) il futuro è un pendolo che oscilla fra un poetico ritorno in Premier League e un prosaico approdo nel campionato australiano, che ha già abbindolato Del Piero.

Il ragazzo che sapeva fare i cross a effetto - questo sì, in modo superbo, e anche qualche deliziosa punizione, e poco altro - è stato vestito e denudato da una dozzina di sponsor che (in cambio) ne hanno deciso la carriera: l’Adidas lo volle nel Real Madrid, dove fu costretto a fare il gregario di fuoriclasse autentici. Quella squadra palleggiava e avvolgeva gli avversari, il centravanti (Ronaldo) era chiamato a uscire dall’area, per aggredirla in fraseggio con Zidane e Figo (che tra l’altro occupava la fascia destra, quella dove ha vissuto tutta la sua carriera l’inglese). Lo sviluppo del gioco rinunciava ai cross laterali: in pratica, Beckham era tatticamente inutile e il pratico Capello lo tolse di squadra. Ma quando lasciò la Spagna per l’America il Real aveva le casse piene (e la bacheca vuota). Ancora: un pool di imprese britanniche lo ha forzato nel circo olimpico e lo ha protetto per anni in Nazionale, dov’è arrivato all’enorme primato di 115 presenze: nove in più di Bobby Charlton, tanto per capire l’affronto culturale che i quattrini possono permettersi.

Con la moglie (ex cantante delle Spice Girls) vive in una modesta villa ribattezzata Beckingham Palace. Eppure chi lo conosce racconta di un uomo simpatico e riservato, non troppo consapevole del circo che lo accompagna e lo sposta: divenne perfino il titolo di un’emancipazione, Sognando Beckham, film di una ragazza che vuole confondere la sua vita tracciata. È bellissimo (lui, non il film), coltiva scrupolosamente il fisico, i tatuaggi rivestono le braccia ricordando i tre figli e la moglie Victoria, dipinta seminuda e non solo nominata. Sul fianco ha il disegno di Gesù Cristo risorto, sulla schiena un angelo inquietante. Psiche e Cupido amoreggiano sull’addome perfetto come quello di una statua greca. Qua e là spuntano date importanti, frasi d’amore e motti di guerra in latino e altre citazioni più spirituali. Celebra la sua vita nella sua carne, come se volesse riconquistare il suo corpo.

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L’allarme In occasione della gara d’andata due raid contro i sostenitori

dell’Aik: un gruppo di facinorosi intenzionato a vendicare quelle violenze

Ultrà svedesi, minacce ai tifosi del Napoli

L’avvertimento su internet «Non presentatevi qui con sciarpe e bandiere»

di PINO TAORMINA (IL MATTINO 21-11-2012)

Allarme svedese. Lo slogan che fa la sua apparizione nelle ultime ore sul sito dei tifosi dell’Aik (sverigescenen.se) non ha bisogno di traduzioni: «Ci vendicheremo, a Napoli c’è stata un’aggressione vergognosa». Al diavolo l’Europa League e i tifosi azzurri che andranno alla partita mangiando popcorn come al cinema o pensano di andare a fare turismo in una delle più belle capitali d’Europa: qui c’è aria di voler restituire la brutta accoglienza che alcuni tifosi del Solna hanno ricevuto a settembre a Napoli, in occasione della gara di andata.

La grande paura che nessuno riesce a sillabare con parole esatte ma che tutti sussurrano è che i tifosi del Napoli che andranno a Stoccolma non saranno al sicuro, neppure lontano dallo stadio, situato al nord della città. Sul sito ufficiale dell’Aik Solna si sprecano gli appelli al pubblico in vista della gara di domani che segnerà il tutto esaurito come da quelle parti succede solo in occasione dei match della Nazionale di Ibrahimovic.

L’Aik crede alla vittoria che potrebbe spalancare agli svedesi, delusi dal mancato successo in campionato, le porte dei sedicesimi di finale. L’entusiasmo dei tifosi è garantito anche perché farà la sua prima apparizione in Svezia Edinson Cavani. I tifosi del Napoli saranno almeno in 600, almeno questi i dati dei biglietti venduti attraverso la Lottomatica. Poi c’è da fare i conti con un altro centinaio di napoletani residenti in Svezia che di sicuro si recheranno alla stadio per vedere il Napoli.

Claudio Pagnozzi, tifoso azzurro che vive a Stoccolma, a lungo presidente del club azzurro della capitale scandinava non nasconde le sue ansie e le sue preoccupazioni: «Il clima svedese è molto rovente - ammette - Un club organizzato dei tifosi dell’Aik, conosciuti come quelli più violenti, si sono preoccupati di tradurre il loro appello in italiano perché vogliono che i napoletani sappiano cosa li aspetterà. Il comunicato spiega che il profilo dei napoletani dovrà essere molto basso e che i supporter azzurri non dovranno portare con sé sciarpe o bandiere azzurre. Non so se la partita sarà a rischio ma consiglierei ai napoletani di non farsi riconoscere perché questa è gente che fa sul serio».

Il club di hooligans svedesi non usa mezze misure. Basta sbirciare il sito per rendersene conto. Le loro parole, già finite all’attenzione prima della polizia italiana e poi di quella svedese, fanno scattare l’allerta massima per la sfida di domani sera. Il comunicato degli ultrà dell’Aik è pubblicato in svedese ma anche in italiano. «Non solo ultras, a Napoli gli ultras napoletani armati con coltelli e altre armi hanno aggredito perfino due bambini, un ragazzo di 9 anni e una ragazza di 14 anni!!!!», dice testualmente il minaccioso slogan. Nel mezzo insulti e parolacce. I tifosi dell’Aik avvertono ancora: «Per la partita di ritorno a casa nostra aspettiamo almeno 1000 tifosi napoletani, di questi 1000 almeno 450 sono ultras. Raccomandiamo a tutti i tifosi napoletani di non mostrarsi e presentarsi con sciarpe, capelli, bandiere».

Secondo notizie diffuse poi in serata dal club svedese, saranno almeno mille gli agenti della polizia di Stoccolma che vigileranno sulla sicurezza dei tifosi napoletani. Sotto scorta speciale anche il bus su cui viaggerà il Napoli. Il club azzurro fa sapere che la Polizia raccomanda ai tifosi di ritrovarsi in Fridhemsplan in centro città. Alle ore 19.00 ci sarà un treno della metropolitana linea blu esclusivamente dedicato ai tifosi del Napoli, che li condurrà direttamente allo stadio Rasunda.

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Football, one of the

gifts of life, even in war

by MATTHEW SYED (THE TIMES 21-11-2012)

The long-range rockets continue to fly across Israel from bases in Gaza. In Jerusalem, Hillary Clinton, the US Secretary of State, has arrived to head off a potential ground invasion. Meanwhile, Tony Blair, the Quartet envoy, has pointed to the terrible suffering in Gaza as an already terrorised community suffers bombardment.

And in Tel Aviv, the Israeli capital, a city that has hitherto been out of range of rockets fired by Hamas, Hezbollah or Islamic Jihad, Robert Earnshaw, the Wales striker who is playing for Maccabi Tel Aviv on loan from Cardiff City, goes through his paces in the build-up to a league match this weekend.

“On Sunday morning, we were just coming out of the dressing room when it happened again,” he said in a fascinating interview yesterday. “The sirens, and the shouts to find shelter. We heard the sound of two missiles being launched. We watched them go up — really high — and then they sort of disappeared. Then all you heard was this enormous boom, when they took the rockets out. It’s not something you ever think will happen to you. It’s not something I expected to find myself in, in the middle of a war.”

Sport and war. There has always been something jarring and philosophically disconcerting about their juxtaposition. Earnshaw’s interview conveys, above all, the surrealism of preparing for a game under the cloud of an existential threat. “They are certain the interceptors protect them,” he said of his team-mates. “They’ve got faith in Iron Dome (the Israeli missile defence system) and the army . . . But it’s different if you’re not used to it. It has been really difficult, and you can’t help but be a little shaken up.”

If Earnshaw decides to leave Tel Aviv, he will garner great sympathy. Football must seem rather unimportant while bombs are flying overhead. But one of the most curious facts of military history is that football has often thrived during periods of great conflict. For those who, through choice or necessity, are stuck in a war zone, football (and sport more generally) seems to take on a particular significance. And it is worth asking why.

Perhaps the most famous episode of football during conflict occurred during the First World War. Amid the Christmas truce of 1914, The Times reported a game between the Royal Army Medical Corps and the 133rd Saxons who, according to David Goldblatt in his book The Ball is Round, “sang God Save the King, drank the monarch’s health and then beat the English 3-2.” This game took place in the context of unimaginable horror. Otto Dix, the German expressionist artist, described the trenches as places of “lice, rats, barbed wire, fleas, shells, bombs, underground caves, corpses, blood, liquor, mice, cats, artillery, filth, bullets, mortars, fire, steel: that’s what war is. It is the work of the devil”.

Yet, in that small window of peace, and amid the carnage of a conflict that would produce more than two million corpses in its first two years, a Scot provided a ball in the space between the fortified ditches and “this developed into a regulation football match with caps casually laid out as goals.”

Twenty-seven years later, two years into the Second World War, football took centre stage in a slightly different context. This time it was civilians who were mesmerised by its promise, despite the unfolding apocalypse. As Simon Kuper, the football writer, has observed: “On 22 June 1941, the day the Germans invaded the Soviet Union, the decisive act of the entire conflict, 90,000 spectators watched the German league final in Berlin. What were they thinking of?” Perhaps — like the combatants in Flanders — they were seeking to escape the horrors of war, an emotional breathing space provided by a game with a ball and 22 men.

Maybe this also explains the astonishing boom in football in the immediate aftermath of the two world wars. The Norwegian Cup final played in the summer of 1945 received 158,000 applications for only 35,000 seats. After the First World War, according to Goldblatt, attendance at games across Europe “grew almost exponentially”.

That need for escapism also rings true in Israel. In When Friday Comes, a trek through Middle Eastern war zones by the journalist James Montague, football provides both a common language and a shared meaning. Making his way along the Allenby Bridge crossing, one of only two corridors available to Palestinians seeking to get out of, and back to, the West Bank, he was stopped by a rather severe Israeli female border guard. The area was in a state of high alert and the atmosphere tense. Montague, who had recently received an Iranian stamp on his passport, feared an interrogation.

Only at the mention of football did the female guard crack a smile and engage in banter that would otherwise have been inconceivable. “I’m going to see Maccabi Haifa’s first match against Maccabi Netanya in . . .” Montague explained, but didn’t quite get a chance to finish his sentence. “Maccabi Haifa, they’re my home team!” the guard interjected. Her excitement was tangible. “Who is your favourite player?” “Well, I like Yaniv Katan but Yossi Benayoun is my favourite,” Montague replied.

So two strangers on the edge of war found themselves in a solemn discussion about the merits of Benayoun’s stint at West Ham United. For a precious few moments, the shelling was forgotten.

But the lure of football at times of war is, I suspect, about more than escapism or a shared language. In De Rerum Natura, Lucretius, the Roman poet, writes about the praemia vitae, the gifts of life. These are the things that make life worth living and explain why death is such a deprivation. Football, for many of us, is one of these. As Albert Camus replied when asked to name his most cherished pastime: “Football, without hesitation.” This, I think, is why the juxtaposition of football and war offers such a powerful contrast. The usual thesis is to say that war makes a mockery of football. Why would one wish to indulge in the triviality of kicking around a pig’s bladder when bombs are dropping? The truth is quite the reverse: football makes a mockery of war. Some wars may be just and morally necessary. But the act of playing and watching football, along with enjoying the many other gifts of life, rebukes the devastation of war.

That is why football thrives in the most desperate of circumstances, often against overwhelming odds. People reach for the little things that give life meaning when life itself is in the balance.

From the drill squares of the First World War to the prisoner camps of the Reich, and from the killing fields of Flanders to the streets of Gaza, where a 13-year-old boy was killed this month having a game with friends near the Israeli border, this truth has been affirmed and reaffirmed.

Football is sometimes not simply a means of expressing a tribal allegiance or passing an enjoyable afternoon. It is also a reminder — along with myriad other things — of why life is precious.

Today, in the context of a six-decade-old war that has claimed thousands of casualties and where the combatants have become, by degrees, inured to the devastation, that is worth remembering.

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CALCIOSCOMMESSE

Sotto torchio 4 ore,

Mauri conserva il jolly

Secondo interrogatorio a via Po: nuovi riscontri.

Il centrocampista produrrà in seguito le carte per sostenere la sua estraneità

I legali: «Fornite altre specificazioni». S’indaga sui rapporti con il massaggiatore. Sculli: scena muta

di EDMONDO PINNA (CorSport 21-11-2012)

ROMA - Quattro ore. Più di quanto era successo lo scorso 13 aprile. Pioveva, anche allora. Dopo qualche giorno, il mondo di Stefano Mauri finì nel tritacarne, l’arresto, il carcere, i domiciliari, 17 giorni dai quali il capitano della Lazio ha saputo uscirne. Ieri, però, il brivido è tornato a materializzarsi. Via Po, Procura federale, gli uomini di Stefano Palazzi ad interrogarlo. Di nuovo, ancora Lazio-Genoa e Lecce-Lazio sul tavolo, stavolta, però, con indicazioni più precise rispetto ad allora sulle quali indagare. Sembra che, stavolta, qualche riscontro sia stato ottenuto. Ma non ci sarebbero state novità clamorose. Non tali da cambiare le carte in tavola. Altre carte, invece, gli avvocati del giocatore, Buceti e Melandri, avrebbero fatto capire di averle, quelle che dimostrerebbero «l’assoluta estraneità» di Mauri. Un jolly da calare a tempo debito. A deferimento o rinvio a giudizio avvenuto.

CONTESTAZIONI - Circostanziare, smentire o confermare quello che già era stato chiesto ad aprile. Mauri è entrato negli uffici della Procura federale alle 13.05, poco dopo il massaggiatore della Lazio, Papola, che a lui sarebbe - secondo gli inquirenti - legato. Lo dimostrerebbero alcune telefonate (15 contatti) fra il cellulare di Paola e l'apparecchio che si ipotizza fosse usato da Mauri sotto copertura, ovvero intestato ad altra persona. Questo ed altro avrebbero chiesto i federali. Anche la spiegazione del perché, ad aprile, Mauri sostenne di non aver mai scommesso. «Abbiamo dato tutte le ulteriori specificazione e più che mai stasera siamo convinti dell'estraneità di Stefano nelle possibili contestazioni. Interrogatorio lungo? Interrogatorio giusto, non è emerso nulla di particolare, Stefano è assolutamente sereno, basta vedere come si comporta in campo» .

DIFESA - Negli uffici della Federcalcio in via Po è piombato anche Claudio Lotito. Questioni diverse da sbrigare, è stato visto parlare fitto con l'avvocato Grassani, ieri impegnato prima con Cellino e poi con Milanetto. Lotito ha difeso il suo capitano: «Non conosco i fatti, ma conosco la persona Mauri. Una persona che va a Medjugorje, che va in chiesa, che prega e si comporta in una certa maniera. O c'è un dottor Jekyll e un mr Hyde che la mattina si comporta in una maniera e la notte diventa un serial killer» .

SCENA MUTA - Una giornata di interrogatori, iniziata ieri mattina poco dopo le 9.30 con l'arrivo di Giuseppe Sculli, accompagnato dal suo legale, Paolo Rodella. Poco il tempo che è rimasto dentro gli uffici federali, perché poco - o nulla - c'era da dire. Una dichiarazione, nella quale si declinava gentilmente l'invito a rispondere alle domande della Procura della Federcalcio prima ancora di averlo fatto - eventualmente - ai magistrati di Cremona. Mezz'ora anche per il massaggiatore della Lazio, Massimo Romano Papola, dal quale la Procura si aspettava conferme ad ipotesi di reato a carico di Mauri. Mentre fino a tarda sera è durata l'audizione di Milanetto, anche lui coinvolto nella presunta combine fra Lazio e Genoa.

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CALCIOSCOMMESSE

E intanto la procura

mette Mauri sotto torchio

Ascoltato anche Sculli. Spogliarello del "disturbatore" Paolini in difesa della Lazio

di PIETRO ANDREA COLETTI (IL ROMANISTA 21-11-2012)

Un colloquio di quattro ore. Tanto è durato l’interrogatorio di ieri in Procura federale di Stefano Mauri. Il capitano della Lazio ha dovuto rispondere alle domande del pool del procuratore Stefano Palazzi in merito al suo presunto coinvolgimento nella vicenda del Calcioscommesse. Il centrocampista, che era già stato ascoltato dagli inquirenti federali lo scorso 13 aprile, indagato dalla Procura della Repubblica di Cremona e già sottoposto a custodia cautelare lo scorso maggio, ieri ha fornito chiarimenti in merito alle presunte combine di Lazio-Genoa 4-2 del 14 maggio 2011 e a Lecce-Lazio 2-4 del 22 maggio 2011. All’uscita dagli uffici di via Po Mauri non ha voluto rilasciare dichiarazioni, mentre i suoi avvocati sono apparsi molto ottimisti: «Abbiamo confermato quanto detto già alla Procura di Cremona e nell’altro incontro con gli inquirenti della Procura federale. Non ci sono cose nuove e mai come questa sera ci siamo resi conto che Stefano non si può accusare di nulla. Abbiamo contestato ulteriori eccezioni. Mai stati tanto ottimisti». A scommettere sull’innocenza del centrocampista è anche il presidente biancoceleste Claudio Lotito, presente anche lui in via Po per questioni legate alla Salernitana: «Io non conosco i fatti, ma conosco la persona. Una persona che va a Medjugorje, che va in chiesa, che prega e si comporta in una certa maniera. Mauri è sereno nonostante le vicissitudini che ha subito, questo dimostra che non ha nulla da temere. A meno che c’è un dottor Jekyll e un Mr Hyde».

Nonostante le assicurazioni di avvocati, datore di lavoro e disturbatori (ieri il solito Paolini si è reso protagonista di uno show a via Po dove, nudo, dichiarava a gran voce la sua fede laziale e l’innocenza del calciatore) la posizione di Mauri resta molto delicata. Il centrocampista, dopo gli interrogatori a Cremona e in Procura federale della scorsa primavera e dopo l’arresto del 28 maggio scorso, è stato ascoltato anche a Berna in un interrogatorio in cui il calciatore ha risposto ai magistrati svizzeri sulle accuse di riciclaggio relative a un conto corrente a lui riconducibile. La vicenda dell’istruttoria sportiva era stata "congelata" in attesa di nuove carte da Cremona che chiarissero la posizione del laziale. Di tutto ciò ha sicuramente parlato Palazzi con il pm Roberto Di Martino nella sua missione di un mese fa a Cremona, visionando probabilmente anche i documenti della rogatoria svizzera. Oggi le quattro ore di interrogatorio che dovrebbero aver chiarito agli inquirenti la posizione del capitano laziale.

Su Lazio-Genoa oggi sono stati ascoltati dal pool di Palazzi anche il massaggiatore dei bianocelesti Massimo Romano Papola, Giuseppe Sculli, che all’epoca dei fatti militava nella Lazio, e l’ex genoano Omar Milanetto, arrestato a maggio assieme a Mauri. L’interrogatorio di Sculli, che veniva sentito ieri per la prima volta dagli inquirenti, è durato solo mezz’ora. «Non abbiamo detto nulla. Perché? È un nostro diritto» si è limitato a dichiarare, all’uscita dagli uffici di via Po, l’avvocato Paolo Rodella.

I prossimi passi di questa vicenda saranno i deferimenti per i calciatori e le relative società. Poi il processo sportivo potrebbe iniziare al massimo a gennaio. Mauri, se dovesse essere condannato per illecito sportivo, rischia un lungo stop. Se invece verrà ritenuto colpevole solo di omessa denuncia la squalifica sarà più breve. A rischiare è anche la Lazio che, per responsabilità oggettiva, rischia una penalizzazione in campionato, da un minimo di uno a un massimo di sei punti.

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CALCIOSCOMMESSE/ ANCHE MAURI INTERROGATO DAL PROCURATORE FEDERALE

Palazzi mette Milanetto sotto torchio

Due ore di domande su Criscito e Sculli (che non parla). Chiesti a Genova gli atti del derby

di ROBERTO SANGALLI (IL SECOLO XIX 21-11-2012)

IL PROCURATORE federale Stefano Palazzi ha chiesto ai pubblici ministeri genovesi gli atti relativi all’inchiesta sul presunto tentativo di combine del derby giocato il 7 maggio 2011evinto dal Genoa con un gol in pieno recupero di Boselli. La storia è nota, il filone è quello cremonese del calcioscommesse. Alcuni giocatori delle due squadre avrebbero tentato una combine: doveva finire in parità per favorire la Sampdoria che all’epoca era in piena bagarre retrocessione. Che arrivò puntualmente.

Gli atti vennero trasmessi per competenza a Genova dove tutto è finito in una bolla di sapone. Ma gli investigatori della Federcalcio non sembrano disposti a fermarsi. Prima hanno chiesto le carte, poi, ieri pomeriggio, sono tornati sull’argomento. Partendo da lontano, anzi partendo dalla partita successiva al derby: Lazio-Genoa. Prendendo spunto sempre dall’inchiesta dei magistrati cremonesi certi che quell’incontro giocato all’Olimpico di Roma, vinto dai biancoazzurri 4-2, fu oggetto di combine. Una sorta di riparazione, un risarcimento per la mancata “torta” del derby. E qui allora entrerebbero in gioco esponenti della malavita che forse avevano puntato ingenti somme. Di Lazio-Genoa si è parlato a lungo ieri negli uffici della procura federale in occasione delle audizioni dell’ex genoano Omar Milanetto e dei laziali Stefano Mauri e Giuseppe Sculli. Quest’ultimo, a dir la verità, non ha aperto bocca. Ha salutato e ha girato i tacchi. Perché? Secca la risposta del suo avvocato: «È un nostro diritto». Così ha evitato domande imbarazzanti soprattutto sul suo incontro, in un ristorante genovese, con Mimmo Criscito, che due anni fa giocava nel Genoa. Tutto fotografato e registrato dalla polizia. E c’erano anche degli esponenti della malavita e un gruppo di tifosi. Per combinare Lazio-Genoa? Sculli non ha parlato. Così la domanda è stata fatta a Milanetto. Anzi, all’ex centrocampista rossoblù, sentito due ore, è stato chiesto dei rapporti tra Criscito e Sculli. E nel corso dell’interrogatorio sarebbe uscito anche il nome di Massimiliano Pesci, legale amico di Mauri, che avrebbe telefonato e inviato più di un sms a Sculli. Milanetto ha negato il coinvolgimento. A giugno era stato arrestato per i suoi rapporti con i clan degli zingari. Si disse che li aveva incontrati in un hotel di Milano. Ma lui ha dimostrato il contrario: era lì solo per partecipare a una festa. E gli zingari non c’erano. Prima di Milanetto il pool investigativo della Figc ha sentito anche Stefano Mauri che per 4 ore ha provato a confutare accuse e sospetti. «Abbiamo confermato le circostanze già dette a Cremona - hanno sottolineato i suoi legali - e abbiamo fornito gli ultimi chiarimenti. Siamo certi di aver dimostrato l’estraneità di Mauri».

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Mauri-Palazzi finisce 0-0

Sculli sceglie il silenzio

Scommesse, in Figc 4 ore: l'accusa resta, gli avvocati: «Tutto chiarito»

Lotito: «Non può essere Dr Jekyll e Mr Hyde». Sentito pure Milanetto

I legali promettono nuovi documenti «che proveranno l'innocenza»

di GAETANO IMPARATO & VALERIO PICCIONI (GaSport 21-11-2012)

Un'istruttoria in bilico. L'indagine sul calcio scommesse che tira in ballo Stefano Mauri è incastrata fra l'attesa di nuovi elementi investigativi da Cremona e il negare tutto — come ha fatto ancora ieri — del vice capitano della Lazio. Ieri pomeriggio Mauri è stato infatti ascoltato nuovamente per quattro ore dalla Procura di Palazzi (in precedenza era stato sentito anche il massaggiatore della Lazio Papalo), a sette mesi di distanza dalla prima audizione di aprile. Da allora ci sono stati l'arresto e il carcere per Mauri e il giallo del conto svizzero sospetto a lui riconducibile per cui il laziale è stato interrogato a Berna. Ma la situazione è ancora controversa.

Gli indizi Galleggiano ancora degli indizi spinosi: in particolare il possesso della famosa sim card intestata a Samanta Romano, card dalla quale risultano chiamate solo nel maggio 2011, periodo delle gare sospette (Lazio-Genoa 4-2 e Lecce-Lazio 2-4) e l'amicizia con Alessandro Zamperini, personaggio chiave del calcio scommesse, resta un macigno ingombrante. Ma agli 007 di Via Po mancherebbe la prova regina, o il grande accusatore capace di dare una svolta. Ieri intanto il giocatore ha incassato l'ennesima difesa a spada tratta di Lotito, in Federcalcio per questioni però salernitane. «Non conosco i fatti, ma uno come Mauri, che va a Medjugorje, che va in chiesa, che prega e si comporta in una certa maniera non può essere un serial killer, a meno che non sia un dottor Jekyll e Mr. Hyde».

Nulla di fatto E così la giornata è finita con un sostanziale 0-0. Perché solo di un pareggio si può parlare dopo 4 ore di intenso interrogatorio del giocatore assistito dagli avvocati Matteo Melandri e Amilcare Buceti: «Abbiamo confermato quanto già detto alla giustizia sportiva e ordinaria — spiegano gli avvocati - dando ulteriori chiarimenti: stasera, più che mai, siamo convinti dell'estraneità di Stefano alle contestazioni». I legali non vogliono giocare tutte le carte subito. Hanno infatti annunciato che la documentazione che «dimostra l'innocenza di Mauri» sarà presentata soltanto al processo, sempre che arrivi il deferimento.

Diritto al silenzio Ottimisti i legali di Mauri, silenziosi quelli di Sculli che aveva aperto gli interrogatori in mattinata. «Non abbiamo detto nulla perché è un nostro diritto», si è limitato a dichiarare, dopo mezzora di interrogatorio Paolo Rodella, che ha assistito Sculli insieme al collega Maurilio Prioreschi. Un diritto al silenzio esercitato in attesa di chiarire la posizione del giocatore con la giustizia ordinaria.

Milanetto L'interrogatorio di Omar Milanetto ha completato la giornata. Anche l'ex genoano, arrestato pure lui in maggio, era al secondo interrogatorio, ma non ci sarebbero state «nuove» domande. Tutto mirato su Lazio-Genoa. Qualche ulteriore elemento Milanetto l'ha raccontato, ma non determinante in un colloquio durato quanto una partita (circa 100 minuti) dal quale il giocatore, e il suo avvocato Mattia Grassani, sono usciti abbastanza soddisfatti.

Ferrari Infine il Tnas, che ha discusso ieri l'istanza di Nicola Ferrari contro la squalifica di tre anni. L'attaccante del Verona ha visto nascere la figlia Viola alle 7.30 e poi è corso a Roma. Sono state ammesse le testimonianze di Gervasoni, Ruopolo e Carobbio: il primo accusa Ferrari, gli altri due lo scagionano. Udienza il 12 dicembre.

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SCOMMESSOPOLI

Mauri parla 4 ore

Slitta Lazio-Genoa?

di SIMONE DI STEFANO (TUTTOSPORT 21-11-2012)

ROMA. Sculli fa scena muta, Mauri altre 4 ore di audizione dopo quella di 3 ore del 13 aprile scorso. Sintesi della coda di Lazio-Genoa e Lecce-Lazio andata in scena ieri. L’antipasto in mattinata, con Sculli che non parla perché attende di farlo a Cremona per «non violare il segreto istruttorio» (peraltro Palazzi non era nemmeno in possesso delle memorie presentate al pm Di Martino) e il massaggiatore della Lazio, Papola (in contatto anche con Sculli) che non sembra aver detto molto in meno di mezzora. Resta l’interrogatorio fiume di Mauri, una «integrazione» rispetto al nuovo materiale prodotto da Cremona. Gli è stato chiesto dei suoi «legami extra calcistici con Sculli», collegando per la prima volta l’ex genoano a Lazio-Genoa. Stesse risposte del primo interrogatorio: «Stefano è sereno perché sa di non aver commesso nulla - ha dichiarato l’avvocato Matteo Melandri - e noi abbiamo una cospicua documentazione che prova in modo inconfutabile come non abbia commesso nulla di quello che gli viene contestato». Documenti che la difesa si riserva di utilizzare solo in caso di deferimento. «Sono problemi di Mauri - ha detto Lotito, che si trovava in procura ma per questioni legate alla Salernitana - io giudico la persona, che è sempre stata corretta e morale, a meno che non si tratti di Dottor Jekyll e mister Hyde». Per la stessa gara, in serata è andata in scena anche l’audizione di Omar Milanetto, al quale è stato chiesto del solito incontro con Mauri a Modena, dell’addio al celibato di Dainelli e della gara di addio di Tisci, dove Milanetto non c’era: «La sensazione - rivela l’avvocato Grassani - è che oggi Omar sia stato ascoltato come testimone». Quel che più colpisce a fine giornata è l’umore della procura sulla tempistica per gli eventuali deferimenti. Da quanto appreso, il processo Lazio-Genoa potrebbe rischiare di slittare alla prossima estate.

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Il mistero del «Modello 45» e la Calciopoli alla milanese

Intervista all'avvocato Gallinelli, l'uomo del Modello 45, il fascicolo che sta inseguendo da ormai due anni

Guido Vaciago - Tuttosport.it -21-12-2012

TORINO - Qualcuno un giorno lo ricorderà come l’uomo del Modello 45, il fascicolo che sta inseguendo da ormai due anni. Ma l’avvocato Paolo Gallinelli è soprattutto un uomo che non ha smesso di cercare le verità nascoste di Calciopoli, esplorando fra gli atti dei processi a caccia di indizi, perché a volte si tratta solo di scavare e qualcosa si trova. Le ultime “pepite” sono di questi giorni e le racconta lo stesso Gallinelli.

Avvocato, cos’ha scoperto di nuovo?

“Analizzando fra gli atti del Processo Telecom è emerso un documento nel quale la PM Ilda Boccassini richiede dei file di logs. Si tratta di una richiesta che, ritualmente, viene effettuata dalla Polizia Postale della Lombardia verso Telecom, all’ufficio per l’acquisizione del traffico telefonico. Il fax è indirizzato a Fabio Ghioni, uno dei personaggi chiave del processo Telecom, un membro del Tiger Team. Quello che in sede di udienza preliminare, durante l’incidente probatorio ha detto al gup Panasiti che attraverso il sistema Radar si potevano alterare i tabulati, creando un contatto tra due utenze telefoniche mai avvenuto”.

Che cos’è un file di log?

“In pratica è un tabulato telefonico con le chiamate effettuate e ricevute, i numeri telefonici, i nominativi delle utenze, la durata delle chiamate, gli eventuali sms e anche gli spostamenti fisici della scheda, tracciando le celle a cui si aggancia la scheda: è una radiografia molto più approfondita di un semplice tabulato”.

Cosa rende interessante questa richiesta di file di log da parte della dottoressa Boccassini?

“Questa richiesta potrebbe essere inerente al famoso fascicolo che la Boccassini aveva aperto dopo aver ascoltato l’ex arbitro Nucini che era andato da lei dopo i colloqui con Facchetti e attraverso l’intervento di Moratti. In teoria Nucini avrebbe dovuto denunciare il “sistema Moggi”, ma qualcosa - diciamo - non funzionò e la Bocassini archivio il fascicolo come Modello 45, ovvero fascicolo non contenente notizie di reato. Un modello che una volta archiviato può anche non essere concesso in visione. Tant’è che finora non sono mai riuscito a vederlo, nonostante due richieste, la seconda delle quali risale a pochi giorni fa”.

Cosa Le fa pensare che quella richiesta di file di log possa avere a che fare con quel fascicolo e quindi con una specie di “Calciopoli alla milanese”?

“Da una serie di elementi penso di poter dedurre che il numero di procedimento sia lo stesso. Ma per aver certezza, naturalmente dovrei visionare il fascicolo...”

Cosa pensa di trovare in quel fascicolo di così interessante?

“Beh, sarebbe interessante sapere qualcosa di più di quel colloquio fra Nucini e la Boccassini, che con la richiesta dei file di log voleva verificare ’l’autenticità’ di dati di traffico telefonico che potevano essere allegati ad un esposto denuncia contro Moggi, De Santis, eccetera. Quelli che potevano essere contenuti in quel famigerato Dossier Ladroni, commissionato dall’Inter e che era il frutto di indagini illegali su De Santis, Moggi, altri dirigenti della Juve, i designatori. Insomma sarebbe interessante capire perché da Milano stava partendo un’inchiesta sul calcio nel novembre 2004, ma soprattutto da quali spunti partiva quella inchiesta”

Insomma, quel fascicolo archiviato come modello 45 potrebbe raccontarci qualcosa di più su Calciopoli, che poteva partire a Milano o forse, in realtà, da Milano è proprio partita...

“Quel fasciolo chiuderebbe il cerchio rispetto alle scoperte del Processo Telecom, da dove sono emerse le indagini illegali commissionate dall’Inter”

Altri ritrovamenti interessanti negli atti Telecom?

“C’è un decreto di ispezione di materiale informatico, computer e cd rom. Questa volta però il materiale che viene sequestrato dal nucleo operativo dei Carabinieri di Milano non viene analizzato dalla sezione del maggiore Auricchio ma, come normalmente avviene in casi simili, dalla Polizia Postale e delle Comunicazioni. Ora, non abbiamo tutti gli atti di ispezione di materiale informatico, ma tutto fa pensare che la procedura fosse che i computer e i cd relativi a quell’indagine fossero ispezionati a Milano. Perché anche il computer di Tavaroli, che - secondo quanto deposto la processo Telecom da Cipriani conteneva anche materiale del Dossier Ladroni e delle altre indagini della Polis d’Istinto - non viene ispezionato dalla Polizia Postale della Lombardia? E viene spedito a Roma, nella caserma di via In Selci, quella dell’indagine di Calciopoli. E nella parte centrale dell’indagine di Calciopoli? Strano. Come quello che emerge a Napoli».

Cosa sta emergendo?

“Invece dagli atti di Napoli ho scoperto un decreto con il quale viene disposta, previa autorizzazione del Gip di Napoli, datata 29 ottobre 2004, l’esecuzione da parte dei Carabinieri della seconda sezione di Roma, comandati dal maggiore Auricchio, delle intercettazioni dei telefoni di Luciano Moggi, Massimo De Santis, Giuseppe De Mita, Francesco Ghirelli, Paolo Bergamo, Pierluigi Pairetto, Gennaro Mattei, Piero Sciascia Tullio Lanese. Ebbene quel decreto fondamentale per l’inizio dell’indagine viene firmato in data 2 novembre 2004, non da Beatrice e Narducci come ci si aspetterebbe considerata la loro titolarità sull’indagine, e nemmeno da Lepore che era il loro suepriore, bensì da Carmine Esposito, all’epoca sostituto procuratore della Repubblica della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Ovvero che è colui che rappresenta l’accusa, nelle vesti di procuratore generale, nel processo di appello di Antonio Giraudo: sembra quasi ci sia una circolarità dell'accusa nel processo Calciopoli”.

Clicca QUI per il documento di richiesta di file di log da parte della Procura della Repubblica di Milano

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Modificato da huskylover

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CALCIO COMBINE VINTAGE

BRUTTE FIGURINE

Rivera non può più

restare presidente

di GIANCARLO PADOVAN (Pubblico 22-11-2012)

Gianni Rivera, 69 anni, attuale presidente del Settore giovanile e scolastico della Federcalcio, ha due possibilità. Ma entrambe portano alla stessa conclusione: se ne deve andare. O querela (e nel frattempo si autosospende) Antonio Juliano, stessa età di Rivera e come lui, ex calciatore ed ex dirigente (però del Napoli), oppure si dimette dalla Federcalcio. Una terza strada ci sarebbe, ma non tocca a lui percorrerla, bensì a Giancarlo Abete, il presidente della Federazione che, insieme al suo Consiglio, lo nominò un anno e mezzo fa: revocargli l'incarico visto che, come ha sempre detto Abete, «l'etica non va in prescrizione». A maggior ragione se chi sta al vertice di un settore tanto delicato, e i cui fini educativi sono evidenti, è accusato di avere combinato una partita. Trentaquattro anni prima–a quell'epoca si riferiscono i fatti – il calcio non era molto meglio di adesso.

A raccontare tutto, con candore e una buona dose di ingenuità, è stato proprio Juliano. «Nella stagione '77-78, all'ultima giornata, affrontammo il Milan al San Paolo. Con un pareggio, ci saremmo qualificati entrambi per la Coppa Uefa. Per questo, prima della partita, incontrai Rivera e Albertosi. Decidemmo per il pareggio e, dopo aver spiegato tutto ai miei compagni, facemmo finire la partita 1-1». Era il 7 maggio del 1978. Due anni dopo, Ricky Albertosi finì in carcere per il coinvolgimento nel primo scandalo scommesse che la storia ricordi, quel Milan venne retrocesso in serie B, il suo presidente, Felice Colombo, radiato. Un’autentica vergogna.

Juliano ha parlato al convegno «Il calcio tra regole, lealtà sportiva ed interessi (criminali?)», alla presenza del procuratore federale Stefano Palazzi (imbarazzato?), del magistrato Raffaele Cantone, del presidente del Tribunale di Napoli, Carlo Alemi e a decine di avvocati e altri magistrati. I testimoni, e qualificati, non mancano. Forse Juliano pensava di srotolare la narrazione di un calcio eroico ed avventuroso. Forse pensava di alleggerire il convegno con l'aneddotica. Forse ha solo pensato che è passato tanto tempo e su certe cose si può innocentemente ritornare. Fatto sta che ha aggiunto altri particolari: «Ad un certo punto - è sempre Juliano a parlare -, perdevamo (gol di Bigon al 74 ’ ndr) e gli altri mi dicevano: “Ma come? Ci hai detto che avremmo pareggiato... ”.Allora io andai da Albertosi e gli ricordai che avevamo fatto un patto e che non capivo perché non lo stessero rispettando. E lui replicò : “Capitàno, ma che devo fare se io mi sposto a destra e i tuoi mi tirano la palla addosso? ”Questo mi disse...». Naturalmente, come in tutte le combine che si rispettino, il pareggio arrivò al 90°, il minuto fatidico: «Calcio d’angolo. Vinazzani, che di testa non aveva mai segnato, va in mischia e fa gol. Eravamo tutti felici. E i tifosi più di tutti » .

La ricostruzione è stata pubblicata ieri sia dalla Ģazzetta dello Sport, a firma di Mimmo Malfitano, sia – e in maniera più approfondita - dalla redazione on line del Corriere del Mezzogiorno. Rivera, interpellato in proposito, ha replicato molto debolmente: «Se il pareggio ci qualificava entrambi, allora non c'era nemmeno bisogno di parlarci. Francamente non mi ricordo molto bene. Però capitava che si parlasse tra di noi prima di una partita, poi però ognuno giocava la propria».

Insomma, secondo Rivera, «meglio due feriti che un morto», come disse Buffon in ritiro con la nazionale quando qualcuno gli chiese di commentare la vicenda-Conte. Può un uomo di calcio, con un passato così scopertamente equivoco, occupare in Federazione il ruolo più alto del calcio giovanile? Per me, e non solo per me, no.

Modificato da Ghost Dog

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L’INCHIESTA

Il triangolo di Walter

e il rischio riciclaggio

Il giovane brasiliano acquistato passando dall’Uruguay

e pagato per metà dal Porto ad un fondo d’investimento

La denuncia del segretario dell ’Uefa ha mosso anche il deputato inglese Collins

di PIPPO RUSSO (Pubblico 22-11-2012)

Un club portoghese che ricorre alla finanza creativa per acquistare un calciatore brasiliano del quale non ha bisogno. La confederazione europea che dalla Svizzera apre un’inchiesta sul caso e si appella alle autorità politiche nazionali affinché le diano una mano a colpire le zone grigie tra calcio e finanza. Un parlamentare inglese che a quasi due anni di distanza lancia l’allarme e sollecita attenzione politica e investigativa. E dietro le quinte personaggi senza volto che comprano e vendono di tutto, facendo lievitare i costi di transazione e lucrando ampiamente per il disturbo. Sono tortuose le vie del calciomercato globale, specie se si tratta di monitorare le circostanze sospette. E ancor più difficoltoso è tracciarle e organizzare la risposta, perché quelle sono almeno dieci passi avanti. Esattamente come succede nel rapporto fra doping e antidoping, dove le sostanze scoperte sono quelle di terzultima o penultima generazione se va bene. Con in più – e in peggio – il fatto che il sottobosco della finanza calcistica globale è un universo impossibile da cartografare, popolato com’è da una miriade di persone giuridiche e dalla schiera di gnomi che le manovrano. La storia inizia nell’estate 2010 quando il Porto acquista dall’Internacional Porto Alegre l’attaccante Walter Henrique Da Silva, calcisticamente noto come Walter. Un promettente calciatore classe 1989 per il quale lo Shakhtar Donetsk presenta un’offerta da 6,5 milioni di euro, ma che per volere dei suoi “investitori” finisce in Portogallo. E qui c’è la prima anomalia. Il cartellino di Walter appartiene per metà all’Internacional e per metà a fondi d’investimento. Questi ultimi preferiscono che il calciatore finisca ai “Dragoes”. Per consentirgli un più agevole inserimento nel calcio europeo, è la motivazione. Che non convince nessuno. Fatto sta che al Porto basta quasi pareggiare l’offerta del club ucraino per assicurarsi il giocatore facendogli firmare un contratto quinquennale. E poco importa che fino a un paio di settimane prima il club lusitano paresse sul punto d’assicurarsi Walter per metà di quella cifra. Così va da sempre il calciomercato, e fin qui nulla di rilevante. Piuttosto, a richiamare l’attenzione è il modo in cui il club portoghese raccoglie le risorse per finanziare l’acquisto. I 6,2 milioni di euro necessari (cifra inferiore a quella offerta dallo Shakhtar) arrivano in parte da due fondi d’investimento, il Pearl Design Holding Ltd e la For Gool Co. Per di più il giocatore non si trasferisce direttamente dall’Internacional Porto Alegre al Porto, ma transita in Uruguay dal Club Atlético Rentistas: l’ennesima triangolazione da calciomercato sudamericano, meccanismo finanziario di dubbia legalità che abbiamo descritto nella puntata del 30 ottobre. Per la cronaca, il Porto compie un investimento ingente per la dimensione finanziaria del campionato portoghese, acquistando un giocatore per un ruolo copertissimo: Walter disputa soltanto 18 partite in due stagioni e nell’estate del 2012 viene rispedito in Brasile. Anche perché nel frattempo attorno al suo trasferimento si è scatenata troppa curiosità. Il primo a denunciare i lati oscuri dell’affare è Gianni Infantino, segretario generale dell’Uefa, secondo il quale casi del genere sono fortemente a rischio di coprire operazioni di riciclaggio. Del resto, i dettagli finanziari dell’operazione sono come minimo sospetti. Il Porto paga al CA Rentistas 6,2 milioni per il 75% del cartellino, cedendo poi il 25% della sua quota per 2,125 milioni alla Pearl Design Ltd; dal canto suo, l’Internacional Porto Alegre incassa soltanto 4 milioni di dollari e deve pure distribuirne circa il 15% a imprecisate “terze parti”. Dopo Infantino, a chiedere chiarimenti sul trasferimento di Walter al Porto è Damian Collins, deputato conservatore presso la Camera dei Pari inglese nonché battagliero componente della Commissione Media, Cultura e Sport. A fine gennaio 2012 Collins denuncia quello strano affare e annuncia che lo sottoporrà all’attenzione della successiva seduta della Commissione, dedicata all’Indagine Conoscitiva sulla Governance nel Calcio avviata nel dicembre 2010. A motivare l’interesse di Collins per il trasferimento di Walter è il fatto che i due fondi d’investimento da cui giungono i finanziamenti per l’acquisto del giocatore abbiano sede in Inghilterra. Paese dalla disciplina parecchio permissiva in materia di diritto societario, la terra promessa per i Davide Serra provenienti da ogni dove. «Le autorità calcistiche dovrebbero avere la possibilità di richiedere alle banche notizie sui finanziatori dei club», afferma il deputato. L’intervento di Collins sollecita l’interesse della stampa economico-finanziaria, e ciò rende ingombrante in modo definitivo la vicenda. Due giornalisti di Bloomberg, Alex Duff e Tariq Panja, scoprono dettagli molto interessanti. La For Gool Co. è una società collegata alla Kirkdelta, basata a Rochdale. A controllare il tutto è Mark Quirk, che al tempo in cui i due giornalisti di Bloomberg conducono l’inchiesta risulta essere alla guida di 21 società con sede legale nel Regno Unito, e di essersi dimesso da altre 74 società a partire dal 2005. Quanto alla Pearl Design Holding Ltd., essa è retta dal portoghese Mario Jorge Queiroz e Castro, che risulta a capo di 35 società nel Regno Unito e 45 in Spagna. Scatole cinesi dai nomi più disparati e dai board invariabilmente monocratici, guidati da due gnomi come migliaia d’altri che popolano il sottobosco finanziario e adesso si muovono indisturbati nel mondo del calcio globale. Richiesti di entrare in contatto coi giornalisti di Bloomberg, sia Quirk che Queiroz non rispondono. L’anonimato è la loro garanzia più salda. Ma la stessa chiusura è stata mostrata dal portavoce del Porto, Rui Cerquiera, che interpellato telefonicamente e via mail ha rifiutato di rispondere alle domande dei due giornalisti. Meglio tacere, ma intanto Walter è diventato un giocatore troppo ingombrante. Nell’estate 2012 viene ceduto in prestito al Cruzeiro, per poi essere girato al Goias. Chissà se tornerà mai in Europa. Di sicuro c’è che lunedì scorso il sito ufficiale del Porto ha reso noto il lancio di un prestito obbligazionario al tasso di 8,25% annuo. Obiettivo: raccogliere 25 milioni di euro. Avanti così, debito su debito.

(4 / continua)

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Calcio Nazionale imbattuta con il ct italiano, club competitivi nelle

Coppe, tanti rubli per il mercato. La sfida al Vecchio Continente

L'ERA DI CAPELLO

E LA CACCIA ALLE STAR EUROPEE

di NICOLA SELLITTI (la Repubblica - Russia OGGI 22-11-2012)

Il nuovo sogno è Wayne Rooney, stella inglese del Manchester United. Una star dal brand globale, tra i primi quattro-cinque calciatori al mondo, per ingrossare la fila di campioni che scelgono la Russian Premier League. E per rivedere nel pallone l'attuale istantanea economica nel Vecchio Continente: la Russia va, gli altri Paesi arrancano. Manca ancora poco più di un mese all'apertura della sessione invernale del calciomercato, ma nella Federazione filtrano già notizie sulle trattative dei top club per assicurarsi nuovi fuoriclasse.

Cska Mosca, Zenit San Pietroburgo. Soprattutto, l'Anzhi. Le tre società al vertice del campionato. Pronta a staccare assegni a sette zeri soprattutto la creatura messa in piedi dal milionario Suleiman Kerimov e allenata da Guus Hiddink, che nella prima parte della stagione si è concessa il lusso – oltre a giocarsi il titolo – di battere il Liverpool nel girone di qualificazione di Europa League.

Dal Daghestan, nonostante la smentita dello stesso Hiddink, è partita la corsa a Rooney. «Chi se non lui – ha ammesso il brasiliano Roberto Carlos, prima leggenda a scegliere la Russian Premier League, ora vicepresidente dell'Anzhi – è un grande e giovane calciatore.Abbiamo grandi mezzi economici, ma cerchiamo anche talenti russi poco conosciuti». Rooney, uno dei “preferiti” di Fabio Capello, commissario tecnico della Russia, appena entrata tra le prime dieci al mondo (è nona) nel ranking Fifa. Con il pareggio contro gli Usa, la gestio- ne-Capello chiude l'anno senza sconfitte (quattro vittorie e due pari). E lo stesso tecnico friulano aveva previsto da tempo il big bang del calcio russo. A ragione. Dagli investimenti ai risultati sul campo, il passo è stato breve. Con lo Zenit San Pietroburgo che nella passata stagione ha centrato gli ottavi di finale di Champions League e lo stesso Anzhi, ancora in corsa nell'attuale edizione dell'Europa League, lottando alla pari con Liverpool e Udinese con i gol di Eto'o e Traorè. Strada spianata quindi per altri fuoriclasse nel pieno della carriera. Non gloriosi dinosauri a fine corsa. Con eccezioni. Poco più di un mese fa il vicepresidente della federazione russa, Nikita Simonyan (l'uomo che a suon di rubli ha portato Capello in Russia con il suo staff) invitava Francesco Totti, simbolo della Roma, a chiudere la sua carriera in un club della Federazione. Per lui, assegno in bianco senza limiti di durata. Con investitori russi che avrebbero coperto i costi per l'ingaggio del fuoriclasse romano. Interessate il Cska Mosca, che può contare sulla solida spalla finanziaria di Roman Abramovich, e Spartak Mosca. Assieme ai rumors su Rooney, oltre alla suggestione Totti, ecco le attenzioni dell'Anzhi su Wesley Sneijder, trequartista dell'Inter. Un affare con buone probabilità di riuscita a gennaio. L'olandese è ai minimi storici di gradimento nella società e nello spogliatoio interista. Costa tanto, tra cartellino e ingaggio. Una cifra che solo i club russi – e il Paris Saint Germain – possono permettersi in Europa. Perché i revisori del fair play finanziario stanno già chiudendo i portafogli delle “grandi” d'Europa. Non quelli della società russe, senza debiti a bilancio. Anzi, Zenit San Pietroburgo – che nella prima settimana di settembre ha speso 80 milioni di euro per acquistare Hulk dal Porto e Witsel dal Benfica – e Anzhi hanno ancora risorse per potenziare l'organico. E rubli anche agli altri club della Russian Premier League arrivano dalla vendita dei diritti televisivi delle gare di campionato. Con la tv via cavo Ntv Plus (appartiene a Gazprom) che assicura quasi 50 milioni di euro in tre anni.

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Stellini precisa e va oltre

di ANDREA ARZILLI & ARIANNA RAVELLI (CorSera 22-11-2012)

Non ho mai pensato e quindi mai avrei potuto dire che io "pensavo a un pareggio prima" della partita AlbinoLeffe-Siena e nemmeno Carobbio mi disse di aver "preso accordi": la mia unica responsabilità è inerente ad un mio colloquio con Carobbio alla fine della partita di andata». È quanto precisa Cristian Stellini, ex collaboratore di Conte al Siena e alla Juventus, in merito all’intervista pubblicata dal Corriere mercoledì 21 novembre. Tutti hanno diritto a cambiare idea, ci mancherebbe. Prendiamo atto delle correzioni così come con stupore registriamo che Stellini va molto oltre l’intervista rilasciataci, come quando ci consegna il nome di Terzi, che nessuno ha mai citato: «Tengo a precisare di aver parlato di tali questioni solo ed esclusivamente con Carobbio e non con altri tesserati, vedi Conte e Terzi». Così come quando ribadisce «che non ho mai provato a fare una scommessa riguardante il mondo del calcio», e nessuno ha mai scritto il contrario. Quanto al fatto che l’intervista fosse «una chiacchierata con due professionisti del settore giornalistico ai quali avevo anticipato la mia intenzione di avere un colloquio solamente in via informale», facciamo presente che Stellini ha parlato, volentieri e per quattro ore, semplicemente con due giornalisti che si sono qualificati come tali e che non gli hanno estorto alcuna informazione. Inoltre per un mese e mezzo (tanto si è aspettato per la pubblicazione) si è detto più volte desideroso di esprimere la sua opinione sul Corriere.

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Stellini alleggerisce i "casi" di Gillet e Gazzi

L'ex giocatore del Bari, compagno dei due granata, ha raccontato la sua verità in un'intervista. I deferimenti potrebbero slittare a campionato concluso

Al mediano fu dato un computer però lui non Sapeva che era per la partita con la Salernitana mentre il portiere mi confidò che avremmo giocato per vincere»

SIMONE DI STEFANO - Tuttosport - 22-12-2012

Due partite, lo stesso segreto. Cosa accadde in Bari-Treviso e Salernitana-Bari del 2009? E' la stessa domanda che si pongono gli inquirenti, ma la risposta la conoscono solo i protagonisti di quelle che secondo gli 007 di Bari furono due combine. L'ha rivelato Andrea Masiello, il deus ex machina di quella che è stata ribattezzata la «polveriera. Bari. Con le sue accuse ha mandato alla sbarra il Lecce e Semeraro, Guberti e la Sampdoria, e per poco non faceva squalificare Pepe, Bonucci, Salvatore Masiello e Vives, ma in due gradi di giudizio la scorsa estate molte delle sue ammissioni sono risultate di plastica. Stavolta ci sono le conferme di un pentito della prima ora, Vittorio Micolucci: «Sì, sapevo anche io di quelle combine., la sintesi di un suo fax recapitato alla procura federale lo scorso agosto. Nel frattempo la procura di Bari, che stava per chiudere l'nd» seta, ha dovuto fare marcia indietro e proseguire gli interrogatori sulle due partite. È spuntato di tutto: il minvolgliiiento dell'intera squadra del Bari allora allenata da Antonio Conte, soldi in cambio di una sconfitta con la Salernitana promessi e poi recapitati dall'ex biancorosso Ganci, e una riunione in palestra per discutere se accettare o meno che come minimo configura per tutti i presenti un'omessa denuncia, se non qualcosa di più «Chi c'era e cosa si disserro in palestra quel giorno?» iniziano a chiedere a macchia d'olio gli inquirenti di Bari a tutti gli ex biancorossi coinvolti. E' emerso che i giovani (Barreto, Gazzi, Ranocchia, ecc.) ai tirarono indietro ma poi vennero comunque coinvolti con alacri regali: "Gazzi se ne è andato a metà riunione. A lui e Barreto è stato dato un computer, ma non gli è stato detto che era per la partita., ha affermato Cristian Stellini in un'intervista rilasciata ieri al Corriere della Sera. La sua figura è centrale, ha patteggiato e ha deciso di confessare. Dalle sue parole ripetute anche in magistratura (Gillet mi ha rassicurato: "Noi giochiamo per vincere") si salverebbe dall'illecito non solo Gazzi ma anche l'altro granata Gillet. Per i primi due potrebbe configurarsi un'omessa denuncia, dai 4 ai 6 mesi di squalifica al netto di tutti i gradi. Da molti sono arrivate ammissioni di quella riunione, chi la gara con la Salernitana la giocò giura due «fu una partita imbarazzante» A dicembre potrebbero già avvenire i primi rinvii a giudizio, l'inchiesta è conclusa.

SLITTAMENTI Ma a livello sportivo cosa accadrà? I tempi sono lunghi e difficilmente si arriverà a un processo a campionato in corso. La procura federale annaspa tra mille prrocedimenti, non da ultimo il processo Napoli con inizio il 10 dicembre. Peraltro l'inchiesta cremonese è un cantiere aperto e ora si apprende che forse anche i casi Lazio-Genoa e Lecce-Lazio potrebbero slittare. In più, la Figc richiede massima cautela per incidere il meno possibile sull'andamento del campionato. Ergo, un processo oltre la fine del mercato invernale (che finisce il 31 gennaio) non è ipotizzabile al momento. Più probabile che il nuovo caso-Bari cominci ad essere affrontato dai federali a partire dall'anno nuovo, con tutte le nuove audizioni (escluso Lanzafame sono circa 21 ex baresi più Ganci e altri non baresi) da calendarizzare per primavera e arrivare al processo la prossima estate. La terza di fila, si spera l'ultima.

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Carlisle calls on Uefa to ban

all Serbian teams from Europe

by PETER LANSLEY (THE TIMES 22-11-2012)

Clarke Carlisle, the chairman of the Professional Footballers’ Association, has called on Uefa to ban Serbia from all European football, at club and international level, as he likened the racism issues in the former Yugoslavian republic to the hooliganism problems that led to English clubs being exiled in the mid-1980s.

Uefa’s control and disciplinary body meets in Nyon, Switzerland, today to decide what sanctions to mete out to the Serbian FA (FSS) for the racist abuse that enveloped England’s European Under-21 Championship play-off second leg in Kruzevac last month, and to both associations for failing to control their players in the fracas that broke out after Connor Wickham, the Sunderland striker, scored with the last kick of the game.

Fifa’s disciplinary committee also met this week to investigate unspecified “crowd disturbances” during Serbia’s 6-1 win over Wales in Novi Sad in a 2014 World Cup qualifier in September. World football’s governing body is due to give its verdict once the FSS has been informed.

The fallout from the horrendous scenes during and after England’s 1-0 victory on October 23 reached government level this month when Serbian police announced that they were arresting two unnamed England players and a coach for violent conduct, as well as nine Serbs for various offences, including three supporters for alleged use of fireworks.

Savo Milosevic, technical director of the FSS, has called for help from Uefa and the English FA to deal with the acknowledged crowd and behaviour issues but the Serbian FA has refused to accept any accusation of racism. Danny Rose, the Sunderland defender on loan from Tottenham Hotspur who was sent off for showing frustration after the final whistle, was among England’s black players allegedly abused throughout the evening that Thomas Ince, the Blackpool winger, last week called “terrifying”.

Carlisle believes that the only deterrent that will make the Serbian fully face up to their problems is a blanket ban from European football. Last month’s night of shame fell inside the period of a two-year suspended sentence for a second game behind closed doors that Uefa dished out to the FSS after a Euro 2012 qualifier against Italy in Genoa had to be abandoned after seven minutes. A fine of £107,000 was also levied against the FSS on that occasion, and of £16,000 when Serbia was found guilty of racism in an under-21 match against England in Nijmegen, the Netherlands, during Euro 2007.

“A ban is the only way,” Carlisle said. “It’s a repeat offence. The only way that you persuade a nation and its clubs to address the issue is to impose a sanction that has an impact. When we as English teams were kicked out of [European] competition, that instigated a period of self-governance. We started to crack down on physical violence, on hooliganism at football matches, so that we could get back into European competition.

“I believe that a sanction such as that would cause a nation such as Serbia, which still has a far greater problem with racial abuse, to self-govern and address the issue,” Carlisle, who was speaking at the Manchester Academy of Street League, said.

“I don’t think there’s any escaping the fact that there was racial abuse there, because I saw and heard that myself. What I saw was disgusting racial abuse from the crowd to the players. I saw physical altercations on the pitch that developed into a mass brawl. I don’t want to have biased eyes and say the English team acted completely in self-defence, but that’s how it looked to me.”

The York City defender, on loan with Northampton Town, said that the PFA had contacted Tom Lees and Steven Caulker, the players believed to have been named by the Serbian police along with Steve Wigley, Pearce’s assistant, to offer backing.

Skills for life

Clarke Carlisle believes that Serbian football needs the shock of a ban to start regulating its problems, but he also advocates football as a force for rehabilitation.

In his role as an ambassador for Street League, the charity that uses football to tackle youth unemployment, Carlisle has been helping young adults between 16-25 not in education, employment or training.

“We are trying to improve their employability, the skills they need to get into work, utilising football which is something that seems to cross all cultures, ages and levels of experience,” Carlisle said. Street League has been an FA charity since 2010. It operates in five cities across the UK, expanding to 12 by 2014.

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World Soccer | December 2012

SECRETS of the

dressing room

It is a space where few people venture on matchdays and which coaches try to keep out

of bounds. John Holmesdale reveals the inner workings of football's most secretive place

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Pressure is on FIFA turkeys

Pieth reform process still a contentious issue for the governing body

Anti-corruption adviser Mark Pieth was appointed chairman of

FIFA's Independent Governance Committee in November 2011

by KEIR RADNEDGE (World Soccer | December 2012)

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LE IPOCRISIE SULLA VIOLENZA ULTRÀ

UNA VERGOGNA DAVANTI AL MONDO

di FRANCO ARTURI (GaSport 23-11-2012)

Di intollerabile non c'è soltanto l'assalto squadrista e vigliacco e l'incalcolabile danno di immagine internazionale, con Roma che diventa sui media inglesi «the stab city», cioè la città degli accoltellamenti. C'è anche l'immancabile marea montante dei distinguo: «Un gruppo di sedicenti tifosi, in realtà teppisti...» (sindaco Alemanno), «Non risulta con certezza che l'aggressione sia stata opera di tifosi della Lazio» (presidente Lotito), «fatti che nulla possono avere a che fare con lo sport...» (Osservatorio del Viminale). La conosciamo bene: è il cloroformio con il quale l'ambiente sportivo e aree limitrofe tentano di addormentare la coscienza collettiva e il detersivo per lavare la propria. Oppure è la drammatica mancanza di comprensione di questi fenomeni. In ogni caso è soprattutto una mistificazione, condita da luoghi comuni.

C'è molto da capire ancora sul barbaro raid che mette l'Italia e il suo calcio ancora una volta alla gogna. La prima questione, fondamentale, è stabilire quanto marcata sia la matrice razzista e antisemita della scorribanda e la composizione della squadraccia con i suoi già certi intrecci col tifo organizzato. Ma ci si chiede anche se è vero che alcuni agenti municipali locali siano scappati allo scatenarsi dell'incursione. Se è vero che la prima Volante si sia materializzata dopo mezzora fra la rabbia e lo sconcerto degli abitanti della zona. Se è vero che un'area tanto centrale ed esposta sia stata lasciata preventivamente sguarnita dalle forze dell'ordine nell'imminenza di una partita fortemente a rischio, come sono tradizionalmente quelle delle squadre romane contro le inglesi. Interrogativi chiave per ricostruire i fatti e mettere a nudo eventuali lacune dei meccanismi di difesa da questi episodi di criminalità.

Ma a noi tocca soprattutto l'operazione opposta di quella in atto da parte di chi si premura di porre distanza fra l'ultima drammatica vicenda e lo sport: abbiamo cioè il dovere di ricondurre in pieno l'aggressione del branco di Campo dei Fiori nell'ambito del calcio, ovvero della sua parte deviata. E non solo perché il tutto si manifesta alla vigilia di un incontro internazionale, ai danni di tifosi pacifici, visto che qualcuno già finge di dimenticarlo. Ma perché è esattamente in certi settori degli stadi, di quasi tutti gli stadi italiani, che si tiene in vita e si coltiva l'antivalore della violenza e dell'intolleranza e delle commistioni soprattutto con ambienti dell'ultradestra. Al punto, come pare il caso, che tifosi di fazioni opposte si uniscono per spedizioni punitive all'insegna dell'odio.

Le statistiche ufficiali ci raccontano di cali percentuali di incidenti connessi al calcio. Il percepito della gente comune è tutt'altro e si riflette nell'allontanamento costante dagli stadi, nel disgusto generalizzato di un clima incivile, nella quasi rassegnazione davanti allo scempio della extraterritorialità delle curve rispetto alle leggi dello Stato. L'opinione pubblica sa bene che gli accoltellati del «Drunken Ship» appartengono in pieno ad una scheggia di calcio malato da cui non riusciamo a liberarci. Il primo passo sarebbe ammetterlo. Senza vergogna.

___

Divisi dall’ideologia in curva

Uniti fuori, per sfasciare tutto

È avvenuta la saldatura tra ambienti ultrà e gruppi politici estremisti

di GUIDO RUOTOLO (LA STAMPA 23-11-2012)

Quel lago di sangue nel vicolo, a una trentina di metri dal pub, racconta della sfiorata tragedia della notte. Sono le sette del mattino e Campo de’ Fiori inizia a vivere. Il mercato, il panettiere, le saracinesche abbassate dei pub, dei locali della movida notturna. Una ferita anche perla piazza, l’agguato degli ultrà. Gli squadristi della Roma e della Lazio che fuori dalle loro curve diventano alleati, compagni di merendine, di scorribande contro inermi e innocenti, negozi e soprattutto forze di polizia.

Quarantuno anni dopo, «Arancia Meccanica» (il film di Stanley Kubrick) si materializza a Roma e nelle aree metropolitane trasformate in arene di bande armate di corpi contundenti, molotov, petardi, bengala, bombe carta. E i loro obiettivi diventano le forze di polizia, gli edifici pubblici, le banche.

I professionisti della violenza anche gratuita hanno fatto proseliti. La loro è ormai una violenza che ha perso i connotati ideologici, come poteva essere quella che mosse i primi passi nel 1977, ed è fine a se stessa. E forse proprio per questa sua imprevedibilità non è meno pericolosa di quella politica.

Nelle ultime inchieste delle Digos e dei Ros dei carabinieri questo elemento emerge con molta forza: gli ultrà mantengono i loro connotati ideologici e le culture di appartenenza nelle curve, fuori dagli stadi si ritrovano spesso a combattere insieme agli stessi nemici delle curve (laziali contro romanisti, per esempio), agli antagonisti, agli anarcoinsurrezionalisti. Anche perché ormai nelle curve, negli stadi, i controlli sono rigidissimi e la possibilità di provocare incidenti relegata agli spazi fuori dagli stadi.

Se vogliano datare l’inizio di questa stagione della violenza fine a se stessa, allora dobbiamo tornare indietro nel tempo, all’11 novembre del 2007 quando ultrà laziali e romanisti, antagonisti e sfasciatutto di professione, attaccarono le caserme della polizia, quella di via Guido Reni, nel quartiere dello stadio Olimpico, il Flaminio, quella di Porta del Popolo. E tutto questo per onorare la memoria dell’ultrà laziale ucciso da un poliziotto in un autogrill vicino Arezzo.

Le manifestazioni si trasformano così in un supermarket delle opportunità violente. Si compra e si vende violenza. Per una manifestazione contro una discarica, per esempio. O per una manifestazione degli studenti. E si è disposti a operare anche in trasferta, fuori dai propri territori. Chi si occupa di indagini sugli ultrà sintetizza la loro ideologia nell’«odio contro lo sbirro; nell’amore per la violenza e nel culto del coraggio per lo scontro fisico».

Una volta caduto il Muro di Berlino anche nel mondo degli ultrà, i contrasti interni possono sorgere sulle modalità dell’uso della violenza. Per esempio, se l’arma offensiva in quell’occasione deve essere il coltello o meno. Oppure se in quel raid l’obiettivo deve essere un universo indistinto o mirato. Ed è proprio l’odio contro le forze di polizia che costituisce il cemento che unifica gli ultrà agli anarcoinsurrezionalisti e all’area antagonista che privilegiano l’arma della violenza rispetto alla battaglia democratica dei movimenti riformatori.

Le metropoli e le aree urbane sono diventate praterie di caccia, per queste bande. Anche nei «codici d’onore» (si fa per dire) degli ultrà, le sfide tra tifoserie avversarie una volta dovevano rispettare precisi canoni. Gli scontri avvenivano in prossimità degli stadi. Oggi - e il riferimento è all’assalto del pub di Campo de’ Fiori, Roma siamo agli agguati militari di due giorni prima. Siamo al «non faremo prigionieri».

È vero, negli ultimi anni, come dimostrano le intercettazioni telefoniche, gli «agguati» alle tifoserie avversarie si sono spostati anche negli autogrill delle autostrade, o l’approvvigionamento delle armi addirittura avviene nei supermarket gestiti da ultrà avversari. Ma tutto questo dimostra anche una intesa delle tifoserie con ambienti criminali.

La piazza è il luogo di scambi di merci per eccellenza. L’uso della violenza in ogni società moderna dovrebbe essere monopolio dello Stato. Qui da noi non è più così.

___

SPY CALCIO di FULVIO BIANCHI (Repubblica.it 23-11-2012)

Dalle puncicate agli agguati

Roma, ecco cos'è cambiato

Se li aspettavano tutti per giovedì, il giorno della partita: così era stato annunciato da Londra, dagli "spotter". I sostenitori del Tottenham sarebbero arrivati a Roma con i voli charter, o di linea, solo nella mattina di giovedì, secondo appunto le informazioni fornite dagli "spotter", gli agenti inglesi collegati con quelli italiani. Ma qualche fans britannico aveva deciso di visitare Roma, ed era sbarcato con un giorno di anticipo: poi era andato a bersi una birra con gli amici in un pub britannico di Campo dei Fiori. Come succede nelle città civili. Ma lì è stato vigliaccamente aggredito. Non è certo un'attenuante questa che abbiamo raccontato: assolutamente, il gesto resta vile. Lo abbiano commesso romanisti, laziali, o ci sia stato un accordo trasversale fra tifoserie nemiche. Cambia poco anche il fatto che qualcuno possa aver scambiato la tifoseria del Tottenham con quella del West Ham, con cui i giallorossi hanno un vecchio conto. Solo alibi. Resta il fatto gravissimo. Resta il fatto che a Campo dei Fiori, già terreno di scontri e violenze, nella notte ci fosse solo un'auto della polizia municipale. I carabinieri sarebbero arrivati 15 minuti dopo la chiamata di alcuni residenti nella piazza: possibile? Di sicuro le misure di prevenzione disposte dalla questura di Roma hanno dimostrato preoccupanti falle: come mai non era stata prevista una vigilanza, se non fissa almeno saltuaria, davanti ai luoghi, tipo i pub appunto, dove si radunano i tifosi inglesi? Niente di niente. Campo dei Fiori era abbandonata al suo destino mercoledì notte. A parziale attenuante c'è da dire che molti uomini e mezzi sono destinati alle scorte, nonostante le promesse mai mantenute di ridurle e il silenzio, o quasi, dei sindacati di polizia. Ma sicuramente qualche errore c'è stato nella programmazione della gara nel suo complesso, vigilia inclusa.

In passato Roma era la città delle "puncicate" (così le chiamava, minimizzando troppo, l'ex prefetto Achille Serra), la città delle lame tristemente famosa Inghilterra (ma sarebbe meglio che anche loro guardassero in casa propria: gli incidenti fuori dagli stadi ci sono ancora, eccome, nonostante leggi repressive che in Italia ci sogniamo). Poi c'era stata maggiore attenzione al fenomeno-calcio nel periodo in cui la questura era stata diretta da Francesco Tagliente, ex n.1 dell'Osservatorio e ora prefetto a Pisa. Un lavoro di "squadra" intenso, come direbbe Arrigo Sacchi. Una prevenzione attenta. Tagliente mobilitava tutte le forze disponibili ed era sempre in prima linea a controllare che il sistema di sicurezza funzionasse nel migliore dei modi. La situazione indubbiamente era migliorata, anche se, si sa, che il fuoco della violenza cova sempre sotto la cenere. Basti pensare che prima del derby, girava la voce che alcuni tifosi della Lazio si sarebbero alleati con quelli della Roma per attaccare la polizia. Nel giorno dell'anniversario della morte di Gabriele Sandri. Non è successo nulla, per fortuna: forse perché mancano i leader delle tifoserie come in passato, forse perché (almeno in quella occasione) era stato fatto un attento lavoro di prevenzione da parte della questura, forse perché attaccare la polizia allo stadio e nei dintorni è più complicato che devastare un pub nella notte, in una piazza dimenticata. Sono atti, come quello di Campo dei Fiori, che nulla hanno a vedere con lo stadio, sono agguati di stampo razzista. Sui quali l'Uefa può fare poco: molto può fare invece la Digos romana adesso per individuare i colpevoli, laziali o romanisti che siano (chissà, forse come dice Lotito, c'erano anche stranieri). Invece, i cori antisemiti dell'Olimpico, e gli striscioni pro Palestina, hanno a che vedere con il calcio. Ricordiamo che qualsiasi striscione politico è proibito. Non parliamo dei cori, poi. L'Uefa ha già punito la Lazio con 40.000 euro di ammenda per l'andata: ora il club romano rischia un'altra multa e la diffida. Se dovesse continuare questa vergogna, potrebbe essere squalificato l'Olimpico. Come successo in passato. Capisco che per le società di calcio sia difficile intervenire, ma quelle frange di idioti, così definiti da Lotito, vanno emarginate. Roma non è "stab city", la città dei coltelli come dicono in Inghilterra: anche se dal 2006 ad oggi, ci sono stati quasi 50 accoltellati nei dintorni dell'Olimpico. A Londra quanti sono in un anno nelle sconfinate periferie?

Il ministro Riccardi sostiene che bisogna vigilare su Internet, "sono preoccupato dai siti neonazisti": è vero, ma ricordo che dell'Osservatorio del Viminale fanno parte anche rappresentanti dei Servizi e della polizia di prevenzione. Il controllo su Internet già esiste. Ma bisogna ricordarsi anche di presidiare i cosidetti "punti sensibili". Come Campo dei Fiori...

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Consegna pacchi

Il calcio è il vero erede dell’opera lirica

Vasco Pratolini, scrittore di best seller e film

di successo (Metello), teorizzava la natura

teatrale, e nazional-popolare, del football

Un grande melodramma, per esempio, è la storia

di Seghesio, il portiere dell’Andrea Doria, che con la

sua ultima parata fece vincere la sua squadra e poi morì

di ANTONIO D’ORRICO (SETTE | 23.11.2012)

Non solo Gianni Brera. Non solo Pier Paolo Pasolini. Sono tanti quelli che si dovrebbero citare parlando di calcio e letteratura. Uno è Vasco Pratolini (l’autore di Le ragazze di San Frediano, Cronaca familiare, Metello).

Ricordo a memoria un suo articolo in cui spiegava che cos’è la malattia del calcio. E le fatiche che gli era costata. Una volta rimase in attesa per cinque ore in piedi sotto una pioggia a catinelle pur di vedere Italia-Inghilterra a San Siro. Un’altra volta fece quaranta chilometri a piedi (venti all’andata, venti al ritorno, il doppio che nella vecchia canzone di Nicola Arigliano) per un Prato-Torino (il Torino del favoloso trio Baloncieri-Libonati-Rossetti).

ATTORI E GIOCATORI. L’amore per il calcio lasciò addirittura una cicatrice sul corpo di Pratolini. A Firenze giocava il grande Meazza e lo scrittore scalò il capannone di un’officina per entrare nello stadio senza pagare. Si tagliò una gamba scivolando sulla lamiera. Ma ne valse la pena. Meazza segnò due gol quel giorno. Il secondo fu il tipico gol alla Meazza. Scartò i difensori e arrivato davanti al portiere gli disse: «Prego, dopo di lei». Una scena che valeva la ferita. In quel vecchio articolo, Pratolini diceva che il calcio è lo spettacolo nazionalpopolare (quello che in passato era stata l’opera lirica) che il teatro moderno non ha saputo dare. E diceva che guardando una partita non bisogna mai dimenticare che una squadra di calcio è composta da undici attori (pensate, oggi, alla recitazione Actors Studio di Balotelli o Cassano). Poi elencava alcuni pezzi di repertorio diventati proverbiali: la rovesciata di Piola, il doppio passo di Biavati, la stangata di Levratto (secondo la leggenda un portiere vedendo correre verso di lui quella possente ala sinistra scappò via, in preda al panico, lasciando la porta incustodita).

CUCCHIAI E ROVESCIATE. L’elenco dei pezzi di bravura possiamo aggiornarlo con il cucchiaio di Totti (e poi di Pirlo), la punizione maledetta sempre di Pirlo, i voli all’incrocio dei pali di Buffon, le pro gressioni di Zanetti, e la (freschissima) rovesciata alla Ibrahimovic…

Alla fine di quel vecchio articolo Pratolini racconta la storia di Seghesio, il portiere dell’Andrea Doria negli anni Venti del Novecento. Durante una partita a Marassi (lo stadio che sta tra la prigione e il mare, come scriveva Pratolini), Seghesio vede arrivare di gran carriera verso la sua porta un attaccante avversario. Decide di andargli incontro. Non fa come quel suo collega che scappò davanti al terribile Levratto. L’avversario però tira prima che Seghesio gli si tuffi tra i piedi. Un tiro fortissimo, squassante. Seghesio ferma il pallone con il petto e cade a terra, sempre tenendo la sfera stretta tra le braccia. La partita finisce. Il Doria ha vinto. Seghesio viene portato in trionfo dai compagni per la sua prodezza finale. Lui li lascia fare però di nascosto pulisce il pallone dal sangue che ci ha vomitato sopra. Quella sarà la sua ultima partita. Morirà da lì a poco in ospedale. Mario, detto Gheghe, Seghesio fu il primo caduto sul campo (caduto alla difesa?) nella storia del calcio italiano. E la sua, seppure di poche righe, è una delle storie più pratoliniane mai scritte da Pratolini.

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Retroscena

E’ in arrivo Gegic il re degli zingari

E adesso il calcio trema davvero...

di GABRIELE MORONI (Quotidiano Sportivo 24-11-2012)

E venne la resa degli «zingari» del calcioscommesse. Lunedì pomeriggio Almir Gegic sbarcherà a Malpensa in arrivo da Belgrado. Tempo qualche giorno, forse una settimana, e sarà la volta di Hristiyan Ilievski. Subito dopo si materializzerà Admir Suljic, l’ultimo a costituirsi. Ad attendere Gegic la squadra mobile di Cremona che lo condurra in carcere. Mercoledì verrà ascoltato dal gip Guido Salvini per l’interrogatorio di garanzia. Un intenso lavorio diplomatico sotterraneo sta dietro la decisine degli «zingari» di presentarsi in Italia.

Almir Gegic, 32 anni, serbo con passaporto anche ceco. ha un passato di calciatore in Serbia nel Novi Pazar, in Italia al Vicenza dal ’98 al 2000, in Turchia nell’Antalaya e nell’Istanbul Spor, in Slovacchia nel Kosic e nel Matador Puchov, in Canton Ticino nel Chiasso e nel Rancate. Carlo Gervasoni, l’ex calciatore del Piacenza che nell’inchiesta di Cremona ha vestito i panni del «pentito», basa buona parte della sua fluviale cantata sulle rivelazioni di Gegic, descritto come un «dominus» onnipresente. Gegic sarà assistito dal penalista e docente universitario pesarese Roberto Brunelli, che difenderà anche Ilievski, l’uomo dal volto segnato da una cicatrice, da molti ritenuto il vero capo degli «zingari». Nato nella città macedone di Skopje, 35 anni, Ilievski avrebbe avuto rapporti con il capo degli uomini di Singapore Tan Seet Eng (detto Dan) e incontrato in Italia il suo inviato Choo Beng Huat poco prima delle partite Taranto-Benevento, Atalanta-Piacenza, Padova-Atalanta. Avrebbe preso contatti con giocatori del Mantova per Padova-Mantova e del Piacenza immediatamente prima di Siena-Piacenza.

Admir Suljic, assistito dall’avvocato Marcello Cecchini, 31 anni, sloveno di Sloven Gradec, sarebbe coinvolto soprattutto in combine di partite dell’Albinoleffe.

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A BARI IL PORTIERE PARLA DI CONTE

Inchiesta chiusa

Nel verbale di Gillet

il giallo Colombo

di FRANCESCO CENITI (GaSport 24-11-2012)

Il procuratore Stefano Palazzi presto avrà da Bari le carte dell'inchiesta avviata alla chiusura dopo l'informativa finale dei carabinieri. E dai verbali si scopre una vicenda che in qualche modo anticipa il derby Juve-Toro di sabato prossimo. Non riguarda le squadre, ma François Gillet e Antonio Conte. Tutto gira intorno all'interrogatorio del portiere granata dello scorso agosto a Bari, nell'ambito delle indagini sul calcioscommesse: circa 20 i calciatori indagati per frode sportiva (Gillet compreso). Due gare nel mirino: Bari-Treviso 0-1, Salernitana-Bari 3-2. Gli inquirenti non hanno dubbi: match alterati e nella seconda c'è stato anche un passaggio di soldi (circa 230 mila euro). Tra gli indagati non c'è il tecnico della Juve: i magistrati lo hanno ascoltato come persona informata sui fatti e tale è rimasto.

Colombo e la farsa Il verbale di Gillet, però, potrebbe avere un peso diverso per la giustizia sportiva. Il portiere, alla terza sollecitazione, ha ricordato: «Colombo disse al mister che non voleva giocare perché la sfida sarebbe stata una farsa». Segue, nel racconto di Gillet, la sfuriata di Conte che poi avrebbe chiamato Kutuzov: «Tocca a te. E impegnati». In sostanza il rifiuto di Colombo (che si è avvalso della facoltà di non rispondere davanti ai pm) e le motivazioni date al tecnico potrebbero prefigurare un'omessa denuncia. Gillet e Kutuzov dovranno spiegare davanti a Palazzi il senso delle loro frasi, anche perché ultimamente avevano fatto intendere di voler precisare alcuni passaggi. Kutuzov in tv ha già difeso a spada tratta Conte, che durante il suo interrogatorio ha respinto ogni accusa, smontando la versione di Gillet: «La gara con la Salernitana — ha spiegato — era sì particolare, ma solo perché loro si dovevano salvare e si sapeva che i nostri tifosi erano gemellati con quelli campani. A me però non interessava: a tutti i giocatori ho chiesto il solito impegno anche se eravamo stati promossi. Gioco sempre per vincere. Colombo mi ha parlato di una farsa? Mai accaduto».

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Scommesse

Chiusa l’inchiesta di Bari

nelle carte le ombre su Conte

Per la Procura nessun reato: ma rischia un’omessa denuncia

Dalle deposizioni di Gillet e Kutuzov su Salernitana-Bari i possibili guai con la giustizia sportiva

Nel 2009 le squadre si accordarono? L’allenatore: “Io chiesi di vincere, come sempre”

di GIULIANO FOSCHINI & MARCO MENSURATI (la Repubblica 24-11-2012)

Le parole pronunciate nei giorni scorsi da Antonio Cassano non sono la peggiore notizia arrivata da Bari per Antonio Conte. Maggiori preoccupazioni potrebbero causargli le parole contenute nell’inchiesta della Procura che i Carabinieri hanno appena concluso, consegnando l’informativa finale. L’oggetto è la partita tra Salernitana e Bari (3-2), del maggio del 2009. Partita truccata, hanno accertato le indagini degli uomini del nucleo operativo: gara comprata dai campani e venduta dai baresi. Gli indagati sono più di venti. Il reato è frode sportiva. Tra di loro non c’è Antonio Conte. Nelle carte che stanno partendo però alla volta della procura Federale, dove verranno esaminate da Stefano Palazzi, ci sono un paio di particolari che, ininfluenti dal punto di vista penale, potrebbero costare all’allenatore della Juventus un nuovo deferimento per omessa denuncia.

KUTUZOV E GILLET

Lo spogliatoio del Bari aveva deciso di vendere, praticamente all’unanimità, la partita agli avversari. Era una gara inutile per la classifica: Bari già promosso, Salernitana a caccia di punti salvezza. Costo dell’operazione: una cifra non ancora ben definita che va dai 160 ai 300mila euro. I giocatori si riuniscono in un paio di occasioni. Tra i promotori c’è l’allora difensore (poi diventato collaboratore dell’allenatore della Juve), Christian Stellini. Conte però non si accorge e non sa nulla. Prima della gara, negli spogliatoi, dà la formazione come al solito. Qui è importante concentrarsi sul racconto di Gillet, il capitano di quel Bari, e uno dei protagonisti della combine. Il portiere — oggi al Torino — ricorda che Conte chiese a Colombo, attaccante di seconda fascia, di giocare titolare. «No, mister, già non gioco mai, io la faccia in questa farsa non la metto» avrebbe risposto, in sintesi, l’attaccante. Inutile la sfuriata di Conte. Colombo non ne voleva sapere. Da qui la decisione di schierare titolare Kutuzov, con il quale Conte si raccomandò, racconta lo stesso giocatore, di impegnarsi particolarmente. «Almeno tu». Le due dichiarazioni fanno intendere quindi che Conte sapesse che c’era qualcosa che non andava in quella partita. E che i suoi giocatori non volessero giocare per vincere.

«CONTE NON SAPEVA»

Tutti i giocatori interrogati da Bari (sono più di venti, tutti indagati, ma quasi la metà si è avvalsa della facoltà di non rispondere, compreso Colombo), anche quelli che hanno ammesso le proprie responsabilità, hanno però precisato che «il mister non sapeva nulla della combine ». Gli stessi Kutuzov e Gillet non hanno in nessun modo accusato Conte, ma i problemi potrebbero arrivare dalle pieghe dei loro discorsi. Non è un caso che l’attaccante abbia già spiegato pubblicamente, con interviste televisive, che non voleva in nessuna maniera dire quello che ha detto. E anche il portiere ha fatto sapere che le sue non volevano essere parole che potessero creare in qualche maniera problemi all’allenatore della Juventus. I verbali sono però depositati. Appena Palazzi li riceverà riconvocherà tutti i giocatori: toccherà a loro poi precisare, spiegare meglio e in questo caso, eventualmente, dire il contrario di quanto detto ai magistrati penali con tutto quello che una scelta del genere comporta.

LA DIFESA DI CONTE

L’allenatore della Juventus è stato ascoltato come testimone dai magistrati baresi. E proprio su Salernitana-Bari ha risposto a tutte le domande che il procuratore Antonio Laudati e i sostituti Ciro Angelillis e Giuseppe Dentamaro gli hanno posto. Ha spiegato che ci sono «segreti dello spogliatoio» che rimangono tali, anche a un allenatore attento ai particolari come lui. Di quel Salernitana-Bari ricordava tutto: mai aveva sospettato che addirittura fossero girati soldi negli spogliatoi. E se aveva chiesto particolare impegno ai suoi calciatori era stato proprio per scongiurare il rischio di una partita di “fine stagione”. «La partita con la Salernitana — ha spiegato in sintesi agli investigatori — era assai particolare. Erano in qualche modo gli stessi tifosi a chiederci di perdere, visto che c’era un gemellaggio con la squadra campana che aveva bisogno di punti per salvarci. Io però non ci stavo: eravamo promossi, ma lottavamo per il primo posto a cui io tenevo particolarmente. E io gioco sempre per vincere. Per questo ho chiesto ai ragazzi di impegnarsi come sempre».

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PRESUNTI CONTATTI CON IL GRUPPO CHE GESTIVA LE COMBINE

Scommessopoli, sentito Soncin

Il giocatore dell’Ascoli, ex Grosseto, è stato ascoltato in relazione alle gare dei toscani nel 2009-10

di SIMONE DI STEFANO (TUTTOSPORT 24-11-2012)

ROMA. Prosegue la fase fredda dell’inchiesta sportiva su Scommessopoli. Ieri è stato ascoltato il calciatore dell’Ascoli Andrea Soncin . Un nome di secondo piano nell’inchiesta “Last Bet” comandata dal pm di Cremona Roberto Di Martino , ma non per questo meno importante.

SEQUESTRO I fatti riguardo ai quali è stato sentito vanno ricondotti allo scorso 28 maggio, quando a seguito dell’ultima ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip Salvini, la questura di Ascoli disponeva la perquisizione dell’abitazione del giocatore bianconero. A Soncin fu sequestrato diverso materiale informatico: in varie occasioni il giocatore sembrerebbe infatti entrato in contatto telefonico con uno degli ungheresi appartenenti al sodalizio che si occupava di combinare le gare e operarvi scommesse illecite. Le gare in questione però sono relative alla stagione 2010-11 quando Soncin militava nelle file del Grosseto. Tra le partite ritenute combinate ci sono Ancona-Grosseto 1-1, Grosseto-Reggina 2-2, Empoli-Grosseto 2-2 e Grosseto-Mantova 1-1. Tutte gare per le quali il Grosseto ha già patteggiato (-6 punti) al primo processo, scampando nella seconda tranche dalla richiesta di retrocessione in Lega Pro a causa del coinvolgimento del suo presidente Piero Camilli .

CONTATTI Più che le gare, ormai uscite dall’inchiesta, a Palazzi interessa il coinvolgimento del giocatore con l’associazione. L’apporto fornito lo avrebbe reso compartecipe al sodalizio, ma allo stato degli atti la sua posizione resta da chiarire e approfondire. L’inchiesta sportiva riprenderà lunedì prossimo, con i recuperi delle audizioni dell’ex tecnico del Legnano (ora alla Cremonese) Giuseppe Scienza e del direttore sportivo del Renate, Luigi Abbate , entrambi legati a fatti relativi a presunte combine rivelate dall’ex team manager del Legnano Giuseppe Padula . Centrale sarà la posizione di Scienza, chiamato a testimoniare su un presunto fatto di corruzione che vide protagonista l’ex arbitro Bagalini nel ritorno della finale play-off Seconda Divisione 2009-10 Spezia-Legnano (la partita finì 2-0 per i liguri, che centrarono così la promozione in serie B).

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L'odio cieco degli ultrà senza politica

Destra e sinistra perdono importanza, il collante è la provenienza dai quartieri

L'ideologia della violenza Prevale l’alleanza contro il nemico comune, la rivolta violenta come valore in sé

di GIOVANNI BIANCONI (CorSera 24-11-2012)

ROMA — Quando sono andati a perquisire le case dei fermati, presunti aggressori del pub «Drunken Ship», i poliziotti non hanno trovato alcun indizio di militanza politica. Niente estrema destra, nessun riferimento a ideologie antisemite. Uno dei due arrestati — sostengono alla Digos — sarebbe vicino al gruppo di tifosi romanisti «Offensiva Ultras», ed era noto per aver partecipato ad alcuni scontri del 2006 che gli valse il divieto di entrare allo stadio. Ma dai reati contestati fu assolto, precisa il suo avvocato, e il divieto revocato.

Sei anni dopo, quel ragazzo di 27 anni di cui l'unica militanza conosciuta è quella nel tifo giallorosso (e c'è chi afferma che sia un «cane sciolto», senza legami coi gruppi organizzati) si ritrova coinvolto nel raid contro i supporter inglesi. Che col passare delle ore sembra assumere una colorazione più «sociale» che razzista. Più di appartenenza identitaria che a schieramenti ideali: ultrà di casa nostra contro ultrà britannici, senza distinzione tra una squadra e l'altra se sarà dimostrato che al fianco dei romanisti c'era pure qualche laziale. Gli investigatori che si occupano di tifo estremo studiano da tempo le dinamiche delle curve, e per quella di marca giallorossa sono giunti a una conclusione: le adesioni politiche che negli anni passati erano inizialmente orientate in prevalenza a sinistra e successivamente a destra, negli ultimi tempi hanno lasciato il posto a un sentimento di ribellione e protesta generalizzata che supera le barriere ideologiche. Un oltranzismo indirizzato essenzialmente contro le forze dell'ordine, simbolo dell'istituzione contrapposta alla cosiddetta «mentalità ultras».

Del resto la militanza politica ha perso buona parte del suo fascino in tutta la società civile, ed è naturale che ciò sia avvenuto anche in quello spicchio molto particolare che sono le curve degli stadi, dove dentro si può trovare di tutto. Miscelato secondo regole non sempre chiare. Tra chi aveva un'identità politica c'è chi l'ha conservata, ma al momento degli scontri passa in secondo piano. Che si debbano affrontare «le guardie» o i sostenitori delle squadra avversarie, come l'altra notte. Prevale l'alleanza contro il nemico comune, la rivolta violenta come valore in sé, che dà luogo a strane commistioni. Capita così che militanti di destra e di sinistra si ritrovino al fianco di chi non s'è mai interessato di partiti, e che i romanisti ingaggino battaglie insieme ai laziali, uniti dalla frequentazione dello stesso ambiente: un quartiere, una periferia, un qualsiasi luogo di ritrovo o aggregazione. E se c'è da assaltare un bar con gli inglesi dentro, magari per vecchie ruggini, o da fronteggiare un muro di celerini, si va insieme.

Il gruppo «Offensiva ultras», al quale secondo gli investigatori faceva riferimento uno dei fermati per l'aggressione di giovedì notte, potrebbe essere un esempio di questa evoluzione. A giudicare dalle foto della curva Sud sembra frequentato da estremisti di destra: lo striscione esposto nella parte bassa degli spalti appare spesso affiancato da qualche croce celtica, e alcune scritte sui muri sono accompagnate dal fascio romano stilizzato. Poi però, tra gli imputati per gli scontri alla manifestazione degli Indignati del 15 ottobre 2011 (quella terminata con la camionetta dei carabinieri data alle fiamme in piazza San Giovanni) figurano due ragazzi di 20 e 27 anni appartenenti proprio a «Offensiva». Strano, visto che quell'appuntamento era stato indetto dalla sinistra più estrema e arrabbiata. Meno strano se si considera che nei tumulti furono coinvolti ultras di altre squadre venuti da città come Livorno, Ancona, Teramo. Tifoserie notoriamente catalogate a sinistra, ma è probabile che in quell'occasione la calamita fosse più la prospettiva di battagliare con gli sbirri che non la proposta politica sottesa al corteo.

Pochi giorni fa, all'indomani del derby Lazio-Roma, è stato arrestato un altro tifoso ritenuto affiliato a «Offensiva ultras». Ha 23 anni, ed è accusato di aver lanciato una molotov contro le forze dell'ordine: azione tipica di una manifestazione politica d'altri tempi più che di disordini da stadio, dove solitamente compaiono armi improprie di diverso tipo. Il processo dovrà stabilire se è davvero colpevole, lui come gli altri inquisiti per i tanti episodi di violenza legati al tifo. Che certamente possono avere anche connotazioni politiche o razziste. Ma il collante nella maggior parte dei casi pare diverso. Qualche settimana fa alcuni gruppi di laziali avevano preparato un'accoglienza poco amichevole per i sostenitori del Panathinaikos che in quell'occasione erano spalleggiati dai romanisti. Ma al momento di partire all'attacco hanno trovato i reparti schierati dalla polizia, che era riuscita a intercettare i piani di battaglia. E non è successo quasi niente.

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la Repubblica 24-11-2012

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La mattanza dei tifosi del Tottenham e

le urla “Juden” allo stadio, il giorno dopo

di STEFANO NAZZI (ilPOST 24-11-2012)

Il 7 marzo 1979 al Palazzetto dello sport di Varese si giocava Emerson Varese – Maccabi Tel Aviv, semifinale della Coppa del campioni di basket. Se andate a vederle, le fotografie di quella sera sono impressionanti. Gli ultras del Varese agitarono per tutta la partita decine di croci di legno intonando Adolf Hitler ce l’ha insegnato, uccidere un ebreo non è reato. Dal resto del palazzetto non vennero grosse reazioni, molti sorrisero, qualcuno si unì al coro. I tifosi israeliani presenti erano sotto choc: non potevano nemmeno immaginare che stesse accadendo davvero. Senza tra l’altro che qualcuno intervenisse (addirittura le croci vennero prima sequestrate dalla polizia, poi riconsegnate nel corso della partita). In curva comparve poi uno striscione conclusivo: 10, 100, 1000 Mathausen, questo c’era scritto.

Ci fu emozione nei giorni seguenti, furono arrestati una decina di ultras del Varese legati al Fronte della Gioventù (Fiuggi e tutto il resto erano ancora bel lontane). Poi la cosa finì lì.

Sono passati 33 anni, siamo ancora a quel punto. Anzi, peggio.

Non so quale sia la “matrice” di ciò che è successo a Roma l’altra sera, la mattanza ai danni dei tifosi del Tottenham. Mi sembra che la cosa più probabile sia che ci fosse la voglia di massacrare “i bastardi inglesi”. E che comunque sottotraccia ci sia una vaga ma violentissima componente razzista antisemita: quei tifosi inglesi erano comunque “Juden”, colpevoli di essere tifosi della squadra riferimento della comunità ebraica di Londra (mi sembra invece fantasiosa la teoria secondo la quale siano stati scambiati per tifosi del West Ham). So solo che questa brutta storia conferma ancora una volta quello che sul Post è stato scritto molte volte: c’è una saldatura netta tra gruppi ultras sulla carta assolutamente nemici ma che si alleano in nome degli affari e, anche se pare assurdo dirlo, di una connotazione politica razzista e filonazista. So già le obiezioni: non bisogna generalizzare, non tutti i gruppi ultras sono così, non tutti in curva nord a Roma sono d’accordo (e ci mancherebbe altro). Tutto vero. Però quello che è successo è sotto gli occhi di tutti. È lì, c’è il sangue a terra, ci sono i coltelli, ci sono le mazze. E ci sono i cori il giorno dopo, durante la partita, quella parola scandita “Juden”. In quanti, presenti allo stadio, hanno reagito? È anni che questa storia continua. Provate a mettere in fila striscioni e cori, da quello dedicato al torturatore e massacratore di donne e bambini Arkan (esposto sempre dalla curva laziale nel febbraio del 2000) ai cori degli ultras del Varese contro il giocatore negriano Giulio Ebagua (a proposito, gli ultras del Varese calcio si chiamano Blood and Honour, Blut und Ehre, in tedesco, motto di una divisione delle SS). Per poi passare per Verona, dai manichini dei giocatori di colore impiccati in curva alle svastiche esposte sugli spalti. L’elenco è infinito, da Ascoli a Trieste, da Napoli a Torino per non parlare del gruppo Ultras Italia, che segue la Nazionale, nato da un’allenaza tra gruppi di estrema destra soprattutto del Nord Est.

Siamo in Italia, Occidente, 2012. Pensare al punto in cui siamo fa venire i brividi. Leggere dell’indignazione, sbalordimento e furia dei giornali inglesi fa provare vergogna. E basta dire “il calcio non c’entra” (tanti ancora lo dicono). C’entra anche il calcio, c’entra eccome. Perché è in alcune curve che certi gruppi nascono, aggregano e prosperano. A Roma, ma non solo. Ed è il calcio che deve occuparsi seriamente della cosa. Il presidente della Lazio Lotito ha detto: «Avrete delle sorprese, gli aggressori non sono laziali». Sono anche laziali presidente (le ultime dalle indagini dicono che siano stati due laziali ad aggregare il gruppo), e romanisti. Dalla Curva Nord alla Curva Sud. E le urla “Juden”, il giorno dopo allo stadio, presidente, le ha sentite? Dalla Federcalcio, dalla Lega calcio, silenzio assoluto, nulla si muove. Le società, e lo sanno tutti, continuano per lo più a sopportare oppure ad avere rapporti sereni anche con i gruppi più delinquenziali, così, per non avere problemi. E i giocatori? Avete mai sentito un giocatore, dico uno solo, dire qualcosa a proposito? Ne avete mai visto uno uscire dal campo dopo aver sentito cori razzisti? È ora che chi gestisce il calcio, e con il calcio fa i soldi, si muova. È ora che chi va allo stadio inizii se non altro a far sentire isolati, fuori luogo e fuori tempo, i grotteschi violenti razzisti da curva.

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Ma un libro può cambiare il gioco del calcio?

Murdoch ha capito che con i diritti degli sport le sue tv sarebbero diventate indispensabili

Alcuni editori lo snobbarono, il succo del loro ragionamento era: i tifosi sono stupidi

di NICK HORNBY (la Repubblica 24-11-2012)

Dalla pubblicazione di Febbre a 90’, nel lontano 1992, il calcio inglese è molto cambiato, anche se in realtà sono successe più cose negli ultimi vent’anni che in tutti i precedenti settanta o ottanta. Le partite sono diventate più veloci e più belle, i giocatori sono più in forma e più bravi. I nostri stadi sono più sicuri, ma i biglietti maledettamente cari e più difficili da trovare, e così gli spettatori sono più vecchi, e meno scalmanati. Quasi tutti i giocatori della Premier League dell’ultimo decennio sono plurimilionari per definizione, mentre nei primi anni Novanta il calciatore inglese più dotato, Paul Gascoigne, giocava nel campionato italiano, decisamente più ricco e più glamour.

Ma ormai sia la lira, sia la serie A, hanno smesso di luccicare. Abbonandoti a un canale sportivo via cavo puoi vedere due o tre partite al giorno, in ogni angolo d’Europa. È più facile guardare un match della Premier League a New York o alle Canarie che a Londra, e in ogni bar del mondo c’è sempre qualcuno con cui parlare della lampante cocciutaggine di Arsene Wenger nel calciomercato estivo. La mia squadra del cuore, un tempo così triste e quasi impossibile da amare, è diventata un simbolo di perfezione estetica, e ha vissuto, forse, il periodo più grandioso della sua storia; per quasi un decennio, gli irripetibili anni tra il 1997 e il 2006, un sabato sì e uno no potevo vedere all’opera nell’Arsenal il fior fiore del calcio mondiale.

Dietro questi cambiamenti ci sono un evento, la strage di Hillsborough, e un uomo, Rupert Murdoch. Dopo Hillsborough, infatti, si è dovuto per forza ammettere che qualcosa andava fatto – che quelle enormi, fatiscenti gradinate di calcestruzzo non erano sicure e che uno svago pomeridiano non poteva includere il rischio di feriti, o addirittura di morti. Murdoch, invece, ha capito che accaparrandosi i diritti tv degli sport più seguiti del mondo le sue televisioni sarebbero diventate quasi più indispensabili del pane per una marea d’individui. Così ha inondato il calcio di soldi, e insieme ai bigliettoni sono spuntate le star straniere, e i club hanno aumentato i prezzi dei biglietti per pagare ingaggi stellari.

Più di una volta mi è capitato di leggere un’altra versione su quegli anni, una versione secondo la quale parte delle responsabilità di quei cambiamenti spetterebbe al libro che avete in mano. Febbre a 90’, questa in breve la teoria, avrebbe venduto le partite di calcio alle classi medie rendendole le uniche in grado di permettersi di guardarle. Non sarebbe mica male, in fondo, poter rivendicare dei meriti in cambiamenti sociali e culturali tanto significativi, ma purtroppo non è così. Non è per essere modesto che dico che il proprietario di un impero mediatico internazionale ha influito sullo sport inglese più del mio primo libro. E comunque in tutta questa storia c’è qualcosa che non torna, è come se il fatto che Febbre a 90’ sia un libro significhi che il suo successo è dovuto soltanto ai lettori delle classi medie – della serie come potrebbe essere altrimenti, gli operai mica leggono. Secondo me, invece, Febbre a 90’ non è stato letto soltanto da gente abituata a comprare libri, ma anche da chi di solito non li compra; insomma, sia dai laureati di Oxford e Cambridge che da persone che hanno mollato la scuola a sedici anni.

Dietro questo libro non ci sono storie drammatiche – l’ho scritto quasi di getto, e trovare un editore è stato relativamente facile e veloce. Molti editori, però, convinti che «i libri sul calcio non vendono», lo avevano snobbato, basandosi, a mio avviso, su una visione del mondo tutt’altro che democratica. Il succo del loro ragionamento, infatti, era: «I tifosi di calcio sono stupidi, talmente stupidi che non si comprano nemmeno le terribili autobiografie opera di ghost-writers sfornate apposta per loro. Quante chance credi di poter avere con i tuoi riferimenti al postmodernismo e le tue citazioni di Jane Austen?». L’idea che quelle terribili autobiografie opera di ghost-writers non vendessero perché erano terribili e opera di ghost-writers non li aveva nemmeno sfiorati. Quindi, probabilmente Febbre a 90’ non ha cambiato la composizione sociale degli spettatori delle partite di calcio, ma spero che almeno abbia aiutato a risvegliare gli editori sul potenziale commerciale di un diverso tipo di libri sullo sport. Evitando chissà quale ricercata affermazione da uomo di lettere sulla genesi di questo libro, posso solo dire che l’unica cosa che avevo in mente mentre lo scrivevo era che i tifosi di calcio potessero leggerlo senza fare una piega. Per quanto riguarda le mie fonti d’ispirazione, due vengono dagli Stati Uniti: l’autobiografia di Tobias Wolff This Boy’s Life e il classico dimenticato di Frederick Exley A Fan’s Notes. Dal libro This Boy’s Life, di Tobias Wolff (Atlantic Monthly Press, New York, 1989) nel 1993 è stato tratto il film Voglia di ricominciare, con Robert De Niro e Leonardo di Caprio. Da A Fan’s Notes, di Frederick Exley, è stato tratto il sottotitolo dell’edizione originale di Febbre a 90’, Fever Pitch, A Fan’s Life, «Vita di un tifoso ». ( N.d.T.) Sarà perché la cultura popolare è il fiore all’occhiello dell’America, ma nessuno lì è sembrato sorprendersi del fatto che un autore esperto di poesia contemporanea fosse altrettanto ferrato nei punteggi del baseball; in Gran Bretagna, invece, questo miscuglio culturale è ancora visto con un certo sospetto. Un tifoso di calcio che legge libri passa per presuntuoso e snob; un poeta con un abbonamento stagionale è uno che più in basso di così non poteva cadere.

Un altro dato di fatto è che la sfera d’influenza del calcio si era già ampliata ben prima di Febbre a 90’. Molte delle persone che vedevo alle partite appartenevano, come me, alla prima generazione delle classi medie, tutti beneficiari della mobilità sociale del secondo Dopoguerra. Noi avevamo goduto del privilegio di poter andare all’università e amavamo il calcio soprattutto perché lo amavano i nostri genitori e i nostri nonni. E comunque quando l’Inghilterra vinse la Coppa del Mondo, nel 1966, e George Best diventò il Quinto Beatle, quasi tutte le vecchie connotazioni sociali saltarono e amare il calcio diventò semplice quanto amare la musica pop. Poi, negli anni Ottanta, gli anni del calcio malato, molti di quei ragazzini hanno smesso di andare allo stadio, per tornarci a metà del decennio successivo, quando le cose hanno ricominciato a girare per il verso giusto. (Io invece, anche se avrei dovuto, non ho mai smesso, ed è stata questa tenacia, forse, la mia migliore qualifica per scrivere questo libro.) Quando i tifosi l’hanno piantata con il cercare di picchiarsi fino a morire spappolati – o perlomeno quando la polizia ha capito come impedirglielo – gli spalti sono tornati pieni. E in questo dal punto di vista sociologico non c’è nulla di particolarmente complicato. Febbre a 90’, però, è uscito proprio nel periodo in cui i nostri stadi stavano diventando più sicuri, più affollati e più accoglienti per donne e famiglie, e la conseguenza è stata che il mio libro si è beccato meriti e colpe che non gli spettavano. Tempo dopo ho scoperto che in altri paesi – soprattutto negli Stati Uniti, il posto in cui Febbre a 90’, per ovvie ragioni, ha avuto meno successo –, stavano succedendo più o meno le stesse cose e tenendo banco dibattiti simili. Ovunque, o almeno così pare, lo sport professionistico si sta arricchendo e imborghesendo. Trovatemi un solo dirigente che per intrattenere un cliente lo porta ancora a teatro o all’opera; le classi medie di oggi, di qualunque nazionalità si parli, sono persone diverse, con background diversi e gusti diversi.

Negli ultimi vent’anni non è solo il calcio a essere cambiato. Anch’io, ovvero l’altro protagonista di Febbre a 90’, che in fondo è un libro autobiografico, sono diverso. Nonostante tutto, però, il mio legame con l’Arsenal non si è spezzato. Negli ultimi vent’anni avrò perso al massimo venti partite casalinghe e quando giochiamo male ancora metto il muso. Anzi, ora che vivo con persone afflitte dalla medesima malattia la mia tristezza è ancora più impenetrabile. Il calcio, però, è diverso, gli stadi sono diversi e le voragini della mia infanzia e prima adolescenza sono state riempite – da un più che soddisfacente lavoro a tempo pieno che Febbre a 90’ ha reso sicuro e da una ricca, impegnativa e complicata vita di famiglia. Oggi non vorrei e non potrei mai scrivere questo libro, ma non lo dico per sminuirlo. Nella mia attuale incapacità, infatti, vedo tanto una perdita quanto una crescita. La persona che aveva il tempo e le energie per tutti quei crepacuori ormai non esiste più, e se ora dovessi scrivere su di lei probabilmente le darei un buffetto sulla testa e la spronerei a diventare più adulta, più saggia, e si perderebbe tutto il bello di Febbre a 90’. Ho davvero provato quelle cose, e con me tantissime altre persone, milioni di persone. Molti di quei milioni forse oggi non si riconoscono più granché nel calcio e negli stadi in cui viene giocato, ma i miei figli e milioni di altri giovani, ragazzi e ragazze, stanno iniziando un’avventura che gli procurerà una marea di dolori e, una volta ogni morte di papa, attimi di gioia trascendentale. E questo, secondo me, non cambierà mai.

(Traduzione di Lucia Ferrantini)

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La Ġazzetta dello Sport 17-11-2012

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La Ġazzetta dello Sport 24-11-2012

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Calcioscommesse Domani sbarcherà a Malpensa da Belgrado per costituirsi: lo attende il carcere di Cremona

Gegic in Italia, ecco tutti i retroscena

Uomo chiave A convincere il latitante è stato Kresimir Krsnik, avvocato di Zagabria ed ex colonnello dell’esercito croato

di GABRIELE MORONI (Quotidiano Sportivo 25-11-2012)

Kresimir Krsnik, avvocato di Zagabria, un passato militare di colonnello nell’esercito croato nel conflitto serbo-croato, difensore all’Aja. E’ stato il grande mediatore della «resa» degli «zingari» del calcioscommesse. Inizierà domani quando a Malpensa si materializzerà, lungamente atteso, Almir Gegic e proseguirà a breve con quelli di Hristiyan Ilievski e Admir Suljic.

La svolta inizia a profilarsi verso la fine di marzo. Il traghetto «Regina» scodella al porto di Ancona Alija Ribic e Vinko Saka, entrambi di Zagabria. Ribic, 56 anni, pensionato dopo essere stato camionista e autista di pullman, e Saka, 51 anni, allenatore di calcio, si costituiscono dopo essere stati latitanti da dicembre, inseguiti da Cremona con un’ordinanza di custodia cautelare e un mandato di cattura internazionale. Sono accusati di avere fatto parte della organizzazione degli «zingari», capitanata da Ilieveski e Gegic. Qualche giorno dopo da Zurigo, dove ha scontato un anno di carcere per frode sportiva, approda a Cremona Dino Lalic, 37 anni, sloveno di Kranj, ex portiere dell’Aek Larnaca. Per i tre, difesi da Krsnik e dall’avvocato Marcello Cecchini, la detenzione nel carcere di Cremona è breve.

E’ allora che matura la decisione dei grandi latitanti dell’inchiesta cremonese. Il primo a prenderla è Gegic, da tempo intenzionato a costituirsi, sia pure fra attese e temporeggiamenti. Il suo atteggiamento traina Ilievski.

Una paio di settimane fa Cecchini e Crsnik sono a Cremona, a colloquio con il procuratore Roberto di Martino. A questo punto i giochi sono praticamente fatti.

Dopo Gegic, nel volgere di qualche giorno, sarà la volta di Ilievski. Chiuderà il cerchio Amir Suljic, 31 anni, sloveno di Sloven Gradec, ex calciatore, titolare di un’agenzia di import-export di orologi di marca.

Lo scorso febbraio Almir Gegic, ex calciatore nel Canton Ticino e latitante numero uno della Calciopoli cremonese, aveva beffato le polizie di mezza Europa. A dispetto del mandato internazionale che avrebbe dovuto condurlo in una cella, era tornato in auto con la famiglia nel suo appartamento di Chiasso e dopo avere prelevato mobili e averi era ripartito si pensa per la Serbia. Avrebbe attraversato almeno quattro frontiere in andata e ritorno senza essere fermato. La mancata collaborazione a livello internazionale aveva strappato al procuratore di Martino un commento irritato: «Gegic è ormai il personaggio chiave dell’inchiesta, non può godere di questa libertà». Si era rischiato un incidente diplomatico. La procura federale di Berna (competente per le estradizioni) e la procura cantonale di Lugano avevano diffuso una nota congiunta rovesciando di fatto sull’Italia la responsabilitù della fuga di Gegic: «L’ufficio federale di giustizia non ha potuto effettuare l’arresto in quanto la richiesta italiana non adempiva alle condizioni necessarie; di conseguenza è stato richiesto alle autorità italiane un completamento di informazioni. Allo stato attuale si sta esaminando la voluminosa documentazione trasmessa». La procura di Cremona aveva però sostenuto di avere spedito in tempo il materiale richiesto ma che dalla Svizzera erano giunte continue richieste di integrazione. La legge federale, tra l’altro, non prevede l’arresto per frode sportiva.

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LA JUVE E LA COMUNICAZIONE

Ma a che serve questo silenzio?

di ANTONIO BARILLÀ (CorSport 25-11-2012)

Vigilia muta: ormai una prassi, incomprensibile. Quando la Juve adottò per la prima volta il silenzio, aspettando il Bologna dopo il caos di Catania, era evidente l'intenzione di sfuggire alle polemiche, proteggere la serenità della squadra, ribellarsi all'"assedio anormale e atipico" denunciato dal presidente Andrea Agnelli. Tacere, in quel contesto, aveva un senso, oggi non s'intravvede uno straccio di motivo: la reiterazione ha trasformato una scelta matura (e contingente) in malcostume, con dispiacere di milioni di tifosi - abbiamo già avuto occasione di rimarcarlo - che vorrebbero condividere le emozioni dell'attesa, conoscere il pensiero bianconero. Abbiamo rilevato anche che la Juve non viola diritti, piuttosto un dovere verso la sua gente, ma davvero più passano le settimane più la strategia appare capricciosa.

Negli ultimi giorni non ci sono stati veleni - anzi, a voler essere pignoli, l'unica frecciata è stata di Agnelli all'Inter, con l'amnesia dei cinque scudetti di fila attribuiti solo a Torino e Juventus -, e non c'era sentore di domande estranee o scomode, che comunque altre società hanno la pazienza di ascoltare. Non regge nemmeno l'alibi della scaramanzia, visto che la Juve ha taciuto prima dell'Inter (1-3 e striscia positiva in campionato interrotta) e parlato - per obbligo Uefa - prima del Chelsea (3-0 e ottavi di Champions a un passo). Sarebbe perfino più accettabile un silenzio stampa integrale: le bocche cucite solo alla vigilia appaiono, se non dispettose, irrispettose.

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Le squadre inglesi trasferiscono le proprie

sedi legali all’estero: è una mossa Fair?

di CRISTIANO NOVAZIO (SPORT&LEGGE 24-11-2012)

La crisi economica ha colpito profondamente le società calcistiche italiane, e si è fatta sentire soprattutto in un’ottica di competizione con quelle straniere, spagnole ed inglesi su tutte.

Recentemente, sono venuti tuttavia alla luce i casi di numerosi club inglesi che hanno trasferito le proprie sedi legali in nazioni lontane, in grado di offrire un regime fiscale più morbido rispetto a quello in vigore nel Regno Unito. I club della Premier League, 11 dei quali nel corso degli ultimi anni sono passati sotto il controllo di capitali esteri di diversa provenienza, hanno ora puntato sull’utilizzo di questo escamotage, per spendere meno in termini di imposte e risanare le casse.

L’esempio principale, ma non unico, è dato dal Manchester United: questa gloriosa squadra, una tra le 3 più famose al mondo e la migliore del Regno Unito, è controllata dalla famiglia statunitense Glazer, che la ha acquistata tramite un’operazione di leveraged buyout, sostanzialmente garantendo i fondi necessari attraverso lo stesso patrimonio sociale della squadra. Gli amministratori dei Red Devils hanno ora trasferito la sede legale del club alle Isole Cayman: oltre a meri vantaggi fiscali, poiché la società non sarebbe soggetta al pagamento di imposte dirette, la scelta si spiega in virtù del livello di segretezza garantito a soci investitori e alla redazione dei bilanci.La questione è particolarmente delicata, poiché, per quanto legittima dal punto di vista giuridico, l’operazione consente un indebito vantaggio sul piano economico fiscale rispetto alle concorrenti europee. La rilevanza del problema si accentua inoltre quando si considerano le norme di Fair Play Finanziario (vedi nostro precedente articolo) poste inessere dalla UEFA. Tali direttive si applicano solo a quelle società che partecipano a competizioni organizzate dalla UEFA stessa, essenzialmente Champions League e Europa League: ciò significa che la questione non rileva per tutte le squadre che ne sono escluse, ma la cui sede legale è stata ugualmente trasferita, come per esempio il Reading (Gibilterra), il Bolton (Isola di Man), il Birmingham (Cayman) e via dicendo.

Come noto, il principio generale che anima il Fair Play Finanziario è il pareggio di bilancio ed impone alle società partecipanti l’assenza di debiti scaduti nei confronti dei propri tesserati, di altre società, e delle autorità fiscali. Tuttavia pare a questo punto evidente quanto poco Fair siano le conseguenze date dall’applicazione di questa norma, se si considerano le differenze esistenti tra i regimi di tassazione Europei e quelli che possono essere riscontrati nei cosiddetti “paradisi fiscali”, e le diverse regole relative alla redazione dei bilanci.

E’ inoltre lampante come la struttura di queste società, in cui la squadra di calcio risulta controllata da altre entità appositamente create, sia in conflitto con la necessità di trasparenza che è fondamentalmente sottesa alle norme di FFP. La scelta di trasferire la sede legale in paradisi fiscali, come detto, oltre a garantire una minore tassazione, ha un effetto decisivo sulle politiche di governance della società e sulla trasparenza dei bilanci. E l’ultima conseguenza è un miglioramento della immagine pubblica delle società coinvolte: poiché queste sono poste nella condizione di mostrare meno debiti, rispetto alle concorrenti con sede legale in paesi fiscalmente più rigidi, esse sono certamente più appetibili sul mercato, e quindi in grado di attirare un maggior numero di investitori e sponsor.

Queste sono alcune delle problematiche che potranno essere affrontare in sede di applicazione delle norme sul Fair Play Finanziario per far sì che la competizione tra i clubs sia veramente fair sotto tutti i punti di vista.

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Per l’Europa il calcioscommesse vale

lo 0,000002584% di quanto incassano le mafie

Il mercato delle scommesse è stimato in 50 miliardi di dollari all'anno in tutto il

mondo, l'Unione Europe inasprisce la lotta per contrastare il fenomeno dilagante

di GIOVANNI CAPUANO (PANORAMA.IT 23-11-2012)

Come andare alla guerra armati di bastoni. Anzi, peggio, di stuzzicadenti. L’Unione Europea ha deciso di provare a mettere in campo strumenti per contrastare il fenomeno evidentemente dilagante delle scommesse illegali e del match fixing. Un mercato stimato in 50 miliardi di dollari all’anno in tutto il mondo. Stanziamento europeo per andare alla guerra? Leggere i bandi può essere istruttivo di come le strade del paradiso (legalità) siano spesso lastricate solo di buone intenzioni e raramente di sostanza. Il budget previsto dalla Commissione europea a partire dal 2013, a sostegno dei cinque progetti pilota per rafforzare le azioni di prevenzione contro il match fixing, è in fatti di 1 milione di euro.

Punto. Un milione di euro. Esattamente lo 0,000002584% di quanto nello stesso arco di tempo le organizzazioni criminali transnazionali movimenteranno da una parte all’altra del globo semplicemente cliccando su pc, tablet e telefonini.

E’ vero che non si può pretendere che sia Bruxelles a risolvere da sola un problema peraltro all’apparenza al massimo contrastabile con una seria attività preventiva e repressiva. D’accordo che più che i soldi può fare una legislazione scritta su misura per consentire a polizie e magistrati di mettersi in rete e condividere informazioni e notizie di reato.

Però anche i numeri e la loro simbologia hanno un significato e 0,000002584 (per cento) sembra più un codice a barre di un prodotto che il senso di un impegno. Si poteva e si doveva fare di più e meglio. O al limite fare a meno di riempirsi la bocca con proclami e promesse. Fino al prossimo scandalo.

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