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Ghost Dog

Tifoso Juventus
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  1. La cura dei giovani, uno stadio gioiello, l’attenzione al fair-play, non solo finanziario Viaggio nel nuovo mondo dell’allenatore di calcio più affascinante e vincente di oggi Casa Guardiola Bayern, més que una famiglia così la Germania ha rapito Pep di MAURIZIO CROSETTI (la Repubblica 21-01-2013) Dicono che nelle sere più limpide, la nuova casa di Pep Guardiola si scorga anche dalle Alpi bavaresi. Attraversando 75 chilometri d’aria di cristallo, lo “schlauchboot”, cioè il gommone, come viene affettuosamente chiamata l’Allianz Arena, rotola nelle pupille come un pallone in porta. Luogo di notevole valenza simbolica, lo stadio del Bayern è uno scrigno colmo d’ogni ricchezza, tutto esaurito già in estate, visione infuocata alla periferia nord di Monaco, distretto di Freimann (dal centro ci si arriva in 16 minuti di metropolitana), dove alle cinque esatte di ogni pomeriggio un dito pigia un interruttore e dà luce all’immane pneumatico: colore rosso-Bayern, ma la tinta può variare se gioca la nazionale, oppure se c’è da illuminare una notte di musica e non di pallone. Quel bravo ragazzo di Guardiola sembra fatto apposta per il club più serio, rigoroso e virtuoso d’Europa, e viceversa. Come il suo amato Barcellona, anche il Bayern è un opificio di talenti: Kroos, Schweinsteiger, Lahm, Badstuber, Mueller, Alaba. Molto più del Barcellona, il Bayern è un modello economico: ricavi per 368 milioni di euro, ma solo 30 dai diritti televisivi; il resto è merchandising (57 milioni) e sponsor (82); stipendi che incidono solo per il 45 per cento del fatturato; azionariato popolare di 171 mila soci che versano 60 euro all’anno, e sono i veri padroni del club (81,8 per cento), assai più dell’Adidas e dell’Audi che non arrivano al 10 per cento. L’ultimo utile d’esercizio, 11,1 milioni di euro, è stato il migliore in 113 anni di storia: dal 1979, il Bayern non conosce la parola deficit. Anche se poi in campo non vanno mica i commercialisti, e neppure i contabili di Säbenerstrasse, storica sede del club nato nel 1900, vent’anni prima che Hitler illustrasse nella birreria Hofbrauhaus di Monaco i venticinque punti del partito nazista, trentadue anni prima che il presidente e l’allenatore del Bayern, appena vincitori del loro primo campionato, venissero deportati: erano ebrei. Siccome Pep Guardiola è un tipo studioso, non gli saranno sfuggiti gli aspetti sociali, storici ed economici di un percorso che ha condotto il Bayern Monaco non solo a vincere 22 titoli nazionali, 15 Coppe di Germania, quattro Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali, ma a diventare un riferimento assoluto di fair-play finanziario e stile. Come e più del Barcellona, i bavaresi vogliono incarnare un’idea, un sistema applicabile e una scuola. Hanno una squadra già fortissima e una rosa assai giovane (26,2 anni di media, meglio dei catalani), hanno fuoriclasse come Ribery e Mueller, Gomez e Neuer, Robben e Schweinsteiger, e ora cercano Suarez (Liverpool), Falcao (Atletico Madrid), Extebarria (Betis Siviglia) e Vidal (Juventus). Senza per questo rinnegare un gusto e un intuito che nel tempo li hanno portati a scegliere giocatori turchi, polacchi, slavi, austriaci d’importazione o cittadinanza diretta, perché il Bayern — come la nazionale tedesca — è multietnico, aggregante e vario, non certo un cliché dell’antico e un po’ marmoreo “fussball”. Anche per questo, Guardiola l’ha preferito. Se in tre quarti d’Europa, il calcio agonizza tra debiti (gli spagnoli hanno un buco di 750 milioni col fisco), violenza, spettacoli mediocri, stadi semivuoti e costosi (in Inghilterra e Spagna si spendono, in media, 150 euro a biglietto, in Germania 70), il campionato tedesco ha 45 mila spettatori a partita, una pressione mediatica normale, niente oligarchi o sceicchi, nessun Mourinho a provocare e zero sclerate. Qui, nessun presidente darebbe della zitella isterica a un collega. E prima di ingaggiare una stella come Guardiola, i dirigenti del Bayern sono andati dal signor allenatore Jupp Heynckes, 67 anni, e gli hanno gentilmente chiesto cosa ne pensasse; lui ha confermato il suo addio alla panchina, così l’operazione è andata a segno con due passaggi e un tiro. Certo, adesso tocca al Pep arredare la casa, cominciando dal ritiro estivo a Riva del Garda (è dunque assai probabile che si svolga in Italia la prima amichevole della nuova epoca). Al Bayern è normale vincere, ma ora è più stimolante, viste la potenza e la bellezza del Borussia Dortmund, avversario di grande valore. Guardiola è l’unico fuoriclasse comprato a peso d’oro nella storia del calcio tedesco, universo autarchico e fiero ma non presbite. Settantamila bavaresi appassionati cantano l’inno nello stadio gommoso e scarlatto, pieni di birra e felicità, mentre il loro collega più illustre chiede sempre i risultati del Bayern, e talvolta guarda le partite in tivù, in una stanza affrescata in Vaticano. Chissà che dentro le pagine dell’Osservatore Romano, il tifoso Ratzinger non sbirci in segreto la Ġazzetta dello Sport.
  2. Sentenza Scaroni, il giorno dopo L’avvocato Mainardi: «Ricorso in appello». Piazza e web solidali «L'agente piangeva in aula, perché?» L'ultrà picchiato: «Non ho capito le sue lacrime all'assoluzione» La lettera aperta Paolo ha inviato una lettera aperta: «Ha perso la Giustizia ma hanno vinto gli Ultras» di CARLOS PASSERINI (CORRIERE DELLA SERA - BRESCIA 20-01-2013) Ci vuole un fisico bestiale, da allevatore di tori, per resistere agli urti di quella giustizia che non sempre dà giustizia. Paolo Scaroni, che i tori li allevava davvero prima che nel settembre 2005 qualcuno gli spegnesse la luce per 64 giorni pestandolo come non si pestano nemmeno le bestie, ha deciso di non ripiegare la muleta, il drappo rosso della corrida, ché non è ancora suonata la campana: «Ricorrerò in appello — ha spiegato ieri, all'indomani della sentenza di assoluzione per i poliziotti accusati di averlo menato a sangue quel 24 settembre alla stazione di Verona — Lo faccio per me, per i miei amici, per mio padre e mia madre, per Dailyn». Comunque la si veda, da qualunque parte si stia, la sentenza di primo grado emessa venerdì dal tribunale di Verona non accende la luce su una vicenda oscura come troppi maledetti segreti di Stato, piuttosto la spegne del tutto, almeno per ora. Manca la prova — e senza prova nessuno può essere condannato, è la legge, vivaddio — ma qualcuno è stato, Paolo non si è fatto male da solo. E, peggio che peggio, qualcun altro ha impedito con l'inganno che luce fosse fatta, che la giustizia potesse fare il suo corso, portando a galla la verità. Quei dieci minuti di buio — torna sempre il buio, in questa brutta storia — nel filmato che poteva inchiodare i responsabili gridano vendetta al cospetto del famigerato Stato di diritto. Un'ingiustizia nell'ingiustizia che hanno spinto Paolo a mettere da parte ancora per un po' il contenzioso civile con il Ministero dell'Interno, finalizzato all'ottenimento di un risarcimento per i danni permanenti. Per ora non ha preso un euro. «Paolo mi ha suonato in studio sabato mattina alle 9 — svela l'avvocato Sandro Mainardi, molto più di un legale in questa vicenda — e mi ha detto che la causa civile può attendere, che vuole continuare con il processo penale presentando appello. Ora vedrò le motivazioni della sentenza, poi parlerò con il pubblico ministero. Si poteva arrivare alla condanna anche ricorrendo alla prova logica: è già successo moltissime volte. Qui è mancato il coraggio». Il day after è una galassia di parole, fra piazze reali e virtuali. Prima Paolo ha pubblicato una lettera aperta che ha dilagato sul web («hanno perso la Giustizia e la Verità, hanno vinto gli Ultras») e poi ha preso brevemente parte al corteo in città per rivendicare il diritto alla casa. Tutto questo dopo la citata visita mattutina allo studio legale di via Moretto insieme al papà Giovanni, la cui presenza l'altra sera fuori dall'aula è stata decisiva nello spegnere la crescente tensione che avrebbe potuto degenerare. «Mio papà è un grande, ora è in Kenya per un mese a costruire una scuola» ha raccontato Paolo ieri al Corriere, a mente più fredda, lucida. «Subito dopo il verdetto mi sono girato a sinistra e ho guardato i poliziotti. Ho visto che uno di loro piangeva». Silenzio. «Avrei voluto dirgli solo una parola, una sola: perché?». L’intervista L'esperto: «Giusto il numero identificativo sul casco degli agenti» Le indagini Per Marinelli bisogna fare chiarezza fino in fondo sui video di MARA RODELLA (CORRIERE DELLA SERA - BRESCIA 20-01-2013) Chi ha massacrato Paolo non ha un nome. Perché non è stato possibile stabilirne la responsabilità individuale a processo, e perché quel nome, sulle divise, non c'è. Neppure un codice, un simbolo che corrisponda a un'identità. Un problema che lui, con i suoi 40 anni di servizio in questura e una battaglia perenne per una nuova cultura della sicurezza, conosce bene. Lo dice subito, Maurizio Marinelli, direttore del centro studi della Polizia di Stato, che parla «con il cuore in mano», perché «simili episodi fanno riflettere». Il caso di Paolo Scaroni lo conosce bene, così come il dilemma dell'identificabilità degli agenti, «che nelle manifestazioni di piazza è bilaterale: ti arriva l'attivista con la sciarpa per non farsi riconoscere, e poi dall'altra parte c'è il poliziotto». Anonimo, nonostante «nel pubblico impiego ormai sia previsto il cartellino di riconoscimento con nome e cognome. Ma non per gli agenti: questione di privacy, incolumità e minacce». E un numero identificativo sul casco di servizio? «Questo sì, si potrebbe e dovrebbe fare, un po' come funziona per le pettorine degli steward allo stadio: mi creda, se ne parla e se ne discute. Le dirò di più, il capo della polizia dimostra una grandissima sensibilità, soprattutto dopo gli ultimi episodi violenti di Roma per i quali si è parlato di comportamenti illeciti degli agenti: chi ha sbagliato va punito». In questo e negli altri casi, come quello di Paolo, per cui «è importante fare chiarezza e capire di chi è la responsabilità della sparizione del filmato» in cui sarebbe documentato il pestaggio. «Dai comportamenti sbagliati bisogna prendere le distanze: siano poliziotti o tifosi». Ma Marinelli guarda oltre. E non esclude si possa fare di più. «Serve una nuova cultura dell'ordine pubblico: maggior addestramento dei poliziotti, maggiore professionalità in manifestazione, maggior capacità di negoziazione». Partendo da un presupposto. Cioè che «un poliziotto, prima di tutto, debba rispettare le regole e mai abusare delle armi».
  3. Scomesse: Napoli salvo, ora il Bari spera La sentenza che ha tolto la penalizzazione agli azzurri può aiutare anche i biancorossi Garzelli ottimista “Precedente importante”: il club ora potrebbe non patteggiare per la combine con la Salernitana di ENZO TAMBORRA (la Repubblica - Bari 19-01-2013) «Prepariamoci a mettere i soldi da parte». Con questa battuta, il direttore generale, Claudio Garzelli, ha sintetizzato la posizione del Bari dopo la decisione della Corte Federale della Figc di cancellare in secondo grado la penalizzazione di due punti al Napoli, che se l'è cavata con una multa di 50mila euro, pur essendoci la squalifica di ventuno mesi ad uno dei suoi tesserati, l'ex portiere Gianello, per tentato illecito sportivo. «E' la prima volta che la sanzione pecuniaria viene applicata al di fuori dell’omessa denuncia », sottolinea il dirigente del club biancorosso. «Dovessimo essere deferiti per le vecchie gare contro Treviso e Salernitana, forse bisognerà tenere conto di questo precedente, anche perché il Bari ha già pagato con una penalizzazione ». Il club biancorosso, in seguito al primo filone dell'inchiesta di Bari, si è visto sottrarre cinque punti in classifica ed è stato sanzionato con un'ammenda di 80mila euro. «Bisogna aspettare un mese prima di conoscere le motivazioni che hanno portato alla decisione della Corte Federale. Mi sembra di capire che il tentato illecito sia stato considerato meno grave dell'illecito compiuto. Però questo precedente può cambiare molte cose. Anche noi possiamo sperare solo in una pena pecuniaria». Il Bari può sperarlo solo per i procedimenti ancora aperti, mentre il patteggiamento al quale ha fatto ricorso al termine della prima inchiesta, non lascia spiragli per rimettere in discussione la sentenza. Il club biancorosso è stato tra i primi in Italia a rivendicare il ruolo di parte lesa, al punto da prendere in esame la possibilità di costituirsi parte civile per ottenere un risarcimento danni dai tesserati che hanno barato. Proprio in quest'ottica, oltre che al legale barese Aurelio Gironda, si è affidato all'avvocato Maurizio Paniz, parlamentare del Pdl, che ha proposto una modifica alla legge sulla responsabilità oggettiva. In linea di massima, anche per il secondo filone d'inchiesta, il club biancorosso potrebbe optare per il patteggiamento, andando incontro ad una nuova penalizzazione di uno o due punti. Ma le parole di Garzelli lasciano intendere che, in vista di un assai probabile nuovo deferimento, la strategia potrebbe subire variazioni. [...]
  4. LEGA DI SERIE A CONFERMATO BERETTA PRESIDENTE-ASSENTE NON C’È DA BRINDARE di FRANCO ORDINE (il Giornale 19-01-2013) Hanno rieletto Maurizio Beretta, il presidente assente, da tempo al lavoro con Unicredit. Per segnalare il suo scarso feeling con il calcio italiano lo avevano ribattezzato «il presidente della lega anti-fumo». Lo hanno rivotato e devono tenerselo per altri 4 anni. Facile la spiegazione: la maggioranza dei presidenti di serie A ha deciso di assumere il controllo stesso della Lega e la sua rappresentanza politica in federcalcio ricacciando indietro ogni altra figura di manager indipendente. È bastato infatti l’accordo elettorale tra i sostenitori dei due blocchi, Beretta appunto, sponsorizzato da Lotito e Galliani, patron di Simonelli poi uscito di scena, per far maturare la svolta. Con Beretta, sono state occupate anche le altre caselle rimaste vuote: garantita la complessiva governance. La poltrona di vice-presidente unico della Lega è stata destinata ad Adriano Galliani in riconoscimento della sua collaudata esperienza nel settore, quella di consigliere federale a Lotito e Pulvirenti (Catania), mentre la variopinta pattuglia di presidenti tra cui Cairo (Torino), De Laurentiis (Napoli) e Lo Monaco (Palermo) farà parte del consiglio di Lega insieme con Ghirardi (Parma), Guaraldi (Bologna), Cellino (Cagliari), Percassi (Atalanta), Pozzo (Udinese) e Preziosi (Genoa). Mezza serie A al comando, insomma. Sono rimaste fuori, da ogni intesa elettorale e perciò incarico, le altre due grandi storiche, Inter, Juve oltre a Roma e Fiorentina. Avevano puntato durante la precedente assemblea di venerdì 11 gennaio su Abodi (rifugiatosi nel ridotto della serie B) prima di rimanere senza candidato e anche senza una exit strategy. Agnelli e Moratti, spiazzati dall’intesa Lotito­Galliani, hanno detto no a Beretta il quale ha raccolto, dopo una operazione di voto annullata, il quorum indispensabile: 14 preferenze su 20. Beretta ha fatto sapere che continuerà a lavorare per Unicredit, il funzionamento degli uffici sarà garantito dal dirigente Brunelli. Più che recapitare i complimenti a Beretta per il doppio stipendio, forse è il caso di reclamare dal manager ex Fiat, un tempo collaboratore di Montezemolo in Confindustria, una scelta decisa, lasciando Unicredit, banca che, vale la pena ricordarlo, controlla ancora la Roma. Con Lotito tra i piedi, Abete, appena riconfermato in Figc e senza più il sostegno di Petrucci, non farà salti di gioia. Con Galliani negli uffici di Milano ricominceranno le polemiche. Pensate sia il caso di brindare con Beretta? l'Analisi di UMBERTO ZAPELLONI (GaSport 19-01-2013) Dove vuole andare il nostro calcio con questo governo? Nel calcio italiano va di moda il vecchio. Altri quattro anni di Beretta alla presidenza della Lega sono una nuova sconfitta per il nostro pallone. Non per la persona eletta, sia ben chiaro, ma per quanto significa la scelta che in un momento di crisi potrebbe trasformarsi in una zavorra dalla quale sarà impossibile liberarsi. Dal nuovo consiglio di Lega e dal consiglio federale restano fuori Juventus, Inter, Roma, Fiorentina, Sampdoria. Gli Agnelli, i Moratti, i Della Valle, i Garrone: le grandi famiglie del nostro calcio e gli unici investitori stranieri del nostro campionato. La confindustria del pallone può costruire il futuro senza le squadre che rappresentano il 60% della tifoseria? Può affidare posti di prestigio a persone che sono comparse in Lega per la prima volta ieri mattina? Può continuare ad essere ostaggio delle vecchie logiche di potere? Poi ci meravigliamo che Inghilterra, Germania, Spagna e adesso pure la Francia stiano meglio di noi in Europa... Si continua a pensare al proprio orticello perdendo di vista il quadro d'insieme, il progetto comune, quello che potrebbe finalmente realizzare il salto di qualità della nostra Serie A. Può aver sbagliato anche chi ha alzato troppo i toni cercando di far prevalere la sua linea, d'accordo, ma il risultato finale è drammatico per le conseguenze che può provocare. Il calcio italiano non riesce e non vuole voltare pagina. E ancora una volta toccherà al neo vicepresidente Adriano Galliani e al regista neppure tanto occulto della mancata rivoluzione, Claudio Lotito, cercare di inventarsi qualcosa per tenerlo a galla tra un Pulvirenti, un Cellino e un Preziosi. Un'impresa quasi impossibile. UN’ALTRA OCCASIONE SCIUPATA I soliti nomi e nessuna spinta innovativa Vince chi non ha idee né programmi di MARCO ANSALDO (LA STAMPA 19-01-2013) Poiché la presidenza di Maurizio Beretta è stata la più inconcludente da quando esiste la Lega Calcio, era doveroso darle ancora fiducia per vedere fin dove si può arrivare. È una bella sfida alla legge di Murphy, per cui quando pensi di aver toccato il fondo puoi andare ancora più giù, nonché la dimostrazione che lo sbandierato rinnovamento era una presa in giro. Beretta, che avrebbe dovuto dimettersi da molti mesi avendo ottenuto un incarico importante in Unicredit, è stato eletto ieri alla sesta votazione dalle 20 società che non erano riuscite a trovare l’accordo sul suo successore. Abodi e Simonelli erano stati trombati forse perché avevano commesso un errore fondamentale: presentarsi con dei programmi per tirare fuori la Lega dal pantano, fuori dai giochi con la Federcalcio, sconosciuta alla politica come dimostrano il naufragio della legge sugli stadi e la mancata tutela dei marchi, bloccata in ogni progetto, inadeguata ad affrontare la crisi economica che colpisce il calcio. Basta pensare che, a parte i diritti televisivi che Beretta fu bravo a farsi pagare ma che dovranno essere ridiscussi (e le prospettive sono preoccupanti), i ricavi di questa Confindustria del pallone ammontano a 17 milioni di euro, la metà dell’omologa tedesca, e meno di un trentesimo di quanto fattura una della Major League americane, quella del baseball. Anche sotto il profilo organizzativo la Lega attuale ha mostrato gravi limiti. Gli ultimi casi sono la vicenda sullo stadio del Cagliari e il pastrocchio di questi giorni con il calendario della Coppa Italia. Di fronte ai numeri e ai giudizi negativi non si è trovato di meglio che proseguire sulla stessa strada. L’aveva auspicata uno dei nuovi «maître à penser» del calcio italiano, Claudio Lotito, ma non si prevedeva che vi si accodasse Galliani: il dirigente del Milan aveva sostenuto Simonelli come un protagonista del rinnovamento, ma ha virato su Beretta strappando la vicepresidenza che ne fa l’uomo forte della Lega, anche in questo caso un gradito ritorno e la conferma che i cambiamenti erano una favola. Nel consiglio entra Cairo (oltre a Preziosi, Cellino e Lo Monaco, longa manus del presidente del Palermo, Zamparini) e stanno fuori Juve, Inter e Roma, contrarie a Beretta e uscite dall’elezione con le ossa rotte. Come, temiamo, il calcio italiano di club.
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