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IL PM BLOCCA I GIOCATORI INDAGATI Caso contratti fittizi Sequestrati i due lodi contrari al Catanzaro di FRANCESCO CENITI (GaSport 23-01-2013) «L’inchiesta penale non è rilevante...» scriveva il Collegio arbitrale nella sentenza che dava ragione a sei ex calciatori del Catanzaro indagati (con altri 7 compagni) dal pm Domenico Guarascio per tentata truffa e formazione di credito simulato. Ieri il magistrato ha ristabilito un principio generale: le legge è uguale per tutti, giocatori di calcio compresi. In questa ottica ha ordinato il sequestro (eseguito dalla Finanza nella sede di Firenze della Lega Pro) degli atti e dei documenti relativi ai due lodi arbitrali in questione. Il provvedimento riguarda anche tutte le istanze presentate al collegio da parte dei calciatori coinvolti nell’inchiesta sui presunti contratti fittizi. La Procura ha compiuto questo passo per evitare che i calciatori possano ottenere «l’adempimento dei titoli negoziali fraudolenti, così irrimediabilmente aggravando e conclamando gli effetti delle condotte delittuose contestate». Accolte in pieno le tesi di Sabrina Rondinelli, avvocato del Catanzaro. I due lodi sequestrati si erano svolti a settembre e a dicembre: il collegio aveva disposto il pagamento delle differenze retributive per circa 240 mila euro. Le somme versate dal Catanzaro (per evitare penalizzazioni) erano state sequestrate. L’inchiesta ruota intorno a presunti contratti fittizi relativi alla stagione 2009-2010 quando, secondo l’accusa, l’Fc Catanzaro era già in una situazione tale da fare presagire il fallimento, ma nonostante questo furono depositati in Lega contratti multipli per circa 800 mila euro (l’ipotesi è che sia l’emersione degli stipendi in nero). La vicenda è monitorata dalla Federazione che in un comunicato ha fatto capire di essere dalla parte del Catanzaro: «La Lega Pro ha prestato e presta la collaborazione necessaria all’autorità inquirente e adotterà tutte le iniziative opportune a tutela delle società associate. L’intervento della Procura preclude ai calciatori indagati di poter ottenere, tramite i ricorsi al Collegio, l’adempimento di obbligazioni derivanti da contratti che la Procura ipotizza fraudolenti». -
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AGNELLI 2003-2013 (2ª PUNTATA) GLI ALTRI AMORI Ferrari e le Olimpiadi In Italia per l’Avvocato Sventò l’assalto della Ford alla Rossa e volle i Giochi a Torino La lunga trattativa con Enzo Ferrari negli anni Sessanta e i blitz ai GP. Le auto personalizzate. Il lascito alla città verso la quale si riteneva in debito di PAOLO BRAMARDO (TUTTOSPORT 23-01-2013) «NON rinuncerei a uno scudetto della Juventus per un Mondiale della Ferrari, ma l’una cosa non esclude l’altra». Gianni Agnelli era un uomo diviso tra due grandi amori, il calcio e la Ferrari. Il primo viscerale, una passione sempre viva, di quelle che neppure il tempo che passa ha il potere di affievolire. Il secondo intellettuale, meno focoso ma altrettanto solido e non poteva essere diversamente per un uomo che viveva la vita sempre di corsa, che amava la velocità al volante e che nel 1952 aveva rischiato di morire schiantandosi con la sua Ferrari contro un camion andando a Montecarlo. «Ho visto tutti i trionfi delle Rosse - aveva detto - la Ferrari è parte della mia vita». ORGOGLIO ITALIANO Una parte così importante da spingerlo a diventare proprietario di un vanto d’Italia che rischiava di finire in mani straniere. Nel 1965 l’Avvocato decide di supportare con una collaborazione tecnica Enzo Ferrari , in difficoltà perché la Fia aveva deciso che dal 1967 le auto per la F2 avrebbero dovuto avere un motore sei cilindri derivato da un’auto prodotta e omologata in almeno 500 esemplari. Uno sforzo troppo grande per un’azienda artigiana come quella di Ferrari, che costruiva auto splendide ma in numero limitato e con il solo obiettivo di finanziare l’attività sportiva. I primi approcci non sono favorevoli e, dopo un tentativo andato a vuoto anche con l’Innocenti, il Drake prende contatto con la Ford dicendosi disposto, in cambio, a cedere una parte dell’azienda. La voce, giunta all’orecchio di Agnelli, solletica il suo orgoglio nazionalistico e il 1° marzo del 1965 l’accordo è ufficializzato. Ci vogliono altri quattro anni per arrivare alla firma che porterà Maranello nella galassia torinese, eppure nel 1969 sarà semplice per l’Avvocato e l’Ingegnere trovare l’intesa: poche parole, una stretta di mano e la frase pronunciata da Agnelli subito dopo la firma: «Beh, Ferrari, non è vero che questo accordo si poteva fare anche prima? Abbiamo perso del tempo, ora bisogna riguadagnarlo». Alla Fiat va il 50% della Ferrari con diritto di prelazione (ma anche obbligo) di acquistare un altro 40% dell’azienda alla morte di Ferrari. Clausola che viene onorata lasciando il 10% al figlio Piero. RISPETTO Agnelli ha grande rispetto per Ferrari, che considera «un uomo simpatico, anche se a volte è un po’ prevaricatore» e concede al Drake piena autonomia nella conduzione della Ferrari. L’Avvocato, soprattutto in tema di corse, tenne sempre un basso profilo, ponendosi nei confronti del Cavallino più come un tifoso di riguardo che come socio o addirittura come padrone. IN PISTA Le puntate sui circuiti di Formula 1 sono sempre state rade, di breve durata, ma comunque caratterizzate da un certa regolarità. Arrivava in elicottero o in barca, stava qualche ora, parlava un po’ con tutti, dialogava con i piloti e con i tecnici e poi andava via, perché i circuiti non erano lo stadio, non li sentiva casa sua. Il blitz immancabile era quello di Montecarlo, a volte si faceva vedere a Monza e in qualche occasione (in questo caso veramente a sorpresa) a gare europee. LE SUE AUTO Per un uomo nemico acerrimo della banalità, anche le auto dovevano essere su misura, persino le Ferrari. La 365 P del 1967 è un gioiello prodotto in soli due esemplari, quello di Agnelli di colore grigio metallizato, motore V12 di 4,4 litri da 380 CV derivato dalla P2 da competizione capace di superare i 300 all’ora; in più personalizzato nell’abitacolo con il posto guida centrale e due per i passeggeri ai lati e uno spoiler posteriore per aumentare l’aderenza alle alte velocità. Poi ci sono molte altre Ferrari e, ovviamente, molte Fiat, in particolare la 130 giardinetta con le fiancate in legno e il portapacchi di vimini. ANIMO SPORTIVO Tifoso della Juventus e della Ferrari, velista, sciatore che attendeva con gli scarponi ai piedi l’elicottero che lo portava dalla sua villa al Sestriere, per poi tornare e andare al lavoro. Ma anche membro (influente) del Cio, molto apprezzato dall’allora presidente Juan Antonio Samaranch. OLIMPIADI E sfruttò carisma e peso politico in seno al Cio per portare le Olimpiadi nella sua Torino (anche a scapito di Roma 2004), città con cui riteneva di avere contratto un debito di gratitudine che andava pagato. Da profondo conoscitore del mondo e delle dinamiche che lo governano, sapeva che il lascito olimpico non sarebbe stato un puro gesto simbolico, bensì l’occasione per Torino di voltare pagina, di entrare a testa alta nell’era post industriale. Quella che era stata la città di Valletta e dell’immigrazione era pronta per scrollarsi di dosso l’etichetta di grigiore e di sudore che le era stata attaccata, a tornare splendida ed attraente. Federico Fellini aveva detto: «Mettetelo su un cavallo e avrete un re». E il cavallo lo aveva, il Cavallino. IL RICORDO DEI SUOI GIOCATORI Del Piero: «Penso spesso a lui» Causio: «Unico!» L’ex capitano: «Le frasi dell’Avvocato sono ancora attuali. E’ stato speciale per la Juve e per tutta Italia. Che emozione il primo incontro a Villar Perosa. E quanto mi colpì il funerale a Torino» di CAMILLO FORTE (TUTTOSPORT 24-01-2013) TORINO. Orologio sul polsino della camicia, in perfetto stile Giovanni Agnelli . Alessandro Del Piero , da Sydney e visibilmente emozionato, ha rivissuto in un’intervista a SkySport i suoi anni juventini con l’Avvocato: «E’ sempre molto presente in me. Credo che lui abbia rappresentato qualcosa di speciale, sicuramente non solo per il mondo dello sport, per la Juventus, ma per tutta l’Italia». Indelebile il flash del primo incontro: «Era la primavera del 1993, io ero un giovane aggregato alla prima squadra, avevamo appena perso una partita in Coppa Uefa, eravamo a Villar Perosa, alla vigilia di una partita che poi io giocai e in cui feci tre gol, contro il Parma. Allora, la squadra del momento. Quando venne a parlare alla squadra arrivò con un giornale e raccontò tramite questo foglio di giornale qualcosa di molto stimolante per noi, infatti vincemmo 4-0. E’ incredibile come lui riuscisse sempre a toccare il tasto giusto, a centrare il cuore della questione». A colpire Del Piero fu anche il funerale di 10 anni fa: «In coda con noi per l’ultimo saluto c’era gente di ogni tipo, di ogni estrazione sociale, di ogni lavoro...». Del Piero è particolarmente affezionato anche a un’altra foto: «E’ quella dove l’Avvocato mi mette una mano sulla spalla, al Comunale. Così, un gesto d’affetto, che lui ha fatto poche volte. Mi ritengo onorato per questo», conclude il capitano-leggenda. Affettuosi anche i pensieri di Franco Causio : «Mi spiace che impegni di lavoro mi impediscano di partecipare alla Messa in suo ricordo, ma lo porto sempre nel mio cuore. Non lo dimenticherò mai: è stata una persona unica, fantastica. I suoi blitz, improvvisi, ci caricavano e onoravano. Non vedevamo l’ora di incontrarlo. Arrivava in elicottero e ci radunava nello spogliatoio: una parola buona per tutti, l’incitamento a vincere. Per lui la Juve non era solo un giocattolo ma qualche cosa di speciale. Era anche ironico, sdrammatizzava sempre, ci faceva sentire tranquilli e sicuri in ogni situazione.Sono passati dieci anni dalla sua scomparsa eppure mi sembra ieri quando entrava al vecchio Comunale. Sapeva tutto di noi. Che fascino. Che persona. Oggi non esiste uno come lui». -
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Il patron Manniello: sono tranquillo e chiedo di essere interrogato subito La doppia guida Franco Manniello è uno dei due presidenti del club, l’altro è l’imprenditore alberghiero Franco Giglio di GAETANO D’ONOFRIO (IL MATTINO 22-01-2013) Castellammare di Stabia. La notizia del presunto coinvolgimento del patron della Juve Stabia, Franco Manniello, nella vicenda legata al filone Golden Gol 2 ha lasciato l’intera città nello stupore. Increduli i tifosi: «Cadiamo dalle nuvole – dicono -. Non crediamo possibile una simile vicenda, conosciamo bene l’integrità del nostro presidente, anche se ovviamente comprendiamo lo sgomento e la delusione che in queste ore starà caratterizzando il suo umore. Timore del peggio? Ovviamente c’è preoccupazione. Purtroppo sembra sempre che in questa città, quando si riesce a fare qualcosa di buono, di bello, debba esserci qualcosa o qualcuno a tarparci le ali». Manniello, dal canto suo, prima di chiudersi a riccio, isolandosi totalmente, ha avuto modo di lanciare un segnale forte: «Chiederò di essere interrogato, voglio essere ascoltato quanto prima». Con lui, nel filone, anche l’ormai ex dirigente Roberto Amodio, sul quale ci sarebbero accuse ben più gravi. In attesa di sviluppi, di capire realmente la vicenda, i tifosi sono con la società, e potrebbero preparare qualche iniziativa di solidarietà fin dalla prossima gara interna, lunedì sera al Menti contro il Brescia: «Essere indagati non vuol dire essere colpevoli – spiegano i tifosi dell’associazione Stabia 1907 -, siamo tutti con Manniello, sappiamo che è una persona seria, troppo intelligente ed esperta per aver commesso certi errori». «Conosco Franco da tempo – solidarietà anche dal mondo dello spettacolo con l’attore Gaetano Amato - e credo che a lui la città debba tanto. Nessuno avrebbe mai creduto sul serio di portare la serie B a Castellammare, lui l’ha fatto e ci è riuscito. Spero davvero possa risolversi tutto nel migliore dei modi». E il ds Di Somma tranquillizza tifosi: «Il mercato andrà avanti». Quasi chiusa la trattativa per Verdi del Torino. Minacce e combine Juve Stabia nel caos La Dda accusa di corruzione il presidente Manniello «Derby comprato e giocatori picchiati dalla camorra» di FRANCESCO CENITI, MAURIZIO GALDI & GIAMPAOLO ESPOSITO (GaSport 22-01-2013) Camorra, scommesse, combine. C’è di tutto nei 20 avvisi di chiusura indagine firmati da Pierpaolo Filippelli, pm della Dda di Napoli. L’inchiesta era partita nel 2009 e aveva portato all’arresto di diverse persone, compreso il calciatore Cristian Biancone del Sorrento accusato di aver assecondato le richieste del clan D’Alessandro di Castellammare e favorito la vittoria nel derby della Juve Stabia (1-0, aprile 2009). Ora dagli atti emergono ricostruzioni incredibili: giocatori minacciati e costretti a restare in mutande e il coinvolgimento del presidente gialloblù Franco Manniello. Per i magistrati sarebbe stato lui a mettere i 50 mila euro per la combine. La situazione sarà vagliata dalla Procura federale che aveva già deferito Manniello per le presunte aggressioni ai suoi calciatori dopo il k.o. di Pistoia del marzo 2009. La squadra rischia un deferimento per responsabilità diretta (e quindi la retrocessione). Indagini Il lavoro dei magistrati è stato meticoloso e la Ġazzetta ne aveva parlato nella prima puntata della Gomorra del calcio. Il clan D’Alessandro, per l’accusa, aveva messo le mani su alcune ricevitorie della zona, utilizzate per ripulire il denaro e far cassa con le scommesse. Ecco il perché della combine grazie al coinvolgimento di Biancone che aveva poi «arruolato » il portiere Spadavecchia (indagato a Napoli e Bari per il calcioscommesse). Il derby fu deciso da un gol rocambolesco, dopo una papera proprio di Spadavecchia. Sulla gara la camorra lucrò grazie a numerose scommesse illegali. Per la Dda era l’inizio di un percorso poi interrotto dalle indagini. Nel mirino era già finito anche il d.g. della Juve Stabia (Roberto Amodio, accusato di essere colluso col clan). A livello sportivo la squadra era stata punita con un -3. Negli atti, però, ci sono nuovi episodi. Come l’aggressione subita dai giocatori dopo Pistoia con «schiaffi, sputi, insulti e colpi di cinghia». Per la Dda la criminalità, grazie agli affiliati e capi ultrà Francesco Avallone e Vincenzo Mirante, avrebbe costretto i giocatori «contro volontà a togliersi maglia e tute, rimanendo in mutande, con il doppio scopo di infliggere loro una pesante umiliazione eminacciandoli di più gravi rappresaglie in caso di nuove sconfitte». Contestata ad Amodio e Avallone ancheminacce di morte «mediante lumini cimiteriali collocati sulla panchina e attraverso manifesti mortuari riportanti i nomi dei tesserati». I calciatori furono inoltre costretti «a fare l’allenamento senza indossare maglie e tute». Reazioni I tifosi della Juve Stabia si stringono intorno a squadra e presidente: organizzata una «panolada» per la gara di lunedì col Brescia. Così Manniello: «Chiederò di essere sentito al più presto dai magistrati per chiarire la mia posizione». Il dirigente è dimissionario da dicembre per protesta dopo il deferimento deciso da Palazzi per il dopo Pistoia. -
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22 01 2013 Dirigenti nei secoli fedeli. A se stessi MAGARI FOSSERO GATTOPARDI NELLE URNE DELLO SPORT ITALIANO NON CAMBIANO NEMMENO I NOMI: ABETE ELETTO AL POSTO DI ABETE, BERETTA AL POSTO DI BERETTA. E SE PETRUCCI DEVE PASSARE LA MANO, ALLUNGA IL TESTIMONE AL SUO SEGRETARIO CANDIDATO UNICO Con tutto quello che è accaduto dal 2006 in poi, che altro sarebbe dovuto succedere perché ci fosse almeno un altro a duellare per la presidenza Figc? Non ricordo da molte stagioni un calciomercato invernale tanto movimentato in quantità e (forse... Juve, Milan, Inter... vedremo) in qualità. E neppure ricordo da varie cadenze elettorali una campagna così confusa, con la miriade di liste e la degenerazione di idee (pochissime) e comportamenti (per lo più deprecabili) delle figurine più esposte. Eppure il bello è che le due cose vanno insieme, in contemporanea: recupera Berlusconi nei sondaggi e recupera il Milan in classifica, avvicinandosi l’uno a una percentuale di interdizione parlamentare fino a due mesi fa lontana anni luce e l’altro all’allora remota Europa pallonara. Certo, entrambi hanno bisogno di congiunture favorevoli. Per il Caimano ci vuole un Senato dove in sostanza si pareggi, e quindi necessita di suffragi parcellizzati a sinistra. Per il Milan bisogna che in parecchi tra i concorrenti in alto impattino decelerando così da farlo riavvicinare. E se per il primo garantirebbe vantaggi sbarcare la zavorra degli impresentabili, per il suo Milan ci sarebbe voluto qualche bel colpetto tecnico-tifoideo, alla Kaká. Lasciando almeno qui la prima traccia, buttiamoci su quella calcistica pure così influente sul versante dell’immagine e della popolarità, ossia ahinoi il principale versante politico oggi in Italia. Che sta succedendo? Quasi tutti vogliono comprare quasi tutto, dimenticando l’aurea regola comprovata dal campo in base alla quale è veramente raro il caso di un giocatore (o due) che a metà campionato abbia cambiato decisamente il destino di una squadra. Però tra la Juve che cerca il “bombere” (alla romana), l’Inter che adesso rimpolperà la rosa, la Lazio in agguato e il Milan come detto vocato alla caccia alla volpe, c’è un movimento da parate militari. AGGIUNGETE il terzo allenatore cambiato dal Genoa per non finire in B da Preziosi nel mirino dei tifosi, e il panorama della mobilità sarà significativo. Per non parlare poi di arbitri. Il livellamento, con tutte quelle squadre in lizza per Champions e Europa League che vogliono dire rispettivamente molti o abbastanza milioni, è garanzia di bizzarrie arbitrali. Il fischio va a favore di chi ha il potere in quel momento. E quindi preparatevi a qualche beneficiata per il Milan in rimonta. Oppure considerate come tesi di scuola l’arbitraggio di Bergonzi a Firenze: si ammonisce chiunque a torto o a ragione per mezz’ora, e poi si risparmia un palese secondo giallo a un ammonito. È della Fiorentina? No, è del Napoli (Behrami...) che guarda caso in questo momento conta assai più del club dellavallesco nelle stanze neppure tanto segrete della Rotondocrazia, di Lega e Federcalcio. E così sarà fino alla fine della stagione. Arbitri corrotti? Ma per carità, e magari, sarebbe faccenda lineare: sono arbitri in “buona cattiva fede”, se mi permettete questo ossimoro obbrobrioso, che comprensibilmente puntano a far carriera e quindi a non scontentare il potente di turno. CON IL NAPOLI nella parte destra della classifica Behrami sarebbe stato già a casa da un pezzo… Dunque movimento eccome, in politica, negli affari rotondopatici e in campo: ma non in politica sportiva. Qui è tutto fermo, non si muove paglia almeno all’apparenza, i burosauri del calcio e dello sport rinnovano se stessi senza tema di invecchiare. In proporzione alle liste elettorali pur tutt’altro che commendevoli e a una campagna piena di botti, negli uffici si celebra la conservazione o la continuità. Non ci si crede, ma con tutto quello che è accaduto nel mondo del calcio dal 2006 in poi, leggi Calciopoli, che resista ancora Abete rieletto Presidente “come unico candidato” è davvero commovente. È lecito domandarsi che cosa dovrebbe succedere in più e in peggio al pallone (risparmio l’elenco per bontà e lotta al tedio…) perché ci fosse almeno un altro candidato a duellare con Abete… Certo, poi guardi quello che è avvenuto nella Lega della Serie A, dove è stato rieletto Presidente sempre “come unico candidato” Maurizio Beretta – che i più chiamano Mario per ignoranza, scambiandolo per il tecnico leggermente più noto… –, dimissionario dal secolo scorso, e stupisci. E se vi dicessi che è suo vice Adriano Galliani, che di tal Lega è già stato nelle varie ere geologiche presidente, reggente, commissario e forse siniscalco ecc.? E ancora che consiglieri federali sono stati eletti Lotito (in latino) e Pulvirenti (Catania) che ha intavolato subito un gradevole scambio con Andrea Agnelli chiamandolo “isterica zitella”? Mica male, nevvero? Questo mentre al Coni, spentasi serenamente tra l’affetto dei suoi l’ennesima presidenza di Petrucci, sembra toccare la soglia del Coni a Pagnozzi, suo longevissimo segretario… Qui sullo sfondo si muove anche Giovannino Malagò come eventuale contendente. Gli getteranno qualche offa per tenerlo buono. Rimane quell’infinitesimale problema di democrazia nella politica sportiva, che dovrebbe vigilare dall’alto sull’andamento di Federazioni e pratica conseguente, con tutti i soldi dello “show-biz”. In realtà i capataz o sono collegati strettamente ai poteri politico-economici del Paese, oppure (cfr. la pallonocrazia) coincidono esattamente essendo le stesse persone nei differenti territori. Ho cominciato con Berlusconi, Cosentino, il Milan, Kakà… Debbo aggiungere altro?
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A DIECI ANNI DALLA MORTE SONO STATI FATTI DI LUI DEI RITRATTI CHE, QUASI SEMPRE, SONO FUORVIANTI Questo era il Gianni Agnelli che conoscevo io di RICCARDO RUGGERI (ItaliaOggi 22-01-2013) I giornali hanno raccontato, a dieci anni dalla morte, Gianni Agnelli e le varie personalità che albergavano in lui, l’hanno fatto le migliori penne del paese: ne è emerso un mix fra un dio greco, un principe rinascimentale, un moderno eroe tecnologico, con l’elicottero come «tappeto volante» (suo copyright). Invece, il Gianni Agnelli che racconto io era quello dietro la vecchia scrivania in legno all’ottavo piano di Corso Marconi, faceva il Presidente della Fiat, lo stesso che ogni due settimane, il lunedì alle 15 presiedeva con eleganza il Comitato Direttivo, presenti Cesare Romiti, Paolo Mattioli, Paolo Cantarella, Giancarlo Boschetti ed io: in quelle tre ore venivano prese le decisioni strategiche della Holding. Con affetto, lo ricordo attraverso un minuto episodio personale. Ero da 27 giorni a Tripoli, per negoziare un’importante fornitura di veicoli militari e di supporto logistico, in uno dei momenti più tesi dello scontro politico-militare fra gli Stati Uniti e la Libia, gli americani non erano entusiasti della nostra iniziativa. Finalmente firmammo il contratto: gerarchi in alta uniforme, cortile interno della caserma Bab el Aziziya, tenda di Gheddafi (in realtà un bunker sotterraneo). Rientrai con l’aereo Fiat (tutti i voli civili erano stati sospesi), appena atterrato mi chiamò Romiti: affettuosamente si complimentava (era un contratto di diverse centinaia di milioni di dollari), preannunciandomi per il mattino dopo alle 8 un incontro con l’Avvocato. Appena seduto, mi chiese cosa pensavo della recente decisione di Gheddafi di espellere, in 48 ore, 5.000 funzionari marocchini, sostituendoli con altrettanti asiatici. Ascoltò la mia narrazione attento, poi disse: «Caro Ruggeri grazie per queste informazioni per me preziose» e mi congedò. A me la leggerezza dell’Avvocato piacque. Ne ebbi conferma negli anni successivi, quando imparai a conoscerlo meglio. Cosa avrebbe potuto dirmi, al di là di farmi banali congratulazioni? L’operatività non era il suo mondo, nella fattispecie la complessità delle negoziazioni con le burocrazie politicomilitari arabe, i loro riti, le loro miserie, erano fuori dai suoi interessi. Via via che il lavoro mi portava a vivere, prima a Roma, poi a New York, poi a Londra, mi fu assegnato l’autista Fiat locale, ne disponevo quando non c’era l’Avvocato. Anche dai loro racconti, aneddoti, battute, veniva fuori il ritratto di un uomo brillante, curioso, gaudente, con un suo senso del dovere, di certo non convenzionale. Era il ruolo di numero uno di un’azienda metalmeccanica che non gli era congeniale, per questo mai condivisi i giudizi su di lui. Due erano allora le correnti di pensiero su Gianni Agnelli, che mi paiono rimaste identiche anche oggi. Una, salottiera, sintetizzata dal titolo scalfariano «Avvocato panna montata», che lo ferì: giudizio banale, ingeneroso. L’altra, agiografica, che lo descriveva come il più grande imprenditore italiano del Ventesimo secolo. Giudizio altrettanto banale che lui stesso, cinico uomo di mondo, avrebbe rifiutato con ironia. Neppure fu l’uomo moderno, kennediano, visionario descritto dagli stranieri, forse in contrapposizione all’italiano medio. Più semplicemente fu un uomo normale, perdutamente e curiosamente innamorato della sua immagine, più che della sua persona. Con gli inglesi parlava con l’accento della Bbc, usava quello della Cnn con gli americani: ricordo una sua conferenza a New York, rispondeva alle domande con lo stesso accento, inarrivabile! Infantile nel voler stupire (orologio sopra il polsino, cravatta sopra il golf), nel divertirsi a prendere in giro tutti (mai i suoi manager), nell’incapacità di governare una costante irrequietezza. In realtà, era un uomo d’altri tempi, certo era perfettamente a suo agio nel jet-set cosmopolita, ma nel profondo era rimasto un ufficiale di cavalleria di stanza a Pinerolo, il signore di un marchesato piemontese di montagna (penso a Saluzzo). Molti si sono posti la domanda «Gianni Agnelli che uomo è stato»? Per me, ripeto, un uomo normale che, forse per gioco, forse per curiosità intellettuale, ha permesso al suo avatar di interpretare il ruolo di testimone del superfluo: la filosofia di vita che noi occidentali pratichiamo da oltre cinquant’anni. È dagli anni ’60 che abbiamo costruito uno sterminato catalogo di prodotti e di comportamenti sociali chiaramente superflui, alcuni l’hanno chiamato «finto rinascimento». L’avatar di Gianni Agnelli ci ha accompagnato in questo percorso, con la sua innata classe e la sua piacevole leggerezza: è stato il primo e l’ultimo di tale «rinascimento ». Aveva la classica mescolanza di arroganza e di narcisismo, tipica dei membri ultra selezionati dell’élite delle élite; però sono felice di aver conosciuto l’adolescente flamboyant che albergava in lui, anche in età avanzata. Il suo profilo da moneta imperiale romana è stata la filigrana di un’epoca ormai morta. Due sue particolarità mi accumunavano a lui. Era un «Fiat di terza generazione », come me, e amava Torino e la Fiat svisceratamente, come me. Sapeva che non ci sarebbe stata la «quarta generazione», e la “quinta” avrebbe avuto un altro ruolo. «Se non capisci Torino e la Fiat, non capisci l’Italia», diceva. Una grande verità. Amava il «vento», immagino perché non poteva possederlo, mentre io lo amo perché mi protegge, mi libera dalle foglie secche, abbatte gli alberi morti. -
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