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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -
Ghost Dog ha risposto al topic di CRAZEOLOGY in Calciopoli (Farsopoli)
L'EREDE AL TRONO COL PALLINO DEGLI AFFARI Lo shopping dello sceicco tifoso Ha rilevato la squadra di Parigi, sponsorizza il Barcellona, "si compra" gli atleti per vincere le Olimpiadi. E ora guarda a Inghilterra e Italia di DANIELE GUARNERI (TEMPI | 4 aprile 2012) I SOGNI SON DESIDERI. E i soldi li realizzano. C'è poco della fata Turchina di Cenerentola in questa affermazione, ma la realtà - almeno nel mondo del pallone - è questa. Da un paio d'anni c'è un uomo che col suo impero economico sta trasformando in realtà i sogni dei tifosi. Lui non usa una bacchetta magica, lui apre il portafoglio e compra tutto. Il suo nome per molti è sconosciuto, ma come abbiamo imparato a pronunciare Roman Abramovich qualche anno fa, presto impareremo a dire Tamim Bin Hamad Al Thani. È lui la fata Turchina del nuovo millennio, quartogenito dell'emiro del Qatar, Hamad Bin Khalifa Al Thani, ma già designato a prendere in mano la fortuna infinita della famiglia e del paese. Andiamo con ordine. Tamim nel maggio 2011 ha comprato il Paris Saint-Germain (la squadra di Parigi) per circa 70 milioni di euro. Come presidente ha piazzato un uomo di fiducia, Nasser Al Khelaifi, ex tennista di successo, oggi presidente della federazione tennistica del Qatar e amministratore delegato di Al Jazeera sport. Per vincere subito ha preso Leonardo dall'Inter e lo ha nominato direttore sportivo. Per convincere l'allenatore di Massimo Moratti a lasciare Milano gli ha offerto un contratto principesco e altri 150 milioni di euro da spendere nel mercato. Così il brasiliano è venuto a far shopping in Italia e a suon di milioni ha comprato Javier Pastore e Salvatore Sirigu dal Palermo, dalla Roma Jeremy Menez e dalla Juventus Momo Sissoko. Al Parco dei Principi sono poi arrivati il capitano dell'Uruguay detentore della Coppa America Diego Lugano e l'attaccante Kevin Gameiro. A gennaio la squadra è prima in classifica, ma Tamim non è soddisfatto, così ecco altri 50 milioni per il mercato invernale. Arrivano Carlo Ancelotti con un contratto da 6 milioni l'anno, dal Chelsea il difensore Alex e dal Barcellona Maxwell e a centrocampo l'interista Thiago Motta. In tutto fanno 270 milioni di euro, senza contare gli ingaggi. E questo è solo l'inizio. Sempre nel maggio scorso, Tamim Bin Hamad Al Thani ha convinto il Barcellona a mettere sulle proprie divise il logo della Qatar Foundation, l'associazione creata dal padre e guidata dalla moglie dell'emiro Mozah bin Nasser al Missned. Non una cosa da poco visto che il Barça non ha mai avuto sponsor ufficiali sulle casacche da gioco. O meglio, prima c'era l'Unicef che a differenza degli altri brand invece di pagare riceveva 1,5 milioni di euro dal club di Sandro Rosell. Come ha fatto l'emiro a convincere i blaugrana? Coi soldi. Si tratta della sponsorizzazione più ricca mai realizzata: 30 milioni di euro l'anno fino al 2016, altri 15 milioni nel 2011, più quelli legati ai risultati. Totale: 170 milioni. Prima di proseguire bisogna aprire una parentesi. Il cugino di Tamim, Abdullah Bin Nasser Al Ahmed Al Thani, membro del cda della Doha Bank, è proprietario del Malaga, squadra della Liga spagnola. Il quarantatreenne ha un impero economico fatto di catene alberghiere, centri commerciali, società di telefonia e concessionarie d'auto. Acquista il Malaga per 36 milioni di euro e in estate mette a libro paga l'ex allenatore del Real Madrid Manuel Pellegrini, Martin De Michelis, il capitano del Villareal Gonzalez Cazorla, Enzo Maresca, Jeremy Toulalan, Julio Baptista e Ruud Van Nistelrooy. La squadra lotta per il quarto posto, quello che garantirebbe la prossima Champions e un paio di domeniche fa ha bloccato il Real di Mourinho che arrivava da 11 vittorie. Torniamo alla fata Turchina. Tamim l'ha capito subito: il calcio è business, ma è anche passione, sua e della sua gente. Così l'erede al trono organizza il campionato nazionale, un torneo privato dove le aziende delle famiglie più ricche si sfidano per vincere una coppetta. Non solo. Tamim ha portato in Qatar la Coppa d'Asia 2011, vinta dal Giappone di Alberto Zaccheroni; nel 2015 si svolgeranno nel piccolo Stato i Mondiali di pallamano; è in corsa per l'assegnazione delle Olimpiadi 2020; ma soprattutto ha convinto la Fifa che l'emirato fosse pronto a ospitare i Mondiali di calcio del 2022. Come? Sempre coi soldi: 50 miliardi di euro per realizzare 12 stadi con impianti d'aria condizionata alimentati da pannelli fotovoltaici che garantiranno a pubblico e giocatori una temperatura di 26 gradi, contro i 48 esterni. Di questi 50 miliardi, 3 milioni sono serviti a pagare Zinedine Zidane, testimonial per una settimana del Comitato organizzativo "Qatar 22". Il sogno di Tamim Il Wall Street Journal sostiene che per convincere la Fifa siano stati comprati i voti di Nigeria, Thailandia e Senegal. Non è l'unica accusa mossa a Tamim. Un'altra arriva da Alberto Juantorena, ex atleta cubano, l'unico al mondo a vincere nella stessa edizione dei Giochi (Montréal 1976) la medaglia d'oro nei 400 metri e negli 800. El Caballo, così lo chiamavano, oggi è viceministro dello Sport e presidente della Federazione atletica cubana. In questa veste lotta contro la moderna "tratta degli schiavi", quella legata allo sport. Secondo Juantorena, Tamim ha comprato qualche atleta per vincere qualcosa a Londra 2012. D'altra parte se i qatarioti sono gracili come fanno a vincere nel sollevamento pesi? Semplice, naturalizzano otto bulgari. Lo stesso è successo con il keniota Stephen Cherono, che ora non c'è più. Nel senso che il campione mondiale in carica dei 3000 siepi ora si chiama Saif Saed Shaen, cittadino del Qatar. A lui è stato offerto un "vitalizio", al Kenya una pista di atletica. Non è tutto. Lo shopping di Tamim in Europa è continuato con l'acquisto del 17 per cento delle azioni della Volkswagen, poi s'è preso i magazzini Harrods di Londra e una grossa quota della catena dei supermercati british Sainsbury's. Veniamo al bello: Al Jazeera è da poco sbarcata in Francia con una sede e una redazione tutte nuove. Le prime mosse hanno rivoluzionato il panorama televisivo francese: la tv ha sborsato 90 milioni di euro per acquistare i diritti a trasmettere all'estero la Ligue 1 e altri 61 per quelli della Champions in Francia, distruggendo la concorrenza di Canal+ e di Tf1, la più vecchia tv francese e la più seguita. E se la Francia non fosse che una testa di ponte in Europa per partire alla conquista di altri regni? Sembra che nelle mire di Tamim ci siano Argentina e Brasile. Ma è il Vecchio Continente il suo pallino. Allora attenzione: i diritti tv della Serie A 2012-'15 sono già stati assegnati ma alcune partite sono rimaste invendute e la Lega calcio non aspetta che un nuovo acquirente. Altro esempio: quest'estate in Inghilterra saranno venduti i diritti tv della Premier League. Se Al Jazeera decidesse di partecipare all'asta sarà dura per chiunque, anche per un certo Rupert Murdoch (Sky). Ultima indiscrezione clamorosa? Pare che nei mesi scorsi Tamim abbia fatto un'offerta per comprarsi il Manchester United: un miliardo e settecento milioni di euro proposti all'americano Malcolm Glazer per il pacchetto di maggioranza del club più importante del Regno. -
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In Memoriam ___ I MORATTI CHE SIGNORI di ANTONIO GHIRELLI (CorSport 17-03-2012) Forse vale la pena di confrontare due notizie che, in qualche modo, hanno definito la settimana: la prima è che durante la stagione che si avvia all'epilogo, hanno lavorato 70 allenatori; la seconda è che il presidente dell'Inter Moratti non ha ancora spedito a casa l'anziano tecnico Ranieri che quest'anno ha fallito tutti i traguardi importanti. Se ne sono viste e lette di tutti i colori e in non poche occasioni si è registrato il caso paradossale (con adeguato spreco di danaro) di tecnici licenziati prima dell'inizio, sostituiti per far posto a colleghi che a loro volta riprenderanno la strada di casa per restituire la panchina al collega; e per questo l’eccezione del rapporto tra il presidente neroazzurro e il suo allenatore, nell’ambito di questa strategia da "delirium tremens", vale la pena di essere segnalata con ammirazione. Non c’è stata una parola di ironia o di cattiveria, tanto meno una minaccia di licenziamento nei confronti del "mister", tanto meno alla vigilia del decisivo confronto di Marsiglia, e perfino all’indomani della definitiva delusione, il presidente ha evitato i giudizi severi, interrogandosi pubblicamente soltanto sulla formula da scegliere per la guida della riscossa ambrosiana. La singolarità della famiglia Moratti ha confermato, del resto, precedenti di cui il vostro vecchio cronista ha memoria anche per esperienza personale, ma a proposito del padre, Angelo, e non dei figli. Chiedo scusa agli amici lettori se ricevono un vecchio e piacevole ricordo. Campionato 1963-64. Si sparge la voce che alcuni giocatori del Bologna, impegnato nel duello diretto con l’Inter per la conquista dello scudetto, sarebbero sospettati di aver usato droga e il sottoscritto, titolare in quel periodo di una rubrica di commento al campionato dovrebbe giudicare la notizia in diretta. Ma non solo manca di dati sicuri, è anche colpito dal fatto che, in quel periodo, l’allenatore dei rossoblù emiliani è Fulvio Bernardini. E’ l’amicizia personale a farmi respingere che l’ipotesi sia fondata. E’ la conoscenza antica del grande giocatore romano, della sua moralità di ferro, del disgusto che avrebbe provato soltanto all’idea di drogare i suoi giocatori per vincere una partita e magari un campionato, a spingermi a smentire una voce che so assurda. Lo faccio senza il minimo dubbio al microfono della rubrica televisiva che gestisco col mio grande amico Maurizio Barendson. I fatti mi danno ragione. I ragazzi del Bologna non si sono mai drogati, quelli dell’Inter che inseguono da vicino i rossoblù nemmeno e lo scudetto sarà disputato tra le due grandi squadre in una finalissima giocata a Roma e saranno i rossoblù emiliani a vincere. Ma il presidente dell’Inter, quell’Angelo Moratti che ha creato e potenziato con lo squadrone neroazzurro il primo grande protagonista del calcio-spettacolo, con mia enorme sorpresa non solo non pronuncia una sola parola contro il sottoscritto, ma tre mesi dopo lo invita a visitarlo per sentirsi dire che il Presidente pensa a me come direttore di un giornale che poderose forze politico-industriali si accingono a rilanciare sul mercato: Il "Globo". Un esempio di generosità che ha pochi precedenti, una prova di stima e di fiducia che mi commuovono. Poi ragioni ed intrighi politici, nel giro di pochi anni, mi mettono con le spalle al muro e mi costringono a dimettermi, ma la prova di correttezza del grande Presidente milanese mi resta nel cuore. -
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L’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive parla della fidelity card… è l’addio alla vecchia tessera del tifoso? di ELISA BRIGANDI dal blog SPORT & LEGGE 01-04-2012 La notizia della possibile sostituzione della tessera del tifoso con una fidelity card (apparsa su numerosi organi di informazione, alla luce di una fraintendibile determinazione dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive – la numero 12 dell’8 marzo scorso) ha subito suscitato la reazione di alcuni ambienti politici che in passato ne avevano supportato il progetto e che hanno visto in tale scelta un allentamento dei futuri controlli nei confronti del tifo violento. Aldilà delle polemiche intercorse e della dura presa di posizione da parte del capo della polizia Antonio Manganelli (“Non ci sarà – ha dichiarato – nessuna nuova tessera del tifoso, io non so quale imbecille ha messo in giro la voce. La tessera del tifoso resterà esattamente quella che è oggi“), riteniamo qui opportuno un approfondimento preliminare sul precedente documento (e sulla dura battaglia intrapresa da alcune tifoserie) prima di concentrarci sulla sua possibile evoluzione. L’attuale tessera del tifoso è una card polifunzionale che contiene i dati personali del possessore ed è contrassegnata da un codice alfanumerico che la identifica in modo univoco. Secondo gli ideatori la sua ratio è quella di permettere ai possessori di identificarsi con una comunità di tifosi ”virtuosi”, permettendo al possessore di fruire di facilitazioni e servizi messi a disposizione dai club, di accedere agevolmente agli impianti sportivi tramite i varchi elettronici e di seguire la squadra in trasferta nel settore ”ospiti”. In particolare, la tessera è stata introdotta con il decreto ministeriale del 15/08/2009 in base al quale le società sportive dovevano comunicare alla Questura (anche in caso di sostituzione del nominativo del beneficiario dell’agevolazione e del destinatario del titolo di accesso), i dati anagrafici dei soggetti destinatari dell’agevolazione, ovvero della cessione del titolo di accesso allo stadio. Il tutto al fine di verificare la sussistenza o meno dei requisiti ostativi di cui agli artt. 8 e 9 del D.L. 8 febbraio 2007, n. 8. In primo luogo, l’articolo 8 prevede, infatti, un divieto espresso alle società sportive di corrispondere sovvenzioni, contributi e/o facilitazioni di qualsiasi natura, ivi inclusa l’erogazione a prezzo agevolato o gratuito di biglietti e abbonamenti o titoli di viaggio, ai soggetti destinatari dei provvedimenti di cui all’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, DASPO e misure di prevenzione, ovvero soggetti condannati per reati commessi in occasione di manifestazioni sportive. In secondo luogo, l’articolo 9 prevede, invece, un divieto per le società organizzatrici di competizioni calcistiche di emettere, vendere o distribuire titoli di accesso a soggetti che siano stati destinatari dei predetti provvedimenti di cui all’articolo 6 L. 401/89, o a soggetti condannati per reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive. Il Ministero dell’Interno aveva poi emanato una direttiva con la quale chiariva le nuove regole e specificava che a decorrere dal 1° gennaio 2010 le società avrebbero potuto vendere i tagliandi riservati ai settori “ospiti” solo ai possessori della tessera. Nei settori dello stadio diversi era invece permesso l’accesso con l’uso di titoli diversi dalla tessera del tifoso. Sempre a decorrere dalla stessa data i club avrebbero potuto far sottoscrivere abbonamenti solo a chi era in possesso della tessera. Da qui le forti critiche dei tifosi che vedevano in questo documento uno strumento di autentica schedatura, con conseguente violazione dei diritti fondamentali. Nel 2010, a onor del vero, qualche dubbio era stato sollevato anche dal Garante per la Privacy, il quale aveva osservato come occorressero più garanzie per la tessera del tifoso, in quanto i vari possessori dovevano essere informati in modo puntuale sull’uso dei dati personali forniti al momento della sottoscrizione. In particolare, i club avrebbero dovuto evidenziare con maggiore precisione la differenza tra dati che non richiedevano il consenso, perché connessi al rilascio della tessera, e quelli che, invece, lo richiedevano (per es. per marketing, invio di comunicazioni commerciali ecc.). Nel giugno del 2011 fu, poi, siglato un protocollo di intesa tra il Viminale ed i vertici del CONI e della FIGC teso a trasformare sempre di più la tessera in uno strumento di partecipazione dei tifosi prevedendo regole in base alle quali i tagliandi per i posti destinati ai tifosi ospiti potevano essere acquistati soltanto dai possessori della tessera stessa e non potevano essere venduti a chi era residente nella regione origine della trasferta (mentre in caso di società appartenenti alla stessa regione, ai soggetti residenti nella provincia da cui proveniva la squadra ospite). La vicenda della tessera non mancò di approdare nelle aule giudiziarie. Codacons e Federsupporter avevano, infatti, sollevato eccezioni sulla base della circostanza che per ottenere la tessera i tifosi fossero costretti ad avere una carta di credito ricaricabile, condizione quest’ultima che rischiava di condizionare le scelte economiche dei tifosi/consumatori. La questione fu respinta in primo grado, ma la decisione fu riformata in secondo grado allorché il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 5364 del 07. 12. 2011, aveva accolto le doglianze statuendo che il rilascio condizionato al possesso di una carta di credito prepagata rappresentava una pratica commerciale scorretta. In particolare i giudici sottolinearono che : ”L’abbinamento inscindibile (e quindi non declinabile dall’utente) tra il rilascio della tessera di tifoso (istituita per finalità di prevenzione generale in funzione di una maggiore sicurezza negli stadi) e la sottoscrizione di un contratto con un partner bancario per il rilascio di una carta di credito prepagata potrebbe condizionare indebitamente (nella misura in cui si provi che l’uso della carta non sia funzionale ad assicurare le finalità proprie della tessera del tifoso) la libertà di scelta del tifoso-utente e potrebbe pertanto assumere i tratti di una pratica commerciale scorretta ai sensi del Codice del consumo. In tal senso depone, peraltro, il fatto che, per il tifoso, l’ottenimento della tessera appare condicio sine qua per poter essere ammesso, nelle giornate di trasferta della propria squadra, nel reparto dello stadio riservato agli ospiti, di guisa che appare verosimile che l’acquisizione di tale utilità potrebbe indurlo a compiere un’operazione commerciale (sottoscrizione della carta prepagata) che non avrebbe altrimenti compiuto”. In tale contesto andrebbe, quindi, ad inserirsi la nuova fidelity card che dovrebbe entrare in vigore a partire dalla prossima stagione più come una carta di servizi e agevolazioni studiate dai club per i tifosi che non come un mero strumento di controllo, (anche se, è bene ribadirlo, resterà sempre necessaria per le trasferte e per gli abbonamenti). In specie, tra le principali novità annoveriamo un certo snellimento nelle procedure di rilascio e la possibilità di aderire al progetto “Porta un amico allo stadio” (in oggi ancora in fase sperimentale) in base al quale la card darebbe diritto all’acquisto di un biglietto per un conoscente non “tesserato” per le trasferte, purché il settore dei due biglietti sia lo stesso e i posti possibilmente contigui. Non si è fatta però mancare l’immediata replica delle tifoserie, che hanno fatto sapere di non aver bisogno di “balie” per andare allo stadio. Di fronte, poi, alle predette polemiche avanzate da quanti ritengono la nuova card come un passo indietro rispetto ai progetti originari, il Viminale ha fatto sapere che non vi sono radicali modifiche rispetto alla tessera del tifoso andando il nuovo strumento a colmare per lo più quelle inadeguatezze eccepite dal Consiglio di Stato in tema di concorrenza. -
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I CONTI FALLIMENTARI DEL CALCIO ITALIANO di FAUSTO PANUNZI (lavoce.info 30-03-2012) art.scoperto grazie a il Fatto Quotidiano.it Il rapporto sulla situazione economica del calcio italiano nel campionato 2010-11 rimanda un quadro disastroso, di vera emergenza. Per la serie A calano i ricavi: da diritti televisivi, da plusvalenze sulla vendita dei calciatori e da vendita di biglietti. Restano stabili i costi. Ma aumenta l'indebitamento, soprattutto con le banche, ormai le vere padrone del nostro calcio. Servirebbero investimenti, in particolare negli stadi, ma i proprietari delle squadre aspettano incentivi dal governo che di certo non arriveranno. È stato presentato ieri a Roma il Report Calcio 2012, il rapporto preparato da Figc, Arel e PricewaterhouseCoopers, sulla situazione economica del calcio italiano nel campionato 2010-11. Quali sono le conclusioni? Anche limitandoci alla serie A, la cui situazione è migliore di quella delle serie minori (tranne la B, che lo scorso anno ha visto un miglioramento dei conti), si può dire che il futuro del calcio italiano non è brillante e, anzi, tempi molto difficili si annunciano per le società. I RICAVI Nel 2010-2011 i ricavi si sono attestati a 2.031 milioni di euro e sono quindi diminuiti del 3, 2 per cento rispetto all’anno precedente. Non accadeva dall’anno 2006-07, quello del post Calciopoli e della retrocessione della Juventus. Scendono in particolare i ricavi da diritti televisivi, -6,9 per cento, che pure rappresentano il 46 per cento del totale delle entrate, e le plusvalenze per cessione dei calciatori, anch’esse del 6,9 per cento. Scendono anche i ricavi dagli ingressi allo stadio (-8, 1 per cento), malgrado una riduzione media del prezzo dei biglietti, frutto della diminuzione degli spettatori. I COSTI A fronte di ricavi in diminuzione, i costi delle società di A sono invece cresciuti, seppure lievemente (1,7 per cento). Gli stipendi dei calciatori si sono stabilizzati a 1.100 milioni di euro, salendo al 65 per cento dei ricavi. L’unica buona notizia su questo fronte è l’incremento delle risorse investite nel settore giovanile: +19,3 per cento. PERDITE E INDEBITAMENTO La conseguenza di ricavi ridotti e costi costanti non può che essere una diminuzione dei profitti, anzi un aumento delle perdite, che ammontano a 428 milioni di euro, in crescita del 23,2 per cento rispetto allo scorso anno. Le perdite vanno a diminuire il patrimonio netto di 204 milioni di euro (-50,2 per cento) e arrivano a un rapporto del 5 per cento rispetto alle attività totali. L’altra faccia della medaglia è ovviamente l’esplosione dei debiti che salgono a 2.600 milioni di euro (86 per cento rispetto alle attività totali). Esplodono in particolare i debiti finanziari (+35 per cento) e quelli verso le altre società (+21 per cento). In altre parole, le società non pagano più in modo tempestivo i loro acquisti sul mercato e dipendono sempre più dalle banche che sono ormai le vere proprietarie del calcio italiano. UNA VERA EMERGENZA I numeri sopra riportati testimoniano come il calcio italiano non stia vivendo un momento di crisi, ma di vera emergenza. Sarebbe imperativo avere stadi migliori per aumentare i ricavi da stadio, voce che penalizza fortemente le società italiane nel raffronto con le altre società europee. Ma, come abbiamo visto, i proprietari non investono le loro risorse nemmeno per la gestione ordinaria. Non hanno quindi, a parte alcune eccezioni, risorse e volontà di investire. Aspettano incentivi dal governo, che non arriveranno certo nel mezzo della crisi economica che investe l’Italia. Sarebbe forse opportuno considerare la possibilità di scendere da 20 a 18 squadre ammesse alla serie A, per evitare che squadre senza messi economici adeguati si trovino nella situazione di essere già retrocesse a gennaio, falsando il campionato nella ipotesi migliore e aprendo la porta alle combine in quella peggiore. Ma le società non sembrano certo in grado di affrontare problemi così seri, se sono incapaci persino di trovare un successore al presidente della loro Lega, Maurizio Beretta, ormai dirigente di Unicredit. Cosa altro deve accadere perché prendano coscienza della gravità della situazione? In questi giorni il Milan sfida il Barcellona sul campo per la Champions League, ma nella Football Money League 2012 il Barcellona ha già doppiato il Milan in termini di ricavi. Cerchiamo di vedere il lato positivo. Se le tensioni sull’articolo 18 facessero cadere il governo dei tecnici si potrebbe chiedere a Mario Monti di impegnarsi in qualcosa di veramente arduo: rimettere in sesto il calcio italiano. In confronto, ridurre lo spread Btp-Bund è roba da ragazzini. ___ Serie A "maglia nera" dei prezzi di MARCO BELLINAZZO dal blog Calcio & business (Il Sole 24 ORE.com 01-04-2012) Cari calciatori di Serie A, pensateci bene prima levarvi la maglia dopo un gol gettandola a terra senza pudore. Oppure fermatevi un attimo prima di strappare quella di un avversario in corsa. Le maglie costano. Secondo il report di SPORT+MARKT infatti le casacche delle squadre del campionato italiano sono in media le più care d'Europa: 71,40 euro, poco più delle maillots di Ligue 1 (71,20 euro) o delle trikots in Bundesliga (70,33 euro). Più ampia la differenza con le camisetas spagnole in media attorno ai 64 euro e soprattutto con i 49,80 euro di media delle shirts della Premier League. In Inghilterra una maglia ufficiale di Rooney, Lampard o Balotelli non costa più di 55 euro mentre in Italia se volete portare sulle spalle il nome di Del Piero, Cavani o Ibrahimovic dovrete sborsarne anche 80. Secondo le stime del report, il totale delle maglie vendute nei top 5 campionati europei ammonta a 11,1 milioni di pezzi. Le 98 squadre prese in considerazione sono servite da 28 brand diversi, tre dei quali la fanno da padrone: Nike e Adidas con 18 sponsorizzazioni a testa e Puma con 7. Come si dice in questi casi, ci vuole attaccamento alla maglia con quello che costano. . . -
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Bologna Fc, Consorte lascia il patto di sindacato. Davanti all’offerta di Volpi il caos. di DAVIDE TURRINI (il Fatto Quotidiano.it 01-04-2012) Giovanni Consorte si è inaspettatamente dimesso da presidente del patto di sindacato del Cda di Bologna 2010. La nota di Intermedia è arrivata nel tardo pomeriggio di ieri, con poche righe stringate dove l’ex presidente Unipol ha dichiarato che “sulla base degli orientamenti assunti dalla maggioranza dei soci (…) ritengo superato il mio ruolo di presidente”. L’ingegner Consorte con la società Intermedia aveva recuperato e rilanciato il Bologna Fc nel dicembre 2010 dopo la fallimentare gestione del presidente Porcedda, riscrivendo le coordinate finanziarie del club attraverso la fondazione della società Bologna 2010. A livello personale Consorte era rimasto come socio “minore” nel Cda della squadra con una piccolissima quota societaria che in questi giorni sta via via cedendo, e soprattutto aveva mantenuto il ruolo di presidente del patto di sindacato, sorta di accordo tra più soci che s’impegnano a comportarsi in un determinato modo nelle attività aziendali, per esempio nell’espressione del voto durante l’assemblea societaria. Una modalità di controllo molto diffusa che ha la funzione di accentrare di fatto il potere nelle mani di un gruppo ristretto di azionisti. Strategia aziendale che per il Bologna 2010 è significato lo stringersi attorno all’attuale presidente Albano Guaraldi, oramai da solo proprietario del 40% delle quote azionarie del club dopo una scalata durata tutto il 2011 e impattata contro l’oramai conclamata “offertona” dell’uomo d’affari Gabriele Volpi, ufficialmente smentita dal miliardario ligure. L’offertona targata Volpi. Quello che fino a mercoledì 28 marzo sembrava un’infondata voce di corridoio in nemmeno 24 ore è diventata una mezza certezza. Gabriele Volpi, 68 anni, uomo d’affari ricchissimo che opera da trent’anni in Nigeria nell’indotto del petrolio e del gas attraverso la holding Intels Nigeria Ltd (10000 dipendenti di cui 7000 solo tra lo stoccaggio e il trasporto del greggio nei depositi e nei porti africani) è interessato all’acquisto del Bologna Fc. Solo che non lo fa direttamente come il primo imprenditore che passa. Prima sonda il terreno e lo fa affidandosi ad amici. In primo luogo al vicepresidente del club, Maurizio Setti, il giovane imprenditore di Carpi, proprietario di marchi di abbigliamento femminile come Manila Grace, da subito vicino ad Albano Guaraldi nella nuova conformazione del Cda di Bologna 2010 dalla primavera del 2011. Altra pedina, anche se ancora a livello informale, l’altro imprenditore di super yacht del gruppo Ferretti, Lamberto Tacoli. Infine l’offerta da 28 milioni di euro, non ancora formulata formalmente, avrebbe avuto un front man, l’ex presidente del Bologna Calcio Alfredo Cazzola fino a gennaio 2012 terzo socio di Intermedia di Giovanni Consorte, con cui ha pubblicamente litigato ritirandosi dalla società d’intermediazione. La scalata di Guaraldi. Tutto bene, anzi male. Perché il Bologna Fc costruito nell’operazione di un anno fa da Consorte come società con diverse quote azionarie distribuite a più imprenditori (i cosiddetti “nanetti”) non regge l’urto delle scontate ambizioni personali. Ci passa dapprima il salvatore del gennaio 2011, il cavalier Massimo Zanetti della Segafredo (a tutt’oggi socio di minoranza con il 21% del club, fuori dal patto di sindacato, n. d. r. ), presidente per un mese, poi lo stesso Guaraldi che pareva avviato ad una coabitazione con Setti, ma che di fronte alla possibile costruzione, lui che con gli immobili è diventato un signore, di un centro sportivo in provincia che supporterebbe le attività calcistiche, sente la necessità di “mangiarsi” amorevolmente i “nanetti” e diventare proprietario del 51% delle azioni di Bologna 2010. L’advisor Tamburi per conto Volpi. La scalata del presidente Guaraldi prosegue concitata con diversi piccoli soci che si sfilano, senza troppa acrimonia, per tutto l’inverno 2011 fino a quando sbuca l’offertona. Dapprima smentita, poi giudicata “non credibile” dallo stesso Guaraldi, infine di fronte a quella che domani, lunedì 2 aprile, sarebbe dovuta essere la giornata chiave, quella del contatto ufficiale tra Intermedia e l’advisor milanese Tanburi Investment Partners, ecco l’addio di Consorte dal patto di sindacato. Intanto, come scrive il giornalista Emanuele Righi sul suo sito, l’operazione con Tamburi è seria: “si sono presentatati per conto di un importante gruppo internazionale. Curiosità: è lo stesso modus operandi con cui Gabriele Volpi, tramite la stichting social sport, controlla lo Spezia calcio”. Insomma l’offerta c’è e sta seguendo i canali canonici. Ma proprio ieri il colpo di scena di Consorte che sostanzialmente squalifica il patto di sindacato, quindi la maggioranza sorta attorno a Guaraldi, nonostante in mattinata avesse firmato il documento congiunto di una parte di soci del Bologna 2010, stilato dopo un pranzo a casa dell’ex presidente Pavignani, dove si è affermato che per il gruppo capitanato da Guaraldi (assenti le firme dei soci Setti, Yien, Zucchini e Romagnoli): “tra le finalità stabilite non rientra la cessione del pacchetto di maggioranza, anche in presenza di eventuali manifestazioni di interesse (…) Chi ha a cuore il bene del Bologna deve pensare al club, non a fare delazione verso chicchessia”. Così prima Consorte firma questo documento poi si defila dal ruolo di garante del suo contenuto. Probabile che l’ingegnere voglia sfilarsi dalla “proprietà” per rimanere semplice mediatore od osservatore (“Non spiego nulla, se uno ragiona capisce il mio gesto”). Anche se a poche ore dal match tra Bologna e Palermo non si sa ancora chi accoglierà gli emissari della Tamburi per esaminare quella che pare un’offerta con molto denaro cash e parecchia intenzione a rilanciare il Bologna Fc. Fatto sta che la figura di Volpi, proprietario della squadra di pallanuoto Pro Recco, nonché dello Spezia calcio e del Reijka (Fiume) Calcio, è grossa, ben piazzata nello scacchiere politico e finanziario (Curia, Banca d’Italia, nonché Giampiero Fiorani) non solo italiano, ma a livello mondiale. L’imprenditore ligure è uno che gira con due guardie armate fino ai denti da almeno trent’anni e dichiara, abitando a Lagos forse più che in Italia, di sentirsi più sicuro quando gira nella città nigeriana che per le vie di Milano. Chissà cosa direbbe di Bologna, magari passeggiando tra via Zamboni e Piazza Verdi? In attesa di capire se ha davvero interesse a far capolino tra Ramirez e compagni per spingerli verso una salvezza in serie A che a tutt’oggi non è ancora matematicamente raggiunta. -
[ Serie A ] Juventus - Napoli 3-0
Ghost Dog ha risposto al topic di super gigi buffon in Stagione 2011/2012
E' preoccupante il fatto che quasi tutti i quotidiani nazionali danno Borriello come titolare al fianco di Vucinic? P.s. Per Libero giocherebbe Matri -
[ Serie A ] Juventus - Napoli 3-0
Ghost Dog ha risposto al topic di super gigi buffon in Stagione 2011/2012
Per De Laurentiis (e Galliani, di straforo) -
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Il commento Quanti errori, qualcosa deve accadere di MARIO SCONCERTI (CorSera 01-04-2012) Il risultato di Catania è corretto, due splendidi inizi di partita del Catania, poi due ritorni profondi del Milan, anche dei cambi di Allegri che hanno rimesso insieme la parte finale dell'incontro. Risultato giusto, ma il Milan ha segnato un gol in più. Anche stavolta la storia è chiara, la palla era oltre la linea. Si può discutere sulla lontananza di chi deve decidere, sulla prospettiva in genere e sul fatto che anche il guardalinee è comunque alla fine soltanto un uomo. Ma il pallone era entrato. La cosa più dolce delle ingiustizie calcistiche è che nessuno vuole trarne vantaggio. In questo il calcio è cambiato, prima era un regno di furbi, era benvenuto l'errore se aiutava. Oggi conta di più il pallore del martirio, la sua esattezza fredda. Nessuno vuole più aiuti, tutti preferiscono avere un'ingiustizia con cui giustificare il complotto, piuttosto che ammettere un vantaggio. La storia domani non sarà se il gol era gol, ma quanti di quegli errori sono commessi per Juve e Milan. Resta il fatto che quello era gol e che ancor di più lo era quello di Muntari un mese fa. I popoli del calcio possono anche divertirsi con questa specie di «Ciapanò» morale, ma il calcio come regola e come business non se lo può permettere. Ha torto Galliani, il campionato non è falsato da un episodio, e nemmeno da due. Sono centinaia gli errori umani che ne cambiano alla fine il contenuto. Ma su quelli di questo genere si può intervenire. La gente a casa vede troppo più degli arbitri in campo. Non può essere così. Platini non vuole tecnologia, forse è più avanti lui che punta tutto sul giudizio dell'uomo in un gioco che è il più naturale fra gli sport di squadra. Ma che vengano il laser o l'arbitro di porta, qualcosa deve pur accadere in uno sport dove una posizione di classifica significa decine di milioni di differenza. E dove i fedeli hanno più voglia di martirio che di ragione. ------- Non sarebbe bastato il giudice di porta Caro Platini La tecnologia è diventata una necessità di PAOLO CASARIN (CorSera 01-04-2012) Oggi si accettano quasi tutte le decisioni arbitrali, salvo quando il pallone balla sulla linea di porta. Allora non si tollerano nemmeno gli errori di un millimetro. Se il gol è stato realizzato, tutta la sfera oltre al linea, bisogna darlo. Succede invece che, in Catania-Milan, un tiro di Robinho permetta a Marchese di respingere il cuoio con il piede dentro la porta. In campo il gioco continua: nessun è sicuro, il guardalinee Ghiandai, da oltre 30 metri, non può esserlo: la sicurezza l'aveva già perduta fermando per fuorigioco inesistente Ibra e Boateng. Al Cibali nessun spettatore è sicuro; ma arriva la tv e mostra che il pallone è entrato di un millimetro. Caro Platini, il giudice di porta poteva dare il gol di Muntari, non quello di ieri. Questo calcio televisivo impone i sensori sulle porte: puntiamo sulla loro perfezione. -
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ilConfronto CALCIO E DEBITI, LA SPAGNA CI SUPERA LE LORO SQUADRE PERÒ SONO AVANTI di FABIO LICARI (GaSport 01-04-2012) Allarme finanziario. Oltre 2,6 miliardi di debiti. Una situazione da fallimento, se non fosse che il calcio in Italia è quasi un servizio pubblico che non può essere sospeso. Bene: non siamo neanche quelli messi peggio. A fronte dei grandi campionati col «vizietto» che fa imbestialire Platini — spendere più delle enormi cifre guadagnate — c'è in Europa il calcio di seconda fascia, quello che non riesce a pagare i minimi salariali, rende i giocatori più deboli al fascino delle scommesse e scomparirà Apoel di turno a parte se non riuscirà a compattarsi in leghe regionali attirando nuovi investimenti. E anche tra i «grandi» c'è chi sta peggio. La Spagna, per esempio. Il monte debiti è spaventoso: 3,53 miliardi. Con due club Saragozza e Rayo quasi in bancarotta. Real e Barça ricevono la metà di tutti i diritti tv 1,2 miliardi, lasciando il resto alle altre 18 squadre. Al confronto il sistema solidale italiano sembra marxista. Il presidente del Barça, Rosell, ha ammesso che non è più sostenibile. Continuando così, un giorno, la Liga potrebbe svolgersi con 38 turni di Real-Barça. Questa situazione è apparentemente incompatibile con i risultati nelle coppe: il Real è già in semifinale di Champions, il Barça favorito sul Milan, inoltre Valencia, Atletico Madrid e Athletic Bilbao hanno buone chance di qualificarsi in Euroleague sarebbero 3 semifinaliste su 4, come l'anno scorso il Portogallo. Un caso? Possibile. Ma, escluse Real e Barça, anche il risultato di una gestione tecnico-tattica adeguata alle nuove esigenze: stranieri giovani ed «economici» tipo Udinese, cura estrema dei vivai, voglia di «giocare» al calcio stile Barça. E meno snobismo verso ciò che non è Champions. Se poi un giorno riusciranno a spiegarci perché il Valencia va avanti in Europa mantenendo il 3° posto in Spagna, mentre le nostre «devono» riposare e far giocare la squadra B, forse riusciremo anche a copiare il modello. E recuperare nel ranking. -
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CALCIOSCOMMESSE Telefonate e rogatorie: Lazio e Mauri nei guai di FRANCESCO CENITI (GaSport 01-04-2012) Presente e futuro. Un sabato cruciale per l'inchiesta sul calcioscommesse, sponda Cremona. Un sabato che ha visto il gip Guido Salvini interrogare i croati Saka e Ribic (mercoledì scorso avevano volontariamente posto fine alla loro latitanza), considerati dagli inquirenti pedine medio-basse della «squadra» che faceva capo a Gegic e Ilievski; un sabato lavorativo anche per il pm Roberto Di Martino che sta mettendo a punto i numerosi riscontri arrivati in queste settimane sul tavolo. Riscontri sul filone che punta dritto al cuore della Serie A. Riscontri che secondo fonti investigative metterebbero nei guai Lazio, Genoa, Lecce. Un lavoro incrociato di accertamenti tecnici, rogatorie, movimenti bancari e verbali secretati. La sensazione è che tutto questo malloppo potrebbe far parte della terza fase di un inchiesta. Quando? Novità importanti potrebbero esserci in un arco di tempo compreso tra i 20 e i 40 giorni. Novità in grado di mettere un bel punto interrogativo sul finale di campionato. Zamperini e Horvath La Lazio nei guai, dicevamo. Perché? E' soprattutto Zamperini a fare da filo di Arianna agli investigatori in questo labirinto intricato di presunte combine e accordi tra giocatori e «zingari». Seguendo i suoi spostamenti, si è scoperto che erano in fotocopia con quelli di Ilievski. Zamperini non ha mai negato l'amicizia con Stefano Mauri. Per il pentito Gervasoni quel rapporto avrebbe consentito agli zingari di gestire due match dei biancocelesti. Il telefono dell'ex calciatore è stato fatto analizzare e sono saltate fuori cose interessanti. Tra le altre: più di 1.100 chiamate proprio con Mauri, molte anche in prossimità delle gare. E ancora: Zamperini era di casa a Formello (sede del ritiro laziale) come dimostrano le celle telefoniche. E continuava a chiamare diverse persone con le schede a disposizione. Gli inquirenti si sono concentrati in modo particolare sulle quasi 230 chiamate a una certa Samanta Romano, parrucchiera di 27 anni. Chi è? Per chi indaga è la fidanzata di L. A. , titolare dell'agenzia di scommesse Gold Bet, sulla Aurelia. Anche il telefono della Romano spesso agganciava la cella di Formello. Venivano piazzate così le puntate dei giocatori? La risposta la daranno gli inquirenti. Che hanno in mano molti altri elementi tenuti coperti, ma che hanno permesso il salto di qualità. In particolare la rogatoria che contiene l'interrogatorio di Gabor Horvath (ex calciatore ungherese ora in carcere) nel quale avrebbe descritto i dettagli delle combine su Lazio-Genoa e Lecce-Lazio. Compresa la lista dei calciatori coinvolti nel tarocco e i soldi intascati. L'incrocio con i movimenti bancari e i tabulati avrebbe completato il quadro. Ora non resta che attendere. I due slavi Ieri è durato qualche ora l'interrogatorio di Saka e Ribic: hanno confermato di aver pagato Carobbio e Gervasoni (50-60 mila euro a «biscotto»), ma hanno respinto l'ipotesi di far parte dell'associazione. Queste le parole degli avvocati Krsnik e Cecchini: «Sono stati collaborativi: siamo davanti a un gruppo di scommettitori che comprava informazioni da Carobbio e Gervasoni. E Gegic faceva in sostanza da interprete». Per gli inquirenti, però, le responsabilità sono chiare anche se non si tratta dei protagonisti principali della vicenda. Sono 6 le partite «comprate» da Saka e Ribic, tutte del 2010: Brescia-Mantova e Grosseto-Reggina (non andate a buon fine e soldi restituiti); Cittadella-Mantova e Ancona-Grosseto (combine ok); Empoli-Grosseto e Grosseto-Mantova (nessuna scommessa per le quote crollate). L'avvocato dei croati ha preannunciato che anche Suljic e Lalic, altri due membri della banda, potrebbero presto consegnarsi alle autorità italiane. -
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dallaPrima Ora il duello si gioca anche con i nervi Allegri atteso da un lavoro di psicologo, la Juve non può fallire un’altra occasione... di LUIGI GARLANDO (GaSport 01-04-2012) Non proprio il harakiri evocato ieri da Antonio Conte, ma il Milan a Catania un po’ di male se lo è fatto: il pareggio (1-1) offre alla Juve la possibilità di portarsi stasera a due soli punti dalla vetta. Il posticipo col Napoli si arricchisce così di ulteriore fascino. Lo Juventus Stadium stanotte ruggirà di voglia. Il sospetto di un altro gol-fantasma (Robinho) ha di nuovo arroventato i rapporti tra Milan e Juve. Non se ne sentiva il bisogno. Clamoroso al Cibali per modo di dire, perché il Catania rivelazione in casa aveva già tolto tre punti all’Inter e due alla Juve. Il punticino di per sé non è una sciagura per il Milan in fuga che, può permettersi di gestire, sapendo di avere un calendario più morbido. Tolta l’Inter alla penultima, Allegri ha solo provinciali e giocherà in casa quattro delle ultime sei (una delle due in trasferta è il derby), mentre i rivali alla prossima saranno a Palermo e devono ancora incrociare le romane. A dare forza all’idea di rimonta della Juve, più ancora della classifica, sono due rilievi. Primo: stavolta Gulliver (come lo chiama Conte) non è bastato. Ibra, che ha crocchia in testa da giapponesemanessuna voglia di suicidare lo scudetto, ha creato il gol di Robinho con una magia. Ma questa volta Zlatan non ha fruttato tre punti. Un fuori-programma che carica l’ottimismo di Conte, ossessionato dallo strapotere italico di Zlatan. Secondo rilievo: i blaugrana dell’ottimoMontella hanno aggredito il Milan all’inizio, lo hanno rimontato e messo più volte in difficoltà, atleticamente e tecnicamente. Se Berlusconi è stato critico mercoledì, non avrà goduto davanti allo stopper Spolli che sgusciava in dribbling come un Messi e al possesso concesso ai siciliani. Il Milan che lancia lo sprint finale, insomma, non è al top. Il nervoso dopo-partita di Allegri, più che dal presunto gol fantasma di Robinho, di cui non esistono immagini risolutive, è legato probabilmente a un sospetto: la sfumata vittoria di Catania avrebbe avuto un peso- scudetto pari a quella di Udine. Ora invece è tutto più complicato, soprattutto se il Camp Nou porterà nell’ambiente un’eliminazione e nuovo fuoco amico (Berlusconi). A un gruppo che deve raccogliere le forze per l’omerico passaggio al Camp Nou e per lo sprint scudetto servono serenità e convinzione. Meglio che Allegri e Galliani lavorino di psicologia e diplomazia piuttosto che arroventare polemiche, che potrebbero diventare alibi per la squadra. Se il Milan si è complicato la vita, non è che quella della Juve sia diventata una discesa grazie al gol di Spolli. I punti di distacco restano. Non sempre questa Juve, splendida ma giovane per le lotte di vertice, ha risposto almeglio quando è stata caricata di pressioni. Spesso ha steccato allunghi importanti, stasera dovrà dare una risposta di maturità. Ma battere il Napoli, caricato dalla prospettiva del terzo posto, non sarà facile. La squadra di Mazzarri è quella che più è andata vicina a violare l’imbattibilità della Juve. E senza Cavani, che nel campionato scorso ai bianconeri ne segnò tre in un colpo solo. Aspettiamoci spettacolo. Dalla partita di Torino e dalla volata scudetto tra Milan e Juve. Una sola preghiera ai protagonisti. Dire che gli arbitri sono ancora condizionati da Calciopoli o che i gol-fantasma, veri e presunti, falsano il torneo equivale a convincere la gente che la gara in corso è tarocca. Per favore, piantatela. Sforzatevi invece di farci credere che nelle ultime otto giornate vivremo emozioni autentiche e vincerà solamente il migliore. -
Topic "C O M P L O T T O D I F A M I G L I A"
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AVVISO AI NAVIGANTI di ETTORE BOFFANO (la Repubblica - Torino 01-04-2012) GLI ELKANN E IL LENTO ABBANDONO DI TORINO «Vestivamo sempre alla marinara: blu d’inverno, bianca e blu a mezza stagione e bianca in estate. Per pranzo ci mettevamo il vestito elegante e le calze di seta corte. Mio fratello Gianni si metteva un’altra marinara» (Susanna Agnelli «Vestivamo alla marinara»). La vendita della casa di corso Matteotti quella di «Vestivamo alla marinara», è stata annunciata da tempo come, d’altra parte, quella della villa, tra via Giacosa e corso Massimo D’Azeglio, che fu la dimora del nonno-fondatore, venne occupata il 26 aprile 1945 dai partigiani guidati da Alberto Bianco e Giorgio Bocca e diventò, infine, la sede della Fondazione Agnelli. Non appartiene più da decenni alla Famiglia, invece, quel Palazzo d´Azeglio che ospitò, a cavallo della Seconda guerra mondiale, l´altro ramo degli Agnelli: quello dei Nasi, anch´esso provato come il primo da lutti precoci e dalle cause civili che il senatore Giovanni Agnelli intentò ai genitori superstiti per sottrarre loro la potestà sui suoi giovanissimi nipoti. In corso Marconi, invece, i due palazzi che ospitarono la direzione della Fiat negli anni felici del boom economico e poi in quelli caldi della contestazione, hanno visto ammainare da molti anni la bandiera della casa automobilistica e sono diventati due palazzoni (neppure troppo belli) per appartamenti e uffici. La rivoluzione delle planimetrie, dicono, ha stravolto anche il piano e il lato che ospitava la grande stanza dell´Avvocato. Chi poi avesse la pazienza di raggiungere corso Dante, dove le officine Fiat vissero il loro ormai lontanissimo esordio, scoprirebbe che quel sito storico per l´archeologia industriale italiana è oggi una grande voragine destinata a ospitare un nuovo, piccolo "quartiere" di cemento armato e appartamenti a pochi metri dal Valentino, già ampiamente contestato dai residenti del ben più grande quartiere che, lì intorno, sorse proprio assieme ai primi stabilimenti del marchio automobilistico. Inglobata nel futuro centro residenziale, ecco poi la palazzina dell´inizio del Novecento di corso Massimo d´Azeglio, a lungo utilizzata dalle associazioni degli ex dirigenti ed ex dipendenti (con tanto di cappella interna per le funzioni religiose): restaurata, è stata inaugurata qualche settimana fa, con grande clamore mediatico, come nuova sede della Sepin, la società che si occupa degli aspetti medici e ambulatoriali per i dipendenti del gruppo. In realtà, basta gettare uno sguardo all´imponenza della sede precedente, il grande palazzo alle spalle della Stampa, per comprendere come qualsiasi tentativo di far indicare quel trasferimento come un segno tangibile del futuro impegno della Famiglia e dell´azienda a Torino, appaia abbastanza ridicolo. Lo stesso "quotidiano di famiglia", nelle prossime settimane, lascerà lo stabilimento e gli uffici di via Marenco, con vista sul Po, per una sede in affitto alle spalle di via Nizza, con vista sui binari della ferrovia. Il racconto del lento abbandono di Torino da parte del ramo Elkann della famiglia Agnelli e dell´azienda automobilistica che, grazie al pacchetto della società "Dicembre", gli stessi Elkann continuano (per il momento) a controllare, potrebbe proseguire ancora, trovando in altri luoghi le sue malinconiche testimonianze. Soprattutto se, dalle case di famiglia e dagli edifici storici della dinastia, l´attenzione si spostasse solo sulle strutture produttive, a cominciare da quella Mirafiori ancora recintata da un inviolabile muro, ma che agli sguardi più attenti rivela già ben visibili i segni del degrado e della dismissione di una parte importante dei suoi impianti (e come potrebbe essere altrimenti, nel fabbricone della cassa integrazione ripetuta e dei nuovi modelli prima promessi, poi ritirati, poi ancora resuscitati, in una girandola senza fine di annunci e di smentite?). La consapevolezza della caduta di un impero, per dirla alla Salgari, è qualcosa di più di una sensazione e va ben oltre gli stessi tentativi che ciascuno (nelle sue diverse responsabilità e aspettative) prova a mettere in campo ogni volta, per non riconoscere la realtà: «Mirafiori non chiude, gli Agnelli non se ne andranno». Ma tutto pare già essere accaduto, invece, almeno nelle magioni storiche e negli stabilimenti-simbolo della Famiglia e dell´azienda, al di là e al di sopra del gioco delle docce scozzesi che Sergio Marchionne ha avviato, da due anni, per preparare l´immagine di una Fiat "esodata", come direbbero i "tecnici" delle nuove relazioni industriali italiane. Così, resiste l´ultimo feticcio sulla collina torinese: quella Villa Frescot dove le mosse dell´Avvocato si intuivano ogni volta che un elicottero si levava o atterrava. Ma un elicottero, è bene saperlo, può fare le stesse cose sul tetto di un palazzo di New York, di Parigi o anche solo di Milano. -
[ Serie A ] Juventus - Napoli 3-0
Ghost Dog ha risposto al topic di super gigi buffon in Stagione 2011/2012
Grandi sfide Żoccola era del Napoli e fece vincere la Juve Da Altafini «Core 'ngrato» al 3-1 che si recita a teatro. Le lacrime di Krol e quell'autogol... di VINCENZO CITO (GaSport 01-04-2012) A noi dispiace per i tifosi partenopei che ne hanno fatto un urlo di battaglia ma con Żoccola la povera Giulietta non c'entra niente perché giocava nel Napoli. Lo sventurato è entrato nelle statistiche perché autore della prima autorete del campionato di calcio a girone unico e se ne avvantaggiò la Juventus, nella giornata inaugurale del torneo 1929-30, giocata il 6 ottobre con vittoria dei bianconeri per 3-2. E' uno dei tanti gustosi paradossi che segnano questa sfida infinita, ricca di eroi, gol, rancori, vendette piccole e grandi. E oggi tornata ai livelli di un tempo dopo anni di comparsate nel trofeo Birra Moretti, perché il Napoli era in B o in C e nel 2005-06 dovette accontentarsi della Juve...Stabia, perdendoci pure. La storia, invece, ha conservato gemme. Vernice al San Paolo C'è stata, a esempio, un'altra epica prima volta quella del San Paolo, inaugurato in occasione di una sfida con la Juventus, il 6 dicembre 1959. 2-1 per i padroni di casa e una rete di Luis Vinicio. Era stato capace di debuttare con un gol al primo minuto contro il Torino, 4 anni prima, per questo lo chiamavano «O'Lione» e lo fu anche da allenatore, una ventina d'anni dopo con zona, pressing, calcio totale. Era la stagione 1974-75, mai il Napoli era stato così vicino allo scudetto. Glielo soffiò, guarda caso, proprio la Juventus. A Napoli 2-6 per i bianconeri, sfuggiti allegramente a una difesa troppo alta. Nella gara di ritorno segna Causio, pareggia Juliano, poi entra in campo lui, Josè Altafini, il grande ex a fine carriera che Trapattoni si giocava in molte partite come ultima carta. Ebbene, proprio il brasiliano a due minuti dalla fine fissa il 2-1. Lo scudetto andrà ai bianconeri, con due soli punti in più del Napoli e da quel giorno, Josè diventa, per i napoletani, «Core n'grato». Lacrime in albergo Un altro titolo la Juve lo conquista al San Paolo nel 1980-81 a una giornata dalla fine, staccando il Napoli che lo seguiva a due punti. Il tiro di Verza deviato da Guidetti spegne i sogni scudetto dei tifosi di casa. Ha ricordato Krol, uno dei protagonisti di quegli anni «Quando tornai in albergo piangevano tutti, dal portiere ai camerieri» . C'è molta Juve, però, anche nel primo scudetto del Napoli, perché la convinzione di potercela fare arriva da una partita che ha ispirato persino uno spettacolo teatrale di Maurizio De Giovanni. Quel 9 novembre 1986 le squadre erano appaiate in testa alla classifica, e il Napoli - sotto di un gol - ne segna tre negli ultimi diciassette minuti dopo un assalto continuo alla porta avversaria. Stavolta sono i comprimari a mettersi in luce, Ferrario firma il primo, Volpecina il terzo, il 2-1 è di Giordano («Era lui che, dopo il gol, applaudiva noi tifosi» - ricorda stupito De Giovanni). Lo squadrone di Maradona nasce in quei giorni, detronizza la Juve, conquista due scudetti in tre anni. E per vincere a Napoli, alla Juve serve... Napoli, di nome Nicolò, che risponde a un gol di De Napoli il 26 aprile, avviando la vittoria del 4-2. L'ultima sfida d'alta quota fra le due è la Supercoppa 1990, conquistata dagli azzurri con un 5-1 che apre la prima crepa fra Tacconi e il neoallenatore bianconero Maifredi. Poi il declino, prima dell'una, poi dell'altra, infine di tutte e due assieme: nel 2006-07 Napoli-Juve la davano negli highlights della B. L'incubo è finito, bentornate in Paradiso. -
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Calcio, e i club snobbano Prandelli Il Ct della Nazionale ha chiesto alle squadre di poter avere i giocatori ad aprile e inizio maggio per preparare gli Europei. Ma ha ricevuto un netto rifiuto dalla Lega dei club. di GIAN PAOLO ORMEZZANO (FamigliaCristiana.it 31-03-2012) Il 20 maggio è in programma a Roma la finale di Coppa Italia, fra la Juventus e il Napoli che in semifinale hanno eliminato rispettivamente il Milan e il Siena. Si conta molto sulla qualità della sfida, sulla “fame” di trofei che i due club hanno, oltre si capisce che su un grande finale di campionato, con la Juventus in corsa per lo scudetto contro il Milan e con il Napoli teso al terzo posto che significherebbe la partecipazione nella prossima stagione alla Champions League, il che vuol subito dire una trentina di milioni di euro come gettone di presenza. Da notare infine che il calendario oppone la Juventus al Napoli già domenica a Torino, in campionato… Due parole ancora sulla Coppa Italia, prima di passare ad un tema più “duro”. Il trofeo interessa in Italia soltanto nelle strette finali, quando finalmente ci sono eliminazioni di squadre grosse e il pubblico si appassiona (di solito a un punto della stagione in cui il campionato ha già detto molto). In Inghilterra la regina assiste alla partitissima che ha lo stesso valore di uno spareggio per il titolo. In Spagna idem, c’è il re, altissimo è l’interesse specialmente se la sfida finale è fra Barcellona e Real Madrid, insomma è una replica del ”clasico” di campionato. In Francia la coppa, aperta anche a squadre di dilettanti, spesso vale più del campionato quanto ad attenzione popolare: e nel 2000 quasi tutto il paese tifò per il Calais, club amatoriale con lavoratori e studenti in squadra, che giunse alla finale parigina contro il Nantes, dopo avere eliminato le “grandi”, perdendo 1 a 0 soltanto in extremis e per un gol discusso (Osvaldo Guerrieri ne ha fatto una bella commedia, rappresentata anche a Parigi: “Allez Calais” il titolo). Da noi si spera che all’Olimpico il 20 maggio ci sia anche, a dare lustro speciale alla sfida, il presidente Napolitano, che magari tiferà più Napoli che Juventus. Lo stadio romano sarà probabilmente riempito, Napoli è vicina a Roma, Torino ma soprattutto l’Italia bianconera saranno in mobilitazione piena per il ritorno della Signora ai vertici del calcio. Ci sono state grosse avvisaglie di un conflitto Coni-Lega Calcio, a proposito della disponibilità dell’Olimpico: il Coni, proprietario dell’impianto, deplora che la Lega (dove continua la presidenza-fantasma di Beretta, dimissionario solo a parole ancorché adesso abbia un altro lavoro), tenda a svincolarsi sempre più da ogni autorità sportiva istituzionale, bypassando la Federcalcio e dandosi alla gestione diretta condotta dai club più grossi, che vogliono trasformarla in un comitato d’affari. E così ha detto no allo stadio, mai richiestogli ufficialmente dalla Lega, “usando” anche il supporto di fondati timori riguardanti l’ordine pubblico: non per il conflitto tra la tifoseria napoletana e quella torinese, ma tra la tifoseria napoletana e quella romana e laziale. Poi Beretta ha chiesto formalmente l’impianto, la prefettura ha detto sì, anche il Coni ha detto sì. Ma il problema era ed è un altro. Il Coni in sostanza ha “usato” lo stadio suo per far sapere che non gradisce l’atteggiamento della Lega verso la Nazionale azzurra. Spieghiamo: l’8 giugno comincerà, in Polonia e Ucraina, il campionato europeo, che si concluderà il 1° luglio. L’Italia è qualificata, gli azzurri di Cesare Prandelli hanno svolto bene il compito. Ma sul piano della preparazione necessaria per lunghi e grandi confronti ci creano apprensioni i soli diciassette giorni senza calcio fra la Coppa Italia e il via all’Europeo, come anche i ventiquattro tra l’ultima giornata di campionato (13 maggio) e l’Europeo. Dopo la finale di Roma ci saranno almeno un paio di giorni di vacanza per gli attori: e così, considerando le necessità di ambientazione nell’Esteuropa, con spostamento “precoce” in loco, si può parlare al massimo di una settimana di raduno azzurro chez nous. Da ricordare poi che la Juventus, che “finisce” il 20 maggio, fornisce il maggior numero di azzurri al citì. Prandelli ha chiesto ai club almeno di concedergli giocatori per stages separati in aprile e inizio di maggio, raduni anche di un solo giorno, preparazione smozzicata ma pazienza: i difensori, i centrocampisti, gli attaccanti… Rifiuto netto da parte della Lega dei club. La Nazionale canta già “Fratelli d’Italia”, grande esempio per il Paese, e cosa si pretende di più? C’è tensione, Prandelli vuole sempre portare avanti un discorso etico, e i club non hanno gli strumenti, culturali oltre che morali, per seguirlo. E hanno anzi interessi contrari. Il denaro comanda, il denaro impone al club di usare molto i giocatori, per produrre altro denaro. La Nazionale è spesso scomoda, allontana un atleta dai compagni abituali, se giovane gli mette in testa brutti pensieri di orgoglio, di affermazione di nuovi diritti. La Nazionale può essere occasione di incidenti, la Nazionale stanca, toglie giorni al riposo, il prossimo campionato comincerà già il 26 agosto e prima del via si dovranno disputare partite amichevoli, tante perché tanto utili per fare cassa. E si pensa anche a tournées postcampionato, senza azzurri ma con tutti gli altri. Prandelli scoccia, insomma, con le sue richieste. E lui, che sa di scocciare, e sa che il Coni è con lo sport azzurro quindi con lui, potrebbe anche essere tentato, in caso magari di insuccesso europeo ovviamente scaricato dai club addosso a lui, di cedere a sirene di club. E’ un argomento delicato, ma intanto il confronto è quasi brutale. Voi per chi tifate? -
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The Man who Made Calcio How Gianni Brera shaped the language and style of Italian football By JAMES HORNCASTLE (THE Blizzard ISSUE TWO | September 2011) A stroll through the leafy streets of Coverciano, a district of north-eastern Florence, leads inevitably to the Museo del Calcio on viale Aldo Palazzeschi. Among the rows of replica Italy shirts hung on the walls in chronological order and the many artifacts housed in glass cases under low wooden beamed ceilings is a red Olivetti typewriter. It’s a portable Lettera 62, not quite the design classic that was the shapely Valentine model as conceived by Ettore Sottsass at the height of the Made in Italy trademark. This typewriter looks unremarkable, if not a little ugly. Exhibition based on looks can be ruled out. There must be some sentimental value here. Why else, visitors ask, would a typewriter command such a central presence amid the relics of Italy’s proud football history? The truth is that it was one of four that belonged to Gianni Brera, the sports journalist who, it’s no exaggeration to say, shaped the way an entire nation thinks and speaks about football and also how it would play the game for decades. The location of that particular Olivetti Lettera 62 is no coincidence either. It is given pride of place near Italy’s coaching school of excellence, the place where a country’s football philosophy is laid out and learned by generation after generation of coaches. Brera, by force of his own will, perhaps did more than anyone to set its curriculum — and not always to Italy’s benefit. For that reason he is admired and loathed in equal measure. He considered himself an ideologue and pontificated from the ivory keys of his typewriter. Full-bodied like the Barbaresco he used to drink, he had an untidy beard and swept-back hair the colour of the smoke that billowed intermittently from his pipe. So how did this one man, who carried himself with the air of an intellectual, come to have such an influence? ------- Brera was born on 8 September 1919 in San Zenone, a small village in the northern province of Pavia where the Po and Olona rivers merge. His roots in Padania would greatly shape his ideas on football. The son of a tailor and barber, Brera’s childhood was spent playing football — or fòlber as it was known in the local dialect — on the sandbanks or in the oratory of San Bartolomeo, the local church. Not one to blow his own trumpet, Brera later recalled in an interview with Il Giorno, “I played centre-forward and I was Jesus Christ to my fellow villagers. But I couldn’t have become a true footballer because I wasn’t a natural athlete. ” Nevertheless, he felt that this experience, bolstered by a spell playing for an amateur side in Milan as a midfielder, qualified him to write about the game with an appreciation and an understanding that his future colleagues simply didn’t share. “Modestly I note that, before me, people spoke about football like they might speak about a tambourine,” Brera scoffed. “Those who wrote about the game hadn’t played it while I had played football and found the need to express the gestures that I myself had made or had seen others make in a language that was true to the reality. The others were tell-tales. ” A political science student at university, Brera made his debut as a football writer for Guerin Sportivo as a 17 year old. He covered lower-league games for the magazine he’d later edit until the outbreak of the Second World War, when he enlisted in a parachute regiment. Once the armistice had been signed and his unit demobilised, he daringly joined the 10th Garibaldi Brigade of partisans in Val d’Ossola and took part in operations to thwart Nazi efforts to destroy local infrastructure, although he insisted he never fired a shot. Soon afterwards, Brera swapped the theatre of war for the velodrome as Bruno Roghi hired him to write about cycling and athletics for La Ġazzetta dello Sport. In 1949, aged just 30, he rose to become the pink paper’s editor. Brera, however, was a born columnist, not a director. He left the post in 1954 to go freelance and participated in the formation of Il Giorno. It was there that he established his reputation and consolidated his style. Umberto Eco, the Italian philosopher, literary critic and author of The Name of the Rose, wrote an article for the University of Rome’s De Nomine magazine arguing that Brera was “Gadda explained to the people.” Carlo Emilio Gadda was considered by the novelist Italo Calvino and the poet and film-director Pier Paolo Pasolini as one of the greatest and most authentic Italian writers of the 20th century. A Lombard like Brera, the publication in 1957 of his quintessentially Roman novel Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (That Awful Mess on the via Merulana) was seen as a kind of Ulysses moment, for like James Joyce it held a fascination with language and a revolutionary attitude to its use in fiction. Since the time of Alessandro Manzoni, whose 1827 work Promessi Sposi (The Betrothed) became a symbol of the Risorgimento in its development of the modern, unified Italian language, the nation’s writers had in effect felt unable to incorporate local dialects into literature. The literary language that Manzoni fixed and made national was, for some, both “a guide and a straitjacket”. What Gadda did was loosen the restraints, using the dialect of his characters, in this case Romanesco, better to portray them. Brera did the same, only in writing about sport it was much more accessible to the wider public, who for the most part had retained local dialects as their mother tongue and a proud source of identity. It’s often forgotten that Italy is still a relatively new country and Italian a new language. At the time of unification under Garibaldi in 1871 only 10% of the population spoke it and to this day many think that the regions making up Italy were too distinct to be squeezed into a single nation. Brera felt that way too. “I learned Italian at school,” he wrote, “but I always thought in redefossiano [his local dialect]. After studying, I discovered that in order to be quick at my job, it’d be worthwhile for me to think immediately in my language. I sometimes had to write 20 pages of copy on a Sunday afternoon and if I needed a word out of convenience, the one that almost always cropped up would be in dialect. If I could write everything in dialect, I’d be even happier because since Dante, the Tuscans have tired me. Excluding Galileo, they haven’t written anything since the 16th century. ” That last sentence in particular indicated Brera’s agreement with Pasolini that in the sixties Italy’s linguistic axis was moving from its origins in Florence towards the industrial triangle of the north made up of Milan, Turin and Genoa. The mass immigration from the south of men wishing to work in factories such as FIAT’s and the location of the national media, which was based mostly in Milan and Turin, had obvious repercussions for the traditional linguistic fabric of Italy. All of this came to the fore in Brera’s writing. “A language,” he wrote, “is a lot more alive the closer it is to real life. Sport has added something in this respect. It reaches many people, gets them talking and subconsciously or otherwise draws out words and expressions. ” Brera accordingly sprinkled his match reports with dialect, not just from Lombardy, but Lazio, Campania and Tuscany too. He popularised their use and gained immense popularity, selling vast quantities of newspapers as he did so. José Mourinho understood the importance of this. In response to a cheeky question asked during his official unveiling at Inter about which Chelsea players would work well in Italy, he famously raised his eyebrows and said, “io non sono un pirla,” - “I’m not an idiot” - pirla being a Milanese expression. Brera would elaborate a little further, however. He sometimes even used dialect to identify a player from a specific region. For example, when writing “Romeo Benetti touched the ball back to Gianni Rivera, ” he’d use the Venetian word indrio instead of dietro, the standard Italian for ‘back’, subtly to indicate that Benetti hailed from the Veneto. There was more to Brera’s writing than just wordplay, though. He was an extraordinary wordsmith and is credited with inventing an entire language of his own. Walk into any bookstore in Italy and alongside the Grande dizionario della lingua italiana there will likely be several dedicated to Brera himself. “He is a writer pretending to be a journalist, ” mused one of his contemporaries, Oreste del Buono. Brera came up with neologisms like allupato, comparing a striker apparently ready to pounce in the box with a snarling wolf circling its prey. There were verbal idioms too, such as balbettare calcio or stammering football, which indicated a team had no fluency in its play. Brera memorably coined nicknames as well, which would stand the test of time. Gigi Riva was known as Thunder, Lele Oriali Gassy, Mario Bertini Einstein and Marco Tardelli Gazzellino (the little Gazelle). Hundreds of words were added to the written and spoken language, words that travelled the world and entered into common football parlance. The term libero, for instance, was Brera’s creation. It emerged in his Storia critica del calcio italiano (A Critical History of Italian Football), a seminal work that the journalist Darwin Pastorin has fittingly described as “the War and Peace of Italian football. ” Writing about the 1949-50 campaign Brera recalled how the league leaders Juventus came to be sensationally defeated 7-1 by Milan. “Reflecting on the defensive inadequacies of the WM formation I am anxious to know why the poor central ‘stopper’ doesn’t at least come to be protected by a teammate, ‘libero’ or free from the incumbencies of man-marking. ” Some have argued that this suggestion, together with his assertion that “the perfect match would end 0-0”, is evidence that Brera was the midwife who brought catenaccio into the world, a style of play that, for good and bad, has become synonymous with Italian football. Brera undoubtedly had an interest in seeing that it triumphed. His eccentric view of the world maintained that the Italians as a race were devoid of protein and therefore had to play what he called a difensivista game of football because they lacked the physical strength to play in an open and attacking way. Pasolini, a great follower of football who often played on the restorative beaches in Grado with Edy Reja and Angelo Sormani, considered the claims that Brera had invented an Italian school of football to be disingenuous if not ironic. “Gianni Brera didn’t invent catenaccio,” he observed. “If catenaccio were part of the Italian character, as is probable, it couldn’t have been invented. In the same way as the slums around Rome were not invented by those who put them in neorealist films. They were already there. ” That of course didn’t stop Brera revelling when the Milan of Gipo Viani and later that of his good friend Nereo Rocco tasted success with the tactic in the fifties and sixties. They managed to win five Scudetti, a trio of European Cups, two Cup-Winners’ Cups, the Intercontinental Cup and three Coppa Italia titles between them. It smelt to Brera like vindication. Only a few years before he had said, ‘I told you so,’ to his colleagues. Alfredo Foni was the Italy coach at the time. He had got the job after winning back-to-back league titles with Inter in 1953 and 1954. That team had played a difensivista system. Ivano Blason was a trailblazer as a prototypical libero. But when Foni took charge of Italy, the press demanded that he abandon his principles and attempt to play positive football. The azzurri failed to qualify for the 1958 World Cup and Brera felt a touch of schadenfreude. “Finally the difensivisti imposed themselves,” he wrote victoriously in another of his books, Il mestiere del calciatore (The Craft of the Player). “Viani and Rocco assumed the helm of the 1960 Olympic team and from that day forward we can say that Italy possessed a school of thought. The Italian defensive system has been more or less adopted throughout the world. Even the English had to deny themselves and play a defender free from man-marking responsibilities alongside and behind the stopper in order to win the World Cup in 1966.” If catenaccio was ‘holy’, as Brera liked to say, then, in his eyes, it was also untouchable. He exalted players from the north of Italy like the Inter legend Giacinto Facchetti, who had been born in the Lombard town of Treviglio. According to Brera’s rather unsavoury musings in anthropology, Italy was an “authentic racial jungle”. He controversially theorised that Italy’s best players were of razza piave or northern stock. This led to accusations of racism, particularly from the south. There were heated arguments with his readers and colleagues, no more so than Gino Palumbo, the editor of La Ġazzetta dello Sport in the late seventies and early eighties. Palumbo was a native of the Mezzogiorno, Italy’s south. He firmly believed that the beautiful game should be played the right way, not in defence or on the counter-attack, but rather in attack with a lot of possession. Palumbo wanted to be entertained and to see goals flying in. So he came to be considered the head of the scuola napoletana and Brera that of the scuola lombarda. To say it was a clash of footballing civilisations isn’t an exaggeration: before a game at the Rigamonti between Brescia and Torino there were fisticuffs. Palumbo famously stormed into the press box, spoiling for a fight. When he couldn’t find Brera, he called out his name. No sooner had a figure, hunched over a typewriter, started to turn around in his chair than Palumbo was upon him. A slap resounded in the cold Lombard air then punches followed. The pair had to be separated by the others in attendance. Palumbo was furious with Brera for writing an article criticising the opinions of Antonio Ghirelli, another journalist of the scuola napoletana. This was war. “His long career was a series of fights, ” said one of Italy’s most distinguished journalists, Indro Montanelli. “He argued with everyone, not just about language. When it came to football he claimed to know better than any president, club, coach, trainer or player. His opinions were received like the blows of a stick. His fortune came in living during a time when duels had gone out of fashion. Otherwise he’d spend all day shooting or being shot at.” Brera made enemies all right. Take the 1962 World Cup in Chile as an example, when he let the locals know that Ghirelli had filed a piece which deplored the country’s infrastructure and even cast aspersions on its women. “One evening I went to dinner for the first time in a stylish restaurant in Santiago,” Ghirelli recalled. “I still didn’t know anything about the uproar I’d caused so I sat down at a table across from where Brera was sitting with some colleagues. Brera then gestured a great hulk of a man towards me who I later found out to be South America’s champion Greco-Roman wrestler. He threw himself on me, shouting at me in Spanish, accusing me of off ending his country and his citizens.” Brera certainly had a wicked streak. But if his criticisms hurt other journalists, spare a thought for the players he lambasted in his columns. Sandro Mazzola once said that reading an article written by Brera was akin to self-harming because they were filled with line upon line of “words that cut”. Of course no one knew that better than Gianni Rivera, the languid but elegant Milan No 10 of the sixties and seventies, the golden boy of Italian football. He was the focus of a journalistic critique that was remarkable for its relentlessness. But this was no personal assault: Brera always held a hushed admiration for Rivera. He called him “my negative hero”, which is better than the antichrist. Rivera was to Brera what Galileo was to the Catholic Church. He challenged his religion and all that he held dear. “Brera was always faithful to an idea of a contracted and closed football founded on the counter-attack and on opportunism,” Rivera told La Repubblica. “He had elaborated on ethno-cultural theories to support his ideas about football. I thought that in order to play football and to entertain the supporters in the stands you had to have fun yourself and that if anything the physical and ethno-cultural characteristics of Italians when united to our technical refinement made us more adapted to a light-hearted and open game.” To a devout difensivista like Brera that was sacrilege. Rivera was frowned upon as a luxury player. He cut a frail figure on the pitch and wasn’t prepared to put his foot in. A stroke of genius every now and again wasn’t enough to merit a place on Brera’s canvas and for that reason the nickname l’abatino was bestowed upon Rivera. Brera explained the term in Incontri e invettive as relating to a fragile and elegant ‘little priest’ who had an ‘affected style’ and was by the same token a ‘fake’. Underneath it all, Brera argued, there was no substance, but rather a lack of courage and athletic vigour. Contrarian to the last, he refused to acknowledge Rivera’s key role in Milan’s two European Cup successes of 1963 and 1969. It became an issue in his relationship with Nereo Rocco, something they’d refer to as “our Stalingrad” during their ‘Thursday night clubs’ at the A Riccione restaurant in central Milan, which Brera called his ‘office’. El Paròn had the conviction to stand by his choices, but others didn’t for fear of a smear campaign from Brera. With that in mind, it’s worth asking whether he might actually have held Italian football back. The influence Brera commanded from the books and newspapers that he sold and the appearances that he made on TV shows like Domenica Sportiva was undeniable. Did he abuse the responsibility that came with such an honour? Quite possibly, yes. Anyone who held views different to Brera’s on the gioco all’italiana was punished in print. He got great satisfaction from learning how, on travelling to England for a coaching conference in 1964, the “crazily attacking” Helenio Herrera, then in charge of Inter, “spoke of our system as if it were his own.” To Brera, Il Mago had been “forced” to adopt it. Difensivismo became firmly entrenched. The number of goals scored in Italy dropped by a staggering 300 per cent between 1950 and 1970. With a few noteworthy exceptions, coaches stopped experimenting. Corrado Viciani’s efforts to introduce a short-passing game at Ternana in 1972 were soon discredited and Luís Vinício received the same treatment after daring to reintroduce zonal-marking at Napoli in 1978. While the rest of Europe drew inspiration from the Total Football practiced by Ajax and the Dutch national side, Italy remained impervious and became isolated. Yet there was a pride that came with doing things differently. But why did the Italians remain so faithful to difensivismo Was it all down to Brera and his considerable sway? Not entirely, according to Mario Sconcerti. A respected former colleague of Brera’s and now a columnist for Il Corriere della Sera, he believes that the answer lies in Italy’s Catholicism and drift towards Communism after the Second World War. “Our football was very practical,” Sconcerti wrote. “It was born during a time when the country was full of ruins. There was a need for pragmatism. It was impossible to think big. Moreover, we were a country of fascists who were learning to be socialcommunists while staying rigorously attached to the rules of the church. We had too many religions to respect. We tried to find a middle ground, a kind of football that was a little holier-than-thou and allowed us to commit sins without going to hell. ” Much like the Vatican, there appeared to be little room for discussion in the church of Italian football, not with an evangelist like Brera around deciding what was right and wrong. Years went by and nothing changed until a shoe salesman from Fusignano by the name of Arrigo Sacchi dared to imagine what Italy might achieve by playing in a different way. Initially, he was dubbed ‘the Alien’. Sacchi had seen the world, taking business trips to Germany, Holland and France with his father. “It opened my mind,” he said. “Brera used to say that Italian clubs had to focus on defending because of our diets. But I could see that in other sports we would excel and that our success proved that we were not inferior physically. And so I became convinced that the real problem was our mentality, which was lazy and defensive.” Brera didn’t like it, but Sacchi oversaw a cultural and tactical revolution in Italy. When he arrived at Milan in 1987 an average of just 1.92 goals were scored per game in Serie A. When he left four years later that average had risen to 2.29, a figure that translates to an extra 113 goals a season. Sacchi was “a perfidious prophet” in Brera’s eyes. He did away with his invention, namely the libero, and based his defence around a back four that didn’t mark the man, but the zone. He asked that his team control possession and the spaces too. He wanted Milan to be proactive not reactive. They wouldn’t sit back, not on Sacchi’s watch. They would endeavour to make the play. Underpinning all of this was the belief that, if a team wanted to go down in history and stay in the memory of supporters long after the result, they also had to convince. Sacchi ensured his place in posterity by offering up to the footballing gods the magnificence of a 5-0 win against Real Madrid and the feat of winning two European Cups back-to-back. Brera unwittingly played a part. Sacchi would use his criticisms as motivation for the players in the build up to the 1989 final in Barcelona against Steaua Bucharest. “I took his piece in the dressing room,” Sacchi claimed, “and said, ‘The most famous journalist in Italy says that the Romanians are maestros with the ball and that we need to wait for them and beat them on the counterattack. What shall we do?’ Ruud Gullit then got up and said, ‘We’ll attack them from the first second’.” Milan won 4-0 and Brera, the Clausewitz of Italian football, had lost. Yet he clung to his ideas to the last. Three days before Sacchi was unveiled as the Italy manager in 1991, Brera wrote an article for La Repubblica entitled Non si va contro la storia (You don’t go against history). Hitting his stride, he noted, “A trolley is still a trolley even if you call it a tram. For this reason I still don’t understand the silliness of these arguments. I know that it’s exciting to see a team take a game by the scruff of the neck and impose itself on the opponent, but the only valid strength of the Italians resides in our cunning at inviting the opposition to compromise themselves.” A year later, on 19 December 1992, Brera was dead, killed in a car accident with two of his friends. A nation mourned. “It’s the end of fantasia, the end of creativity, ” lamented Del Buono. “Now all that remains is a normalised football. ” When one considers Brera’s career, it’s hard not to think about a short story that the great Argentinian writer, poet and critic Jorge Luis Borges composed in the 1960s. His subject was the last game of football ever played. It was a dystopia. “Football, like all sport,” Borges reflected, “is a kind of drama interpreted by one man alone in a projection room or by actors in front of a cameraman.” Brera was that one man smoking a Tuscan cigar in the dark while a film reel clicked in the background. He had the plot all worked out. He wrote the script. It was a world he had done a lot to create, shape and direct, not least with his words. When Italians talk about football, they speak the language of Brera and that’s his great legacy. But, as Sacchi proved, they didn’t have to play his football. -
[ Serie A ] Juventus - Napoli 3-0
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Spararsi le pose è un'arte, tipicamente napoletana -
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Ghost Dog ha risposto al topic di CRAZEOLOGY in Calciopoli (Farsopoli)
Il lavoro impossibile degli arbitri di JOHN FOOT (Financial Times/Internazionale 26-03-2012) art.scoperto grazie a Studio Una volta Fabio Baldas, arbitro e poi designatore, ha detto che “in Italia la questione arbitrale è più importante di quella meridionale”. Ovviamente, è un’esagerazione. Ma non così tanto. La settimana scorsa, la Ġazzetta dello Sport ha pubblicato un articolo (che riempiva una pagina intera) intitolato “Veleni, sviste, pressione. In A servono più arbitri”. L’articolo analizzava i venti arbitri che lavorano in Serie A oggi. Per ogni arbitro c’era il cognome, l’età e la media del voto in questa stagione. Solo tre dei venti arbitri raggiungono la sufficienza. Per la stampa italiana, il 68 per cento degli arbitri è insufficiente. E per i tifosi in generale, il giudizio è molto, molto peggiore. Perché l’arbitro è così odiato, ma al tempo stesso così importante, nel calcio italiano? Secondo me, l’arbitro in Italia è una figura quasi tragica. Gli arbitri sono condannati per il fatto di applicare la legge – ma è il loro lavoro a richiederlo. È come se fossero intrappolati all’interno della legalità dentro un mondo dominato dall’illegalità. Tuttavia, senza l’applicazione di tutte le sue regole e punizioni, la partita di calcio non avrebbe alcun senso. E tutto questo in un paese dove lo stato è spesso ignorato, o deriso, o mal sopportato. Il ruolo storico dello stato e della legge in Italia ha determinato una forte crisi di legittimità di molti istituzioni che governano o applicano le leggi. Allo stesso tempo, molti italiani si basano sulla dietrologia per spiegare i fatti e costruirsi un’opinione. Non è importante quello che vediamo con nostri occhi, conta solo quello che succede dietro le quinte, i complotti, le vere ragioni che non possiamo vedere. In un contesto del genere, cosa possono fare i poveri arbitri, bersagliati da giornalisti, giocatori, presidenti, moviole, commentatori televisivi e tifosi comuni, ogni giorno, in ogni bar, sempre e comunque? Come ha scritto il grande Gianni Brera, l’arbitro è un “prepotente… che insiste nel ritenere che la legge va rispettata anche a costo di infastidire il prossimo”. Non deve sorprendere che così pochi arbitri raggiungano la sufficienza. Fanno un lavoro quasi impossibile. -
Topic "C O M P L O T T O D I F A M I G L I A"
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Il Sole 24 ORE 31-03-2012 -
Topic "C O M P L O T T O D I F A M I G L I A"
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Il Sole 24 ORE 31-03-2012 -
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Sentenze & colpi di scena Salvi Alemao e Careca: chance per Maradona di MARCO BELLINAZZO (Il Sole 24 ORE 31-03-2012) Chissà se Diego Maradona riuscirà mai a vincere la partita con il Fisco. Una vicenda delicata per l'entità dei debiti maturati dal Pibe de Oro (13 miliardi di lire, lievitati a 37, 5 milioni di euro per effetto di interessi e sanzioni). Ma anche perché si innesta in una complessa sequenza di accertamenti, cartelle – notificate con difficoltà dato che dal '91 Maradona si era allontanato da Napoli – e di sentenze emesse da commissioni tributarie e dalla Cassazione. Proprio in virtù di una decisione della Suprema corte del 2005, la n. 3231, l'agenzia delle Entrate ritiene chiuso il capitolo giudiziario con la condanna di Maradona. Ma quella sentenza si riferiva all'impugnazione di un avviso di mora (notificato l'11 gennaio 2001) e dunque atterrebbe a profili di rito non di merito. Tanto almeno sostengono i legali di Maradona, Angelo Pisani e Angelo Scala, nel ricorso presentato alla Ctp di Napoli il 14 marzo scorso. Sul piano sostanziale, invece, c'è una sentenza, pronunciata stavolta dalla commissione tributaria di secondo grado di Napoli il 29 giugno 1994 (la n. 126), che potrebbe "scagionare" Maradona. Ma andiamo con ordine. Alla base di tutta questa storia ci sono sei avvisi di accertamento Irpef (per gli anni dal 1985 al 1990) che contestavano la prassi, non insolita allora, di corrispondere da parte del club oltre all'ingaggio, una quota di compensi per lo sfruttamento dei diritti d'immagine attraverso società terze con sedi all'estero – come la Diego Armando Maradona Productions Establishment collocata a Vaduz – che poi li riversavano agli atleti. Gli accertamenti avevano colpito la Società sportiva calcio Napoli e i tre giocatori stranieri impiegati in quegli anni, Maradona appunto, e i brasiliani Careca e Alemao. Per il fisco e il giudice tributario di primo grado (decisione n. 3230/93) si trattava di una truffa consistente in un'"interposizione fittizia" della società sponsor che consentiva ai calciatori di percepire compensi aggiuntivi agli emolumenti ufficialmente dichiarati quale retribuzione e pagare meno imposte e alla società di risparmiare sulle ritenute alla fonte. A fare ricorso contro questa decisione sono stati la Ssnc, Careca e Alemao, ma non Maradona. La commissione di secondo grado ha ribaltato il verdetto. I giudici tributari hanno chiarito che per applicare l'articolo 37, ultimo comma, del Dpr 600/73, su cui si fondavano gli accertamenti è indispensabile la prova dell'accordo "trilatero" tra le parti e del diretto passaggio delle somme dalla società sportiva ai calciatori, con esclusione delle società sponsor. Prove che, argomenta la commissione, non sono state raggiunte: «In conclusione è da ritenere mancante la prova presuntiva di una interposizione fittizia di persona in favore dei calciatori Careca e Alemao». Anche perché «la lega nazionale ha riconosciuto il diritto dei calciatori a utilizzare in qualsiasi forma la propria immagine, stipulando contratti con terzi e ricavandone gli utili a titolo diverso da quello retributivo». Inoltre, i giudici tributari citano la decisioni dei gip di archiviare su richiesta dei pm i procedimenti penali nei confronti dei rappresentanti della Ssnc per il reato di omissione dei versamenti delle ritenute alla fonte. Dunque, la commissione annulla gli accertamenti nei confronti della società e dei due brasiliani (il procedimento, per quanto possa sembrare assurdo, risulta ancora pendente, come scrivono i legali di Diego nel ricorso). Ma per ben tre pagine parla della situazione di Maradona, precisando anche che «i giudici penali per tutti e tre i calciatori hanno escluso che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni». Gli avvocati di Diego ritengono ora che per effetto del principio di solidarietà si possano estendere anche a lui gli effetti dell'annullamento dei sei accertamenti. -
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Arbitro, giù le mani dalla maglia di SEBASTIANO VERNAZZA dalla rubrica NON CI POSSO CREDERE! (SW SPORTWEEK 24-03-2012) Pessimo arbitraggio di Gianluca Rocchi in Udinese-Napoli (2-2) del 18 marzo. Secondo fonti del club friulano, alla fine l’arbitro toscano avrebbe chiesto la maglia a Cavani del Napoli, mentre il guardalinee Copelli si sarebbe “accontentato” di quella del portiere De Sanctis. Per motivi di opportunità e buon senso sarebbe ora che l’Aia – Associazione italiana arbitri – vietasse alle terne di “mendicare” magliette, non fosse altro perché l’abitudine è brutta e ha radici ancora peggiori. È bene rinfrescare la memoria, ripescare aneddoti dalle carte di Calciopoli. Alla vigilia del Natale 2004, Tullio Lanese, allora presidente dell’Aia, fece il pieno alla Juventus: 9 maglie più 80 gadget. Nel maggio 2005 l’arbitro Paparesta portò a casa 5 casacche juventine. Nel novembre 2005 il suo collega Racalbuto chiese alla Juve «cinque maglie belle». Forse invidioso, Paparesta, nell’aprile 2006, raddoppiò il bottino del collega: 10 maglie belle. Il massimo lo raggiunse l’assistente Di Mauro, che si fece stampare il proprio cognome su una divisa a strisce bianche e nere. Visti i precedenti, come si fa a reiterare la cattiva usanza? Post scriptum. La categoria di chi scrive non è senza peccato, numerosi giornalisti elemosinano pezzi di mute: anche calzettoni e calzoncini hanno il loro perché. Ai colleghi specializzati nell’acchiappo domandiamo: sicuri di non essere condizionati “per maglia ricevuta” in certi commenti e/o pagelle? -
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Il caso Il servizio mandato in onda dalle «Iene» sul dossier anti-Baldini riaccende rancori mai sopiti Sensi, Moggi, gli americani: tutti i veleni romanisti di LUCA VALDISERRI (CorSera 31-03-2012) ROMA — «Capisco i tifosi delle squadre, non quelli delle radio o delle presidenze. Succede solo a Roma». Parole di Daniele De Rossi, in un'intervista al Corriere della Sera. Ancor più valide dopo il servizio delle «Iene» (visibile sul sito www.iene.mediaset.it) sui dossier confezionati per accusare Franco Baldini e Mauro Baldissoni — d.g. e membro del Cda della Roma — di aver scalato la società grazie alla spinta della Massoneria. Una storia inconcepibile altrove, che ha portato all'apertura di un'indagine (ricettazione) sul conto del giornalista Roberto Renga, del figlio Francesco, del conduttore radiofonico Mario Corsi e del suo collaboratore Giuseppe Lomonaco. Ricostruire la verità in un processo o archiviare sarà compito dei giudici. In ogni caso resta un «pasticciaccio brutto» che ha radici profonde. Il derby non è più Roma-Lazio, ma quello tra «nostalgici» della famiglia Sensi (nella trasmissione di Mario Corsi interviene a volte in diretta la signora Maria Sensi) e fedeli della nuova frontiera Usa. Finché si tratta di diverse opinioni, anche se i toni si scaldano, poco male. Ma se entra in gioco la magistratura la situazione è patologica. Pare normale che, veri o falsi che siano lo diranno i magistrati, girino fogli di presunte intercettazioni sugli sms di Baldini e Baldissoni? E che Renga e Lomonaco, nella registrazione fatta a loro insaputa dalla «iena» Paolo Calabresi, citino il primo la Digos e il secondo «amici (di Mario Corsi, ndr) che hanno delle aderenze in persone che lavorano in compagnie telefoniche» come fonti delle intercettazioni? I «nostalgici» dicono che i Sensi si sono indebitati per fare vincere uno scudetto alla Roma e tenerla nei quartieri alti in Italia e in Europa. I risultati possono dar loro ragione, i bilanci di certo no. L'arrivo della cordata americana è stato accolto da molti come una liberazione, tanto da accettare tutto, persino risultati sportivi deludenti. E chi si è visto scavalcare dagli americani nella corsa alla successione non c'è rimasto bene. Alla vicenda non poteva mancare il veleno dei veleni: la presenza sullo sfondo di Luciano Moggi, nemico acerrimo di Franco Baldini ai tempi di Calciopoli. Lo ha raccontato al magistrato Paolo Calabresi, sentito come persona informata sui fatti: «Ho ricevuto una telefonata da Moggi proprio nei giorni in cui avevo fatto i video. Lo conoscevo per uno scherzo in tv che gli avevo fatto nel 2007 vestendomi da cardinale. Ci siamo visti in uno studio legale e lui stava con due avvocati. All'inizio uno mi ha chiesto se ero il padre di quel ragazzo che gioca nella Roma. E Moggi ha aggiunto: lo possiamo seguire. Ma io ci ho glissato sopra». La risposta di Moggi? «Mi sono proprio rotto le scatole. La vicenda parla da sola, se vengo chiamato in causa da uno che per vivere è costretto a travestirsi da cardinale. . . ». I veleni non finiscono mai. Come si può rimettere in piedi il calcio italiano? ------- Il caso Parla l’autore del servizio: «Solo qui non si tifa per la squadra ma per una proprietà» Calabresi: «Così ho smascherato il falso dossier su Baldini» La «Iena» e la truffa alla Roma: «Non ho nascosto la verità» di LUCA VALDISERRI (CorSera - ROMA 31-03-2012) Paolo Calabresi, ex allievo teatrale di Strehler, esperto di travestimenti, «Iena» che ha confezionato il servizio sul dossier per discreditare Baldini, Baldissoni e la new Roma americana. Come dobbiamo chiamarla: 007 o traditore? «Sono uno che non ha nascosto la verità. Perché volevano rifilarmi una bufala? Perché le accuse a Baldini e Baldissoni di essere massoni, che poi non è neppure un reato? Me lo sono chiesto. La mia idea è stata: arrivare a capo di una società in virtù di legami oscuri non è certo bello, soprattutto quando è falso. Se esce una notizia simile è un grave danno d'immagine». La magistratura ha aperto un'indagine su Roberto Renga, il figlio Francesco, Mario Corsi e Giuseppe Lomonaco, che la smentiscono. Le Iene hanno dato la loro versione, dicono, mettendo pochi minuti di discussioni più lunghe. «È vero, ci sono almeno tre ore di registrazioni. Il montaggio dei nostri servizi, però, è cronologico per dare forza e credibilità alla storia. Mi creda, semmai c'è qualcosa in meno e non in più». Ci spieghi la cronologia, allora. «Sono io che ho cercato Roberto Renga, che conosco da tempo: avevo fatto un'intervista a Carlo Petrini su Bologna-Juve del 1980 e gli avevo chiesto un ricordo. Poi, a telecamere spente, mi ha chiesto se mi interessava una storia su calcio, Roma e massoneria e che aveva le trascrizioni di sms tra Baldini e Baldissoni piene di riferimenti massonici. Se vuoi te le farò vedere, mi ha detto. Ne ho parlato con i miei capi e ho detto che mi sembrava una storia improbabile. Abbiamo visto dove poteva portare. Così ho chiamato Renga dicendo che si poteva fare. Poi ho ricevuto una telefonata da Lomonaco, che mi raccontava la stessa storia. Perché, gli ho chiesto. Risposta: perché a Mario non piace che intorno alla Roma ci sia questa gente e per beghe personali con Baldini». Lei è già stato sentito dal magistrato come persona informata dei fatti. . . «Ma io spero che nessuno sia incriminato. Vorrei semmai che questa storia aprisse una discussione seria sulla mala informazione e su questa stranezza solo romana dove non si tifa per una squadra ma per una proprietà o una radio. Sento dire che sarei un amico che ha tradito la fiducia, ma mi chiedo: un rapporto di conoscenza vale più della verità?». Lei è tifoso della Roma: ha voglia di tornare allo stadio? «Sono un po' incerto, è una zona franca. Però ci devo tornare. Altrimenti tutto quello che ho detto sul non nascondere la verità non avrebbe valore». -
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SCELTE DI COMODO Se i valori si piegano al business Per fare affari con gli emiri il Real Madrid si toglie la croce Il club ha iniziato i lavori per un mega resort negli Emirati Arabi E per evitare malumori tra i musulmani cancella il simbolo cristiano di TONY DAMASCELLI (il Giornale 31-03-2012) Non c’è più religione è una di quelle frasi comode che, nel football, non hanno più valore. Chiedete a quelli del Real Madrid, nella persona di Florentino Perez, il presidente padrone. Il club delle merengues ha avviato i lavori per un lussuoso resort a Ras Al Khaimah, una delle magnifiche sette isole che formano gli Emirati Arabi; l’inaugurazione della struttura, che comprenderà alberghi, ristoranti, campi di football aperti sul mare e altri impianti per discipline sportive, un museo calcistico del club, numerose sale cinematografiche, è prevista per il duemila e quindici, salvo contrattempi e casi diplomatici. La prima pietra, come si usa per cerimoniale, è stata già posta, presente, tra gli altri, Zinedine Zidane, di religione musulmana. Non è un dato marginale. Anzi. La giunta direttiva del Real Madrid, ricevuta una relazione «storico-ambientale» ha già anticipato eventuali problemi: ha infatti deciso di togliere dallo stemma della società la croce che sovrasta la corona. L'autorizzazione ad aggiungere il simbolo religioso sull'insegna regale del club venne concessa nel millenovecentoventi dal re Alfonso XIII. Ai cittadini dell'isola e dintorni il particolare storico non interessa, anzi risulta fastidioso, quasi provocatorio. La croce potrebbe creare malumori tra i fedeli musulmani, il simbolo degli infedeli deve restare fuori dai campo di calcio, i grandi club europei portano interesse e popolarità in un mondo ancora chiuso ma che sta cercando proprio nel football una visibilità anche sontuosa, gli investitori supermilionari del Qatar, nel campionato inglese, francese, spagnolo, sono la conferma più evidente del fenomeno che si sta allargando in ogni zona del vecchio continente, fatta eccezione per l’Italia, forse proprio per motivi religiosi. Il progetto del Real Madrid, che conta oltre centocinquanta milioni di tifosi in tutto il mondo, prevede un investimento grandioso nella terra degli emiri con ritorni finanziari altrettanto consistenti, va da sé che qualunque dettaglio che possa disturbare i rapporti commerciali e politici tra il club e le autorità degli Emirati Arabi Uniti debba essere evitato e cancellato in partenza. Anche il Barcellona, in occasione di una finale nel torneo di Abu Dhabi, ha dovuto togliere dallo scudo, che ne rappresenta lo stemma, la croce di San Jordi. Non so se anche ai calciatori e agli allenatori verrà proibito il segno della croce prima del fischio di inizio della partita, così come eventuali tatuaggi che ricordino Cristo e la sua Passione, collane, ciondoli e monili vari raffiguranti personaggi delle Sacre Scritture o, addirittura, chiedere a Cristiano Ronaldo di cambiare il nome in Musulman Ronaldo. Di certo la scelta diplomatica del Real Madrid potrebbe provocare reazioni tra i tifosi madridisti, già scatenati sui social network, denunciando il declino occidentale, l’inchino alle imposizioni non di mercato ma di potere religioso. Il Real Madrid è un club più vicino alla religione cattolica rispetto ai rivali del Barcellona. Secondo una indagine svolta da Metroscopia, infatti, il 30 per cento dei tifosi del Real si dichiara cattolico praticante contro il 14 dei catalani, mentre soltanto il 9 per cento dei madridisti si dice ateo o non credente contro il 26 per cento della popolazione 'blaugrana'. Ma gli affari sono affari, soprattutto se i dollari arrivano dagli emiri che hanno culto e riti diversi. Il Real Madrid conserva la corona ma rinuncia alla croce. Un sacrificio che vale più di trenta denari. ___ Se la croce imbarazza il Real Madrid Dal politicamente corretto al politicamente ignorante. Cancellano la croce della Corona dal simbolo del Real Madrid per non urtare gli Emirati Arabi partner di un superaffare. di ELISA CHIARI (FamigliaCristiana.it 31-03-2012) Si potrebbe scomodare l'anima in vendita, e chiedersi se vale o non vale un Resort, ma siamo nel pallone, e i colori sociali stravolti e rinnegati, in improbabili accostamenti da trasferta in nome di una maglia venduta in più, la dicevano già lunga. Si potrebbe scomodare il concetto di integrazione, di interrelazione tra culture, ma parlare di cultura in un ambiente dove spesso la principale occupazione intellettuale è rappresentata dalla playstation è quantomeno sovradimensionato. Fatto sta che il Real Madrid ha scelto di eliminare la piccolissima croce che dal 1920 appariva sul suo stemma per non correre il pericolo che rappresentasse un ostacolo alla costruzione di un fantasmagorico impianto turistico miliardario nell'isola di Ras-al-Khaimah degli Emirati Arabi Uniti. Stando alla ricostruzione del quotidiano spagnolo Marca, «i responsabili del club hanno deciso di «prescindere dalla croce che c'è sulla corona dello stemma per evitare in questo modo qualsiasi tipo di confusione o di cattiva interpretazione in una zona con una grande maggioranza della popolazione che professa la religione musulmana». Insomma una sorta di favore non richiesto, un passo indietro sulla propria storia: la quintessenza dell'autocensura preventiva. Eppure quella croce, che prima di essere un simbolo cristiano è parte dello stemma araldico della Corona di Spagna, era davvero un pezzo di storia: il segno dell'investitura reale di Alfonso III. Ma il calcio non si pone di questi problemi: in nome dei quattrini degli Emirati rinnega il proprio simbolo e in nome dei soldi degli abbonamenti non prende le distanze dai buuuu razzisti della curva, senza preoccuparsi della contraddizione. Non c'è valore che non soccomba a una robusta iniezione di dollari, non c'è occhio che non si chiuda. Quando qualcuno chiederà conto di quel favore non richiesto al club madrileno, probabilmente, senza dire in latino che pecunia non olet, scomoderanno il dialogo, senza sapere che viene dal greco dialégomai, "ragiono con", senza rendersi conto che non si ragiona con nessuno e che non c'è spazio di integrazione, né di dialogo, dove si rinnegano le proprie radici senza conoscere le radici degli altri. Ancora meno disconoscendo, nel trasformare il "politicamente corretto" in "politicamente ignorante", quel che nelle radici c'è di comune. Se gli arabi pensassero di cancellare le loro tracce dalla Spagna, per non urtarne la sensibilita, cancellerebbero un numero di parole significativo dal vocabolario castigliano e abbatterebbero una quantità imprecisata di palazzi meravigliosi. Ma questo chi contratta nel pallone non lo sa: guarda il mondo da un rettangolo di prato e non conosce architettura al di fuori degli stadi. ___ C’è da costruire un resort negli Emirati e il Real Madrid si toglie la croce dalla maglia Il fatto, rilanciato dal quotidiano sportivo Marca, è avvenuto il 29 marzo alla cerimonia ufficiale per l’inizio dei lavori di costruzione del Real Madrid Resort Island. Il simbolo cattolico compare sulla maglia della squadra nel 1920 di LUCA PISAPIA (il Fatto Quotidiano.it 31-03-2012) Se Parigi valeva una messa, un resort turistico negli Emirati Arabi val bene una croce da togliere dal proprio simbolo. Questo devono aver pensato gli strateghi di marketing del Real Madrid, che hanno deciso di levare dallo stemma della squadra spagnola la piccola croce situata sopra la corona, specificando che riguarderà esclusivamente le attività commerciali e di sponsorizzazione nei paesi a maggioranza musulmana. La croce apparve per la prima volta nello stemma del Real nel 1920, quando il re Alfonso XIII offrì il suo patrocinio reale al club madrileno, che cambiò la denominazione da Madrid Club de Fútbol a Real Madrid Club de Fútbol e modificò anche il proprio simbolo aggiungendo sopra al cerchio bianco blu con le lettere MCF la corona reale sormontata dalla croce. Il simbolo cristiano e la corona, insieme al titolo reale, sparirono dal logo e dal club durante gli anni della Seconda Repubblica Spagnola (1931-39) e tornarono nel 1941, dove il logo assunse una configurazione pressoché uguale all’attuale. Ma, come ha notato il quotidiano madrileno Marca, pochi giorni fa la croce è scomparsa di nuovo. E’ successo il 29 marzo alla cerimonia ufficiale per l’inizio dei lavori di costruzione del Real Madrid Resort Island: un complesso turistico residenziale che il club madrileno ha deciso di costruire sull’isola di Ras al-Khaimah, uno dei sette emirati che compongono gli Emirati Arabi Uniti. Dal costo previsto di circa un miliardo di dollari, sarà costruito in collaborazione con il governo locale e la RAK Investment Authority e dovrebbe essere completato entro il 2015. L’ambizioso progetto è parte della strategia di conquista dell’immenso mercato asiatico cominciata da alcuni anni dal Real Madrid e dai grandi club europei, si rivolge infatti ai più di 150 milioni potenziali tifosi del Real che si stima vivano in Asia ed è situato a soli 45 minuti dall’aeroporto di Dubai, il quarto scalo al mondo per volume di traffico aereo. Alla presenza di vecchie glorie come Zinedine Zidane e Emilio Butragueño, il presidente del Real Florentino Perez ha posato due giorni fa la prima pietra di questo avveniristico piccolo mondo artificiale, che prevede alberghi e ristoranti di lusso, piscine e campi sportivi, un piccolo stadio con 10000 posti a sedere che si affaccia direttamente sul mare, un parco a tema e un museo del Real Madrid. Una sola concessione alla realtà, la sparizione dal simbolo del club della croce. “Per evitare in questo modo qualsiasi tipo di confusione o di cattiva interpretazione in una zona con una grande maggioranza della popolazione che professa la religione musulmana”, come riporta il quotidiano Marca. La decisione non è piaciuta ai tifosi del Real Madrid. E sui social network si è scatenata la protesta. Il sito di Marca è stato invaso in poche ore da più di mille commenti di tifosi, con toni che vanno dall’ostile all’infuriato. C’è chi accusa la società di aver venduto l’anima al diavolo e chi di aver svenduto Cristo ai petroldollari. Chi non perde occasione per rinfocolare assurdi scontri di civiltà e chi addirittura vede nella multietnica rosa della squadra madrilena l’inizio di una perdita di purezza e di una colonizzazione in corso da parte degli infedeli. C’è poi chi ricorda che anche il Barcellona in viaggio a Dubai aveva lasciato a casa la croce di San Jordi che fa parte del suo stemma. E chi la butta sul ridere: chiedendosi se nelle prossime tournèe promozionali nei paesi a maggioranza musulmana il nome di Cristiano Ronaldo sarà cambiato in Musulmano Ronaldo. -
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Il ricorso della Lafico contro il sequestro Gheddafi di FABRIZIO MASSARO (CorSera 31-03-2012) Era da attendersi una reazione della Libia di fronte al sequestro cautelativo di oltre un miliardo di euro disposto dalla corte d’appello di Roma su richiesta del tribunale dell’Aia per risarcire le vittime del regime di Muammar Gheddafi. E infatti ieri la Lafico, uno dei fondi di Tripoli finiti nel mirino della magistratura italiana, ha annunciato che presenterà ricorso rivendicando di essere «direttamente controllata dall’attuale Consiglio nazionale di transizione libico». Insomma, in quanto veicolo sovrano non dipende dal governante pro-tempore ma dallo Stato, anche se Lafico è stata da sempre il braccio finanziario della Jamahiriya, fin dall’ingresso negli anni Settanta nel capitale della Fiat. Fra le partecipazioni più note di Lafico c’è la Juventus (ora all’1,5%), mentre sono nell’altro fondo sovrano di Tripoli, il Libyan investment authority (Lia), le quote ben più pesanti in Unicredit, Eni, Finmeccanica. Che ieri sera ufficialmente non aveva ancora annunciato il ricorso. -
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Palazzo di Vetro JUVE, INTER E MILAN CON PETRUCCI LUNEDÌ IL «SÌ» AGLI STAGE AZZURRI di RUGGIERO PALOMBO (GaSport 31-03-2012) Gianni Petrucci, presidente della Federcalcio, della Lega di serie A e, a tempo perso, anche del Coni, dopo avere quasi interamente risolto il «caso Coppa Italia», ha passato le ultime 48 ore a tessere la tela del «caso stage» della Nazionale. Giovedì con Andrea Agnelli, Ernesto Paolillo e Beppe Marotta in una saletta dell'Abi romano, mentre poco più in là stava per andare in onda, assente Beretta, il report 2012 sul calcio italiano e i suoi conti disastrosi. Ieri al telefono, dove ai contatti con Juve e Inter, si sono aggiunti quelli col Milan (Adriano Galliani). Saranno queste tre società, nell'Assemblea di Lega di lunedì a Milano, a spingere con risolutezza verso il ripristino degli stage azzurri (16-17 e 23-24 aprile) richiesti da Prandelli, e a suo tempo respinti al mittente più per l'ignavia e la superficialità di chi se ne doveva istituzionalmente occupare che per reale convinzione dei club. La Juventus è quella maggiormente coinvolta per numero di giocatori, se è d'accordo lei non si vede da quale parte possa arrivare un'opposizione, purché gli «stage» non diventino pretestuoso terreno di scontro per altre questioni. Lunedì, infatti, è anche il giorno in cui Claudio Lotito dovrebbe chiedere (e non ottenere, ma quando c'è di mezzo lui non si sa mai) la solidarietà e forse qualcosa di più dalla Lega, alla vigilia del ricorso presentato al Tribunale ordinario contro il codice etico del Coni che lo sospende dal ruolo di consigliere federale. Una violazione della clausola compromissoria di fronte alla quale la Federcalcio tace (chissà, Abete avrà forse chiesto uno di quei celebri pareri cui fa spesso ricorso) anziché procedere all'automatico deferimento. Ma sappiamo già la storia, Palazzi è autonomo e non sia mai venisse violata la sacralità dei suoi letargici tempi decisionali. Tanto, vedrete, tra un processo e l'altro Palazzi finirà con l'essere confermato per un altro anno, e Lotito con l'essere deferito magari tra sei mesi. Nel frattempo il presidente della Lazio ci ha dato dentro con le interviste (Sky Tg 24) dicendo cose assai giuste sui mali del calcio e le ricette per guarirlo, e qualcuna intempestiva. Il tema della «responsabilità oggettiva obsoleta che riguarda il passato» può anche diventare un giorno degno di dibattito, con i relativi distinguo tra una fattispecie e l'altra, ma non può certo esserlo oggi, nel bel mezzo di un calcioscommesse atto secondo (e poi anche terzo), che almeno a livello di indagini sembra sfiorare pure la Lazio. Lotito, noto per le sue battaglie di principio mai finalizzate al piccolo tornaconto personale, converrà che è il caso di soprassedere. PS. Caso coppa Italia quasi interamente risolto, abbiamo scritto: è infatti ancora aperta la querelle biglietti. Tessera del tifoso obbligatoria sì o no? Tessera del tifoso «sì», è la risposta esatta. Che non piace a De Laurentiis, cui qualcuno dovrebbe spiegare che la tessera del tifoso «no» piace, più che agli affezionatissimi senza tessera del suo Napoli, alla categoria dei bagarini. ___ Scommesse Lazio nel mirino, Lotito si prepara "No alla responsabilità oggettiva" di ALBERTO ABBATE (la Repubblica 31-03-2012) «La responsabilità oggettiva è il fardello delle società, una norma obsoleta e antica che contrasta con qualsiasi principio giuridico», tuona Claudio Lotito. Perché lo fa all´indomani della convocazione della Procura Federale per Brocchi e Mauri? C´è l´alone del calcioscommesse pure sulla sua Lazio: «Ho lanciato l´allarme un anno e mezzo fa, ho parlato di task force - ricorda il presidente biancoceleste - e di tintinnio di manette». S´è presentato due volte alla procura di Napoli. A Cremona però il "Superpentito" Gervasoni ha inguaiato Mauri, un suo tesserato. La movida a Ponte Milvio con l´amico Alessandro Zamperini, considerato il tramite degli "zingari" per le presunte combine di Lazio-Genoa e Lecce-Lazio, ha trascinato persino Brocchi nel vortice. Lotito non ci sta: «Non si possono far pagare le persone solo per delle conoscenze. Stimo Brocchi e Mauri, le loro qualità morali. L´anno scorso sono stati in pellegrinaggio a Medjugorje». Venerdì 13 dovranno invece confessarsi dal procuratore Palazzi: «Ho parlato con entrambi - svela Reja - e sono di una serenità estrema. È già successo altre volte che certe situazioni si siano risolte in una bolla di sapone». La società insomma si coccola i suoi centrocampisti: non è un caso che nell´ultimo mese abbia prolungato i loro contratti - insieme a quello di Biava - per un altro anno. Un segnale forte (anche se in realtà esiste la rescissione per giusta causa), nessuna paura? «Il sistema va liberalizzato da questa palude della responsabilità oggettiva - continua però a ripetere Lotito - e non a caso sarà all´ordine del giorno della prossima assemblea di Lega. I club non possono tra l´altro essere ostaggio delle tifoserie». Per gli ultimi buu razzisti, la Lazio rischia persino la squalifica del campo, una roccaforte nel 2012: 18 punti all´Olimpico. Solo tre invece - a Verona col Chievo - lontano da casa: «Avremo 5 trasferte, dobbiamo invertire la tendenza già a Parma», ammette Reja. Al Tardini stasera ritroverà la difesa titolare: Konko, Biava, Dias e Radu. A centrocampo Ledesma-Matuzalem; Candreva, Hernanes e Mauri dietro Kozak, favorito su Rocchi. Reja ha la pozione per la Champions: «Non ce la faremo sfuggire come l´anno scorso. Nessuna delle concorrenti ha la nostra voglia di centrare l´obiettivo». Ora è rabbia. ___ il caso Infortunio in nazionale? Rimborso ai club C’è l’accordo con la Fifa Fino a 6,5 milioni lordi per stop di almeno 27 giorni di SIMONE DI SEGNI (LA STAMPA 31-03-2012) La notizia è un segnale importante: la Fifa ha annunciato che dal 1º settembre provvederà a risarcire i club in caso di infortunio in Nazionale. Le società esultano, anche se l'antidoto non dà garanzie di copertura totale: l'indennizzo scatterà nei casi di stop superiori ai ventisette giorni e sarà elargito fino a un anno dopo l'incidente. Quanto alla misura del rimborso, il tetto è fissato a 6,5 milioni di euro lordi: il conto di volta in volta è semplice, basterà rapportare lo stipendio del giocatore ai suoi giorni di assenza e l'assegno è fatto. C'è da giurarci, ci saranno altre circostanze in cui le società torneranno a piangere per ossa e muscoli «versati» dai propri tesserati durante gli impegni con le rispettive Nazionale (tanto per rimanere in tema, la Fifa ha istituito l'obbligo di concedere gli Under 23 per le Olimpiadi di Londra): certi forfait probabilmente non avranno mai prezzo, immaginate l'arrabbiatura del dirigente di turno che dovesse rinunciare per infortunio a un top player in un match che può decidere una stagione. Per di più, se il campione dovesse restare ai box per un semplice problemino muscolare o per una qualunque grana risolvibile in meno di quattro settimane, di indennizzo non si potrebbe neanche parlare. La soluzione in ogni caso fa rallegrare i club e le federazioni stesse, perché la moneta non uscirà dalle casse di queste ultime ma direttamente da una compagnia di assicurazioni. La Fifa verserà a tal fine circa 100 milioni di dollari ogni 4 anni, i termini della copertura assicurativa dovranno essere approvati dal Congresso dell'organismo mondiale, che si riunirà a Budapest il 24 e 25 maggio. L'anticamera dell’importante novità, tuttavia, va cercata nella Eca (European Club Association), l'associazione presieduta da Rummenigge che raccoglie più di 200 club europei, riconosciuta da Fifa e Uefa. Proprio con il palazzo europeo, la scorsa settimana, è stato siglato un memorandum valido fino al 2018 che prevede lo stesso meccanismo: in realtà l'estensione alla Fifa era nell'aria, così il patto firmato a Istanbul servirà a coprire gli Europei di Polonia e Ucraina, in attesa dell'entrata in vigore dell'accordo più ampio. «Si tratta di un importante passo in avanti nei rapporti tra club e Fifa, proseguiremo nelle negoziazioni» è la soddisfazione di Umberto Gambini, direttore organizzativo del Milan e vicepresidente Eca. ___ il Fatto Quotidiano 31-03-2012