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Ghost Dog

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  1. De Laurentiis, il manager casinaro che volle farsi re di Napoli di GIUSEPPE CERETTI (Il Sole 24 ORE.com 24-03-2012) A dar retta a chi segue gli affari della casata, le fortune di Aurelio De Laurentiis poggiano oggi quasi per intero sul calcio Napoli. Quattro anni di bilancio in attivo hanno prodotto al gruppo di famiglia dal 2007 al 2010 profitti per 25 milioni, quasi tutti ricavati dal pallone e non dalla declinante sorte dei cine panettoni. Tuttavia pur sempre di spettacolo si tratta e il nostro presidente mostra di trovarsi a proprio agio nelle vesti indossate nell'ormai lontano 2004, quando rilevò la disastrata società in C1. Come se in virtù del patrimonio genetico, avesse fatto questo mestiere per tutta la vita. Non a caso il nostro rivela una stoffa d'attore di primissimo piano, miscelando nella stessa maschera la scintillante tradizione della commedia partenopea con l'aplomb di un ricco e consumato imprenditore che s'è fatto le ossa sulle sponde d'Oltreoceano. In quest'ultima veste non perde occasione per spiegare al volgo e all'inclita, certo con robusto fondamento, che il mondo del calcio così come lo conosciamo è al capolinea. La struttura dirigente della Confindustria calcistica è una sorta di residuato, un ferrovecchio tenuto insieme per convenienze di basso profilo. Imprenditorialità e modernità sono concetti sconosciuti non solo nel calcio italiano, ma anche in Europa con modelli di gestione arcaica gestiti da burocrati che poco sanno di football e ancor meno di managerialità. Fifa e Uefa sono bersagli che non cessa di colpire, da Blatter a Platini, invitato qualche giorno fa «a connettersi e usare il nuovo iPad». La serie A? Inutile assembramento di società quasi tutte sull'orlo del tracollo. La serie B? Inutile e basta. Le Nazionali? Solo d'intralcio alle società, sarebbe sufficiente una nazionale composta dai giovani, abolendo la Under 21. Tali saldi concetti sono espressi da mister De Laurentiis nelle suggestive forme che abbiamo imparato a conoscere. La fuga da una riunione di parrucconi a bordo di una motoretta guidata da un giovincello (scusa, me lo dai un passaggio?) è degna del grande Totò. E poi le sue sceneggiate televisive, con le giuste pause, ben attento alla migliore inquadratura, con quello sguardo un poco altero che si piega a un sorriso benevolo. «Lavezzi è uno spirito libero, scapigliato, lo amo e lo adoro, casinaro come me». Eccolo il De Laurentiis attore che si rivolge al pubblico partenopeo che sa bene come solleticare, identificandosi nell'idolo, in quel puledro che va lasciato galoppare lungo le praterie dei campi di calcio. È il manager, l'imprenditore di genio che lascia intravvedere il volto della sregolatezza. Il nuovo re di Napoli del pallone è detentore di un super-Io che ci ricorda un altro presidente con il quale non a caso coltiva freddi rapporti. Lo "spirito libero" conosce tuttavia altrettanto bene i tempi e i modi della sceneggiata alla quale non si concede secondo i rituali di tanti suoi predecessori, dispensatori di santi piovuti dal cielo con gli elicotteri. Quelli, sussurra il nostro, hanno mandato in malora il calcio a Napoli. Il mio modello è altrove, in una società costruita inserendo pezzo dopo pezzo, mattone su mattone. Così nella serata più buia della storia recente allo Stamford Bridge si rifiuta di concedere alla sua squadra il beneficio della matricola di Champions vittima della propria inesperienza. «Lei è un provinciale, mio caro Pablito Rossi - replica all'attonito campione del mondo che lo intervista - Queste teorie sono balle, non offro alibi a professionisti». Eccolo il De Laurentiis che scompagina le carte del mazzo e che rifiuta il gioco facile della giovane vittima predestinata, tanto cara alla Napoli milionaria. Balle, signori miei, dice l'Aurelio. La realtà è che sette anni fa su questo palcoscenico recitavano le comparse di serie C, ora ci sono le prime donne della Champions. Quindi si deve ripartire subito, per nuovi traguardi. Questo continuo rilancio fa comunque sì che ogni passo in avanti del Napoli diventi un'impresa e ogni fermata solo un incidente di percorso nel cammino alla conquista dell'Europa. Si tratta ora di capire per quanto ancora De Laurentiis riuscirà a fare ricorso a questa carta di credito senza scadenza che s'è costruito. In questa stagione restano il terzo posto in campionato e la Coppa Italia. Comunque sia da un siffatto, scaltro protagonista attendiamo sempre il gesto che non t'aspetti, meglio, il coup de theatre. Buon campionato a tutti.
  2. L'Olimpico che non basta e la dimenticanza della Lega di GIOVANNI CAPUANO dal blog Calcinfaccia 24-03-2012 La vicenda della finale di Coppa Italia che il Napoli vorrebbe spostare da Roma malgrado regolamento, precedenti e buon senso lascino poco spazio a soluzioni alternative, spiega bene il caos e l'improvvisazione che reggono il calcio italiano. Non esiste un motivo ragionevole per cui lo stadio Olimpico di Roma non possa ospitare la finale unica così come avviene dal 2008, quando il format della Coppa Italia è stato modificato prevedendo proprio che l'atto conclusivo si disputi nella Capitale alla presenza del Presidente della Repubblica (o in sua assenza di un'alta carica dello Stato). Troppi pochi biglietti a disposizione? Scusa risibile visto che lo stesso impianto ha retto l'urto di quattro finali e in tre di queste era in campo addirittura una squadra di Roma (i giallorossi nel 2008 e 2010 addirittura contro l'Inter e la Lazio nel 2009 contro la Sampdoria). L'Olimpico è ufficialmente registrato per una capienza massima di 72. 428 spettatori e in Italia solo il Meazza di Milano ha numeri maggiori: 80. 018 ma non ancora la certificazione a cinque stelle dell'Uefa come invece Roma. Se il problema è il contingente di biglietti a disposizione delle tifoserie la differenza è minima considerato che, al netto dei 10mila tagliandi che resteranno nelle mani della Lega calcio per essere immessi in parte nel circuito di vendita, Juventus e Napoli avranno a disposizione circa 30mila biglietti e a San Siro - per pura ipotesi - si potrebbe al massimo arrivare a 34mila. Se passasse la linea di De Laurentiis sarebbe come dire che, qualora il suo Napoli fosse arrivato in finale di Champions League, l'Uefa avrebbe dovuto spostarla dalla sede di Monaco di Baviera perché l'Allianz Arena tiene 69.901 spettatori (quasi 3mila meno dell'Olimpico). Anche la National Arena di Bucarest scelta per la finale d'Europa League non sarebbe stata gradita con i suoi 55.200 posti a sedere estendibili fino a 63mila. E la stessa Uefa si sarebbe sbagliata nel 2009 ad assegnare all'Olimpico la finale di Champions League tra Manchester United e Barcellona. Impossibile da sostenere razionalmente. Dire poi che la finale potrebbe essere spostata all'estero (Londra o Parigi) sfiora il ridicolo e in ogni caso si tratterebbe di locations che al massimo garantiscono la capienza di Milano. Impossibile anche sostenere che esistano ragioni di opportunità. Al massimo il discorso poteva riguardare le sfide con Roma o Lazio in campo come avvenuto nel 2008, 2009 e 2010. Allora fu opposto che la scelta della Capitale era considerata strategica per restituire lustro alla Coppa Italia e si era giocato senza andare troppo per il sottile con anche qualche caduta di gusto di troppo. Per tagliare la testa a qualsiasi velleità basterebbe allora leggere il regolamento della Tim Cup così come pubblicato dalla Lega di Serie A cui la Figc ha delegato l'organizzazione della manifestazione. All'articolo 3 comma 9, si legge: "La finale si svolge in gara unica, in uno stadio individuato, a suo insindacabile giudizio e prima della disputa della gara di andata delle semifinali, dall'Organizzatrice". Fine di ogni discorso se non fosse che nella 'bacheca' dei comunicati della stagione 2011-2012 della Lega non si trova traccia dell'ufficializzazione della scelta dello stadio Olimpico di Roma come sede della finale della Tim Cup. Nulla nè nella scorsa estate - quando fu pubblicato il tabellone - e nemmeno a ridosso delle semifinali d'andata come prescrive il regolamento. Solo nel comunicato stampa del 22 marzo in cui si informa che nel sorteggio 'pro forma' la Juventus è stata scelta come società ospitante è scritto che la finale è "in programma allo stadio Olimpico di Roma". Si dice anche che prezzi, modalità e canali di vendita dei biglietti saranno resi noti il 27 marzo e la prevendita scatterà il 2 aprile. Par di capire che nessuna di queste indicazioni sarà rispettata e che a margine del Consiglio di Lega si tenterà un blitz per spostare altrove la partita. Il motivo resta misterioso. L'unica certezza è il caos che regna sovrano.
  3. Calcio e business, ecco il "RealMadridLand" di Dubai Hotel di lusso, spiaggia esclusiva, installazioni sportive e persino un museo sulle leggende merengues: è costato 1 miliardo di euro e sorgerà su un'isoletta artificiale in località Ras al-Khaimah (negli Emirati Arabi) il Real Madrid Resort Island, l'ultima trovata di Florentino Perez L'apertura è prevista per il 2015, attesi un milione di turisti l'anno. di GIUSEPPE BASELICE (FIRSTonline 24-03-2012) Da Villarreal a Ras al-Khaimah. Dall’ennesimo danno d’immagine procurato dall’ultima crisi di nervi di Josè Mourinho, al tentativo di risanarla, l’immagine, attraverso un’operazione di marketing che finora solo la Ferrari aveva fatto, con il Ferrari World inaugurato nel 2011 ad Abu Dhabi. Costerà l’astronomica cifra di 1 miliardo di euro al Real Madrid la costruzione del Resort Island nel golfo degli Emirati Arabi: un’isola artificiale da 50 ettari, già soprannominata RealMadridLand, la cui apertura è prevista per il 2015 e nei piani del presidente Florentino Perez porterà ulteriore lustro al marchio del club della famiglia reale spagnola, il più titolato in Europa con nove Coppe dei Campioni in bacheca, proprio nell’anno in cui festeggia i 110 anni di vita e sta dando la caccia a una storica decima vittoria Coppa dei Campioni (l’ultima è arrivata esattamente dieci anni fa, in occasione del centenario). Proprio come aveva fatto la Ferrari due anni fa, tra montagne russe e simulazioni di Gp, anche la squadra spagnola ha scelto l’opulento e suggestivo palcoscenico dei Paesi arabi, e punterà su attività altrettanto spettacolari e polivalenti: il Real Madrid Resort Island infatti non sarà una semplice cittadella per esibire il marchio della Casa blanca, ma un vero e proprio complesso turistico con parco a tema, porto, spiaggia, hotel e ville di lusso, museo, installazioni sportive e persino uno stadio da 10mila posti per eventuali esibizioni di Cristiano Ronaldo e compagni. “Appena apriremo le porte del resort – ha dichiarato trionfalmente il presidente delle merengues Florentino Perez -, il visitatore entrerà a far parte della leggenda di questo club, il più grande della storia del calcio”. Le stime parlano di circa 1 milione di avventori attesi ogni anno, che potranno comodamente raggiungere la località dall’aeroporto di Dubai, che dista meno di un’ora dalla località di Ras al-Khaimah. Il progetto è dunque ambizioso, come testimonia d’altra parte l’ingente investimento, degno della società calcistica che per il sesto anno consecutivo è risultata la più ricca del pianeta con un budget da 480 milioni di euro, superiore persino ai 460 milioni dei rivali del Barcellona. Non poteva dunque che fare le cose in grande, il Real Madrid, premiato dalla Fifa come squadra del secolo e non nuovo a spese folli anche per assicurarsi i grandi campioni che hanno fatto la sua storia, partendo da Di Stefano per arrivare a Zidane (presente giovedì alla presentazione e pagato nel 2001 alla Juventus la bellezza di 77 milioni di euro) e Cristiano Ronaldo, sbarcato nella Capitale iberica tre anni fa per quasi 100 milioni di euro. In attesa che Mourinho si dia una calmata e riporti a Madrid qualche coppa degna di questo nome, il Real si è già portato avanti: tanto di trofei da far vedere, in fondo, non ne ha pochi.
  4. Juve-Inter ad alto spread È «derby d’Italia» anche per i debiti: i due terzi della A Le due squadre nell’ultima stagione hanno accumulato 182,2 milioni di «rosso». Un problema di tutte le grandi di FILIPPO GRASSIA (il Giornale 24-03-2012) È il derby d’Italia non solo perché così lo battezzò Gianni Brera buonanima, ma anche per i debiti che si portano appresso Juventus e Inter con gestioni in rosso fisso, caratterizzate da uscite platealmente superiori alle entrate. Alla faccia non solo del fair-play finanziario, ma anche di una corretta amministrazione. I dati sono drammatici. La società bianconera ha chiuso l’ultimo esercizio finanziario con una perditadi 95, 4 milioni, quella nerazzurra s’è fermata a 86,8: in totale fanno 182,2 milioni, i due/terzi di tutta la Serie A che nello stesso periodo ha accumulato un deficit di 284, 7 milioni. L’altro terzo, per la cronaca, è legato quasi interamente alle perdite di Milan e Roma. Come a dire che le grandi, nonostante i fatturati di maggiore entità, sono quasi fisiologicamente costrette a indebitarsi per rincorrere scudetti, coppe e scoperti in banca. E’ il gatto che si morde la coda. La Juventus è in fase di rilancio, ha raggiunto la finale di Coppa Italia e si trova sulla scia del Milan in campionato, con 2-3 ritocchi può rientrare fra le migliori 8 squadre d’Europa. Ma la finanza resta allegra. Gli azionisti hanno dato fondo a ogni risorsa per coprire le perdite con l'uso totale delle riserve del patrimonio netto (70, 3 milioni), l'azzeramento del capitale sociale (20,2 milioni) e il parziale utilizzo della riserva sovrapprezzo azioni (4,9 milioni). La Exor, che possiede il 60% delle azioni bianconere, ha sborsato oltre 80 milioni, di cui 9 in conto alla ex finanziaria di Gheddafi, per garantire la continuità aziendale. E i tifosi-azionisti non sono stati da meno dimostrando un attaccamento tangibile alla causa. Ma non è finita. A breve la Exor sarà chiamata a sottoscrivere un nuovo aumento di capitale per pareggiare le perdite che, nell’ultima semestrale, sono state superiori ai 30 milioni. Del genere, impossibile andare avanti così. Da questo momento il management dovrà lavorare sodo per evitare errori in fase di mercato e arrivare a quell’autofinanziamento che rappresentava il valore aggiunto del ciclo legato a Giraudo e Moggi. Sotto la loro guida la Juventus ha ripianato un passivo di 74 miliardi di lire e non ha mai fatto ricorso al mecenatismo dei fratelli Agnelli. Nell’Inter la situazione è diversa. Tocca a Massimo Moratti, e a lui solo, mettere mani al portafogli per ripianare il bilancio in caduta libera. E la cosa non è di poco conto tenuto conto dei 1. 150 milioni sborsati nel corso della ultradecennale presidenza e dei problemi contingenti della Saras, la raffineria di famiglia che non riesce più a produrre utili, anzi è in perdita secca da alcuni trimestri. Se a questo aggiungete che la squadra è in gran parte da rifare ed è fuori dalla Champions League, vi renderete conto di come siano nebulose le prospettive della Beneamata. I tifosi invocano acquisti a iosa. Ma forse non sanno, o fanno finta di ignorare, che dal 1995 al 2006 la società nerazzurra ha accusato perdite per 661 milioni e che la situazione è peggiorata nel periodo successivo con quasi 500 milioni di rosso. Le cessioni di Eto’o e Thiago Motta, tanto per rifarci agli ultimi addii più illustri e chiacchierati, hanno prodotto importanti plusvalenze, ma sono riuscite solo a tamponare uno scoperto che si preannuncia a fine stagione sugli 80 milioni. Per la società elvetica Swiss Ramble sarà di 88 milioni. Ecco perché Moratti, sostenuto da Tronchetti Provera, è alla ricerca di partner che intervengano non solo nello sponsoring ma anche nell’azionariato. Lo spread, tanto per usare in senso lato un termine di moda in campo economico-politico, è forte su entrambi i versanti. Ma la Juventus vanta prospettive molto più rosee dell’Inter per tre motivi fondamentali: la squadra in via di ricostruzione, la qualificazione in Champions League e il nuovo stadio. In soldoni un vantaggio di almeno 250 milioni. ___ RIPARTENZE di LUIGI GARLANDO (SW SPORTWEEK 24-03-2012) LA VIA CRUCIS NERAZZURRA CLAUDIO RANIERI: Quest’anno è una passione Prima stazione. L’Inter cade a Pechino. Il Milan ha precettato i reduci dalla Coppa America, Moratti ha lasciato i suoi in spiaggia. Galliani ringrazia e alza la Supercoppa. Seconda stazione. Lucio prolunga fino al 2014. Metà agosto: all’età di Cristo, 33 anni, il difensore firma per altre tre stagioni. Fino al 2014 arriverà anche Cambiasso, che all’epoca avrà 34anni. Dopo il Triplete avevano prolungato anche Stankovic e Zanetti, che giocherà fino a 40 anni (2013). Servirebbe rinnovare, ma non i contratti. Terza stazione. Arrivano Forlan e Zarate. All’ultimo giorno di mercato. Gasperini aveva chiesto altro, attaccanti esterni: Palacio e Lavezzi. Aveva chiesto anche di trattenere Eto’o e di lasciar partire Sneijder. L’Inter trattiene Sneijder e fa partire Eto’o. Sincronizzarsi no? Quarta stazione. L’Inter cade a Palermo. Moratti spiega che la colpa è della difesa a tre. Lo spogliatoio recepisce: il mister conta come il due di picche. Quinta stazione. L’Inter cade a San Siro col Trabzonspor. E con la difesa a quattro. Sesta stazione. L’Inter cade di nuovo a Novara. Sembra non rialzarsi più. Settima stazione. La croce passa a Ranieri. Il tecnico romano, detto il Cireneo o l’Aggiustatore, si carica sulle spalle il peso del rilancio. Ottava stazione. L’Inter si rialza nel derby. Il Cireneo rimonta il Golgota come il miglior Chiappucci: 7 vittorie di fila. L’Aggiustatore ci sa fare, sembra. Nona stazione. L’Inter viene portata a Roma. Schernita e punita con quattro frustate: Borini, Juan, Borini, Bojan. Una corona di spine sulla testa degli ex re del mondo. Decima stazione. L’Inter cade due volte a San Siro. Davanti a Novara, ultimo in classifica, e Bologna. Per raforzarsi, ha appena lasciato partire un brasiliano di qualità (Thiago Motta), rimpiazzandolo con un infortunato (Guarin) e un giocatore di B (Palombo). Mistero della fede. Undicesima stazione. Cambiasso piange in panchina. Sostituito tra i fischi di San Siro, con il Catania in vantaggio di due gol, il vecchio Cuchu nasconde il volto in una tuta. La sua immagine rimane impressa nel sudario e poi esposta alla Pinetina. Dodicesima stazione. L’Inter cade definitivamente in Champions. Un errore di Lucio,quello che ha prolungato fino al 2014, in coda al match col Marsiglia, costa la dolorosa eliminazione dagli ottavi di Coppa Campioni. Tredicesima stazione. Moratti li manda tutti a quel paese. Alla fine del primo tempo di Inter-Atalanta 0-0, una zoomata sulle labbra del Pres mostra un bel “vafa”. E non ce l’ha con l’arbitro. Quattordicesima stazione. L’amaro calice di Torino. L’Inter si presenterà in casa della Juve, acerrima nemica di campo e tribunali, con 15 punti in meno. La Pasqua di resurrezione dell’Inter quest’anno cade alta. Molto alta. ___ JUVE-INTER La partita dell’odio totale che non c’entra col calcio Domani derby d’Italia tra migliori nemiche del campionato Da Juliano-Ronaldo a Calciopoli solo ira e strani complotti di FABRIZIO BIASIN (Libero 24-03-2012) Domani, in serata, c’è quella partita là, quella che la chiamavano derby d’Italia perché Juve e Inter fino al 2006 erano le uniche mai scese in B, poi i bianconeri si son fatti un giro al Purgatorio del pallone e da allora lo chiami ancora derby d’Italia ma solo per banale comodità mediatica. Piaccia o non piaccia quella tra zebre e biscioni è la partita dell’odio, del veleno, del «tu sei più ladro di me», del «sapete solo rubare », dell’«attenti che qui finisce tutto a schifìo». Allo Juventus Stadium c’è chi si gioca lo scudetto (i bianconeri) e chi solo l’onore (i nerazzurri), eppure quando si arriva alla disfida tra Agnelli’s e Moratti’s la classifica conta nulla e prevalgono ragionamenti machiavellici, presunti complotti, rogne sotterranee, impicci da leggenda metropolitana che a confronto il mistero di Ustica è una storiella col lieto fine. I tifosi della Signora schierano l’armatura pesante e partono all’attacco con i terribili aneddoti spacca-Inter. I nerazzurri, in ordine sparso, hanno: truccato passaporti (specie quello di Recoba), fatto pedinare Vieri e pure tre o quattro arbitri, unto le ruote di qualche fischietto tipo Nucini cui hanno persino offerto un posto di lavoro, fatto affari con l’allora inibito presidente del Genoa Preziosi, vinto la Champions perché anche gli arbitri internazionali son stati bisunti a dovere, comprato Ibra ma solo perché la Signora era stata presa a mazzate dalla giustizia sportiva. Per non parlare di quelle intercettazioni scomparse perché si sa, le telefonate le gestiva la Telecom e la Telecom era Tronchetti Provera e Tronchetti Provera ha il sangue neroblù. E lo scudetto del 2006? Quello è dell’Inter solo perché certe sozzerie sono andate in prescrizione, e nessuno dice che l’Inter in B c’è andata per davvero, negli Anni 20, ma si è salvata per qualche strano miracolo e tanti altri fatti e fatterelli che a scriverli tutti non basterebbe tutto il giornale. Ma gli interisti mica stanno a guardare, proprio no, e rilanciano con la storia dei designatori Bergamo e Pairetto compagni di merende bianconere, con quella di Moggi che andava in svizzera ma mica per comprare il Toblerone, semmai per smazzare schede telefoniche non rintracciabili, di Agricola che pompava i giocatori tipo canotti al mare, di tesserati che venivano minacciati e altri spediti in Nazionale per decisioni divine, di rigori incredibilmente non assegnati tipo quello capitato a Ronaldo quando fece il frontale contro Iuliano nel 1998, di mercati pallonari controllati da forze oscure che impedivano a Moratti di vincere coppe e scudetti, di tante altre diavolerie indicibili che il calcio non era uno gioco, ma una roba per gente senza scrupoli. Mai uno che dica: «La Juve vinceva perché era la più forte, l’Inter s’è messa a vincere perché è diventata la più forte». No, colpa dei complotti. E il bello è che chi ha letto qua sopra, a prescindere, crede che un elenco di cose sia vero e l’altro completamente falso. Questione di punti di vista. . . ___ CALCIOPOLI La pace impossibile e i tribunali Lo scudetto 2006 dividerà sempre di GUIDO VACIAGO (Tuttosport 24-03-2012) TORINO. Senza quella decisione, improvvida e - soprattutto - non necessaria, di riassegnare lo scudetto 2005-06 all’Inter, forse oggi le cose sarebbe un po’ più semplici. Perché l’esasperazione dell’antica rivalità nasce da lì, dall’euforia estiva di Guido Rossi, che il 26 luglio del 2006 con un semplice comunicato stampa emesso in serata (e nessun atto ufficiale) cucì sulle maglie dell’Inter lo scudetto strappato da quelle della Juventus, appena condannata dalla giustizia sportiva. Non c’era fretta e - come gli dissero gli stessi saggi a cui si era rivolto l’ex consigliere d’amministrazione nerazzurro all’epoca commissario federale - non c’era nessuno bisogno di attribuire quel titolo. Lo decise d’imperio, Rossi, innescando una faida tifosa che virtualmente non finirà mai. Perché sei anni dopo sappiamo molte più cose. Per esempio che anche l’Inter - l’ha scritto il procuratore federale Palazzi - si era macchiata di qualche violazione e, addirittura, di quell’articolo 6 (illecito sportivo) che per la Juventus era stato ottenuto sommando una serie di articoli uno. Sappiamo, insomma, che al di là di quanto gravi o illecite fossero le condotte dei dirigenti nerazzurri non si poteva considerare l’Inter “illibata”: condizione imprescindibile (lo scrivevano i saggi a Rossi) per l’assegnazione dello scudetto. La Juventus rivorrebbe quello scudetto o, per lo meno, vorrebbe che non restasse nella bacheca dell’Inter che non ha nessuna intenzione di restituirlo. Stando così le cose i bianconeri saranno sempre arrabbiati. E se un tribunale o un presidente federale dovesse decidere di intervenire, ribaltando la situazione, gli arrabbiati diventerebbero gli interisti. Una via d’uscita che accontenti tutti non esiste. O meglio, non esiste più, l’ha distrutta Guido Rossi nell’estate del 2006. ------- E ora la Corte d’appello I legali Juve puntano a una decisione sul titolo dei giudici ordinari di GUIDO VACIAGO (Tuttosport 24-03-2012) TORINO. Dopo che il Tnas, ultimo passaggio della giustizia sportiva, se n’è lavato le mani con un’altra dichiarazione di incompetenza (dopo che incompetente si era dichiarato il Consiglio Federale della Figc il 19 luglio 2011), la Juventus ha portato la battaglia per il titolo 2006 in sede di Giustizia ordinaria. E se il ricorso al Tar è sicuramente quello più eclatante, con i suoi 444 milioni di danni richiesti alla Figc per i danni provocati da Calciopoli e i suoi derivati alla Juventus, il prossimo passaggio specifico sullo scudetto 2006 potrebbe viversi in sede di Corte d’Appello. DOPPIA PISTA Perché il ricorso costruito dall’avvocato Michele Briamonte, parte proprio dalla dichiarazione di incompetenza del Tnas e permette - in linea toerica - alla Corte d’Appello di Roma di entrare nel merito della vicenda e arrivare ad annullare l’assegnazione dello scudetto all’Inter. La CdA è una via parallela al Tar. Rischia di vedersi demolito il lodo: tre, infatti, sono le ragioni per le quali la Juventus chiede l’annullamento del lodo del Tnas (nella parte rescindente delle 92 pagine di documento). Il lodo è nullo perché non si è pronunciato nel merito quando doveva pronunciarsi, perché è stato violato il diritto alla difesa della stessa Juventus, perché è chiaramente contraddittorio quando afferma che il diritto (in questo caso lo scudetto 2006) è disponibile per la Juve e non è disponibile per la Figc. Tutte ragioni buone, per i legali della Juventus, per annullare quel lodo. A quel punto (e passiamo alla cosiddetta parte rescissoria), la Corte potrebbe anche decidere se, effettivamente, lo scudetto del 2006 era da revocare sulla base della relazione Palazzi (quella che riconosce all’Inter e ai suoi dirigenti la violazione dell’ex articolo 6, ovvero di illecito sportivo, ma salva i nerazzurri con la prescrizione).
  5. THE RISE AND FALL OF PANTALEO CORVINO Fiorentina's sporting director was once fêted as one of the best of his kind. But as Adam Digby reports, Pantaleo Corvino has seen his fortunes go south in recent times. by ADAM DIGBY (IN BED WITH MARADONA | Tuesday, March 20, 2012) art.scoperto grazie a Studio One hundred and eight words. In any walk of life it is not very much, the briefest of brief statements, barely more than a quote really. Yet on Monday, March 19 – in the aftermath of their one-sided loss to bitter rivals Juventus – that is the number of words chosen by Fiorentina to tell the world that they had reached a mutual agreement with their Sporting Director, Pantaleo Corvino, that his contract would not be renewed once it expires at the end of the season. While many football fans have no time for men in that position and would consider those few choice words to be more than enough when dispensing with such a persons services, those who follow Serie A football closely would consider it perhaps something of a slight on the 62 year old. Despite the statement going on to say Corvino had the clubs “complete confidence for many years,” and thanking him for helping the Viola “to play a leading role at the top level both in Italy and on the international scene, ” it really did not say enough about the impact the departing director had had on both Fiorentina and indeed Italian football in general since he took his first real role in Calcio way back in 1988. Since then he has delivered some of finest talent the country has seen, both from within Italy as well as discovering some widely coveted foreign imports. It is largely down to the Lecce native that players such as Fabrizio Miccoli, Mirko Vucinic and Stevan Jovetic – to name just three – have become household names. His story begins with lowly Casarano, a tiny side in Puglia who are now known as Virtus Casarano after bankruptcy and playing amateur football in Serie D, the peninsula’s fifth tier. Back then however, they were enjoying the best period in their history, playing in what is now the Lega Pro Prima Divisione and Corvino would prove to be just as shrewd then as he ever was. Despite the obviously scarce financial resources that came with the territory of being at a club based in a stadium that holds just 6,200 people and is rarely sold out, he would manage to somehow attract the best players from the region to the modest provincial outfit. Using the talent spotting and negotiating skills he has always seemed to possess, Corvino, during his ten year stay with the club would see Dario Levanto, Cosimo Francioso and Dario Passoni all wear the Rossoblu shirt before enjoying relatively impressive careers. Current Inter reserve ‘keeper Paolo Orlandoni would prove to be another smart acquisition before one theme that would run throughout the directors career began; Antonio Cassano would be offered a trial with Casarano only to see them choose not to sign him, meaning the Italy star became the very first ‘one-that-got-away’ from Corvino. He would not be the last. Before missing out on ‘Il Gioiello di Bari Vecchia’ however, he had captured his first bargain, yet another trend that would span the next three decades. Released by Milan despite scoring 28 goals and helping their Giovanissimi Nazionali (Under-15) team to win the national championship, Fabrizio Miccoli could not find room at his beloved Lecce and was convinced by Corvino to play for Casarano instead. There he scored 21 goals and won the Berretti (Under 19) title as well as making his debut in what was then Serie C1, aged just 16, scoring eight goals and catching the eye of Ternana, moving there before eventually earning his subsequent moves to Juventus, Benfica, Fiorentina and, eventually Palermo. Corvino would move on too, unlike Miccoli he did find room at Lecce, where he would deliver not only genuinely quality players, but also create environments in which some big name coaches would thrive, whether to resurrect ailing careers or indeed launch themselves into the wider conscience through their work with the Salentini. The first real partnership of the directors career came almost immediately as he trusted the coaching role to Alberto Cavasin who would win the Panchina d'oro as Serie A’s Coach of the Year in 2000. He would earn the award for a 13th place finish in a season where Cristiano Lucarelli would score fifteen goals in a squad which, thanks to Corvino’s continued excellence, would include Francisco Lima, Juárez and goalkeeper Antonio Chimenti. He would sell Lucarelli and replace him with Javier Chevantón – who would score 46 times in 87 appearances for the club – while also bringing Bruno Cirillo, Guillermo Giacomazzi and, in one of his best ever moves, youngster Valeri Bojinov. The Bulgarian would become the youngest ever foreigner to play in Serie A when he made his debut aged just 15 years and 11 months in 2002 in a Lecce side by then coached by Delio Rossi who was unable to avoid relegation after replacing Cavasin, but led the side straight back to the top flight at the first opportunity. This was the coach’s first position of note and he would not disappoint, then as now working well with young players and Bojinov in particular would thrive and, having paid virtually nothing to sign the player, Lecce would earn €13 million when they sold the striker to Fiorentina in 2005. His value was perhaps so inflated after a stellar 2004-05 season in which Corvino entrusted the team to Zdenek Zeman, becoming the first top flight director to believe in the outspoken Czech after his anti-doping claims which saw him become something of a pariah among Italian footballs established order. Neither man would regret the move as Lecce played some wonderful football that season, finishing 11th and scoring more goals than any team except Champions Juventus, whose tally of 67 was just one more than Zeman’s team. Bojinov himself would net thirteen goals – a total which remains his career high even today – while the latest Corvino find, Mirko Vucinic would do even better, scoring nineteen times and ending the season as the fifth highest scorer in the league. Another Eastern European striker that the director signed for almost nothing would make an even larger profit for the Southern side, Roma eventually paying a total of €15. 75m for the Montenegrin who left in 2006. A year earlier however and both Zeman and Corvino left the Stadio Via del Mare with the director finally seeming to have landed at a big club as he joined Fiorentina, one of Italian football’s famed ‘Seven Sisters’. The Viola would enjoy, after the effects of the Calciopoli scandal dissipated, what would prove to be one of their most successful periods ever under his guidance. Bringing in Cesare Prandelli, who had proven his qualities at Parma, Corvino would build a hugely impressive young squad which would not only qualify for the Champions League but thrive in it, reaching the Last Sixteen of Europe’s elite competition. They lost there to a highly contentious Bayern Munich goal which was clearly offside and also reached the Semi-Final of the UEFA Cup with a squad laden with talent. From goalkeeper Sebastian Frey, reliable defenders such as Alessandro Gamberini, Corvino provided numerous roleplayers for Prandelli, but also a sprinkling of stardust too. Milan cast off Alberto Gilardino was a shrewd signing, but so too were Riccardo Montolivo, Juan Manuel Vargas and Valon Behrami, all playing major roles in some simply superb teams at the Artemio Franchi. Once settled comfortably in the Renaissance city, he felt confident enough to give in almost completely to his penchant for telling the press names of players he almost signed, the habit becoming something of a running joke. Having admitted to narrowly missing out on the likes Nemanja Vidic , Charles N'Zogbia and the Brazilian playmaker Diego, Corvino confessed to La Ġazzetta dello Sport that his biggest mistake actually came while he was still at Lecce: “There is no doubt that my most significant regret as a Sporting Director was [Dimitar] Berbatov. I had him when he was just 18 years old. He had even taken a medical but I left the meeting to sign off another transfer, and when I returned I found only my understudy. The player and his father had gone because of our failure to give him a car and an apartment. This is a huge regret for me as I saw then what was later spotted by Tottenham and Manchester United. " Back to deals he actually completed however, as Corvino once again made huge profits on players such as Felipe Melo, bought from Almeria for €13m and sold just a year later to Juventus for €25m after a quick contract renegotiation that showed incredible acumen from the director. That same business savvy was evident when he managed to make a €2.4 million profit on a hugely disappointing Pablo Osvaldo and a similar amount when moving Luca Toni on to Bayern Munich. The arrival of his latest Balkan superstar-in-waiting, the technically brilliant Stevan Jovetic appeared to be a crowning moment for Corvino who – with his book of Eastern European contacts every inch as bulging as his ever-expanding waistline – was on top of the world, the faithful Viola supporters printing t-shirts in his honour and telling the world just how great he was. Then just like that, the sky fell in on him, the club and everyone connected with Fiorentina. The Della Valle family, who took over the club when it went bankrupt under previous owner Vittorio Cecchi Gori, became disenchanted after a seemingly endless argument with the City council over plans for a new stadium. It led to the whole project (for want of a better word) feeling incredibly stalled and it would only get worse as Corvino stumbled, making bad decisions for perhaps the first time ever. His signing of Adrian Mutu turned out to be a disaster – the player would be first branded “a baby” and then be banished from the club by Corvino after his latest failed drugs test – and he seriously destabilized an already struggling squad. He then sold Frey and Gilardino, all the while unable to agree a new deal with captain Montolivio which will see the clubs former talisman leave for free this coming summer. Add to all that the disastrous appointment of Siniša Mihajlovic as coach as well as signings like Santiago Silva, Gianni Munari and Houssine Kharja and suddenly his release by Fiorentina looks extremely unsurprising. His stock has fallen even faster than the Viola have dropped down the table, the team now looking every inch the relegation battlers they seem set to become only eighteen months removed from that crushing disappointment against Bayern. While his exit in June is undoubtedly the best thing for all concerned, it remains to be seen what the future holds for both him and Fiorentina. Should another club choose to take him on, it is somewhat ironic that a man who built his career on restoring sheen to damaged reputations of men such as Miccoli, Zeman and Gilardino would then face the challenge of working quickly to rebuild his own image. Repeating the near-miracles he performed in Lecce and Florence may yet prove to be beyond him as Pantaleo Corvino becomes proof positive that Will Rogers was on to something when he said; “It takes a lifetime to build a good reputation, but you can lose it in a minute. ”
  6. JUVE-INTER La partita dell’odio totale che non c’entra col calcio Domani derby d’Italia tra migliori nemiche del campionato Da Juliano-Ronaldo a Calciopoli solo ira e strani complotti di FABRIZIO BIASIN (Libero 24-03-2012) Domani, in serata, c’è quella partita là, quella che la chiamavano derby d’Italia perché Juve e Inter fino al 2006 erano le uniche mai scese in B, poi i bianconeri si son fatti un giro al Purgatorio del pallone e da allora lo chiami ancora derby d’Italia ma solo per banale comodità mediatica. Piaccia o non piaccia quella tra zebre e biscioni è la partita dell’odio, del veleno, del «tu sei più ladro di me», del «sapete solo rubare », dell’«attenti che qui finisce tutto a schifìo». Allo Juventus Stadium c’è chi si gioca lo scudetto (i bianconeri) e chi solo l’onore (i nerazzurri), eppure quando si arriva alla disfida tra Agnelli’s e Moratti’s la classifica conta nulla e prevalgono ragionamenti machiavellici, presunti complotti, rogne sotterranee, impicci da leggenda metropolitana che a confronto il mistero di Ustica è una storiella col lieto fine. I tifosi della Signora schierano l’armatura pesante e partono all’attacco con i terribili aneddoti spacca-Inter. I nerazzurri, in ordine sparso, hanno: truccato passaporti (specie quello di Recoba), fatto pedinare Vieri e pure tre o quattro arbitri, unto le ruote di qualche fischietto tipo Nucini cui hanno persino offerto un posto di lavoro, fatto affari con l’allora inibito presidente del Genoa Preziosi, vinto la Champions perché anche gli arbitri internazionali son stati bisunti a dovere, comprato Ibra ma solo perché la Signora era stata presa a mazzate dalla giustizia sportiva. Per non parlare di quelle intercettazioni scomparse perché si sa, le telefonate le gestiva la Telecom e la Telecom era Tronchetti Provera e Tronchetti Provera ha il sangue neroblù. E lo scudetto del 2006? Quello è dell’Inter solo perché certe sozzerie sono andate in prescrizione, e nessuno dice che l’Inter in B c’è andata per davvero, negli Anni 20, ma si è salvata per qualche strano miracolo e tanti altri fatti e fatterelli che a scriverli tutti non basterebbe tutto il giornale. Ma gli interisti mica stanno a guardare, proprio no, e rilanciano con la storia dei designatori Bergamo e Pairetto compagni di merende bianconere, con quella di Moggi che andava in svizzera ma mica per comprare il Toblerone, semmai per smazzare schede telefoniche non rintracciabili, di Agricola che pompava i giocatori tipo canotti al mare, di tesserati che venivano minacciati e altri spediti in Nazionale per decisioni divine, di rigori incredibilmente non assegnati tipo quello capitato a Ronaldo quando fece il frontale contro Iuliano nel 1998, di mercati pallonari controllati da forze oscure che impedivano a Moratti di vincere coppe e scudetti, di tante altre diavolerie indicibili che il calcio non era uno gioco, ma una roba per gente senza scrupoli. Mai uno che dica: «La Juve vinceva perché era la più forte, l’Inter s’è messa a vincere perché è diventata la più forte». No, colpa dei complotti. E il bello è che chi ha letto qua sopra, a prescindere, crede che un elenco di cose sia vero e l’altro completamente falso. Questione di punti di vista. . .
  7. Il caso Pessotto "Al prossimo coro fermiamoci" Prandelli: "Stop alle partite per queste offese". Baldini si scusa di MAURIZIO CROSETTI (la Repubblica 24-03-2012) «Vorrei abbracciare Pessotto, ed è la seconda volta in poche settimane. Ma vorrei anche alzarmi e andarmene dallo stadio». Cesare Prandelli non è solo il commissario tecnico della nazionale, è anche un uomo di valori, un innamorato dello sport. Ha conosciuto, nella sua carriera di giocatore, la terribile notte dell´Heysel e sa che la follia e il dolore possono fare irruzione in campo e rovesciare tutto. Possono anche uccidere. Ma questa non è follia, non è stupidità di pochi. I cori contro Pessotto, e gli ululati razzisti, sono una vergogna per il genere umano, un cancro che il calcio deve estirpare con il coraggio di gesti estremi, e denunce. «Dovremmo avere tutti molta più voglia di reagire», dice Prandelli. Forse, c´è un modo solo: «Smettere di giocare, interrompere le partite in presenza di certi fatti inauditi. Bisognerebbe parlarne in una delle prossime riunioni tra i capitani della serie A, però questa scelta non può essere lasciata solo ai giocatori. Riguarda la coscienza di ognuno». Perché la misura è colma, nonostante il silenzio di troppa gente. «Mi sento stanco, sono stufo di queste cose. Lo ripeto, dobbiamo reagire». E qualcosa di nuovo è già successo. Dopo i cori terribili contro Pessotto di parte dei tifosi giallorossi, durante la finale di Coppa Italia primavera all´Olimpico, la Roma ha emesso un comunicato ufficiale: «Peccato che la bellezza della vittoria sia stata sporcata da alcuni eccessi di tifo di cattivo gusto. Al dirigente della Juventus Gianluca Pessotto, il direttore generale della Roma Franco Baldini ha già porto personalmente le sue scuse». Non accade spesso, anzi non accade mai, che un club prenda le distanze dai propri tifosi più beceri, anche se all´Olimpico si è trattato di qualcosa di assai più grave di «alcuni eccessi di tifo di cattivo gusto». Quello che giunge dalla Roma, quindi, è un segnale positivo, in attesa che la prossima volta ci si dissoci in maniera ancora più netta, e si dica una parola ancora più forte. Tipo: quella gente, a casa nostra non la vogliamo. E magari potrebbe farlo la stessa Juventus, che continua a pagare multe per i cori razzisti contro avversari di colore. Vittima per la seconda volta di questi terribili episodi, Pessotto preferisce non commentare. Aveva scelto il silenzio anche dopo che a Bologna era stato esposto quello striscione allucinante. È probabile che in alcune menti malate sia scattato un meccanismo di emulazione, non si spiega altrimenti l´attacco a Pessotto durante una partita di calcio giovanile, davvero quanto di peggio si potesse immaginare. Gli autori dello striscione di Bologna, fotografati e filmati, non sono stati mai identificati né indagati, mentre per il club emiliano è scattato il deferimento da parte della Procura federale. Eppure non dovrebbe essere difficile cacciare i razzisti dal calcio, le misure di pubblica sicurezza non mancano, le tecniche d´indagine nemmeno. Quella che latita, semmai, è la volontà dei presidenti e delle istituzioni sportive. Le scuse di Baldini e il comunicato della Roma possono rappresentare un punto di partenza, però occorrono provvedimenti più severi, e questo non spetta solo al calcio. Ma è compito delle società isolare i teppisti e gli ultrà più vigliacchi e intolleranti, invece di continuare a vivere di connivenze restando sotto scacco, esponendosi al ricatto delle curve in cambio di protezioni, trasferte pagate, biglietti omaggio e commercio dentro e fuori gli stadi. Una strada possibile, anche se drastica, la indica proprio il ct della nazionale: dire basta, e interrompere le partite quando le persone diventano indegne. ___ Buongiorno di MASSIMO GRAMELLINI (LA STAMPA 24-03-2012) Forza Roma Con un’iniziativa senza precedenti ma speriamo molte conseguenze, il direttore generale della Roma ha chiesto pubblicamente scusa al dirigente juventino Gianluca Pessotto per i cori degli ultrà romanisti durante la finale di Coppa Italia juniores: «Oh Pessotto, buttati di sotto». La nuova linea del disgusto era stata dettata da uno striscione apparso nella curva del Bologna: «Pessotto simulatore, si è buttato o era rigore?». Per fortuna Lucio Dalla ha fatto in tempo a non leggerlo. Il tifo calcistico è il bidet degli umori umani e la storia degli sfottò è costellata di slogan che auspicano la morte dell’avversario (la politica vi si è adeguata solo di recente, come testimoniano certe magliette e certe vignette). Ma nel caso di Pessotto si è andati molto oltre, canzonando un evento realmente accaduto: l’ex giocatore del Toro e della Juve - uomo sensibile, colto e perbene - nel 2006 tentò il suicidio al culmine di una crisi depressiva. Per non precipitare nello sconforto bisogna aggrapparsi al comunicato della Roma. Non so se dipenda dalla crisi economica, dal governo tecnico o da un improvviso sussulto di decenza, ma lo spread della vergogna si sta abbassando e il fatto che qualcuno ricominci a indignarsi e a scusarsi per lo schifo circostante, anziché giustificare sempre ogni eccesso in nome della libertà e dell’omertà, appare al momento l’unica lampadina accesa nel buio che c’è. Se poi la Roma butterà fuori dallo stadio quei farabutti, la lampadina diventerà un faretto.
  8. Capitale e Montepaschi Banca e pallone L’eterno richiamo di Siena di FEDERICO DE ROSA (CorSera - Roma 24-03-2012) C'è stata un'epoca in cui la difesa dell'ortodossia era così radicale che mai un romano avrebbe potuto varcare la soglia del «tempio» di Rocca Salimbeni. Non era una consuetudine ma una regola, scritta nello statuto della più antica banca mondo, il Monte dei Paschi di Siena. Solo i senesi potevano assumere cariche o salire ai vertici. Una regola che ha resistito a lungo. Ancora oggi il presidente del Monte deve avere residenza o domicilio nella provincia di Siena. E' l'unico retaggio rimasto in una città che, pur restando gelosa del suo campanile, negli ultimi anni ha ceduto molti spazi ai forestieri. E ha costruito sulla direttrice per Roma una corsia preferenziale. In cui circolano soprattutto azioni e palloni. Le azioni, naturalmente sono quelle del Monte, i palloni invece del Siena Calcio, la squadra di Massimo Mezzaroma, il romano più noto a Piazza del Campo. Una notorietà che il quarantenne imprenditore capitolino divide con Francesco Gaetano Caltagirone. Il costruttore romano è un «dominus» a Siena. Rastrellando sul mercato azioni su azioni prima ha messo insieme il pacchetto singolo più alto tra i soci privati del Montepaschi, poi ha conquistato la vicepresidenza della banca in cui una volta solo i senesi potevano entrare. Una volta. Da Roma viene anche il nuovo amministratore delegato della banca, Fabrizio Viola. Il patron del Messaggero, della Cementir, della Vianini e molto altro ancora adesso si è disimpegnato da Rocca Salimbeni. Ha lasciato la vicepresidenza e contemporaneamente venduto sul mercato un robusto pacco di azioni. Oggi gli è rimasta una piccola partecipazione e non sembra puntare a una nuova stagione a Siena. Dove a presidiare la sua quota ha lasciato lo storico braccio destro, Mario Delfini, e Massimiliano Capece Minutolo. Ma per un Caltagirone che esce ce ne è un altro che entra. La scorsa settimana tra i nuovi soci della banca è spuntato a sorpresa Edoardo, fratello di Francesco Gaetano, diventato socio con lo 0,5%. Che possa preludere all'apertura di un nuovo canale di business? Difficile. Il fratello a Siena non è che ne abbia fatto. È vero che aveva immobilizzato svariati milioni di euro per comprare azioni della banca, ma si è fermato lì. Non ha fatto altri investimenti nella zona. Eppure il legame con la città era forte al punto da far celebrare il matrimonio della figlia Azzurra con Pierferdinando Casini a Siena. La vicinanza con la Capitale ha subito indotto gli analisti e gli osservatori, quando nei giorni scorsi a Siena girava voce che un industriale farmaceutico stesse trattando con la Fondazione per entrare in banca, a pensare al «romano» Francesco Angelini. In realtà si tratta del gruppo Menarini anche se l'imprenditore capitolino era stato sondato per capire un suo eventuale interesse. È anche vero che neppure Mezzaroma ha tirato su palazzi o asfaltato strade a Siena, pur facendo questo di mestiere. Ad avere un proprietario «forestiero» al Siena ci hanno fatto l'abitudine. Mezzaroma è il terzo. La squadra l'ha rilevata nel 2010 dall'avvocato romano Giovanni Lombardi Stronati, il quale l'aveva comprata a sua volta da un napoletano, Paolo De Luca. A vendergliela era stato Claudio Corradini, romano al quale era stata ceduta dal concittadino Max Paganini. Mezzaroma, come sempre capita nel calcio, è amato e odiato in città. Dipende dal risultato. Il filo è sottile, anche se il fatto di essere il presidente che ha prima salvato poi portato il Siena in A lo rende «quasi» un intoccabile. Quasi. Perché quando si tratta di toccare gli interessi della città, sembra che gli spazi all'improvviso si riducano. Prendiamo la storia dello stadio. È da quando ha messo piede a Siena che Mezzaroma vuole costruirne uno nuovo. Ne ha parlato, discusso, ha valutato in lungo e in largo il progetto con il Comune. Ma ogni volta il traguardo viene spostato più avanti.
  9. IL DISARMO DEI CAMPIONI Giocatori con la pancetta, allenatori senza gloria: la generazione degli anni 80 schiacciata dalla nostalgia di BEPPE DI CORRADO (IL FOGLIO 24-03-2012) Non è il corpo che li tradisce. Quello li rende simpatici, comuni, normali. E’ l’attaccamento al passato, l’ostinazione a sentirsi ciò che non si è più da tempo, la pervicacia con cui non ci si arrende all’idea di essere un ex. Paulo Roberto Falcao che allena il Bahia e alla prima uscita s’incrocia nel derby di Salvador con il Vitoria allenato da Toninho Cerezo è l’immagine di una generazione schiacciata da se stessa. Grandi diventati piccoli. Perché il derby di Bahia è poco. E’ male. E’ tre gradini sotto il minimo che il passato calcistico di questi meriterebbe di avere. E’ l’immagine che arriva attraverso lo specchio di una intera epoca pallonara che per molti è il massimo del massimo e che oggi non può far altro che abbandonarsi alla nostalgia del ricordo. Falcao, Cerezo, Junior, Socrates, Zico, Burruchaga, Maradona, Gentile, Cabrini, Tardelli, Altobelli, Rossi, Krol, Rummenigge, Schumacher, Boniek: gli anni Ottanta del calcio mondiale sono considerati il decennio più incredibile, ricco e talentuoso di sempre, eppure non c’è uno solo di questi che abbia mantenuto nella carriera post campo, le aspettative che aveva da giocatore. Grandi, immensi e poi deludenti. Si salva Michel Platini, che aveva preso la stessa strada incerta e che poi ha svoltato con la testa: è diventato presidente dell’Uefa, diventerà presidente della Fifa. Più intelligente di altri, più rapido a capire che in fondo quel periodo dorato è stato irripetibile e che provare a riciclarsi sempre e solo grazie alla nostalgia alla fine t’intrappola nella caricatura di te stesso. Gli altri no. A cominciare da Maradona che ha anche allenato l’Argentina agli ultimi Mondiali, ma ne è uscito distrutto. Adesso è a Dubai, allena l’Al Wasl, si gonfia il portafoglio, ma non più il petto. Perché lo sa che una panchina nel campionato degli Emirati Arabi Uniti non è il futuro che ci si aspettava da lui, perché se sei stato il più grande di tutti i tempi puoi passare ad altro o rischiare di trasformarti in uno normale. Diego ha scelto la seconda, poi ha declinato più di quanto fosse logico aspettarsi. Falcao e Cerezo stanno lì, vicini. Con loro anche Socrates che non c’è più, ma prima di non esserci aveva preso comunque lo stesso percorso: una specie di lungo e lento tramonto visibile fisicamente con la pancetta in più e i capelli in meno e visibile anche umanamente. Lascia stare che la morte cancella tutto. Socrates rimarrà un mito, sì. Però scalfito da se stesso: nel 2004 disse sì al rientro in campo a 50 anni, in Inghilterra, con i dilettanti del Garforth. Due giorni dopo l’uscita arrivò la spiegazione: “Trovata pubblicitaria”. Lui complice di tutto ciò che aveva sempre contestato. Il calciatore filosofo, il “dottore”, “O’ Magrao”, oggi quasi nonno con una carriera infinita alle spalle, con una vita ora tranquilla, con una laurea in Medicina, un master in medicina dello sport, due Coppe del mondo giocate, ma mai vinte, cinque squadre nella vita, tornato alla notorietà da regalarsi e regalare a dei signori inglesi sconosciuti, ma pronti ad aprire il portafoglio per aggrapparsi a un titolo di giornale. Socrates l’anticapitalista, a innaffiare il seme del capitalismo contemporaneo: lo spot. Che poi la sua vita era sempre stata una magnifica contraddizione. Ha fatto quello che ha voluto, sempre. Ha giocato, dicendo che avrebbe smesso nel 1986. Poi ha cambiato idea: in campo fino al 1989 e oltre ancora. Ha fatto il medico. Poi è tornato al calcio per andare in panchina. E’ tornato a studiare per prendere un master in medicina. Poi di nuovo sui campi di pallone per fare il medico sociale, il fisioterapista, pure il presidente. Ogni ruolo possibile e immaginabile in una società calcistica è stato di Socrates. Però ha anche inciso un disco, ha fatto l’impresario teatrale. Ha scritto sui giornali brasiliani, ma anche arabi. Poi s’è stancato ed è passato a commentare le partite alla tv. Ha sempre parlato male del governo del suo paese, poi gli hanno proposto un ministero per dare il suo contributo e lui l’ha rifiutato; gli hanno offerto la candidatura a presidente della Federazione calcio brasiliana perché aveva sempre detto che era quella la rovina del “futebol do Brasil”, ma ha lasciato prima tutti col fiato sospeso e poi ha detto: “No grazie, preferisco starmene a casa. È un trucco, volete fregarmi”. Unico giocatore a essere nobile, borghese e proletario nello stesso tempo. Unico vero fuoriclasse brasiliano a non aver mai vinto niente, ma capace di dire che il suo Brasile, quello del 1982 e del 1986, “è stata la più bella squadra mai vista in un campo di pallone”. Forse è vero. Anzi, per molti è così, e non solo in Sudamerica. Sentite nei bar, o nei salotti, o nelle discussioni da intellettuali pallonari: si racconta ancora e sempre di Italia-Brasile 3-2 al Mondiale 1982 come della vittoria più importante della storia del nostro calcio. “Battere quel Brasile lì? Vuoi mettere”. Per la vulgata non regge neanche Italia-Germania 4-3 e quindi neanche tutto il resto del resto del resto. Eppure quel Brasile incredibile, quello appunto di Cerezo, Falcao, Junior, Socrates, Zico trent’anni dopo è un ricordo che imbarazza il presente: non ce n’è uno solo che sia invecchiato bene. A Cerezo la vita gli è andata bene fino a un certo punto: ha guadagnato, s’è divertito, ha giocato, ha vinto. Se l’è meritato, Toninho il Tappetaro, come lo chiamavano a Roma perché sembrava un venditore di tappeti. Dei brasiliani della sua epoca è quello che ha vissuto di più: Brasile, Italia, poi il Giappone e ancora il Brasile. Ha sempre vissuto il presente senza guardarsi indietro, s’è spremuto fino a 42 anni, poi non ha avuto rimpianti: “Fino a quando ti reggono le gambe e hai voglia devi giocare, altrimenti poi ti penti”. A lui le gambe gli hanno retto più dei capelli, fino a fargli accettare un contratto da una squadra brasiliana di serie C, l’América della sua Belo Horizonte. Compenso: duecentomila lire al mese. Praticamente nulla, nemmeno il rimborso spese. Però c’era uno stadio, uno spogliatoio, l’odore del grasso delle scarpe, il pubblico sulle gradinate. In fin dei conti il contorno conta soltanto prima di entrare in campo, quando si pensa all’atmosfera, al risultato, al premio. Poi poco. Poi quasi il vuoto. Brutto: allena, sì. Allena la modestia. Il derby con Falcao è un colpo anche alla storica doppia battuta dei fratelli Vanzina. “Secondo te, come starà passando il capodanno Toninho Cerezo? Secondo me dorme, perché è un professionista”. E poi: “Voto a Falcao?”. “Otto”. “Errore, nove”. “Errore tuo, io a Falcao gli do dieci”. Passato, eccolo. Il presente è altro. E’ duro. Per loro e per gli altri. Zico, per esempio, oggi allena l’Iraq: praticamente non esiste. E’ uno che in campo ha avuto l’unica sfortuna di essere contemporaneo di Maradona e Platini, altrimenti sarebbe stato il migliore della sua epoca. Diego, maledetto Diego. Michel, maledetto Michel. E’ infame il calcio: ti fa grande, ma se c’è uno più grande di te, ti rimpicciolisce. Ti dimentica. Ti lascia lì, impalato: il totem dell’incompiuto, la sinfonia che a un certo punto s’interrompe perché il maestro non ricorda più le note. Così tu puoi essere Zico, puoi essere l’erede di Pelé, il più bravo della Nazionale brasiliana più bella di sempre. Però c’è Maradona e sei fregato. C’è Platini e dal numero due passi al tre. E dopo il tre sei ƭottuto, perché il quattro è sempre fuorigioco. La vita di Arthur Antunes Coimbra va così da sempre. Dicevano: si riscatterà da allenatore. Balle: il destino l’ha dribblato. Allenatore, sì. Per il nome, per la fama, per comodità. Kashima Antlers, Nazionale giapponese, Fenerbahce, Bunyodkor, Cska Mosca, Olympiakos, ora l’Iraq: qualcosa alla Milutinovic, più che alla Zico, da girovago nobile, più che da talento puro invecchiato. Da uno così, con la classe che aveva, con i numeri che faceva potevi aspettarti di più. Dovevi. Il fallimento della generazione d’oro coinvolge anche lui. E gli altri. Torni a quell’Italia-Brasile 3-2. Riavvolgi il nastro, guardi e ascolti. Proprio Zico che parla: “Purtroppo nel calcio vince anche la squadra peggiore. Il 3-2 dell’Italia è una brutta sconfitta per noi, ma siamo contenti di aver mostrato un bel calcio”. Bene, ok. Poi quei peggiori vinsero il Mundial, si trascinarono un paese intero, il nostro. Trent’anni dopo quella Nazionale è ancora l’unica degna di essere ricordata. Non si capisce il perché, eppure è così. Abbiamo vinto un altro Mondiale, quello del 2006, ma l’opinione comune, la critica, la massa, tutti insomma, considerano la Coppa del mondo di Spagna ’82 un’altra cosa. Migliore. Tesi bizzarra, ma molto in voga. Tesi da costante nostalgia pallonara che fa rabbrividire perché dimostra soltanto una cosa: che l’opinione collettiva si forma per convenzione, più che per convinzione. Perché ci si identifica con l’epoca, quindi. Perché, in sostanza, oggi il nostro paese è guidato da chi quel Mondiale l’ha vissuto nell’era della gioventù, cioè la più bella, la più sognante: il ricordo piacevole della prima notte d’amore coincidente con la vittoria sull’Argentina; la notte prima degli esami che è anche quella di Italia-Germania 3-1 e dei campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo. Come a dire: la nostalgia di se stessi modifica il sentimento popolare. Siamo così, in fondo: egoisti ed egocentrici al punto da piegare il giudizio su un evento al nostro ricordo personale. Così è in un paese dove Zoff-Bergomi-Cabrini-Gentile-Collovati-Scirea-Conti-Tardelli-Rossi-Oriali-Graziani è una filastrocca che culla i sonni di quaranta-cinquantenni che non ritengono possibile che il calcio abbia superato l’82. E invece anche loro sono tutti parte, tranne Zoff, di una foto che è invecchiata male. Ha perso colore e forse anche senso. Provate a trovare uno di questi che sia stato un campione dopo: nella vita post campo, nessuno di loro, è stato numero uno come lo fu al Santiago Bernabéu la notte dell’11 luglio di trent’anni fa. La retorica non si accorge che guardare sempre indietro ha trasformato quella generazione in un gruppo di eroi sbiaditi: è come se quei campioni abbiano vissuto nella costante riproposizione delle immagini che li vedono protagonisti. Gentile e Cabrini hanno tentato la carriera da allenatori: non è andata. Il primo ha avuto buoni risultati con la Nazionale Under 21 e poi? Nulla. Il secondo neanche quello. Lo stesso discorso vale per Tardelli: ma come? L’immagine simbolo di quel decennio d’oro, l’uomo dell’urlo più bello dell’intera storia del calcio, non ha avuto una carriera post calciatore all’altezza di quel ricordo. Anche lui è stato un ottimo allenatore dell’Under 21 e poi basta. Oggi fa il secondo di Trapattoni nella Nazionale irlandese. Anche Conti, anche Altobelli, anche Graziani, anche Antognoni: un intero gruppo di lusso rimasto vittima di un ricordo. Bello, ma sempre ricordo. Vale anche per Paolo Rossi: commentatore televisivo, sì. Nell’ultimo periodo è tornato personaggio, protagonista, noto, forse anche felice. Ma Pablito avrebbe dovuto essere ancora di più. Forse li avremmo dovuti lasciare un po’ in pace. Invece no. Il vizio della nostalgia è sempre là in agguato. Alimentato sempre e comunque dall’opinione collettiva dominante che appartiene alla generazione che festeggiò nel 1982 e che quindi continua a pensare al passato cancellando il futuro. Il bello è che il futuro cancellato è stato quello dei personaggi e dei protagonisti. Brasiliani, italiani e poi gli altri: Ruud Krol era un grande. L’erede di Cruyff non come ruolo, ma come spessore, come carisma, come stile. Una figurina d’oro degli anni Ottanta: oggi allena gli Orlando Pirates, in Sudafrica. Idem Zibì Boniek: con i campi smise nel 1988, a 32 anni. A 34 era già allenatore: Lecce. Lo prese il presidente Franco Jurlano per farlo cominciare dall’alto. Dalla serie A. Cominciò bene e finì male, con una retrocessione. Nel periodo in Salento ci fu anche un episodio curioso. Era la settimana santa e la società pugliese ogni Pasqua riuniva i giocatori in chiesa per una messa e per la benedizione. Quell’anno un calciatore si rifiutò di partecipare alla celebrazione. Era Pietro Paolo Virdis: Boniek lo punì, scoppiarono le polemiche, fu tirata fuori la sua fede. La società appoggiò l’allenatore, ma le cose non andarono bene ugualmente. In panchina, Zbigniew non ha mai avuto fortuna: dopo Lecce, Bari, Sambenedettese, Avellino. Ha collezionato più sconfitte che vittorie, ha messo in fila due retrocessioni e una promozione, ha subito due esoneri. Una volta, invece, non ha neppure cominciato. Forse senza saperlo nemmeno, Boniek è stato l’allenatore rimasto meno tempo in un club: cinque ore. Arrivò a Pisa per guidare la squadra del presidente Romeo Anconetani. C’era l’accordo, c’era l’entusiasmo, c’erano i presupposti per cominciare un progetto. Invece no. La società diramò un comunicato: Zbigniew Boniek non era già più l’allenatore del Pisa, prima che avesse avuto il tempo di cominciare. “Il presidente mi vietò di scegliere i miei collaboratori, così ruppi tutto e tornai in albergo. I dirigenti bussarono tutta la notte alla mia porta per convincermi a restare. Non aprii. Niente panchina, tornai a rilassarmi tra i cavalli”. Poi arrivò la televisione: prima spalla del telecronista a Telemontecarlo per le partite internazionali, poi opinionista alla “Domenica sportiva”. Lì è tornato a far correre la lingua, come faceva in campo. Spesso ha colpito nel segno, ogni tanto ha fatto male. E’ rimasto come quando giocava insieme a Lato in nazionale e ne combinava di tutti i colori, oppure come quando faceva fare sempre bella figura a Platini. Il francese lo lanciava e lui andava a prendersi il pallone anche quando sembrava che finisse fuori. Poi dribbling, cross, gol. Di Michel, ovviamente. L’unico che s’è salvato. L’unico che è invecchiato d’aspetto, non di testa, l’unico che s’è salvato da se stesso. E dagli altri.
  10. Vallanzasca e il rapimento dei Tulipani di SEBASTIANO VERNAZZA dalla rubrica NON CI POSSO CREDERE! (SW SPORTWEEK 24-03-2012) Di recente in pay tv, su Sky Cinema, è passato Vallanzasca - Gli angeli del male, film di Michele Placido con Kim Rossi Stuart nelle vesti di Renato Vallanzasca, criminale di culto degli anni 70. Rapinatore, omicida, ergastolano. Il film si basa su Il fiore del male, autobiografia scritta dal bandito assieme al giornalista Carlo Bonini. Nella versione cinematografica di Placido manca il capitolo 21 del libro, quello dedicato a Gullit e Van Basten. Sì, perchè nel lontano 1987 – durante la "vacanza" successiva all’evasione dalla nave che doveva portarlo in un carcere sardo – Vallanzasca, milanese e milanista, progettava di rapire Gullit e Van Basten. L’aveva chiamata Operazione Tulipano. «Pensavo che Milano 3, dove i due avevano inizialmente trovato casa, fosse il luogo ideale. Per tenersi in forma, la mattina presto andavano a fare footing. Avrei dovuto soltanto indossare una tuta da ginnastica e al posto del walkman… un mitra». Non solo soldi: «Mi è capitato di chiedermi se sarei stato in grado di cambiare il corso del campionato. E il fatto di essere miei ostaggi avrebbe spinto Marco e Ruud a svelare qualche altarino nascosto del grande calcio? Di quelli a cui il procuratore Guariniello non potrà mai arrivare?». E qui siamo al paradosso e/o all’ironia spinta: Vallanzasca voleva rapire Gullit e Van Basten per i miliardi del riscatto e per dare una mano alla magistratura. Ma dài, Renato.
  11. RIPARTENZE di LUIGI GARLANDO (SW SPORTWEEK 24-03-2012) LA VIA CRUCIS NERAZZURRA CLAUDIO RANIERI: Quest’anno è una passione Prima stazione. L’Inter cade a Pechino. Il Milan ha precettato i reduci dalla Coppa America, Moratti ha lasciato i suoi in spiaggia. Galliani ringrazia e alza la Supercoppa. Seconda stazione. Lucio prolunga fino al 2014. Metà agosto: all’età di Cristo, 33 anni, il difensore firma per altre tre stagioni. Fino al 2014 arriverà anche Cambiasso, che all’epoca avrà 34anni. Dopo il Triplete avevano prolungato anche Stankovic e Zanetti, che giocherà fino a 40 anni (2013). Servirebbe rinnovare, ma non i contratti. Terza stazione. Arrivano Forlan e Zarate. All’ultimo giorno di mercato. Gasperini aveva chiesto altro, attaccanti esterni: Palacio e Lavezzi. Aveva chiesto anche di trattenere Eto’o e di lasciar partire Sneijder. L’Inter trattiene Sneijder e fa partire Eto’o. Sincronizzarsi no? Quarta stazione. L’Inter cade a Palermo. Moratti spiega che la colpa è della difesa a tre. Lo spogliatoio recepisce: il mister conta come il due di picche. Quinta stazione. L’Inter cade a San Siro col Trabzonspor. E con la difesa a quattro. Sesta stazione. L’Inter cade di nuovo a Novara. Sembra non rialzarsi più. Settima stazione. La croce passa a Ranieri. Il tecnico romano, detto il Cireneo o l’Aggiustatore, si carica sulle spalle il peso del rilancio. Ottava stazione. L’Inter si rialza nel derby. Il Cireneo rimonta il Golgota come il miglior Chiappucci: 7 vittorie di fila. L’Aggiustatore ci sa fare, sembra. Nona stazione. L’Inter viene portata a Roma. Schernita e punita con quattro frustate: Borini, Juan, Borini, Bojan. Una corona di spine sulla testa degli ex re del mondo. Decima stazione. L’Inter cade due volte a San Siro. Davanti a Novara, ultimo in classifica, e Bologna. Per raforzarsi, ha appena lasciato partire un brasiliano di qualità (Thiago Motta), rimpiazzandolo con un infortunato (Guarin) e un giocatore di B (Palombo). Mistero della fede. Undicesima stazione. Cambiasso piange in panchina. Sostituito tra i fischi di San Siro, con il Catania in vantaggio di due gol, il vecchio Cuchu nasconde il volto in una tuta. La sua immagine rimane impressa nel sudario e poi esposta alla Pinetina. Dodicesima stazione. L’Inter cade definitivamente in Champions. Un errore di Lucio,quello che ha prolungato fino al 2014, in coda al match col Marsiglia, costa la dolorosa eliminazione dagli ottavi di Coppa Campioni. Tredicesima stazione. Moratti li manda tutti a quel paese. Alla fine del primo tempo di Inter-Atalanta 0-0, una zoomata sulle labbra del Pres mostra un bel “vafa”. E non ce l’ha con l’arbitro. Quattordicesima stazione. L’amaro calice di Torino. L’Inter si presenterà in casa della Juve, acerrima nemica di campo e tribunali, con 15 punti in meno. La Pasqua di resurrezione dell’Inter quest’anno cade alta. Molto alta.
  12. Tuttosport 24-03-2012 Repubblica SERA 23-03-2012 GaSport 24-03-2012
  13. CALCIOPOLI La pace impossibile e i tribunali Lo scudetto 2006 dividerà sempre di GUIDO VACIAGO (Tuttosport 24-03-2012) TORINO. Senza quella decisione, improvvida e - soprattutto - non necessaria, di riassegnare lo scudetto 2005-06 all’Inter, forse oggi le cose sarebbe un po’ più semplici. Perché l’esasperazione dell’antica rivalità nasce da lì, dall’euforia estiva di Guido Rossi, che il 26 luglio del 2006 con un semplice comunicato stampa emesso in serata (e nessun atto ufficiale) cucì sulle maglie dell’Inter lo scudetto strappato da quelle della Juventus, appena condannata dalla giustizia sportiva. Non c’era fretta e - come gli dissero gli stessi saggi a cui si era rivolto l’ex consigliere d’amministrazione nerazzurro all’epoca commissario federale - non c’era nessuno bisogno di attribuire quel titolo. Lo decise d’imperio, Rossi, innescando una faida tifosa che virtualmente non finirà mai. Perché sei anni dopo sappiamo molte più cose. Per esempio che anche l’Inter - l’ha scritto il procuratore federale Palazzi - si era macchiata di qualche violazione e, addirittura, di quell’articolo 6 (illecito sportivo) che per la Juventus era stato ottenuto sommando una serie di articoli uno. Sappiamo, insomma, che al di là di quanto gravi o illecite fossero le condotte dei dirigenti nerazzurri non si poteva considerare l’Inter “illibata”: condizione imprescindibile (lo scrivevano i saggi a Rossi) per l’assegnazione dello scudetto. La Juventus rivorrebbe quello scudetto o, per lo meno, vorrebbe che non restasse nella bacheca dell’Inter che non ha nessuna intenzione di restituirlo. Stando così le cose i bianconeri saranno sempre arrabbiati. E se un tribunale o un presidente federale dovesse decidere di intervenire, ribaltando la situazione, gli arrabbiati diventerebbero gli interisti. Una via d’uscita che accontenti tutti non esiste. O meglio, non esiste più, l’ha distrutta Guido Rossi nell’estate del 2006. ------- E ora la Corte d’appello I legali Juve puntano a una decisione sul titolo dei giudici ordinari di GUIDO VACIAGO (Tuttosport 24-03-2012) TORINO. Dopo che il Tnas, ultimo passaggio della giustizia sportiva, se n’è lavato le mani con un’altra dichiarazione di incompetenza (dopo che incompetente si era dichiarato il Consiglio Federale della Figc il 19 luglio 2011), la Juventus ha portato la battaglia per il titolo 2006 in sede di Giustizia ordinaria. E se il ricorso al Tar è sicuramente quello più eclatante, con i suoi 444 milioni di danni richiesti alla Figc per i danni provocati da Calciopoli e i suoi derivati alla Juventus, il prossimo passaggio specifico sullo scudetto 2006 potrebbe viversi in sede di Corte d’Appello. DOPPIA PISTA Perché il ricorso costruito dall’avvocato Michele Briamonte, parte proprio dalla dichiarazione di incompetenza del Tnas e permette - in linea toerica - alla Corte d’Appello di Roma di entrare nel merito della vicenda e arrivare ad annullare l’assegnazione dello scudetto all’Inter. La CdA è una via parallela al Tar. Rischia di vedersi demolito il lodo: tre, infatti, sono le ragioni per le quali la Juventus chiede l’annullamento del lodo del Tnas (nella parte rescindente delle 92 pagine di documento). Il lodo è nullo perché non si è pronunciato nel merito quando doveva pronunciarsi, perché è stato violato il diritto alla difesa della stessa Juventus, perché è chiaramente contraddittorio quando afferma che il diritto (in questo caso lo scudetto 2006) è disponibile per la Juve e non è disponibile per la Figc. Tutte ragioni buone, per i legali della Juventus, per annullare quel lodo. A quel punto (e passiamo alla cosiddetta parte rescissoria), la Corte potrebbe anche decidere se, effettivamente, lo scudetto del 2006 era da revocare sulla base della relazione Palazzi (quella che riconosce all’Inter e ai suoi dirigenti la violazione dell’ex articolo 6, ovvero di illecito sportivo, ma salva i nerazzurri con la prescrizione).
  14. la storia di DAVIDE COPPO (il Giornale 24-03-2012) Un fenomeno paradossale nella ricca Germania Berlino sull’orlo della serie B è l’ultima capitale del pallone La città che attira più investimenti nel continente non riesce ad evitare la retrocessione dell’Hertha Nel 2010, alla vigilia della sua ultima retrocessione, il quotidiano Der Tagesspiegel pubblicò un articolo in cui sentenziava 'Se l'Hertha retrocederà, tutta Berlino si sentirà a sua volta retrocessa, ancor più incompiuta, sporca, povera di prima'. Nella versione online dello stesso articolo, però, era significativa la presenza di un commento. Diceva: «L'Hertha BSC non è Berlino. E Berlino è molto più del solo Hertha». Ecco, appunto. Facciamo un rapido flash forward: la squadra della capitale tedesca poi effettivamente retrocederà, per tornare in Bundesliga l'anno successivo (la stagione in corso). Markus Babbel, storico ex di Bayern e Liverpool, verrà esonerato nonostante i discreti risultati, e l'Hertha si troverà ancora in zona retrocessione, come un Cesena o un Lecce qualsiasi. Oggi l'infezione si è fatta cancrena, e la Zweite Liga è lì, a un passo. Berlino penultima in classifica, male come nessun’altra capitale d’Europa. E allora torna, sibillino e cassandrino, il commento di quell'anonimo lettore di quasi due anni fa: Berlino è molto più dell'Hertha. Sì, è vero, ed è per questo che rimane un affascinante mistero l'imbarazzante pochezza della sua squadra. Berlino è, per dire, la città che ha attirato, nel primo trimestre dell'anno appena trascorso, qualcosa come 140 milioni di euro di investimenti in start-up, o ancora il secondo luogo al mondo in cui nascono più start-up ogni anno (al primo posto c'è quell'eldorado chiamato Silicon Valley). Così la Germania - la stessa Germania che fa la voce grossa in Europa, su tutto e con tutti - si ritrova con una capitale senza una degna rappresentazione calcistica. E dire che anche gli snobissimi parigini si sono svegliati, mettendo in piedi un progetto di marketing e sport che nei prossimi anni potrà verosimilmente portare alla creazione di un dream team. Settanta milioni di investimento iniziale nel PSG (acquisendone il 70% ed estinguendo tutti i debiti) e un piano di conquista economica della Ligue 1 che passa per Al Jazeera (che ha acquistato i diritti di trasmissione di tutte le partite su territorio francese fino al 2016), e il Qatar ha messo le mani sulla Francia. A Roma sono invece sbarcati «gli americani», con un po' di soldi in meno ma con l'entusiasmo di Tom DiBenedetto, la competenza di Sabatini e le promesse revoluciònarie di Luis Enrique. Un progetto che un po' funziona e un po' no, ma intanto affascina. Poi c'è Madrid, finalmente prima in Liga e in odore di titolo dopo anni di dominio catalano. E Londra, beh Londra alla fine è sempre lì, con il Chelsea redivivo grazie all'insospettabile Di Matteo, che punta dritto alla semifinale di Champions. Insomma, fanalino di coda dell'Europa è la Germania, troppo impegnata a 'salvare' il continente per occuparsi di passatempi così volgari come quelli pallonari. E l'Hertha sprofonda nonostante 'mr Bundesliga' Otto Rehhagel. La nostra umile vendetta ce la costruiamo in un rettangolo verde di 110 metri per 75.
  15. FAVORI AL REAL Mou «graziato» Per la Spagna è uno scandalo art.non firmato (il Giornale 24-03-2012) Torna incandescente l’atmosfera in Spagna attorno al Real Madrid di Josè Mourinho, dopo la raffica di espulsioni di mercoledì, con gestacci e insulti, che ha visto protagonisti i merengue nel brutto pareggio con il Villareal. Il tecnico portoghese ha decretato il silenzio stampa della squadra, cancellando il consueto incontro con i giornalisti della vigilia della partita di Liga contro la Real Sociedad, mentre hanno suscitato violente polemiche le sentenze ultraleggere della Commissione disciplinare per gli espulsi di mercoledi, definite «uno scandalo! » dalla stampa catalana vicina al Barcellona. Mourinho, espulso per proteste, è stato punito con una giornata di squalifica, il preparatore atletico Rui Faria, alla quarta espulsione dall’inizio della stagione, con due, Ozïl, rosso sempre per proteste, con una. Pepe, che ha aggredito verbalmente l’arbitro Romero gridando «hijo de puta» (figlio di pũttana) sarà fuori solo per due partite. Sergio Ramos, espulso per doppio giallo, è stato amnistiato. Uno dei due cartellini è stato annullato per un non meglio precisato «vizio di forma». Cristiano Ronaldo, che davanti alle tv ha detto «è un furto», non è stato citato. Lo stesso Mou, che la tv Cuatro ha registrato mentre gridava anche lui «hijo de puta» all’arbitro, non è stato punito per l’insulto. «È uno scandalo!» strilla l’edizione online di Sport . Identico il titolo di Mundo Deportivo . La stampa catalana da mesi denuncia i «favori» di arbitri e Federazione al Real. Persino il 79% dei lettori di Marca e di As , i due giornali vicini al club blanco, hanno definito inadeguate le sanzioni. Dai giornali spagnoli continua la pioggia di critiche a Mourinho. Marca scrive che «i giocatori e la panchina sono troppo alterati». El Pais parla di «Ira da frustrazione», dopo che in tre giorni il club madridista ha visto passare da 10 a 6 punti il vantaggio sul Barcellona, per La Vanguardia «Il Madrid perde gas e infanga la sua immagine » e Mundo Deportivo titola «Panico blanco» e parla di «Mourinho alle corde: se non vince la Liga- sostiene- il portoghese se ne andrà o sarà defenestrato». ___ Marca la differenza di SANTIAGO SEGUROLA (GaSport 24-03-2012) IL MALE DI MOU CONTAGIA IL REAL NON SA CONVIVERE CON LA SCONFITTA Non c'è niente che ponga rimedio all'infantile intolleranza di Mourinho alle avversità, situazione che di solito descrive la fibra morale della gente di sport. Il pareggio a Villarreal ha prodotto le stesse immagini che fanno il giro del mondo ogni volta che il Madrid non ottiene la vittoria. Mourinho, il suo aiutante Rui Faria, Sergio Ramos e Ozil sono stati espulsi nel mezzo di un inspiegabile clima di isteria. Cristiano Ronaldo ha accusato l'arbitro di aver rubato la partita al Real. Mentre si dirigevano verso gli spogliatoi, Pepe ha dato del figlio di pũttana all'arbitro e lo ha accusato di essere un rapinatore, secondo quanto afferma il referto. Questo tsunami di disperazione è dovuto al gol di Senna, quando mancavano nove minuti alla fine. Mourinho possiede un senso patrimoniale del calcio. Ritiene che può succedere solo ciò che lui desidera che succeda. Ignoro il nome con cui si definisce questo tipo di personalità in termini psicologici, però si avvicina a quello dei ragazzini viziati che ottengono sempre quello che vogliono e non accettano mai un no. Mourinho appartiene alla singolare razza di quelli che non perdono mai. La sconfitta deriva dalle cospirazioni degli altri. È un modo patetico di affrontare la sua professione, che però gli rende benefici. Questo tipo di personalità genera adesioni incrollabili perché offre ai suoi il comodo rifugio dell'alibi. Il Real Madrid, che è sempre stato un club austero, castigliano, con una riconosciuta capacità di interiorizzare le sconfitte e non cercare scuse demagogiche, durante l'ultimo anno e mezzo è diventato protagonista di alcuni degli episodi più sgradevoli del calcio contemporaneo. È stata rara la sconfitta che non si è poi tradotta in un comportamento intempestivo o violento. Ancora oggi pesa il ricordo degli incidenti dell'anno scorso nella Champions, prorogati in questa stagione con l'aggressione a tradimento di Mourinho nei confronti di Tito Vilanova, aiutante di Pep Guardiola, nella finale della Supercopa di Spagna. Ogni sconfitta alimenta una tensione nucleare. I fatti successi a Vila-real rispondono alla linea di comportamento del Madrid dall'arrivo di Mourinho. Il messaggio ufficiale è che l'arbitro ha danneggiato la squadra e evitato la vittoria. Una buona parte dei tifosi ha adottato quest'idea così comoda e confortevole. Nonostante ciò, la realtà pone l'allenatore in una situazione più delicata che in occasioni precedenti. A molti tifosi, inclusi ferventi mourinhisti, non è piaciuta la formazione conservatrice schierata contro il Villarreal. Non convincono neanche le critiche all'arbitro, che non ha fischiato i due rigori di Arbeloa nell'area madridista. La partita meritava un'autocritica che Mourinho non ha fatto. Le sue decisioni sono state discutibili e il suo comportamento ha prodotto un effetto devastante sulla squadra. Il Madrid ha trasportato sul gioco il grado di combustione che l'allenatore gli trasmetteva dalla panchina. I giocatori hanno risposto all'avversità del pareggio come ha fatto Mourinho, senza capire che gli rimanevano ancora 10 minuti di gioco, davanti a un rivale debole ed estenuato. Però le cose sono così con quest'uomo incapace di convivere con la sconfitta.
  16. Juve-Inter ad alto spread È «derby d’Italia» anche per i debiti: i due terzi della A Le due squadre nell’ultima stagione hanno accumulato 182,2 milioni di «rosso». Un problema di tutte le grandi di FILIPPO GRASSIA (il Giornale 24-03-2012) È il derby d’Italia non solo perché così lo battezzò Gianni Brera buonanima, ma anche per i debiti che si portano appresso Juventus e Inter con gestioni in rosso fisso, caratterizzate da uscite platealmente superiori alle entrate. Alla faccia non solo del fair-play finanziario, ma anche di una corretta amministrazione. I dati sono drammatici. La società bianconera ha chiuso l’ultimo esercizio finanziario con una perditadi 95, 4 milioni, quella nerazzurra s’è fermata a 86,8: in totale fanno 182,2 milioni, i due/terzi di tutta la Serie A che nello stesso periodo ha accumulato un deficit di 284, 7 milioni. L’altro terzo, per la cronaca, è legato quasi interamente alle perdite di Milan e Roma. Come a dire che le grandi, nonostante i fatturati di maggiore entità, sono quasi fisiologicamente costrette a indebitarsi per rincorrere scudetti, coppe e scoperti in banca. E’ il gatto che si morde la coda. La Juventus è in fase di rilancio, ha raggiunto la finale di Coppa Italia e si trova sulla scia del Milan in campionato, con 2-3 ritocchi può rientrare fra le migliori 8 squadre d’Europa. Ma la finanza resta allegra. Gli azionisti hanno dato fondo a ogni risorsa per coprire le perdite con l'uso totale delle riserve del patrimonio netto (70, 3 milioni), l'azzeramento del capitale sociale (20,2 milioni) e il parziale utilizzo della riserva sovrapprezzo azioni (4,9 milioni). La Exor, che possiede il 60% delle azioni bianconere, ha sborsato oltre 80 milioni, di cui 9 in conto alla ex finanziaria di Gheddafi, per garantire la continuità aziendale. E i tifosi-azionisti non sono stati da meno dimostrando un attaccamento tangibile alla causa. Ma non è finita. A breve la Exor sarà chiamata a sottoscrivere un nuovo aumento di capitale per pareggiare le perdite che, nell’ultima semestrale, sono state superiori ai 30 milioni. Del genere, impossibile andare avanti così. Da questo momento il management dovrà lavorare sodo per evitare errori in fase di mercato e arrivare a quell’autofinanziamento che rappresentava il valore aggiunto del ciclo legato a Giraudo e Moggi. Sotto la loro guida la Juventus ha ripianato un passivo di 74 miliardi di lire e non ha mai fatto ricorso al mecenatismo dei fratelli Agnelli. Nell’Inter la situazione è diversa. Tocca a Massimo Moratti, e a lui solo, mettere mani al portafogli per ripianare il bilancio in caduta libera. E la cosa non è di poco conto tenuto conto dei 1. 150 milioni sborsati nel corso della ultradecennale presidenza e dei problemi contingenti della Saras, la raffineria di famiglia che non riesce più a produrre utili, anzi è in perdita secca da alcuni trimestri. Se a questo aggiungete che la squadra è in gran parte da rifare ed è fuori dalla Champions League, vi renderete conto di come siano nebulose le prospettive della Beneamata. I tifosi invocano acquisti a iosa. Ma forse non sanno, o fanno finta di ignorare, che dal 1995 al 2006 la società nerazzurra ha accusato perdite per 661 milioni e che la situazione è peggiorata nel periodo successivo con quasi 500 milioni di rosso. Le cessioni di Eto’o e Thiago Motta, tanto per rifarci agli ultimi addii più illustri e chiacchierati, hanno prodotto importanti plusvalenze, ma sono riuscite solo a tamponare uno scoperto che si preannuncia a fine stagione sugli 80 milioni. Per la società elvetica Swiss Ramble sarà di 88 milioni. Ecco perché Moratti, sostenuto da Tronchetti Provera, è alla ricerca di partner che intervengano non solo nello sponsoring ma anche nell’azionariato. Lo spread, tanto per usare in senso lato un termine di moda in campo economico-politico, è forte su entrambi i versanti. Ma la Juventus vanta prospettive molto più rosee dell’Inter per tre motivi fondamentali: la squadra in via di ricostruzione, la qualificazione in Champions League e il nuovo stadio. In soldoni un vantaggio di almeno 250 milioni.
  17. Fair play del calcio, aria di presa in giro di MARIO SCONCERTI dal blog Lo sconcerto quotidiano (Corriere.it 23-03-2012) E’ molto interessante l’atteggiamento di società e media sul fair play finanziario, cioè sul nuovo meccanismo del calcio per cui si potrà spendere solo quello che si incassa, quindi fine del mecenatismo, fine della possibilità di un presidente di mettere i soldi che vuole nella squadra. Credo anch’io sia una bellissima novità, ma se è giusto il fair play adesso, non si può dimenticare che questa novità cristallizza cinquant’anni di risultati del mecenatismo. In sostanza, prima abbiamo affermato gerarchie definitive nel calcio attraverso i finanziamenti dei presidenti, abbiamo costruito santi, leggende e scudetti, poi si dice che era tutto sbagliato, insopportabile. Ma nel frattempo le gerarchie sono in essere, i fatturati anche, i privilegi idem (per esempio i diritti tv). Moratti ha ripianato deficit di gestione per quasi un miliardo e mezzo. E’ un predidente emerito o un fuorilegge? La Juve deve ripianare un deficit di cinquanta milioni a semestre. Investe o dilapida? Il calcio italiano perde 250 milioni l’anno di cui l’88.8 per cento è un debito di Inter-Milan-Juve. Otto squadre guadagnano, due sono pari, altre sei alternano come tutti. Il debito è di chi vince. Ora Platini ci dice che non è giusto, ma non toglie nulla ai “colpevoli” e non dà niente a chi è stato battuto per cinquant’anni dalle squadre fatte con i condannatissimi debiti degli altri. C’è aria di finto socialismo, un vecchio sapore di presa in giro. Vorrei chiedere a Platini, al segretario Infantino che è alla base del progetto: ci sono conclusioni più serie di quelle che ho appena esposto?
  18. L’ultima sfida di Coppa Italia ricordando le magie contro i bianconeri Noi che possiamo piegare la Juventus di MAURIZIO DE GIOVANNI (IL MATTINO 23-03-2012) Lo so. Dovrei essere gentile e obiettivo. Dovrei ricordarmi di far parte del variegato mondo detto degli intellettuali, essendo uno che racconta storie che vengono lette e pubblicate; e quindi parlare di fenomeno sociale, assumere un’aria vagamente supponente e dichiarare che si tratta pur sempre di effimero, il calcio; che di fronte ai veri e grandi problemi della città concentrare l’attenzione su un evento così è un distogliere lo sguardo dalle cose serie. Dovrei forse scegliere un taglio sorridente e far riferimento alla creatività gioiosa della tifoseria azzurra, agli sfottò e all’umorismo degli striscioni, chi non salta bianconero è. Dovrei minimizzare, ammorbidire, smussare. Ma mentirei, e si capirebbe subito. In realtà qui si tratta di una cosa seria, fondamentale: qui si tratta della prima volta, da quindici anni, che il Napoli si ritrova a concorrere per un trofeo, e anche quella volta ci eravamo arrivati in maniera casuale, senza l’impressione di una vera forza, perdendo contro un Vicenza tutt’altro che irresistibile, e invece stavolta ci si arriva sulle ali di una convinzione, di una solidità sconosciuta da queste parti da almeno un quarto di secolo. E contro chi si gioca, adesso? Chi è che si frappone tra noi e la prima coppa sollevabile da allora? Non saprei rispondere alla domanda che spesso ci facciamo, sul perché, tra tante squadre che nel tempo abbiamo visto sorpassarci e poi vincere davanti, sia proprio questa la rivale d’elezione, la principale avversaria, la prima nemica. Forse perché il nostro è il tifo dei napoletani, in città e nel mondo: la passione di chi vede nella squadra la propria città, nel bene e nel male, coi pregi e i difetti. I “loro” tifosi, invece, sono quelli che salgono volentieri sul carro del vincitore, quelli che vogliono sentirsi primi e forti, senza legami territoriali (a Torino battono soprattutto cuori granata). Forse perché il nostro è un tifo popolare e proletario, chiassoso e un po’ volgare, mentre “loro” sono quelli del Palazzo e dei salotti buoni, con il padronato miliardario e l’orologio sul polsino. Forse e semplicemente perché il contrario dell’azzurro è il bianco e il nero. Ogni anno per due volte, e stavolta per tre, noi chiediamo ai ragazzi qualcosa in più. Lo chiediamo perché se si vince, quando si vince, si va a letto col sorriso e il sorriso ci rimane in faccia per tutta la settimana. Lo chiediamo perché è una soddisfazione che non vale certo un campionato, ma insomma un po’ di più di una vittoria qualsiasi certamente. Non succede spesso. Un mare di volte i sogni si sono infranti su questo scoglio. Personalmente sono aiutato da una strana memoria selettiva: non ricordo cuori ingrati e avversari esultanti con la lingua di fuori, francesi con i riccioli o senza capelli che alzano le braccia, ex idoli vincenti con l’odiata maglia, Ferrara, Cannavaro, Quagliarella. La mia mente cancella queste immagini. Ricordo invece la punizione a due, il tocco di Pecci e la magia del Più Grande; il gol di Giordano a Torino; i cinque gol della Supercoppa; il gol di Renica, con cui li eliminammo dalla semifinale di coppa Uefa; la tripletta del Matador; il gol di Datolo, che ha dato un senso al suo passaggio in città. Pezzi di vittorie, momenti di trionfo: ma non una finale, una partita alla fine della quale un capitano, e uno solo, alza il trofeo. Se ci penso oggi, non poteva essere che così. Li troviamo sulla nostra strada, l’ultimo ostacolo prima del trionfo; che trionfo non potrebbe essere, non completamente, se non passasse attraverso la “loro” sconfitta. Lo sapevo, che avrebbero superato il Milan. E lo sapevo, che avremmo battuto il Siena. Lo voleva il destino. Perché se dobbiamo vincere questa coppa, se dobbiamo ricominciare ad alzare trofei, possiamo farlo solo in un modo. Battendo la Juventus.
  19. TEMPO SCADUTO di ALIGI PONTANI (Repubblica.it 23-03-2012) Offese e razzismo urla nel silenzio Eppure non sarebbe difficile: andare davanti a una telecamera, con la disinvoltura ormai acquisita dalla consuetudine, e dire poche parole, magari anche pacate, purché indiscutibilmente chiare: certa gente, noi, non la vogliamo più. Sarebbe stato facile, ad esempio, per Andrea Agnelli, che pure ha dimostrato di conoscere bene la potenza della comunicazione e l'importanza di "metterci la faccia" (e il cognome), festeggiare la magnifica nottata della qualificazione alla finale di Coppa Italia presentandosi alla Rai per dire: sono felice, certo, felicissimi. ma la gente che ha ululato contro Seedorf e gli altri a casa mia non la voglio più vedere, mai più. E saremo noi, la Juventus, il primo club l'Italia, a sbattere fuori i razzisti per sempre, identificandoli, denunciandoli, privandoli dell'usurpato titolo di tifosi. Sarebbe semplice e bello, ad esempio, per Franco Baldini, che ha fatto dell'etica, dei principi e della pulizia le bandiere del progetto Roma, chiedere spazio a uno dei tanti sempre pronti a intervistarlo su Totti e Luis Enrique e dire pubblicamente: la vittoria della Coppa Italia da parte della nostra squadra Primavera è la bussola che ci indica la strada, certo. Ma quelle urla infami su Pessotto che hanno sporcato la freschezza della notte dell'Olimpico sono un cancro che estirperemo con la stessa convinzione con cui difendiamo le nostre idee di rinnovamento. Cose così, chiare. Perché il calcio è bello, stupendo quando lo stadio è pieno come nel caso di Torino o aperto a tutti come nel caso di Roma, quando le partite sono leali, quando sul campo resta solo lo sport, l'emozione, l'entusiasmo. Ma il calcio è orribile quando la sua musica di sottofondo è fatta di vigliaccheria e di intolleranza, troppo facilmente e troppo spesso confuse con la meno pericolosa stupidità. Sarebbe bello che chi ha la responsabilità di club importanti, famosi, amati, seguiti come Juventus e Roma, non continui ad aspettare per sempre che qualcun altro alzi la voce - la federazione, la stampa, i giocatori bersagliati Sarebbe invece ora di far sentire la propria, di voce, che conta. Magari convincendo pure chi ancora di più conta, i campioni, gli allenatori, a dare una mano. Sarebbe bello, sarebbe un sogno, sarebbe una svolta. E cancellerebbe l'amara impressione che sia invece molto più comodo tacere, lasciando che continuino le urla nel silenzio.
  20. Piace la Primavera nei grandi stadi. E se giocasse sempre prima dei match di serie A? di FABRIZIO BOCCA dal blog Bloooog! (Repubblica.it 22-03-2012) Interessante la finale di Coppa Italia Primavera vinta dalla Roma: sarà stato per il nome delle squadre – Roma e Juventus – sarà perché i club molto intelligentemente hanno aperto gratuitamente i loro grandi stadi per far affluire il pubblico allo Juventus Stadium prima (vittoria della Roma per 2-1) e all’Olimpico poi (uno 0-0 invero poco entusuiasmante e festa finale dei giallorossi), sarà perché in qualche maniera si è creato l’evento, come si dice oggi. Ma insomma, bello, divertente, con due squadre fatte di nomi sconosciuti al grande pubblico ma che comunque hanno saputo sollevare l’interesse delle persone. Soprattutto con tanta, tantissima gente, giovani, famiglie con bambini. Si è colta intelligentemente l’occasione per avvicinare le persone al calcio giovanile. Anche se dalla parte dei soliti tifosi ultras, che hanno portato sul campo usi e costumi della domenica, non è mancato il solito atto di inciviltà con i cori contro Pessotto, motivo per cui chiedo da tempo che i settori da dove provengono nefandezze simili vengano chiusi per un determinato periodo. Non si sono accorti che l’anomalia rispetto al resto dello stadio (più di ventimila persone addirittura) erano loro e oltre indignazione hanno suscitato sinceramente pena, come se fossero un disco rotto che ripete sempre la stessa cosa. Vediamo se la Roma – società nuova e con una mentalità aperta e fuori dell’ordinario – farà qualcosa che altri finora non hanno fatto. Il campionato Primavera dovrebbe essere l’ultimo gradino per il grande salto verso la serie A. In realtà è un campionato che molti esperti hanno criticato per vari motivi: perché il grande salto non c’è mai; perché spesso il campionato diventa l’unico mezzo per impiegare giocatori giovani ma ormai adulti e anche sotto contratto; perché l’uso eccessivo dei fuori quota (normalmente quest’anno i giocatori impiegabili devono essere nati entro il 1° gennaio ’92, ma c’è la possibilità di un fuori quota senza limiti di età e fino a quattro fuori quota nati entro il 1° gennaio ‘91) spesso snaturalizza le squadre, con dei 22enni che ancora non sono arrivati da nessuna parte. Si è detto spesso che per fare crescere veramente i giovani, oltre al campionato Primavera o anche in sostituzione di esso, sarebbero molto meglio delle squadre giovanili dei vari club da impiegare in serie B o C e dunque in campionati veri. Alberto De Rossi, allenatore della Roma e uno dei migliori tecnici italiani di calcio giovanile, ha detto testualmente: “La differenza tra il campionato Primavera e quello di serie A è enorme”. Ma questo fa parte di un discorso lungo e complesso che abbiamo fatto tante volte sulla crescita dei giovani calciatori, troppo snobbati dalle squadre di serie A. Sia pure con notevoli eccezioni: vedi appunto la Roma di Lamela, Borini etc. Personalmente trarrei molti insegnamenti dal successo della doppia finale di Coppa Italia. Cercherei cioè di continuare a tenere in contatto il grande pubblico col calcio giovanile. In molte occasioni, ad esempio, la partita di campionato o Coppa Primavera potrebbe essere il sottoclou (nel linguaggio della boxe) o la partita d’appoggio (nel linguaggio della musica rock, dove il grande gruppo viene preceduto da altri) alla partita principale di serie A. Se solo avessimo degli stadi e dei campi adeguati – in grado cioè di resistere a 180’ di calcio consecutivo – sarebbe la maniera migliore per rendere ancora più piena e festosa la giornata del tifoso allo stadio. Avvicinandolo al calcio giovanile, offrendogli uno spettacolo supplementare di qualità, con squadre che lo coinvolgono emotivamente e distraendolo da altre attività che poco hanno a che fare con lo sport. Basterebbe un po’ di voglia di fare e un po’ di iniziativa.
  21. Il corriere dell'accusa di GIUSEPPE ROMBOLÀ (JUVENTINOVERO.COM Venerdì 23 Marzo 2012 01:59) ___ CALCIOPOLI Sorteggi truccati? No, vedere per credere Sul sito del Corriere della Sera il video “sparito” al processo in cui si vede che a estrarre la sfera è un giornalista e non Bergamo come invece sostenuto di ALVARO MORETTI (Tuttosport 23-03-2012) NAPOLI. A qualcosa le inchieste giornalistiche servono: avevamo parlato di video sparito sul sorteggio di Calciopoli, ebbene quel video (o parte di esso) ieri è ricomparso. Non nel fascicolo processuale, stando a quanto scrive la IX sezione del tribunale, ma sul sito del Corsera. Sempre pieno di sorprese il vaso di Pandora di Calciopoli. A sorprendere, stavolta, più che le 92 pagine vergate dal pm Stefano Capuano per ribadire e inasprire le accuse, per controbattere alle bacchettate ricevute sul sorteggio truccato dalla Corte, è il fatto che il video sparito, sì proprio quello di cui ci interessammo il 21 febbraio scorso con una pagina di denuncia, è nella disponibilità (almeno per una parte mostrata sul sito) di Corriere.it, il portale del Corriere della Sera che in un servizio messo in rete ieri pomeriggio ne mostra uno stralcio. Lo fa unitamente ad alcuni stralci delle 92 pagine scritte dal pm in fase di richiesta d’appello per vedere sanzionati più pesantemente Moggi e altri imputati, per vedere condannati altri usciti assolti l’8 novembre. Finalmente riecco il video che la Casoria e le giudici a latere avrebbero dovuto vedere su input di Capuano («guardate il video») ma che era stato asportato dal fascicolo processuale in data 29 luglio 2009, proprio dalla Procura di Napoli («il documento richiesto è in possesso dell’Ufficio di Procura dal giorno 29/7/2009», scrive la Cancelleria della IX sezione). Un video che non è mai stato consegnato al difensore di Dondarini , Paolo Bordoni , che puntava su quello per il suo appello nel rito abbreviato per dimostrare che il sorteggio - come sentenziato dalla Casoria e contestato da Capuano - non era taroccato. E’ proprio questo è quel che dimostra il breve stralcio mostrato da Corriere.it, che il sorteggio era tutt’altro che truccato: Capuano affonda sulle sfere non controllate dalla Corte, ma non rileva quel che il video - in realtà buona parte presente sul nostro sito perché trasmesso da La7 nella docufiction del 2009 “Offside” - mostra: la pallina determinante il sorteggio la estrae il giornalista Riccardo Bianchi , sentito a processo, non il designatore Bergamo . Le palline cadono (una la raccoglie il fotografo tra l’ilarità dell’intera sala), ma prima del sorteggio, non durante come avevamo mostrato nel pubblicare la sequenza alterata dei fotogrammi inserita dal maresciallo Ziino nel servizio di osservazione prodotto a Coverciano. Eppoi Capuano arringò la corte parlando di video muto, e qui si sentono le voci. Non ci sono gli invocati colpi di tosse. Almeno nel video ricomparso e speriamo ora messo a disposizione di tutti. Per la cronaca - ma non per l’appello del pm che non cita la circostanza - Riccardo Bianchi non è «un dipendendente Figc», come scritto dai carabinieri ma un cronista dichiaratosi ignaro di eventuali tarocchi. E vestito non nella divisa federale, come scritto nei rapporti, ma con l’abito buono e la cravatta delle occasioni migliori. In ogni caso le sorprese non mancheranno, la più grossa - temiamo - sarà quella della prescrizione per tutti tranne che per Moggi se sono vere le previsioni che si fanno a Palazzo di giustizia: appello che partirà non prima di fine 2013. ___ CALCIOPOLI IN UN VIDEO IL SORTEGGIO TRUCCATO di LUCA DE CAROLIS (il Fatto Quotidiano 23-03-2012) Le palline dello scandalo, in un video sinora inedito. Le palline sono piccoli bussolotti colorati, a suo tempo adoperati per sorteggiare gli arbitri dagli ex designatori delle giacchette nere di A e B, Bergamo e Pairetto. Il filmato che li riprende, durante uno dei sorteggi a Coverciano, ha rappresentato invece una delle prove principali e più discusse nel processo di Calciopoli, a Napoli. Già, perché secondo l’accusa Bergamo e Pairetto non ruotavano a caso i bussolotti nelle due urne, ma li sceglievano con cura, così da mandare arbitri graditi alla Juventus del presunto burattinaio dello scandalo, l’ex dg bianconero Luciano Moggi, o a club di suoi “alleati”. La prova pesante della truffa sarebbe proprio in quel video, girato dal Reparto operativo dei Carabinieri di Roma, e pubblicato ieri dal Corriere. it. I giudici di primo grado hanno condannato Moggi a 5 anni e 4 mesi di reclusione per associazione a delinquere, sanzionando anche Bergamo (tre anni e otto mesi) e Pairetto (un anno e quattro mesi). Ma quel video non li ha mai convinti, e l’hanno scritto chiaramente nelle motivazioni delle sentenza. La procura però non ci sta, e di quel filmato ha fatto il perno del suo ricorso in appello, in cui chiederà pene più severe. “Invece che banalizzare il colore delle sfere scelte, il Collegio avrebbe potuto controllare la qualità e il colore e la riconoscibilità delle sfere stesse” pungono i pm. Le immagini sono difficili da giudicare. I due designatori estraggono le palline da due buste, poi le scuotono nei vetri, estraendole senza fretta. Tra loro, seduto, un notaio che scrive. Prima della bufera.
  22. «Tifavo per mio zio Vycpalek. Poi però è arrivato chi sapete... » di GIANCARLO FEBBO (CorSport 23-03-2012) PESCARA - Il convegno sull'etica sportiva organizzato dal Panathlon di Avezzano offre l'ennesimo spunto. Da qui si può accedere alla miniera Zeman, il boemo dal linguaggio poco colorito ma tagliente, estremamente efficace. Il moderatore dell'incontro, Antonio Monaco, sa bene dove andare a parare. E Zdenek sta al gioco, argomenta con disinvoltura e affascina gli astanti, come al solito. Dopo una ricca cena con oltre cento invitati Zeman è pronto a spaziare su tutto, ironico, pungente e sincero come al solito. Magari aggiunge un pizzico di strategia mediatica, oppure è proprio un assecondare la sua vocazione, anche a costo di rischiare strappi istituzionali ai quali si sarà giocoforza abituato. Dalla platea il crescendo di domande è tentacolare ma, anche se lo avvolge, non lo frastorna. L'abituale pausa di riflessione, ormai un vezzo, e poi ogni curiosità viene soddisfatta. Al suo fianco il presidente del Pescara, Daniele Sebastiani, se lo gusta mentre disserta di Totti, Moggi (mai nominato), l'Inter. E ancora doping, scommesse, filosofia di gioco e di vita. Un'ora di fuoco di fila di domande e, udite udite, neppure una pausa sigaretta. Zeman e il calcio pulito. Si trova a suo agio nel ruolo di paladino della trasparenza? «Mi viene naturale, esprimo semplicemente i miei convincimenti. Poi, se ho un certo impatto sui media forse è perché loro sanno che ho ragione. Vorrei essere un punto di riferimento per i giovani, anche se preferirei non essere il solo» . Anche da allenatore preferisce i giovani, ma perché è la sua missione valorizzarli o forse i «vecchi» sono troppo impegnativi? «Le mie scelte da tecnico seguono un criterio meritocratico a prescindere dall'età, però è vero che mi viene più facile lavorare con i giovani che posso formare secondo le mie idee, mentre quelli "già fatti" hanno utilizzato in precedenza metodi diversi ed è meno semplice convertirli» . Chi dei suoi tanti allievi è cresciuto meglio? «Il giocatore più importante che ho avuto è stato Totti, un ragazzo semplice che dice sempre quello che pensa. Ha avuto una carriera strepitosa, nonostante due infortuni gravi. Io lo vedevo in attacco sulla sinistra e sono ancora convinto che se avesse continuato in quel ruolo avrebbe potuto giocare fino a 50 anni, Invece lo hanno messo centravanti e lì in mezzo ha preso troppe botte» . E del progetto della nuova Roma con Luis Enrique cosa pensa? «Luis Enrique cerca una strada diversa. Però quello che lui considera innovazione in realtà in Italia risale a tempi antichi. Il suo possesso palla prolungato lo faceva Liedholm» . Perlomeno è un tentativo, il calcio è fase di stanca. Lei, ad esempio, quali regole cambierebbe per renderlo più attraente? «Nessuna, le regole non c'entrano. Così come quello degli stadi da rinnovare è un falso problema. Una volta alla partita si andava in sessantamila, magari in piedi, uno attaccato all'altro, ma nessuno si lamentava. Prima tutti si interessavano, poi tra scommesse, doping e Calciopoli questo sport ha perso credibilità e adesso si vedono gli effetti» . Magari potrebbe avere ragione, come per le “farmacie”. A proposito, come se n'è accorto? «Semplicissimo, perché i giocatori aumentavano tre taglie di vestiti e i portieri dovevano cambiare i guanti perché le mani erano diventate più grandi. Eppure non crescevano così neanche i miei giocatori che ho sempre sottoposto a metodi di allenamento durissimi, E con me non è mai morto nessuno» . Un esempio lo sta fornendo con il Pescara quest'anno. Ma ce la farà a vincere? «Vedremo. Tutti dicono che vince chi prende meno gol, io al contrario sono convinto che vince chi ne fa di più. Distruggere è molto più facile che costruire, ma io mi sento un costruttore» . Una filosofia che sta facendo tornare di moda, va a finire che la chiama l'Inter, come si vocifera. «A dire il vero, Moratti non lo sento dal 1994, quasi venti anni fa, quando mi chiamò ma io, probabilmente sbagliando, gli risposi che ero già impegnato. Lui forse si è offeso e da allora non si è fatto più sentire. Se mi richiamasse ora? Impossibile, non rispondo ai numeri sconosciuti» . Possiamo immaginare che non andrà mai alla Juve. A proposito, perché ha accusato Buffon? «Mi hanno chiesto un parere e l'ho dato. Secondo me contro il Milan lui è stato il primo ad accorgersi che la palla era entrata, altrimenti invece di spingerla fuori l'avrebbe schiacciata a terra. Le bugie non si devono dire, ammettere che era gol non significava tradire i compagni» . E’ risaputa la sua ostilità nei confronti del club bianconero. «Qui c'è da chiarire un equivoco: io non sono anti bianconero, anzi, sono nato juventino. Andavo a fare il tifo sin da piccolo quando l'allenatore era mio zio Vycpalek che ha vinto due scudetti ed è arrivato a una finale di Coppa Campioni. Solo che se poi mettono a capo della Juventus chi non dovrebbero, mi dissocio» . Che reazione ha avuto di fronte alla vicenda che ha coinvolto il suo figlioccio Signori? «Lui è stato un idolo per tutta l'Italia, c'è stato un periodo in cui ogni mamma lo avrebbe voluto come figlio. Poi a fine carriera succedono cose che non dovrebbero succedere. Gli ho parlato e mi ha detto che non c'entra niente, spero sia così» . Parliamo di buoni esempi: cosa direbbe se i suoi giocatori fumassero? «Ah, ma ce ne sono di miei giocatori che fumano, solo che loro pensano che non lo sappia. E' vero che io fumo parecchio, ma posso lo stesso consigliare agli atleti di non farlo finché sono in attività» .
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