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Ghost Dog

Tifoso Juventus
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  1. Il pallone di Luciano Quelle strane designazioni che alimentano i sospetti di LUCIANO MOGGI (Libero 17-03-2012) Senza voler esagerare è fuor di dubbio che la designazione di Bergonzi per Fiorentina-Juve è quanto meno inopportuna. Significa che dalle parti del designatore si usano i paraocchi. E se per carità di patria escludiamo una provocazione, dobbiamo propendere per una possibile disattenzione con Braschi che ne esce male, perché il primo a essere messo a disagio sarà proprio Bergonzi: se sbagliando favorirà la Fiorentina, reclameranno gli juventini, al contrario, se sbagliando favorirà la Juventus, saranno i tifosi gigliati a dire che è stato mandato per far pace con la Juve. Non si può scegliere per una partita già carica di tensione, l’arbitro che a Bologna faceva il quarto uomo e che ha fatto espellere Conte. Ma c’è anche di più, uno degli assistenti designati è il sig. Stefani, il cognome magari non dirà niente, resta però il fatto che il soggetto, durante Calciopoli, fu raccomandato a più riprese al designatore, dal sig. Meani, dirigente addetto agli arbitri del Milan, non vorrà dire niente, insomma. . . Scelta dunque sbagliata che sta a significare come ci siano persone specializzate nel crearsi grane. En passant, anche gli assistenti sono gli stessi di Bologna e Bergonzi è quello che il 27 ottobre 2007 diede due rigori fasulli a favore del Napoli che costarono la sconfitta alla Juve (3-1). Un bel calderone tenuto acceso da dirigenti arbitrali non all’altezza. L’augurio che possiamo fare al calcio è che non accada nulla in uno stadio infuocato come quello di Firenze dove i tifosi fiorentini vedono il bianconero alla stessa stregua dei tori quando vedono il rosso. La Juve, in trasferta a Firenze, ritenta di recuperare punti dopo la delusione di Genova che ha visto salire a + 4 il vantaggio dei rossoneri. In trasferta anche il Milan in quel di Parma. I ducali appaiono alla portata dei rossoneri più della Fiorentina per i bianconeri. I tifosi viola pungolano il brasiliano Amauri a prendersi la rivincita su chi l’aveva messo da parte, di solito è merce che non basta o è superflua, normale che Amauri tenti di farsi bello con la veste dell’ex, tutto da dimostrare se riuscirà nell’intento. La Fiorentina non può perdere, il Lecce è a 7 punti e domani gioca in casa contro un Palermo assai rimaneggiato. Sta peggio dei viola il Parma, assieme al Cagliari quartultima in classifica a pari punti, ne consegue quindi il peso della gara col Milan, una sconfitta sarebbe preoccupante, il valore di un pareggio dipenderebbe dal risultato del Lecce. Giocano per primi i rossoneri alle 18, bene se vincono perché Conte andrebbe in ambasce. È salita d’interesse e d’importanza la lotta per il terzo posto, in lizza Lazio, Napoli e Udinese, Reja con due punti in più sulle altre va a Catania, Mazzarri e Guidolin spareggiano tra di loro. L’Inter fatta fuori dal Marsiglia, non una corazzata, prova a centrare almeno un posto in Europa League, contro l’Atalanta. Scontri con vista fondo, il Cagliari riaffidato a Ficcadenti deve guardarsi dall’assalto del Cesena che ritrova Mutu; il Siena diffida del Novara, dopo il colpo gobbo del richiamato Tesser all’Udinese; ma lo spartiacque è il Lecce: se i salentini, che ritrovano Di Michele, vincono ci sarà agitazione per molti. A Palermo Mutti si deve dare una mossa, Zamparini gli ha dato gli otto giorni, non proprio il massimo per lavorare tranquilli, chi non ha gli squalificati Miccoli, Barreto e Pisano e gli infortunati Bacinovic e Silvestre. Bologna e Chievo sono tranquilli, può uscirne un confronto senza patemi, ricco di gol e bello da vedere. La Roma scenderà in campo lunedì sera contro il Genoa. In forse Totti. Luis Enrique punta ancora alla Champions, distante sette punti. Il Genoa si accontenterebbe di un punto.
  2. NOMINE RINVIATE IL PATRON DELLA LAZIO, SOSPESO DA CONSIGLIERE FEDERALE, VA AL TRIBUNALE DI ROMA Lotito, ricorso contro Coni-Figc La Lega aspetta, la Juve pure... di MATTEO BREGA & MARCO IARIA (GaSport 17-03-2012) Claudio Lotito rilancia la sfida alle istituzioni dello sport e trascina con sé tutta la Lega. O almeno quei 16 club (Cagliari e Lecce contrari, Roma astenuta) che ieri hanno deciso di rinviare di oltre un mese il pacchetto di nomine all’ordine del giorno per aspettare l’esito del ricorso ex articolo 700 presentato dal patron della Lazio e in discussione il 3 aprile presso il Tribunale di Roma. Dopo la bocciatura dell’Alta Corte, Lotito esce dall’alveo della giustizia sportiva con tutti i rischi connessi alla violazione della clausola compromissoria: non ci sta ad accettare la sospensione dalla carica di consigliere federale, suggellata dalle nuove norme etiche del Coni in virtù della condanna in primo grado per Calciopoli. La Lega aveva già incassato qualcosa, vale a dire il reintegro nei rispettivi ruoli societari — compresa la possibilità di partecipare alle assemblee di A— per lo stesso Lotito e per Andrea Della Valle e Sandro Mencucci della Fiorentina. Ma non era evidentemente abbastanza. Peraltro, la Lega avrebbe potuto conservare la stessa rappresentatività all’interno del consiglio della Federcalcio scegliendo un supplente. Niente da fare. Ruolo-chiave Ieri è emerso tutto il carisma di Lotito, abilissimo a stringere un patto di ferro con le big, figlio del compromesso storico sui bacini d’utenza, e a tenere sotto la sua ala un bel po’ di medio- piccole. Non è un caso che ieri né Galliani né Agnelli abbiano preso parola contro la richiesta del presidente laziale. Un silenzio assenso. L’unico a opporsi è stato Massimo Cellino: «Impugnare ogni legge e mettere di mezzo gli avvocatimi sembra una cosa anomala. È una decisione puramente personale di Lotito». Peraltro, quel pacchetto di nomine che prevedeva la vicepresidenza di Lega per De Laurentiis (Napoli), due posti in Consiglio per Fenucci (Roma) e Zarbano (Genoa) e la poltrona di consigliere federale per Campoccia (Udinese), è risultato indigesto a più d’uno, pur essendo stato varato all’unanimità dall’esecutivo. In primis a Lotito, ovviamente, che — in caso di sconfitta dinnanzi al Tribunale — punterebbe a entrare quantomeno in Consiglio di Lega. A quel punto, potrebbe essere la Juventus a sedere nel governo della Figc, quella stessa Figc alla quale ha chiesto 444 milioni di risarcimento danni per lo scudetto 2006. Appuntamento, quindi, all’assemblea del 20 aprile, ma già nel Consiglio del 26marzo si ridefiniranno le strategie. Varie Ok al regolamento dei collegi arbitrali, che Beretta e Tommasi firmeranno all’inizio della prossima settimana. E via libera al rinnovo della sponsorizzazione con Tim che nel prossimo triennio porterà 15, 750 milioni annui nelle casse della Lega, 200 mila euro in più del contratto precedente.
  3. Dossier contro i vertici della Roma di LAVINIA DI GIANVITO (CorSera 17-03-2012) ROMA — Dossier fabbricati a tavolino per screditare la Roma. Documenti taroccati che gli autori avrebbero pure tentato di vendere ad alcuni organi di informazione. La manovra però è fallita ed è finita all'attenzione della magistratura: la procura ha aperto un'inchiesta nei confronti del conduttore radiofonico Mario Corsi, «Marione», e del giornalista Roberto Renga. Il reato ipotizzato per ora è la diffamazione, ma non è escluso che possano essere contestati reati più gravi. L'indagine è iniziata un paio di settimane fa, quando il d.g. dei giallorossi, Franco Baldini, ha presentato una denuncia alla Digos. Probabilmente il manager aveva saputo qualcosa a proposito del piano. Sembra infatti che «Marione» e il giornalista, anziché tenere segreto il «complotto», avessero in più occasioni sparso in giro notizie adatte a diffamare Baldini: secondo la Digos, guidata da Lamberto Giannini, gli autori dei dossier avevano fatto circolare la voce di poter dimostrare, grazie a dei documenti, che la Roma aveva compiuto operazioni poco chiare. In particolare, secondo loro, Baldini avrebbe avuto interessi privati nella compravendita dei giocatori e non meglio precisati legami con la massoneria. La polizia ha perquisito «Marione» e Renga, ha sequestrato i dossier e ha scoperto che li avevano confezionati loro stessi. Baldini, che era stato ds della Roma con la famiglia Sensi, con cui si era lasciato in maniera traumatica, è il dirigente a cui la nuova proprietà americana si è affidata per il progetto di ricostruzione della società. Nel turbolento mondo dell'etere romano si è creata una spaccatura tra i nostalgici della vecchia gestione e i sostenitori della Roma made in Usa. Ma nessuno poteva immaginare che si sarebbe arrivati a una battaglia fatta di dossier. ___ IL CASO Falsi dossier contro Baldini scatta l’inchiesta della Procura di VALENTINA ERRANTE (Il Messaggero 17-03-2012) ROMA - Un’attività di dossieraggio nei confronti del direttore generale dell’As Roma Franco Baldini. La denuncia a carico di quattro persone, giornalisti e collaboratori di diverse testate che avrebbero creato un falso dossier ai danni di Baldini e dell’As Roma, ha già portato la Digos a svolgere una serie di accertamenti e di perquisizioni. L’inchiesta, coordinata dal procuratore reggente Giancarlo Capaldo, ha fatto in fretta molti passi in avanti, dopo un esposto presentato in questura soltanto alcune settimane fa negli uffici della Digos. Gli indagati avrebbero tentato di vendere informazioni inventate ad alcuni organi di stampa su presunti affari privati e su interessi del manager Franco Baldini, legati alla compravendita dei giocatori. E persino su suoi presunti rapporti con la massoneria. Per ora, dai primi accertamenti, è emerso anche il nome di Mario Corsi, ex Nar, conosciuto come «Marione», voce della radio sportiva «Centro suono sport», già condannato nel 2010 per alcune affermazioni offensive nei confronti di un giocatore della Juve. Così proprio uno dei commentatori radiofonici più popolari tra i giallorossi sarebbe coinvolto nell’attività ai danni della squadra. Le perquisizioni e le acquisizioni di documenti sono state eseguite nei giorni scorsi e hanno confermato l’ipotesi della denuncia: negli appartamenti e nei luoghi di lavoro dei giornalisti sono stati ritrovati i dossier, confezionati per danneggiare Baldini. Adesso la procura sta valutando, altre ipotesi di reato oltre alla diffamazione. Baldini è tornato alla Roma nell’ottobre scorso dopo una lunga stagione trascorsa nel Real Madrid. Sue le prime denunce contro il sistema «Moggi». Nel giugno 2004, dopo la decisione di Fabio Capello di lasciare la Roma e passare alla Juve, è proprio l’attuale direttore generale dei giallorossi che, in onda nella trasmissione di Serena Dandini «Parla con me», denunciò pubblicamente la Gea, il Milan e la Juventus di amministrare il calcio secondo i loro interessi economici e sportivi sottolineando che Capello, fino a pochi mesi prima insieme a lui, avesse criticato atteggiamenti sleali della Juve, del Milan e della Gea. ___ Volevano truffare la Roma americana La Procura di Roma apre un'inchiesta per "tentata truffa e attività di dossieraggio". Ancora non ci sono indagati. Nei prossimi giorni ascoltati Baldini & Co. come parte offesa. di TIZIANO CARMELLINI (IL TEMPO.it 17-03-2012) Nubi dense come la pece tornano ad offuscare i cieli della Capitale. La Procura della Repubblica di Roma sta indagando su una tentata truffa a danno della As Roma. L'inchiesta - sulla quale la società giallorossa non ha voluto dire nulla - sarebbe scaturita da un'attività di «dossieraggio» svolta in ambienti dell'informazione romana. Stretto riserbo sul materiale all'esame del Procuratore Capo di Roma Giancarlo Capaldo (che non ha preso per niente bene la fuga di notizie), sul quale indaga da circa due mesi dopo una denuncia della società giallorossa per «tentata truffa verso ignoti». Ma è evidente come le indicazioni portino tutte verso un tentativo di destabilizzazione della nuova proprietà che ha da poco rilevato il club e che sta portando avanti un lento lavoro di risanamento innanzitutto economico. La As Roma adesso, «ripulita» dalla crisi economica che ne aveva messo in dubbio il futuro non più di qualche mese fa, torna evidentemente a far gola e nel mirino sono finiti i nuovi dirigenti giallorossi. Che in pentola bollisse qualcosa, in città si era intuito già da qualche settimana e la conferma dell'inchiesta aperta dalla Procura ne è solo l'ennesima conferma. Al momento non ci sono nomi iscritti nel registro degli indagati e la denuncia è verso ignoti, ma nei prossimi giorni è probabile che lo stesso Capaldo decida di sentire i diretti interessati: Baldini &Co. , che hanno sporto la denuncia, come parte offesa. Sulla Roma quindi tornano a manifestarsi fantasmi del passato, complici probabilmente anche vecchie alleanze, vetusti volponi che non hanno mai mandato giù l'arrivo dei nuovi proprietari americani e il ritorno di qualche dirigente. E chissà che questo tentativo di attacco non possa essere ricondotto a qualche antica ruggine, o se più semplicemente sia solo il tentativo di rimettere in discussione il futuro della Roma. Probabilmente è solo il primo round di un match, che come in passato rischia di diventare una vera e propria guerra. ___ Il caso Roma, truffa stile Totò cronista e speaker indagati di CARLO BONINI (la Repubblica 17-03-2012) ROMA - Fai presto a dire "Progetto". E hai voglia a spiegare agli americani dove sono finiti. La "As Roma" sarà anche "bostoniana". Ma Roma, resta Roma. E passerà del tempo prima che Trigoria si liberi dell´assedio miserabile di questuanti e diffamatori. Dal berciare di certi "opinionisti" (si fa per dire), dal risentimento degli «esclusi» dalla nuova proprietà. Storia delle ultime due settimane. Roba stracciona da «soliti ignoti», risolta da un´indagine della Digos coordinata dal Procuratore capo reggente Giancarlo Capaldo. Alla vigilia dell´ultimo derby, la "Iena" Paolo Calabresi viene avvicinato da un giornalista ormai in pensione, Roberto Renga, già "firma" di Paese Sera e Messaggero, portata in palmo di mano dalla vecchia proprietà. L´uomo dice di avere documenti in grado di devastare l´immagine pubblica e privata di Franco Baldini, direttore generale del club, e di Mauro Baldissoni, avvocato membro del cda. Si tratta di "trascrizioni di sms" - farfuglia, mostrando due fogliacci compilati a mano libera da chi sa chi - che dimostrerebbero (pensate...) che i due sono massoni (come indicherebbe un umoristico anagramma, "tfa", triplice fraterno abbraccio) e che, naturalmente, il nuovo gruppo dirigente fa "la cresta" sul calciomercato. La "Iena" cui il falso appare macroscopico, registra di nascosto la conversazione. Il nastro finisce alla Digos, dove vengono ascoltati come testimoni Baldini, Baldissoni e il ds Walter Sabatini. Nella stangata "stracciona" - accerta rapidamente l´indagine con pedinamenti e testimonianze - Renga ha dei compagni di merende. Suo figlio Francesco e un paio di voci delle radio libere. Giuseppe Lo Monaco e Mario Corsi, detto "Marione". Un tipo con un passato neofascista che, da anni, usa il microfono come un randello. Ora sono tutti indagati per diffamazione. Mentre la Digos, pochi giorni fa, ha bussato a casa Renga, dove ha recuperato le prove del falso da "soliti ignoti". Dunque, chi vive a Roma, oggi accenda la radio. Ci sarà da ridere. O da piangere. Dipende dai punti di vista. File mp3 R.Renga tenta di spiegare cosa è successo (su RadioRadio, stamattina)
  4. Gemelli in RCS ___ Lotito guida la rivolta La Lega boicotta la nazionale No ai raduni e Abete si infuria di FABIO MONTI (CorSera 17-03-2012) MILANO — È riapparso Claudio Lotito in via Rosellini e immediatamente la Lega di serie A si è paralizzata. Dopo aver avuto il via libera per restare presidente della Lazio, attraverso una modifica ad hoc delle norme vigenti, Lotito ha impugnato presso il tribunale ordinario l'art. 8 bis delle Noif, che lo estromette dalla carica di consigliere federale, dopo la condanna per frode sportiva (primo grado) al tribunale di Napoli. Ai vertici della Lega non è sembrato vero di poter rinviare le elezioni dei componenti del Direttivo (a cominciare da quella del vice-presidente), elezioni che, secondo statuto, si sarebbero dovute celebrare nel settembre 2011. Ci sarebbero gli estremi per commissariare la Lega, ma la Figc ha scelto la linea morbida e in cambio ha ottenuto uno sgarbato no alla richiesta presentata da Prandelli per un solo stage ad aprile. Così il presidente, Maurizio Beretta: «I presidenti sono stati costretti a dire di no; nessuno vuole danneggiare la nazionale e la nostra risposta non va interpretata come mancanza di attenzione per gli azzurri. Il problema è un calendario intensissimo e non potevamo fare diversamente a quattro/cinque giornate dalla fine del campionato. Il problema è che quest'anno si giocano 6 turni infrasettimanali, c'è stata l'emergenza neve e un calendario Fifa molto intenso». Figc e c.t. hanno preso malissimo la decisione della Lega, vivendola come l'ennesima sfida di una Lega ormai ingestibile nei confronti del governo del pallone. Ha detto il presidente Abete: «Prendiamo atto della decisione dell'assemblea che mi è stata preannunciata dal presidente Beretta. C'è forte rammarico, ma non c'è sorpresa. Si è persa un'occasione utile e importante per preparare meglio gli Europei. Ci prepareremo bene comunque, ne ho già parlato con Albertini, che si occupa in maniera specifica, da vice-presidente della Figc, del club Italia e con Prandelli. Non c'è stata attenzione per un'esigenza che riguarda tutto il movimento sportivo, e non una situazione in particolare; la preparazione dell'Europeo riguarda tutto il movimento calcistico. E non c'era nemmeno la motivazione data dalle squadre rimaste nelle coppe europee: la Spagna ne ha cinque e noi una sola. Ma questa è l'occasione per fare una riflessione sul calendario». I presidenti però hanno già venduto i diritti tv per il campionato di serie A a venti squadre per il triennio 2012-2015 e sono fieri di questa scelta, nonostante anche in questa stagione il torneo a 20 squadre si sia rivelato un non-senso sotto tutti i punti di vista. Abete e Prandelli avevano chiesto due stage a Coverciano il 16 e 17 aprile e il 23 e 24. Negli ultimi giorni si era deciso di chiedere la disponibilità degli azzurri per un solo raduno, sempre a Coverciano, il 23, 24 e 25 aprile. Ma l'assemblea di Lega ha opposto uno sdegnato no, l'ennesimo segnale di sfida alla Figc, anche se la nazionale potrà far bene (o male) all'Europeo, anche senza lo stage di aprile. Resta il fatto che gli azzurri si presenteranno all'esordio con la Spagna con appena tre amichevoli nel 2012: Stati Uniti (0-1, 29 febbraio), Lussemburgo (29 maggio, a Parma) e Russia (1° giugno, Zurigo). Se poi Prandelli decidesse di lasciare l'incarico a fine Europeo, non ci sarebbe da stupirsene. ___ IlCommento di ANDREA "SFIDUCIATO" MONTI (GaSport 17-03-2012) Diamo un'occasione ai nostri azzurri L'uomo del monte ha detto no. Cortese ma fermo, l'olimpo dei patron di Serie A, per bocca del presidente di Lega Maurizio Beretta, ha respinto al mittente la richiesta di Cesare Prandelli che chiedeva di poter tenere un paio di stage fuori programma con i giocatori della nazionale in vista di Euro 2012. Il rapporto tra i club e le rappresentative nazionali è una questione spinosa di vecchissima data, e non un'esclusiva italiana: pochi giorni fa il soave Pep Guardiola ha mandato platealmente al diavolo El Niño Sanchez che si è infortunato al ritorno da un'inutile amichevole con il suo Cile. Certamente le società hanno le loro ragioni: si gioca tantissimo, il periodo è decisivo per tutti, i pochi giorni liberi servono agli allenatori per rinserrare i ranghi. Ma le buone giustificazioni non producono automaticamente una scelta giusta. Il rifiuto unanime dei presidenti, per chi vuole pensar male, è un messaggio politico alla Figc. A noi pare semplicemente un errore di immagine oltre che di sostanza. [...] il povero Prandelli non chiedeva la luna. Due sessioni divise per reparto. Una notte a Coverciano, due giornate di campo più tattiche che fisiche. Il minimo sindacale per preparare una spedizione importante che, al di là degli ottimismi d'ordinanza, presenta parecchie incognite. Davvero non si poteva trovare un saggio compromesso? In attesa che il concetto stesso di comunità nazionale sia sventuratamente divorato dalla globalizzazione, la chiamata a rappresentare il proprio Paese sul campo rimane l'onore più alto per un atleta. Nelle nostre menti e nei nostri cuori, le immagini del trionfo mondiale del 2006 sono parte di un patrimonio condiviso che va ben oltre il pallone, materiale di narrazione epica per i nostri figli e nipoti. Dare un'occasione anche agli azzurri di Prandelli per urlarci che è tutto vero, soprattutto in un momento in cui all'Italia serve di sentirsi viva e vincente, non è una scelta sportiva. È, per dirla un po' grossa, un dovere civile.
  5. La fine del calcio? Oggi il Glasgow Rangers potrebbe fallire. Scomparirebbe uno dei club calcistici più antichi del mondo di SIMONE TREBBI (IL FOGLIO.it 16-03-2012) Ballare sul corpo dei rivali è una macabra usanza, che affonda le proprie radici in una insospettabile tradizione popolare che tuttora aleggia tra Scozia e Inghilterra. L'uggiosa Glasgow è la metafora perfetta di un dualismo innato, una separazione così netta da essere avvertita a ogni angolo d'osservazione, soprattutto quando a scendere in campo sono le due squadre cittadine e il calcio diventa di colpo l'apparente effimero dal quale chiunque ama lasciarsi sedurre. L'atmosfera mistica e pregna di magia, pietra miliare della tradizione celtica, rischia però di scomparire definitivamente. Uno dei club calcistici più antichi del mondo è stato fondato proprio in quel di Glasgow, sponda Rangers, nel lontano 1872. La squadra, ora, si trova a dover affrontare una pessima amministrazione, che per aggiudicarsi giocatori poi rivelatisi molto spesso sopravvalutati, ha messo sul piatto ingaggi mastodontici in relazione alle proprie possibilità. All'erario britannico, inoltre, spettano circa 90 milioni di euro: se entro oggi i Rangers non troveranno un acquirente disposto a farsi carico dei debiti, il mondo del calcio dovrà rinunciare alla squadra da cui tutto – o quasi – ebbe inizio il secolo scorso. E sebbene si fosse fatto il nome di Brian Kennedy (già proprietario dei Rangers Rugby), l'uomo ha confessato candidamente "di non voler comprare il club, ma di non poter vedere i Rangers morire". Le quotazioni di un possibile fallimento continuano a levitare, poichè i soldi hanno poco senso della storia e tendono ad essere auto referenziali. Anche i tifosi dei bianco-verdi Celtics hanno fiutato l'evento, tanto da esordire con entrate scenografiche durante le partite casalinghe al grido di "balleremo la conga / quando i Rangers moriranno". I Celtic non sembrano consapevoli che la mancanza d'una squadra riduce inevitabilmente il senso specifico dell'altra; parafrasando il celebre motto ispanico del Barcellona riprodotto sulle gradinate del Camp Nou, entrambe le società sono "mès que un club", molto più di una pur leggendaria storia calcistica. Rangers e Celtic incarnano infatti una rivalità che esula dalla mera competizione sportiva, sfociando in principi etici, religiosi e politici radicalmente differenti. I Blue Knights, i cavalieri dei Glasgow Rangers, sono nati da un'idea che coinvolse nel 1872 più fondatori, dai fratelli McNeil a Peter Campbell. Rappresentano in tutti gli aspetti l'animo filomonarchico che lega ancora ben più di uno scozzese, compreso il forte sentimento religioso protestante e conservatore. I Celtic, che presero vita nel 1888 da uno sconosciuto uomo religioso di origini irlandesi, oggi sono l'espressione della parte cattolica di Glasgow, anche detta nostalgicamente – con richiamo al fondatore – "anima d'Irlanda", impermeandosi ai valori conservatori con un progressismo che vede nella Scozia secessionista una battaglia divina e voluta dall'alto. Il tessuto sociale di Glasgow è intimamente connesso alle tematiche pubbliche e storiche rappresentate dai due club rivali, tanto che in seguito a numerosi episodi di violenza e tensione, il Parlamento scozzese ha votato una legge che vieta espressamente ai tifosi dei Rangers e dei Celtic di esprimersi pubblicamente (con cori, ad esempio) su temi quali religione e sovranità nazionale. Da non sottovalutare anche l'atteggiamento dei tifosi dei Celtic, che meglio di mille filosofie racconta la Glasgow calcistica: la rivalità è talmente accesa che anche in una crisi quasi irreversibile come quella dei Rangers, mai l'agonismo lascia posto ad un qualche sentimento simile alla pietà. Se è vero che le grandi perdite vengono metabolicamente soppesate, i Celtic si troveranno a far fronte a una perdita impagabile, rinunciando a quella competitività che è sempre stato il timone ed il motore della mitica Old Firm, forse il derby calcistico con più tradizione e storia al mondo.
  6. Gli spalti degli altri L’Inghilterra Il dramma Sheffield E poi la rivoluzione Così per i club è nata l'era dei profitti di FRANCESCO CAREMANI (Corriere Fiorentino 01-03-2012) La Football Money League redatta dalla Deloitte parla chiaro. Tre squadre inglesi nei primi sei posti, sei nei primi venti. Nella classifica dei ricavi il Manchester United è terzo con 120. 300. 000 euro provenienti dalla biglietteria, 132.200.000 dai diritti televisivi e 114.500.000 dal merchandising. Una notizia, nei tre anni precedenti, infatti, i ricavi da stadio superavano le altre due voci. Tutta colpa (e merito) della tragedia di Sheffield dove nell'89 morirono 96 tifosi del Liverpool schiacciati e soffocati contro le inferriate che dividevano gli spalti dal terreno di gioco. Fu istituita una commissione d'inchiesta presieduta da un giudice dell'Alta Corte inglese, Lord Peter Taylor of Gosforth. Da allora il suo omonimo rapporto ha rappresentato il libro mastro per tutti gli stadi del Regno Unito: solo posti a sedere nei due campionati maggiori, nuovi rapporti con i tifosi, finanziamento pubblico di 200 milioni di sterline per la ristrutturazione degli impianti, già di proprietà dei rispettivi club. Negli ultimi vent'anni il calcio inglese è cresciuto, trasformandosi in un business patinato dal grande appeal televisivo, capace di richiamare grandi giocatori e ricchi investitori stranieri. Tutto questo aveva e ha negli stadi di ultima generazione, come l'Emirates dell'Arsenal per esempio, il volano di profitti crescenti. Non solo grazie al tutto esaurito (oggi intaccato dalla crisi economica, soprattutto nel Nord dell'Inghilterra), ma anche a impianti aperti sette giorni su sette capaci di catalizzare appassionati e no, creando un indotto economico importante. Senza dimenticare che uno stadio di proprietà è un bene immobile di grande valore che si porta a bilancio. L'Arsenal passando da Highbury all'Emirates (guadagnando 20.000 spettatori a partita), con buona pace dei puristi, ha firmato un contratto di 100 milioni di sterline per il naming rights (i diritti all'intitolazione dello stadio, fino al 2019) e il main sponsor delle maglie (fino al 2014), con biglietti che vanno da un minimo di 40,14 a un massimo di 114,70 euro. Trecento milioni di sterline il ricavato stimato dal cambio di destinazione dell'area del vecchio impianto. Il modello inglese, però, non deve essere mitizzato tout court, perché non mancano imprenditori indigeni o stranieri privi di scrupoli. Nelle ultime quattro stagioni per esempio l'Old Trafford ha fruttato al Manchester United 498.600. 000 euro, nonostante questo si è sentito spesso parlare dell'indebitamento dei Red Devils, questo perché la famiglia americana Glazer (che pare esperta in questo tipo di transazioni) attraverso un'operazione finanziaria è riuscita a far ricadere sul club il costo del suo stesso acquisto, mentre il criticatissimo Abramovich non solo ha trasformato in azioni, ricomprandosele, i debiti del Chelsea, ma ha costruito un centro d'allenamento d'avanguardia. Ovviamente, l'impianto di proprietà, la maggior responsabilizzazione dei club nei confronti delle intemperanze dei tifosi (lontane dagli stadi inglesi ma non dalla società) e servizi di alta qualità all'interno (un box privato all'Emirates ha un costo base annuo di 65.000 sterline) hanno portato anche a un aumento dei prezzi capace di cambiare volto al pubblico presente, più ordinato e meno appassionato, tanto da andare via anche cinque minuti prima del fischio finale per evitare la coda nella metropolitana. Rupert Murdoch grazie al calcio inglese trasmesso in esclusiva per tanti anni (oggi divide la torta con ESPN) ha trasformato BSkyB nella gallina dalle uova d'oro. Ma non tutte vengono trasmesse come la nostra serie A, in media due al sabato, due alla domenica e, quando c'è, il monday night. Ragion per cui chi non può vedere il match in televisione va allo stadio, in una nazione in cui l'appartenenza alla comunità è molto forte. A Londra, sia Chelsea che Tottenham Hotspur stanno cercando di costruire il nuovo impianto, tra problemi burocratici, le Olimpiadi che incombono e l'idea di una capitale divisa in quartieri con precise appartenenze calcistiche e coabitazioni impossibili. A Firenze questi problemi non ci sarebbero, una squadra, una comunità, uno stadio di proprietà, per risalire quella Football Money League che nel 2011 vedeva la Fiorentina al 21° posto con 106.400.000 euro di ricavi totali. ------- Gli spalti degli altri L’inchiesta sugli stadi in Europa: la Germania Sponsor sulle arene del calcio E i conti tornano, per tutti In Bundesliga media spettatori doppia rispetto all’Italia di FRANCESCO CAREMANI (Corriere Fiorentino 02-03-2012) «In Italia avete investito troppo sulle gambe e poco sugli stadi», parola di Karl-Heinz Rummenigge, attualmente Ceo della compagnia FC Bayern Monaco Ag e presidente dell'Eca, European Club Association. Perché se ai Mondiali non c'è storia, nel ranking Uefa la Germania ci ha superato e continua a surclassarci con numeri impressionanti, che non sono solo quelli dei giovani e dei settori giovanili: 266 centri di formazione, 29 centri di coordinamento, 500 milioni di euro per l'investimento, 30 per il mantenimento, 90 quelli a disposizione dei club per 42 «centri di prestazione». I numeri che fanno la differenza sono, soprattutto, quelli degli stadi e anche se non è facile da comprendere il vero grande sorpasso è iniziato proprio lì dentro. Dalla stagione 2005-06 al 2009-10 la media degli spettatori negli impianti tedeschi è oscillata da un minimo di 38.612 a un massimo di 41.904. In serie A, nello stesso periodo, si è andati da 18.765 a 24.717. Nei cinque campionati presi in esame il riempimento degli stadi della Bundesliga è stato del 91,6% contro il 54,4% dell'Italia. Il Bayern Monaco ha una performance del 100%, mentre il Borussia Mönchengladbach è ultima in questa speciale classifica con l'82% e il peggior rapporto tra biglietti venduti e capienza. Per andare a vedere Bayern Monaco e Stoccarda si spendono al massimo 70 euro (fascia A), 385 (stessa fascia) per l'Inter. Nella scorsa stagione la gara più vista in serie B è stata Atalanta-Siena con 20.995 spettatori, nel corrispettivo campionato tedesco Hertha-Union Berlino (derby cittadino): 74.244. E non è solo un problema di impianti, per la maggior parte di proprietà, di ultima generazione e costruiti grazie anche al naming rights (come l'Allianz Arena), ma anche di cultura sportiva: le partite sono tutte combattute, anche quelle di mezza classifica, anche quelle di fine campionato che non valgono niente, perché se il pubblico non si diverte non va allo stadio e non spende. Regole certe (un club che ha debiti viene retrocesso senza nemmeno passare dal via) e lealtà sportiva uguale profitti e sostenibilità economica di tutto il movimento. All'Allianz Arena quando gioca il Bayern Monaco vengono venduti in media 21.000 litri di birra, 20.000 wurstel e 5.000 brez'n. «Quando lo Schalke vince si vende il doppio dei boccali di birra abituali (29.500 in media, ndr)», spiega l'ufficio relazioni esterne della Veltins, birra che sponsorizza e rifornisce lo stadio di Gelsenkirchen. Nell'ultima Football Money League (Deloitte) il Bayern Monaco è quarto con oltre 320 milioni di euro di ricavi totali: 71,9 dalla biglietteria, 71, 8 dai diritti televisivi e ben 177,7 dal merchandising. In Germania i gadget dei club sono tutti ufficiali e venduti dentro gli impianti. Una sola gara notturna il venerdì e poi il fine settimana per le famiglie, che riempiono gli spalti in un clima sereno, senza l'eccessiva militarizzazione tipica degli stadi italiani. Non mancano certo le rivalità e tifoserie storicamente «calde», ma il lavoro di questi ultimi vent'anni è stato importante, anche se qualche episodio di dubbio gusto ha riacceso l'allarme sicurezza. Tutto questo non sarà il paradiso calcistico ma ha prodotto risultati concreti: sei anni fa i diritti televisivi all'estero erano ceduti gratis, oggi valgono 50 milioni di euro. «Impianti all'altezza, stipendi puntuali, visibilità mondiale: nel decennio scorso erano rari i giocatori brasiliani che sceglievano la Bundesliga», sottolinea Oliver Bierhoff, oggi dirigente federale. Tornando agli stadi il Bayern Monaco ricava dal naming rights (la sponsorizzazione dello stadio, a cui si dà il nome di un'azienda) 6 milioni di euro l'anno, l'Amburgo 4,3 e il Borussia Dortmund 4. Insieme allo Schalke04 le quattro tedesche piazzate nei primi venti posti della Football Money League. Eppure nelle ultime dieci edizioni della Champions le squadre teutoniche non hanno mai vinto, perdendo due volte in finale, identico lo score in Europa League, dimostrando che il calcio per essere sostenibile deve liberarsi anche dalla dittatura della vittoria. Sarà un caso ma appena un anno fa l'indebitamento lordo della Bundesliga era di 644 milioni di euro, quello della serie A di 2,3 miliardi circa. ------- Gli spalti degli altri La Francia in costruzione (con la Consob del calcio) di FRANCESCO CAREMANI (Corriere Fiorentino 10-03-2012) L'ultima, e unica, vittoria di una squadra francese in Champions League risale al 1993 (O. Marsiglia), l'ultima finale giocata al 2004 (Monaco), come in Europa League (O. Marsiglia), senza mai aver vinto la competizione. Scoprire poi che il movimento calcistico francese sta segnando il passo potrebbe far sorridere, ma c'è poco di cui compiacersi se non per le vittorie internazionali (4 mondiali a 1) dove non c'è storia. Per anni il calcio francese è stato preso ad esempio (in Italia ogni modello straniero acquisisce un fascino particolare) per i suoi centri di formazione (che oggi hanno un costo di 5-6 milioni di euro l'anno) e per l'attenzione ai bilanci con due risultati importanti: club sani e un continuo ricambio generazionale. I frutti? Mondiale ed Europeo vinti nel giro di due anni, il primo dei quali organizzato in casa. Ma a sentire Frédéric Bolotny, esperto di economia sportiva, una società francese equivale a una tedesca del 2000, perché lì s'è fermato il movimento transalpino: «Il calcio tedesco — sottolinea Bolotny — sarà sempre più competitivo. L'origine di questa crescita? La ristrutturazione del suo parco stadi per i Mondiali del 2006, costata 1,5 miliardi di euro». In Francia non tutti gli stadi sono di proprietà dei club, anzi, e lo Stade de France, palcoscenico della vittoria finale contro il Brasile, è rimasto troppo spesso inutilizzato, tanto che i nuovi proprietari qatarioti del Paris Saint Germain ne vogliono fare la nuova casa del club a partire dalla stagione 2013-14. Il sistema francese ha una fragilità e una forza. La fragilità è che le casse dei club si riempiono soprattutto grazie ai diritti televisivi (senza contare l'imminente arrivo di Al Jazeera), più del doppio del merchandising e del triplo dei biglietti. La forza risiede nella capacità di autocontrollo, grazie al DNCG, Direzione Nazionale di Controllo e Gestione, con al suo interno un'apposita commissione che tiene i fari puntati sui club professionisti: ne controlla i rischi finanziari; verifica che la gestione sia in linea con la legislazione vigente; analizza la struttura giuridica delle società e la situazione degli azionisti; controlla i bilanci; supervisiona le relazioni annuali e i conti; punisce coloro che non rispettano le regole. In Francia se non si saldano i debiti a fine campionato si retrocede in Ligue 2. Nella stagione 2009-10 i debiti delle squadre francesi erano di 127,5 milioni di euro, una bazzecola se confrontati con quelli della serie A, ma sintomo di una crisi economica che ha messo sul piatto della bilancia la rivisitazione verso il basso degli ingaggi dei calciatori. Nella stessa stagione il costo medio di un biglietto era di 17 euro e la media degli spettatori di 20.089, l'ultima considerando i 5 maggiori campionati europei. Certo, gli stadi francesi sono messi meglio di quelli italiani, tanto che dopo aver ospitato i Mondiali del 1998 nel 2016 ospiteranno gli Europei, mentre l'Italia è dal 1990 che non organizza più un evento calcistico. Gli impianti nuovi stanno nascendo, per la maggior parte, grazie a partenariati tra pubblico e privato, con due grandi difficoltà: la crisi economica che sta ritardando i finanziamenti da parte delle banche; i continui litigi tra amministrazioni locali e club che in quello stadio giocheranno per molto tempo ancora. Una cosa, però, è certa saranno di ultima generazione, capaci quindi di attrarre denaro anche oltre il calcio. A Lille la spesa sarà di 324 milioni (48.000 spettatori) di euro, con due hotel, un centro sportivo, una spa, ristoranti e negozi. Il Nizza Stadium costerà 170 milioni per 33.400 posti. A Tolosa 40.000 posti e costo di 54 milioni. A Bordeaux 43.000 per 183,8 milioni, di questi 135 li mette il club che vuole tornare da protagonista in Champions League; stadio che sarà utilizzato anche dal rugby. Perché in Francia sono molti gli impianti che condividono le due discipline. L'Europeo, quindi, avrebbe potuto dare una grande spinta, agli stadi italiani, ma i mostri d'Italia '90 rappresentano ancora oggi un minus difficile da cancellare. ------- Gli spalti degli altri: la Spagna Solo Real e Barça Il resto sono debiti Stadi vecchi e rischio bancarotta di FRANCESCO CAREMANI (Corriere Fiorentino 15-03-2012) Negli ultimi quattro anni il Real Madrid ha sempre occupato il primo posto nella Football Money League redatta dalla Deloitte. Primo club europeo, quindi mondiale, per ricavi, con i quali riesce a pareggiare, con un po’ di fatica, i debiti contratti. A ben guardare i diritti televisivi fanno la parte del leone, seguiti dal merchandising e dalla biglietteria, con differenze di qualche decina di migliaia di euro. Nell’ultima stagione le Merengues hanno incassato 123.600.000 euro dal Santiago Bernabeu, tre volte emezzo quello che il Milan ricava da San Siro, quasi undici volte quello che la Juventus ricavava dallo stadio Olimpico. Perché se il modello francese, pur con le sue difficoltà, può rappresentare un buon punto di partenza, quello spagnolo, nonostante i lustrini di Barcellona e Real, non è, nella sua interezza, da prendere in considerazione. A iniziare dalla ripartizione dei diritti televisivi, espressione della diarchia che sta facendo implodere tutto il movimento. Nella stagione 2009-10, senza contare i diritti all’estero, i due club rivali prendevano 140milioni di euro a testa, contro i 42 di Atletico Madrid e Valencia, subito dietro in questa speciale graduatoria, 25 il Villarreal, 24 il Siviglia, addirittura 12 le ultime, tra cui il Malaga. Una sperequazione capace, da sola, di raccontare la crisi di un calcio travolto dai debiti, che allo scorso giugno si aggiravano intorno ai 4 miliardi di euro, quasi il doppio di quelli delle squadre italiane di serie A. Negli ultimi venti campionati 10 volte ha vinto il Barcellona, 6 il Real Madrid, 2 il Valencia, una a testa Deportivo La Coruna e Atletico Madrid. Decisamente più variegata la situazione in Coppa del Re. In Champions League la Spagna domina con 13 coppe, 9 del Real e 4 del Barça. Nelle ultime venti edizioni i blaugrana hanno vinto quattro volte, i blancos tre, perdendo due finali con il Valencia e una con il Barcellona. Quattro vittorie e due finali perse nelle ultime venti di Europa League. Il calcio spagnolo domina anche a livello di nazionale, essendo campione del mondo e d’Europa in carica, senza dimenticare che la squadra guidata da Del Bosque è l’espressione del blocco blaugrana con qualche innesto del Real Madrid e poco altro, non l’amalgama di un intero movimento. José Maria Gay de Liébana, titolare della cattedra di Economia finanziaria e contabilità presso l’Università di Barcellona, aveva previsto che la forza sportiva ed economica dei due grandi rivali avrebbe rischiato di strozzare gli altri club, sottolineando l’indebitamento crescente, che solo Barça e Real Madrid riescono a compensare con un merchandising mostruoso e le vittorie sul campo, un circolo virtuoso che non ha impedito all’ex presidente blaugrana, Joan Laporta, di lasciare la società con un’economia che è stata definita «di guerra» per colpa di un’impressionante esposizione verso le banche. Tutta colpa di una politica miope e nazionalista, tesa a creare un consenso oltre il calcio. Per Laporta il Barcellona è stato «più che un club» e le ombre del suo operato sono ancora al vaglio del successore, Sandro Rosell. Fuori da Camp Nou e Santiago Bernabeu (stadi di proprietà) c’è la desolazione delle amministrazioni controllate, di società che rischiano la bancarotta e in balia di acquirenti stranieri, come già accaduto a Malaga (dello sceicco qatariota Abdullah Al Thani) e Racing Santander (del tycoon indiano Ahsan Ali Syed e nonostante questo a rischio retrocessione). Mentre Athletic Bilbao e Barcellona si sono dovute piegare allo sponsor sulla maglia, è andata meglio ai catalani con la Qatar Foundation e 165 milioni di euro in soli 4 anni. La Liga non ha l’appeal della Premier League e nemmeno gli stadi della Bundesliga, solo due impianti si avvalgono del naming rights, El Sardinero (Racing Santander) e l’Iberostar (Maiorca): due società che si occupano di turismo. In compenso non ci sono segni di violenza e le squadre si allenano in un clima impensabile in Italia. La Spagna, Real Madrid e Barcellona a parte, non è certo un esempio calzante, semmai il baratro verso cui si può scivolare tra perdita di competitività interna, oligarchie sportive e, di conseguenza, economiche. ------- Gli spalti degli altri Lo Juventus Stadium Uno scudetto già vinto (insieme al Comune) Convezioni, investimenti e aree riqualificate di FRANCESCO CAREMANI (Corriere Fiorentino 16-03-2012) A Firenze e ai fiorentini non piacerà, ma il nuovo stadio della Juventus non è solo la casa dell'acerrima rivale, bensì un sentiero verso il futuro che, in nome della sostenibilità economica e del fair play finanziario, tutti i club dovranno seguire. Lo stadio di proprietà, infatti, non è più uno sfizio di qualche nababbo, ma uno degli elementi fondamentali per una società del terzo millennio che deve far quadrare i bilanci. Ovviamente, la Juventus inizierà a sentirne col tempo, risultati sportivi permettendo. Lo Juventus Stadium ha una capienza di 41.000 spettatori (mentre in Inghilterra si corre verso il doppio), 4.000 posteggi, 2 pitch view studio, 3 spogliatoi, 8 aree ristorazione, 20 bar, 64 sky box e 459 posti in tribuna stampa. La prima fila è a soli 7,5 metri dalla linea laterale del campo. Senza contare il manto erboso, capace di reggere con la neve, anche se l'impianto di drenaggio dell'Emirates pare imbattibile, altro che sintetico. Alla Juventus lo stadio è costato 105 milioni di euro e presto ci sarà anche il museo. Tutto è iniziato quando nel 2003 la società bianconera ha acquistato per 25 milioni dal Comune di Torino (con il quale sono state firmate varie convenzioni, anche per la riqualificazione dell'area intorno alla struttura sportiva) il diritto di superficie sull'area dello Stadio delle Alpi per 99 anni. La demolizione è iniziata nel 2008 e nella costruzione del nuovo impianto sono state riutilizzate parti del vecchio. Il delle Alpi era uno dei mostri d'Italia '90, per certi aspetti «il mostro», non solo per il gigantismo della struttura, ma anche per i problemi da cui è stato afflitto. Innanzi tutto la manutenzione della copertura e del terreno di gioco che è costata molto più di quanto previsto, per non parlare della visibilità, con le curve lontanissime dal campo di gioco per la presenza della pista d'atletica. In realtà questa aveva un senso per l'utilizzo multidisciplinare dell'impianto, ma a parte lo Iaaf Grand Prix del '92 il delle Alpi è stato impiegato quasi esclusivamente per il calcio, restando legato ai fasti della Juventus di Marcello Lippi. Ma la cosa che ha dell'incredibile è rappresentata dall'impianto d'irrigazione che causava una sorta d'allegamento del terreno, danneggiando il manto erboso. Dopo la parentesi dell'Olimpico, dove oggi gioca il Torino (il Comune ha ceduto gratuitamente ai granata l'area dell'impianto), dall'inizio di questa stagione il club della famiglia Agnelli ha inaugurato la nuova casa, riuscendo a invitare solo una parte dei familiari delle vittime dell'Heysel il cui ricordo doveva rappresentare una fase importante della cerimonia dello scorso 8 settembre. Nella prima parte dell'attuale campionato le partite più viste sono state Inter-Juve, Napoli-Juve e Lazio-Juve. I bianconeri riempiono i botteghini ma non hanno la media spettatori più alta, anche se con 36.630 registrano un incremento del 66,7% rispetto al 2010-11 (nessuno come loro), numeri ripuliti dai biglietti omaggio e da quelli riservati alle autorità. Ma altri numeri dovrebbero preoccupare gli avversari. Da quando è stato istituito lo «Juventus Stadium Tour» a oggi i visitatori sono stati 16.200: «Stiamo per aprire il Museo della Juventus — sottolinea il direttore commerciale, Francesco Calvo — e siamo certi che si tratterà della punta di diamante di un tour che vedrà aumentare ancor di più il proprio pubblico». Come in Inghilterra, un impianto aperto 7 giorni su 7, con bar, ristoranti e la possibilità di organizzare anche la riunione aziendale nei box che danno sul terreno di gioco. Senza contare il merchandising, i gadget ufficiali sono in vendita allo store. Chi va a vederlo manda le foto a casa dallo smartphone prim'ancora d'entrare, perché la struttura lascia senza fiato. E poi c'è l'effetto del dodicesimo uomo in campo, che però, di questi tempi, non sembra dare una mano concreta alla squadra, anche se finora non è ancora riuscito a nessuno espugnarlo. Nella strada verso il fair play finanziario e nuove (indispensabili) risorse economiche la Juventus ha messo la freccia. La sfida a Firenze (e alle altre città che stanno provando a costruire un nuovo stadio) è lanciata. ------- I progetti in serie A Le partite delle altre città Chi si affida ai club e chi cerca l'archistar Passi avanti Torino in vantaggio, a Catania è stato il presidente Pulvirenti a presentare il piano di FRANCESCO CAREMANI (Corriere Fiorentino 16-05-2012) Il miraggio dello stadio di proprietà. Da una parte il club che percepisce la pubblica amministrazione come un nemico armato di piano regolatore e iter burocratici; dall’altra il comune che vede nella società un soggetto dai modi spicci, con il pericolo di appalti di dubbio profilo professionale, dannosi per la riuscita del progetto e per l’armonia di una città. Eppur si muove. Un mese fa la VII Commissione della Camera dei Deputati ha approvato all’unanimità tutti gli emendamenti proposti dal relatore Claudio Barbaro, Fli, alla proposta legislativa «Lolli-Butti»: «Disposizioni per favorire la costruzione e la ristrutturazione di impianti sportivi e stadi anche a sostegno della candidatura dell’Italia a manifestazioni sportive di rilievo europeo e internazionale». Prima dell’inizio dell’estate dovrebbe diventare legge dello Stato per garantire la costruzione e la ristrutturazione degli stadi e dei palazzetti in tempi certi e attraverso regole chiare. Anche perché, Juventus a parte, tutti gli impianti italiani sono di proprietà pubblica. Otto anni e otto mesi, tanto è durato l’iter del nuovo stadio bianconero: dall’approvazione della variante n. 56 al piano regolatore generale (dicembre 2002), alla fine dei lavori e relativo collaudo (agosto 2011). Nel 2003 la Juventus ha acquistato dal Comune di Torino il diritto di superficie sull’area dello stadio Delle Alpi per 99 anni. È seguita l’approvazione di un’altra variante al Prg, sottoscrizione della convenzione relativa al piano esecutivo, approvazione del progetto da parte del Cda della Juventus e due gare d’appalto: una per la demolizione del vecchio impianto, l’altra per la costruzione del nuovo. Nel febbraio 2009 è stato approvato il piano d’intervento e poi sono arrivati i permessi per costruire lo stadio, il parco commerciale e il museo. Solo nel maggio del 2010 è arrivata l’approvazione del piano per le opere di urbanizzazione. Oggi lo Juventus Stadium è il tredicesimo uomo del club: esaurito tutto l’anno, palcoscenico di una squadra tornata ai vertici e che ha già fruttato 14 milioni di euro di ricavi. Qualcosa si sta muovendo anche a Napoli, dove la Champions ha riempito gli occhi e il cuore. Il Comune deciderà attraverso una manifestazione d’interesse pubblica, al vaglio di un’apposita commissione. L’idea è ambiziosa: nuovo stadio multifunzionale a Ponticelli da 55.000 posti, un palaeventi da 12.000, e la ristrutturazione del San Paolo con altri 35.000 posti a sedere per meeting sportivi e concerti. Circa 700 milioni di euro d’investimenti, da decidere poi chi e come usufruirà delle royalties di questi nuovi impianti. Una cosa è chiara, le pubbliche amministrazioni hanno solo da guadagnare da queste operazioni, anche solo dalla concessione del diritto di superficie. Quella di Udine, a metà aprile, ha approvato la delibera che fissa le linee guida per la gara di conferimento del diritto di superficie dello stadio Friuli, con grande soddisfazione di Giampaolo Pozzo, pronto a costruire un impianto da 22.000 posti (30.000 col terzo anello se partecipa anche il Comune). Se Pozzo si aggiudicherà la gara le ruspe entreranno in azione già quest’estate, dopo sette anni che si parla del nuovo impianto. Iter burocratico simile a Palermo, dove l’architetto Gino Zavanella (firma dello Juventus Stadium) è pronto a disegnare la nuova casa dei rosanero da 35.000 posti, obiettivo? Riqualificare il quartiere Zen: «Uno sguardo ai tifosi, l’altro alla città». Anche a Catania sono a buon punto, con i sopralluoghi dei tecnici del Comune andati a buon fine per l’area che è già stata individuata e destinata a tale indirizzo dal piano regolatore: Librino, zona San Teodoro. Poi il progetto definitivo dovrà passare al vaglio del consiglio comunale, anche perché il presidente del club, Antonino Pulvirenti, è pronto a fare la sua parte, ma ci vorranno pure i soldi di Comune e Provincia. A Foggia lo «Sport & leisure consortium» sta cercando di costruire un impianto da 25.000 posti (160 milioni di euro, privati), con negozi, ristoranti, una sede dell’università e 700 vani abitabili, avviando trattative anche per quelli di Albinoleffe e Nocerina.
  7. Mi pare che... Dopo l’abbaglio la triste realtà In Europa restiamo piccoli di LUCIANO MOGGI (Libero 16-03-2012) È sembrato un abbaglio collettivo, pochi infatti si staccavano dal coro delle previsioni favorevoli al Napoli. E forse ne è rimasta contagiata anche la squadra, caduto come l’Inter, niente triplete italiano in Champions: resta il Milan per la miseria di un gol. Improvvisamente ridiventiamo piccoli, e se il calcio inglese ce l’ha fatta per il rotto della cuffia, noi siamo lontani dagli splendori spagnoli e tedeschi. Toccherà dunque interrogarsi se sia stato il Napoli a tradire, più che il Chelsea a sbalordire col mestiere di Drogba, Lampard e Terry. La squadra di Mazzarri esce a testa alta, ma l’elogio sa di effimera consolazione: per noi esce e basta, e ce ne dispiace. Meglio dire chiaramente che il Napoli ha sbagliato l’approccio, troppo poco hanno fatto i suoi tenori: non c’era il miglior Lavezzi, meno che mai Cavani, il cui intervento più apprezzato è stato in chiave difensiva. Poco efficace Hamsik che avrebbe dovuto mettere in crisi il Chelsea sfilando tra le linee. Tutto questo può succedere quando si incontrano avversari di caratura superiore. Mazzarri si appiglia all’infortunio di Maggio, e può aver ragione, ma se bastava questo per fermare il Napoli, significa che i sogni dei quarti erano pretenziosi. Di Matteo ha rispolverato anche il niño Torres, che ha creato molti grattacapi alla difesa del Napoli. In una serata nerissima rendiamo atto a De Laurentiis di aver reagito con compostezza e filosofia: non è poco per chi è abituato a lanciare bordate e provocazioni. Ha salvato anche l’arbitro, e qualcosa poteva invece dire, ma ha chiuso con eleganza: «Per noi è esperienza». Il Napoli ha capito di dover catapultarsi subito sul campionato: il terzo posto per tornare in Champions è più che mai importante, De Laurentiis l’ha detto chiarissimo, e passa per l’Udinese al Friuli, nel posticipo di domenica. L’operazione Di Matteo è stata tentata anche da Ranieri, dentro tutti i senatori, ma l’esito è stato diverso. La guardia imperiale dei tempi del triplete è stata una comparsata di reduci, e l’eliminazione ad opera di Deschamps, vecchia Juve (c’entra poco ma insomma...) ha posto il timbro alla fine di un ciclo. L’Inter, fattasi grande con Calciopoli quando gli avversari erano stati fatti fuori o messi in un angolo, dopo aver depredato tutto ciò che si poteva depredare, è giunta alla fine del percorso e del grande pateracchio; nessuno ne ha voluto la fine, giunta per via naturale lasciando che Moratti riprendesse le sue abitudini di sbagliare uomini e strategie. Il risultato è nei numeri: fuori dalla Champions, 17 punti dal Milan, otto dal terzo posto, fuori anche dalla Coppa Italia, distante anche l’Europa League. Ai grandi che compivano questo percorso gli antichi dedicavano un epitaffio. Non chiedetelo a noi, non siamo abituati ad infierire. Il Facchetti che non si doveva toccare neanche con un pensiero viene tristemente toccato dall’Inter stessa. Nella memoria difensiva presentata dal club nella causa intentatale dall’ex arbitro De Santis gli avvocati della società dicono e scriveranno che Facchetti non aveva le deleghe necessarie per commissionare le attività di dossieraggio ai danni di De Sanctis, e non solo. Evidente l’intento, Inter non colpevole, ma se fosse accertato un coinvolgimento di Facchetti, sarebbe stata una sua iniziativa personale, mancando le deleghe. Una squallida operazione nei confronti dello scomparso ex presidente, non sfuggita agli articolisti di Ju29ro che si chiedono cosa abbia da dire in proposito Gian Felice Facchetti visto che l’Inter «rinnega la celebrazione agiografica del padre». E anche la rosea, in proposito, cosa ne dice ? I nodi vengono al pettine. Basta saper aspettare.
  8. Marca la differenza di SANTIAGO SEGUROLA (GaSport 16-03-2012) PERCHÉ MOURINHO HA TRASFORMATO IL CALCIO SPAGNOLO IN UN PANTANO Cesar Luis Menotti era solito dire che le cose migliori del calcio italiano succedevano prima o dopo le partite. Era affascinato dalla coreografia che circondava l'evento, però lo annoiava il contenuto. Considerava un errore tutta l'energia che si consumava nella parte aneddotica e la scarsa attenzione per il gioco. C'era un punto di esagerazione nelle parole dell'allenatore argentino, però il suo discorso era prezioso. Gli dispiaceva che la parte essenziale del calcio diventasse una questione di minore importanza davanti all'aspetto periferico che abbonda nei giornali: le dichiarazioni intempestive, i titoli provocatori, la demagogia, le chiacchere del mercato. Il veterano Menotti si sentirebbe ancora più deluso con l'attuale paesaggio del calcio spagnolo, trasformato dai mezzi di comunicazione e da alcuni protagonisti — Mourinho, in testa — nello scenario di un grossolano reality show. In condizioni normali, la Spagna dovrebbe essere un paradiso calcistico. Ha la nazionale campione del mondo, e nessuno mette in dubbio che il Barça e il Madrid sono le due migliori squadre del pianeta, condotte da due giocatori capaci di segnare un'epoca. Se Messi può guardare in faccia Pelé e Maradona, Cristiano Ronaldo è una delle macchine da gol più letali che il calcio abbia mai prodotto. Non sembra salutare disdegnare questa magnifica realtà, però il clima nel calcio spagnolo è diventato irrespirabile. Dominano le teorie della cospirazione, il giornalismo di barricata, le dichiarazioni sgradevoli, l'insulto al rivale, le informazioni faziose e la demagogia in tutto il suo splendore. Il calcio è solo una scusa per far affiorare la parte peggiore del giornalismo. La formula non è una novità. Non è altro che la trasposizione al mondo del calcio degli infami reality che hanno trasformato la televisione in un prodotto miserabile, però rivestiti di autorità perché sono in testa agli indici di audience. Il paesaggio descrive dei mezzi di comunicazione deplorevoli e una società malata. Ci deve essere una ragione quando la televisione di un paese che non ha trasmesso gli ultimi due Mondiali di atletica, dedica un tempo enorme a trasformare il calcio in una pozzanghera. Che cosa è successo perché la Spagna abbia disdegnato la felicità e sia diventata incline alla coltellata? Non so cosa succede in Italia, anche se tutti i paesi sono vittime di questa meschina cultura mediatica, però l'involuzione nel calcio spagnolo si è accentuata nell'ultimo anno e mezzo. Non sono mai mancati gli agitatori che finiscono per rendersi ridicoli, come l'ex allenatore della nazionale Javier Clemente, però nessuno ha occupato la privilegiata posizione che ha José Mourinho nel Real Madrid: allenatore del club più importante della Spagna e perfetto rappresentante della nuova cultura del reality show, del twitter e della banalità. Non esiste un megafono nel mondo del calcio più potente del Real Madrid. Due quotidiani sportivi, una moltitudine di mezzi di comunicazione intorno, qualsiasi tipo di programma notturno sia nella radio che nella televisione: il paesaggio ideale per dar da mangiare alla bestia mediatica. Nessuno la alimenta meglio — ed è lì che risiede la perversione — di Mourinho, l'uomo che simboleggia la natura dei nostri tempi. Produttore costante di messaggi, non importa se contraddittori o incoerenti, profondo conoscitore dell'arte della demagogia, «egolatra» di primo grado, temuto e viziato, Mourinho è stato il principale fattore della trasformazione del calcio spagnolo in un pantano, dove non c'è spazio per l'ingenuità, la sensatezza e il piacere. Dicono che la sua contaminante personalità possiede il potere di affascinare. È probabile. Con questo tipo di materiale, di solito, si costruiscono gli idoli mediatici dei nostri tempi.
  9. Gli ultras e la fidelity card di STEFANO NAZZI (il POST 14-03-2012) Adesso arriva la fidelity card, la tessera del tifoso sparisce. Ho letto titoli che dicevano “Gli ultras gioiscono, hanno vinto”. L’ha detto anche Maroni. Mah, io di ultras festanti non ne ho visti. Non si capisce bene che cosa sarà la fidelity card del tifoso, probabilmente in qualche modo ricalcherà le funzioni della tessera del tifoso. Che, dice l’ex ministro Maroni, ha portato importanti risultati. Non c’è motivo per non credergli. Ieri guardando in Tv Inter-Marsiglia ho sentito continue esplosioni di quelle che generalmente vengono chiamate “bombe carta”. Come sono entrate a San Siro? Non da sole. Immagino che qualcuno le abbia portate dentro e che forse, ai cancelli, qualcuno non abbia controllato. Durante Roma-Lazio ci sono stati pesanti cori razzisti contro Juan, giocatore giallorosso. Non risulta ci siano state denunce. In Inghilterra per un fatto del genere i tifosi individuati sarebbero finiti in tribunale. Ero allo stadio durante un Inter-Lazio di qualche anno fa, era il 25 aprile (o la vigilia, non ricordo), i tifosi laziali esposero uno striscione bello grande che recitava “25 aprile lutto nazionale”, nessuno si sognò da farlo togliere e molti della curva nord interista applaudirono. Ma allora la tessera del tifoso non c’era ancora. Dice ancora l’ex ministro Maroni che con la tessera del tifoso gli spettatori sono aumentati. Dello 0,9 per cento. Il capo della polizia, Manganelli, ha detto che “la nuova tessera manterrà inalterate le sue caratteristiche fondamentali già evidenziate negli ultimi due campionati, a cominciare dalla necessità del suo possesso per le trasferte e gli abbonamenti”. La vecchia tessera era fornita dalle società sportive dopo il permesso della Questura che segnalava la presenza di motivi che ne impedivano il rilascio. Per capirci, un soggetto colpito da Daspo (Divieto di accedere a manifestazioni sportive) oppure che aveva una condanna anche di primo grado, non poteva richiedere la tessera del tifoso (sul fatto che poi questi soggetti non vadano in trasferta o non entrino allo stadio ci sono sensati dubbi). La tessera era inoltre rilasciata solo ai possessori di carte di credito: conteneva un microchip attraverso cui era possibile ricevere i dati a distanza. Era di fatto una tessera commerciale. Con fototessera, anche se il garante della privacy aveva dato parere contrario. Nel dicembre scorso il Consiglio di Stato ha dichiarato la tessera “illegittima”. Come sarà la nuova tessera ancora non si è capito. Sembra che sia allo studio la possibilità di acquisto dei biglietti per altre persone e la possibilità di cessione a terzi. È allo studio anche l’abolizione della vendita di biglietti per il settore ospiti il giorno della gara ai botteghini dello stadio. I dati del Ministero dell’Interno dicono comunque che sono diminuiti i reati all’interno degli stadi ed è diminuito il numero di agenti delle forze dell’ordine feriti. Quello che non è diminuito sicuramente è la potente egemonia della criminalità organizzata all’interno delle curve. Succede a Milano, Roma, Napoli, Torino. La criminalità organizzata, alleata spesso alle formazioni della destra radicale, controlla le curve. E quindi gli affari delle curve. È un cambiamento avvenuto negli ultimi anni e che è stato denunciato anche dal capo della polizia. Tutto questo è raccontato bene da un libro scritto da Giorgio Specchia, Il teppista, che descrive la storia di Nino Ciccarelli, uno degli elementi di spicco della storia della curva nord milanese, quella interista. Un altro libro, Fascisti a Milano, di Saverio Ferrari, spiega bene gli affari che girano intorno alle curve, dalla vendita dei biglietti e di tutto il materiale ultras fino allo spaccio di droga. Sono soldi importanti e relativamente facili, ovvio che la criminalità organizzata abbia voluto metterci le mani eliminando chi si opponeva all’occupazione militare delle curve. Chi ci provò, come la Fossa dei Leoni della curva sud milanista, venne letteralmente fatto fuori: minacce di morte per chi avesse rimesso piede allo stadio. Quello che fa più pensare è che se si vanno a guardare le fotografie delle feste di fine campionato organizzate dai gruppi ultras capeggiati dai malavitosi, vedi sempre il calciatore o il dirigente a braccetto con questi personaggi. Accade a Milano, a Roma, ovunque. Certo, ci vuole coraggio per idirigenti delle società per sottrarsi a ricatti costanti e sottintesi, per voltare le spalle alle curve. Tanto più che spesso gli ultras fanno comodo. Vuoi mandare via quel giocatore o quell’allenatore? Che cosa c’è di meglio di una contestazione dura? Che l’ordine malavitoso regni nelle curve è un problema di cui nessuno sembra occuparsi. Ed è un problema a cui nessuna tessera del tifoso può porre rimedio. Così come è difficile che qualsiasi tessera da sola riporti la gente allo stadio. La gente non va allo stadio perché i biglietti costano uno sproposito. Una famiglia di tre persone che voglia vedere Inter-Atalanta domenica prossima a San Siro spende 110 euro al secondo anello. Se vuole vederci bene e andare al primo anello deve sborsare più di 200 euro. Tanto. Questo accade ovunque, in stadi che fanno schifo e sono vecchi, da buttare (a parte quello dello Juventus, il primo stadio moderno di proprietà). Per il resto il panorama è desolante con servzi che per le persone normali e che non vanno in tribuna vip fanno letteralmente schifo (a proposito, avete mai visitato i bagni di San Siro?)
  10. Tempo Scaduto di ALIGI PONTANI (Repubblica.it 15-03-2012) Polizia, politica e federcalcio pericolose invasioni di campo Succedono cose mai viste. Vediamo. Il capo della polizia, nel bel mezzo di un convegno-incontro-seminario, parlare delle inchieste della magistratura sulle scommesse nel calcio e dire come fosse la cosa più normale del mondo che le indagini della polizia in corso porteranno presto a novità importanti. Panico, facce sbiancate, redazioni dei giornali in subbuglio, liste di arrestandi che circolano impazzite. Il calcio, per bocca dei suoi dirigenti, tace, aspettando rassegnato il tintinnio di manette. Passano un paio di settimane. Sempre nel mezzo di un seminario-incontro-dibattito un alto dirigente della federcalcio dice che la tessera del tifoso cambierà presto, e non solo nome. Sarà meno di controllo e più di servizio, sarà amichevole e morbida, si chiamerà fidelity card, sarà insomma buona. Panico, paginate sui giornali, servizi ampi alla tv, tifosi in festa e politici inferociti. In particolare l'ex ministro Maroni, che della tessera del tifoso - quella cattiva - è stato il papà, assieme proprio al capo della polizia. Il quale capo della polizia, imbarazzato prima, imbestialito poi, dice subito che trattasi di equivoco, che non cambia poi tanto. Anzi, visto che la bufera non si placa, due giorni dopo dice addirittura che non cambia proprio un accidenti, e chi ha detto il contrario è un imbecille. Usa proprio questo aggettivo. Non imprudente, affrettato, incauto, ingenuo, frettoloso, superficiale, sciocchino: no, imbecille Ecco, dicevamo: cose mai viste, e parole mai sentite nella storia dei rapporti per solito di "fattiva collaborazione" tra lo sport (il calcio in particolare) e le istituzioni, la politica, la polizia. Cosa sia accaduto davvero, in queste giornate un po' folli e molto avvilenti, non si sa con certezza. Si può però pensare qualcosa, ragionevolmente vicina alla realtà. Per esempio, che le procure che indagano sulle scommesse sono ancora molto, molto attive, anche senza parlare troppo, e che quindi il calcio sarà investito da una nuova ondata che si abbatterà sull'ufficio della procura di Palazzi, che pare aver aperto già tutti gli ombrelli a disposizione, senza ripararsi granché. E che la tessera del tifoso, quella cattiva, sia da tempo oggetto di delicate riflessioni che riguardano il bilancio reale dei suoi risultati: certamente lusinghieri per la riduzione degli episodi di violenza, molto più discutibili per quanto riguarda la limitazione delle libertà dei tifosi sani e soprattutto della voglia di questi ultimi di riempire gli stadi italiani, divenuti ormai spettrali. Essendo la materia delicata, dal momento che investe la politica, un ex ministro degli interni, uno nuovo e le forze dell'ordine, pare ovvio che non andasse in alcun modo trattata così: con uscite ottimistiche, precoci e non concordate da parte della federcalcio e con gli insulti che ne sono poi scaturiti. Perché adesso quel che resta, dopo le esternazioni, è un terribile senso di confusione, una nebbia nella quale tutto galleggia e nulla è ben definito. Tranne lo smarrimento dei tifosi, che poi del calcio dovrebbero essere l'anima. A cosa dovrebbero essere fedeli, se continuiamo a tradirli tutti i giorni?
  11. Dino Zoff, parando s'impara di GIGI GARANZINI (IL Magazine.it | 15 marzo 2012) Il monumento sta a Roma da vent'anni, al Fleming. E prima quasi altrettanti a Torino, e prima ancora a Napoli sulla collina di via Petrarca, vista Posillipo. Un uomo di città a tutti gli effetti che non ha mai dimenticato e tanto meno rinnegato la provincia in cui è nato, è cresciuto, e ha imparato a stare al mondo senza fronzoli, badando innanzitutto a quelle poche cose che contano davvero. A cominciare dalla posizione verticale della schiena che può flettere, persino arcuarsi per andare a prendere un pallone all'incrocio. Non certo per compiacere un potente, o per imboccare una di quelle tante scorciatoie con cui la vita più sei bravo e più si diverte a tentarti. «Rimane la terra promessa, il mio Friuli. Ma sto bene a Roma, come prima altrove, per la buona ragione che il mio dna è molto simile a quello dell'animale. Perché ridi? È vero, sono un animale che si adatta, e riesce a trovare il meglio di dove vive». Gli occhi piantati in faccia, di tanto in tanto una pressione sul braccio o sulla mano a mo' di sottolineatura, proprio come usava il suo fratello maggiore Bearzot. «Non solo vengo dalla provincia, ma la mia era la classica famiglia contadina. Dove non serviva parlare, perché le regole di comportamento a cominciare dal senso della dignità erano incise nell'aria. Da ragazzino aiutavo mio padre in campagna, poi dopo i tre anni di avviamento, quando già la passione per il calcio pareva promettere un futuro, arrivò la domanda fatidica. Vuoi studiare o lavorare? Andai a Gorizia a fare il motorista, operaio specializzato. Ma in quegli anni giocavo, e anche se Milan e Inter mi avevano visionato e scartato un giorno arrivò il Mantova a propormi il grande salto. Avevo già debuttato in A con l'Udinese, sempre continuando a lavorare. Mio padre mi lasciò libero di decidere, anche se sotto sotto aveva sempre saputo che sarebbe finita così perché già da piccolo ero il più bravo. Non l'ha mai fatta lunga. La volta – giocavo già a Napoli – che presi un gol un po' così, a tavola l'indomani mi chiese come mai. Risposi con un vago imbarazzo che non mi aspettavo che quello tirasse. Perché, concluse, fai il farmacista?». Ne ha appena compiuti settanta, il monumento. Ed è sempre fieramente identico a se stesso. All'orgoglio consapevole di essersi riconosciuto campione sin dalla prima gioventù, al rispetto automatico di valori insiti nel dna di un italiano antico, e di discendenza asburgica, a un senso di responsabilità così severo da autorizzare sospetti di masochismo. «Ci credi? Io nel mio ruolo mi sentivo colpevole. Mi sono sempre sentito così. E a distanza di tanti anni rivedo volentieri solo le partite più belle, perché in quelle in cui prendo gol continuo a ritenermi colpevole. All'ottanta per cento colpevole». È partito con un tono tra il fatalista e il rassegnato. Ma finisce digrignando i denti, convinto oggi come allora che qualcosa in più avrebbe potuto fare. Tantomeno spiana la grinta se solo si accenna alla lealtà in campo. «Mai sopportato i simulatori, i cascatori. Né da calciatore né da allenatore. Parlano di terzo tempo, di stretta di mano finale, io a uno che mi ha rubato un rigore la mano non la do. E tutti quelli che piombano a terra inanimati tenendosi il viso, e bisogna fermare il gioco, sono cose che non ho mai sopportato. Gli dicevo, ma stasera davanti alla tv che cosa racconti a tuo figlio, che sei stato bravo o che sei stato furbo? Io ho sempre predicato lealtà, pur sapendo che era ed è una battaglia persa. Per la buona ragione che quando un giocatore si butta e lucra un rigore, in realtà sono contenti tutti: presidente, allenatore, compagni e tifosi. E allora perché non farli felici?». Come avrà fatto, il vecchio Dino, con le idee che si ritrova ad attraversare mezzo secolo di calcio nostrano? «Innanzitutto non tradendole. Poi non praticando sconti né a compagni né ad avversari. E mettendoci sempre il massimo possibile della serietà, ma senza integralismi, vuoi che il lunedì non mi bevessi la mia bella bottiglia di rosso? Di sicuro non mi sono mai fermato per un raffreddore o un'influenza, se fisicamente non ero al massimo ci mettevo ancora più attenzione per compensare. Se no, non avrei giocato 332 partite consecutive, che fanno 11 campionati e fischia. E non sarei arrivato a 41 anni in campo andando oltre i gol presi al mondiale d'Argentina quando già ne avevo 36. A parte il fatto che su quei gol da lontano di olandesi e brasiliani ero io che ero diventato cieco. Dopo sono diventati eurogol». Parlava poco a quei tempi, il monumento. Tanto che la camera che divideva col povero Scirea, sia alla Juve che in Nazionale, era soprannominata per l'appunto zona del silenzio. «Avevo il pudore della parola. Anche perché finché sei in carriera se vuoi comportarti correttamente devi essere banale. E non potendo parlare liberamente me lo risparmiavo. Hai presente quel verso, "Per dirti cose vecchie con il vestito nuovo"? Per la cronaca è Guccini». Però. «Francesco Guccini, per me poeta assoluto. Avrò pure avuto il diritto di riempire come mi pareva quella che voi chiamate la solitudine del portiere. O vuoi che ti canti De André? Sai chi lo cantava da dio? Francesco Rocca. Persona stupenda, gran giocatore, stroncato purtroppo da giovane per quei legamenti del ginocchio. Oggi chissà, con le tecniche nuove la carriera gliel'avrebbero salvata. E poi le grandi romanze di Verdi, di Puccini, quelle da tenore anche se la mia voce è da baritono, o forse proprio per quello. Una volta divoravo Mickey Spillane, poi sono arrivato a Joseph Roth. In compenso la passione per la F1 mi è passata, per vedere un sorpasso devono cambiar gomme non so nemmeno quante volte. Una noia mortale».
  12. Discorso del presidente UEFA ai ministri dello sport Il presidente UEFA Michel Platini ha invocato una stretta cooperazione tra le autorità sportive ed europee in un discorso alla Conferenza del Consiglio d'Europa per i Ministri dello Sport, svoltasi giovedì a Belgrado. di UEFA News | Giovedì, 15 marzo 2012, 18.30CET Provvedimenti vigorosi contro le combine, la lotta alla violenza negli stadi, l'implementazione del fair play finanziario e la risoluzione delle controversie sportive da parte di tribunali specifici sono quattro argomenti discussi dal presidente UEFA Michel Platini in un discorso alla 12esima Conferenza del Consiglio d'Europa per i Ministri dello Sport, tenutasi a Belgrado giovedì. Il signor Platini ha invocato in particolare una convenzione internazionale sulle combine, affinché diventino materia penale, per combattere un fenomeno che mette a repentaglio lo sport. Il presidente UEFA ha richiesto misure forti sulla violenza negli stadi e ha spiegato come il fair play finanziario della UEFA possa dare stabilità allo sport. Il presidente UEFA ha anche ribadito la natura fondamentale del calcio per nazionali come fonte di identità e patrimonio europeo, oltre alla necessità di risolvere le controversie sportive in tribunali specifici invece che civili. "A settembre vi ho parlato di un male che sta rovinando uno dei maggiori pregi dello sport, ovvero l'incertezza del risultato. Si tratta delle combine - ha dichiarato il signor Platini in apertura -. Gli incontri combinati scatenano un grave allarme che sfocia nella paura. Paura, perché dietro queste partite ci sono reti criminali organizzate, che approfittano di lacune legali per sconvolgere tutte le competizioni". "Le combine devono essere affrontate legalmente. Pertanto, non possono essere risolte utilizzando solo le risorse degli organi sportivi. L'Europa deve collaborare per porre fine a questo problema. Quindi, richiedo l'assistenza immediata degli Stati membri del Consiglio d'Europa e sostengo che le combine debbano essere trattate come violazioni penali". "Con la stessa urgenza, richiedo una collaborazione efficace tra la polizia e le autorità giudiziarie europee per distruggere queste organizzazioni criminali. Sono convinto che il modo più saggio di tutelare l'integrità dello sport sia la cooperazione, quindi sono a favore di una convenzione internazionale sulle combine. Questa convenzione, naturalmente, sarebbe solo un primo passo verso la sincerità e l'integrità nello sport, ma la ritengo indispensabile come prova evidente delle nostre intenzioni". A proposito della violenza, il signor Platini ha spiegato che il suo desiderio di combatterla è dettato dalle emozioni e dalla determinazione. "Per troppo tempo - ha dichiarato -, abbiamo pensato che la violenza fosse un problema risolto. Per troppo tempo abbiamo tenuto gli occhi chiusi. Il problema è tutt'altro che risolto". "Ecco perché abbiamo accettato di collaborare con il Consiglio d'Europa. Cercheremo di garantire sicurezza e armonia in tutti i nostri stadi". Questo sforzo congiunto, ha dichiarato il presidente UEFA, deve basarsi sulla Convenzione europea sulla violenza negli stadi del 1985. Per quanto riguarda il fair play finanziario, il signor Platini ha definito "estremamente a rischio" la posizione finanziaria dei club europei, sottolineando che nel 2010 hanno accumulato perdite per oltre 1, 6 miliardi di euro. " Questi dati illustrano la fragilità di un sistema che ha trasformato alcuni club in giganteschi casinò", ha osservato. "Dobbiamo guidare il calcio verso la disciplina finanziaria - ha aggiunto -. Ci serve un fair play finanziario. Posso riepilogare questo approccio con due principi che si appellano al senso comune: 'vivere con i propri mezzi' e 'non superare un certo limite'. La situazione è diventata insostenibile e pertanto richiede provvedimenti. Vi chiedo solo di proteggere il fair play finanziario e sostituire le pericolose incertezze con soluzioni legali". ll signor Platini ha quindi parlato delle competizioni per nazionali come "vera espressione della cittadinanza europea. Vorrei anche dire che contribuiscono al patrimonio culturale del nostro continente. Tuttavia, le nazionali attraversano momenti difficili, perché alcuni club si rifiutano di mettere a disposizione i giocatori". "Alla luce di queste incertezze, un paese ha imposto l'obbligo di rilascio dei giocatori nelle sue leggi. Questo paese è la Spagna. Un'iniziativa del genere dimostra una cosa: mettere fine a questo problema è possibile". Il presidente UEFA ha concluso il discorso parlando della giustizia sportiva che, dichiara, "tutti i giorni viene messa a repentaglio da strutture che ne debilitano le prerogative". "Cerchiamo di non consentire che le controversie puramente sportive vengano affrontate in tribunali di stato. Cosa accadrebbe se le regole fossero interpretate diversamente a Madrid, Roma e Bruxelles? Mi impegno a dare alle nostre procedure di arbitrato le garanzie di cui hanno disperatamente bisogno". Il signor Platini ha chiuso invocando una cooperazione tra le autorità sportive ed europee per il futuro benessere del continente. "Ogni giorno, vedo che per milioni di europei lo sport rappresenta un rifugio, un orizzonte, un'identità - ha commentato -. Se tutto questo venisse a mancare, l'Europa come la conosciamo non esisterebbe più. Cerchiamo di collaborare per dare allo sport le regole basate sul senso comune di cui ha bisogno. Questa è la nostra lotta congiunta, per la sostenibilità dello sport e il futuro dell'Europa".
  13. AFFARI E PALLONE La Roma si affida agli Agnelli per l'area del nuovo stadio Il club giallorosso sceglie la Cushman & Wakefield per selezionare l'area del nuovo stadio. La società immobiliare è controllata dalla Exor, azionista di riferimento della Juventus di WALTER GALBIATI (Repubblica.it 15-03-2012) MILANO - Uno stadio in bianco nero potrebbe essere anche un colore gradevole, ma non quando si tratta di quello della Roma. Eppure il club giallorosso, ora nelle mani di James Pallotta non bada tanto alle rivalità sportive quando si tratta di affari. Tra gli innumerevoli operatori immobiliari tra cui poteva scegliere, ha preferito affidarsi alla Cushman & Wakefield, società di consulenza immobiliare che dal 2007 è proprietà (per il 70%) della Exor, la holding della famiglia Agnelli che detiene a sua volta la maggioranza della Juventus. La società ha conferito alla Cushman & Wakefield il mandato di advisor esclusivo per l'individuazione di un'area, sul territorio comunale di Roma, dove insediare il nuovo stadio. "L'advisor - recita il comunicato del club - ha già attivato il processo di selezione delle opportunità presenti sul territorio cui seguirà una attenta analisi tecnica, che permetterà di arrivare ad una scelta definitiva entro giugno 2012". Certo la Exor ha alle spalle la realizzazione dello stadio della Juventus, decantato come un gioiello, ma che ha già procurato qualche grattacapo agli Agnelli. Primi fra tutti, un forte indebitamento della società (oltre 120 milioni di euro) e una inchiesta della procura di Torino che ipotizza che siano state fatte carte false per dotare il nuovo stadio della agibilità in tempo utile per l'apertura del campionato. Per alcune sovrastrutture sarebbe poi stato utilizzato acciaio non conforme. L'avvio della ricerca dell'area dello stadio romano appare comunque in linea con la nuova politica della società che nei giorni scorsi ha lasciato trapelare il nome della Disney come nuovo partner commerciale. Mark Pannes, amministratore delegato della Roma e braccio armato del Raptor Accelerator di James Pallotta, sarebbe vicino a stringere l'intesa commerciale con il gruppo statunitense.
  14. CALCIOSCOMMESSE - Presentata una proposta di legge «Confischiamo i beni ai giocatori che scommettono» Paniz: «Sbagliato pure punire i club coinvolti che sono parte lesa La responsabilità oggettiva va rivista» di EDMONDO PINNA (CorSport 15-03-2012) ROMA - Nella piaga delle scommesse clandestine e del toto nero, c’è una categoria che dovrebbe essere punita due volte. Perché scommette pur essendo un giocatore, con uno stipendio ben superiore (anche senza arrivare alle stelle della serie A) alla media nazionale, che guadagna divertendosi. L’onorevole Maurizio Paniz, che il calcio ce l’ha nel sangue (è presidente dello Juventus Club Montecitorio), ha messo nero su bianco questo suo pensiero. E l’ha tradotto nella proposta di legge presentata martedì e che presto dovrebbe essere assegnata alla Commissione giustizia. In sintesi, si tratta di inasprire le pene previste dalla legge 401/89 (poi modificata) equiparando frode sportiva e truffa aggravata, con la conseguente confisca dei beni (art. 640 quater Codice Penale). E’ scritto, nella proposta che «ai fini della prevenzione e della repressione, si è constatato che la recente politica giudiziaria della aggressione dei beni degli autori dei reati si sta rivelando efficace». Un bel giro di vite. Onorevole Paniz, spieghiamo quest’iniziativa? «Ho individuato due falle nella normativa penale così come è oggi. Mancano delle aggravanti specifiche per chi inquina dall’interno il mondo dello sport, che dovrebbe essere puro, animato da valori veri, un divertimento». Sta parlando dei calciatori, ovviamente. «Sto parlando di chi ha tutto: stipendi cospicui, guadagnati sì lavorando, ma un lavoro che è molto anche divertimento, ovvero il gioco del pallone. Di chi dovrebbe regalare a noi tifosi regolarità, onestà, una vita senza inganni. Tifosi che danno tutto, che si rammaricano per un rigore o per un gol annullato, e ne so bene io qualcosa dopo Genova... Ecco perché sono previste pene più gravi, che arrivino anche alla confisca dei beni». Parlava di due falle: la seconda? «Si accomunano, in occasioni come queste, i giocatori che commettono un reato e le società d’appartenenza, che in realtà sono delle vittime. Penso all’Atalanta, ad esempio. Percassi ha fatto tanti sacrifici, tanti sforzi per riportare la società ai livelli che le competono e pare estraneo alle combine di Doni e, forse, di qualcun altro: mi chiedo, perché deve pagare?». La soluzione? «Modificando il D.L. 8.06.2001 n. 231 (disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica), inserendo le società sportive ai cui danni sia stata consumata la frode sportiva, ovvero quando le persone hanno agito nell’interesse proprio o di terzi. Una modifica che deve essere un messaggio forte anche per la giustizia sportiva. La responsabilità oggettiva deve essere rivista».
  15. Verso il rinnovo del vertice del «Corriere» Rcs, soci decisi a cambiare, ma Marchetti cerca sostegni di MARCELLO ZACCHÉ (il Giornale 15-03-2012) Il patto di sindacato di Rcs si riunirà il 2 aprile, vale a dire l’ultimo giorno utile per presentare le liste per il rinnovo del cda in calendario nell’assemblea del 27 aprile. Segno evidente che i grandi soci del Corriere della Sera (il patto riunisce il 63,5% del capitale di Rcs) hanno deciso di aspettare fino all’ultimo minuto. In gioco c’è una nuova governance per un gruppo editoriale in rosso, alle prese con la crisi della partecipata spagnola Recoletos, già costata 300 milioni di svalutazioni, e impegnato nella vendita della controllata Flammarion e nella valorizzazione dell’immobile storico di via Solferino, che potrebbe comportare il trasferimento della redazione del Corriere con il resto del gruppo Rcs. Nei fatti questo lavoro dovrebbe portare a un ricambio del top management: lascerà la presidenza il notaio Piergaetano Marchetti, che però conta molto sull’appoggio del presidente di Intesa, Giovanni Bazoli, e pure della sponda governativa dell’amico e collega bocconiano Mario Monti per strappare ai soci un altro triennio. Mentre l’ad Antonello Perricone, in caso di conferma di Marchetti, potrebbe ambire a restare al suo posto per parità di trattamento. In realtà per la carica di ad i soci sembrano (sulla carta) molto uniti e determinati per un forte cambiamento. Non in stile Colao, troppo «spinto», ma nella direzione di un manager di esperienza e con visioni prospettiche sul mondo editoriale. Mentre per la presidenza andrebbe individuata una personalità di garanzia. In proposito circola anche l’ipotesi di chiamare Giuseppe Rotelli, socio per una quota fino all’11%, ma fuori dal patto. Sarebbe gradito a Bazoli, a molti imprenditori, e in generale non più inviso al salotto buono. Ma l’ipotesi sembra di difficile praticabilità.
  16. CALCIOSCOMMESSE Palazzi, andamento lento E il processo si allontana Tante audizioni in procura, ma quasi tutti calciatori di secondo piano La A per ora al riparo: Masiello vuole collaborare, ma è in lista d’attesa di FRANCESCO CENITI & MAURIZIO GALDI (GaSport 15-03-2012) C'è un fantasma che si aggira nella classifica della A e ha le sembianze delle scommesse. Sono passati diversi mesi da quando la procura di Cremona ha affondato i colpi su un cancro fatto di combine e giocatori infedeli. I «quattro sfigati» sono diventati diverse decine: oggi la preoccupazione per penalizzazioni e squalifiche è trasversale. Tutti chiedono di conoscere al più presto il loro destino. Il presidente della Federcalcio, Giancarlo Abete, ha dichiarato «faremo in fretta», ma le prime mosse della Procura Federale sono quantomeno da «andamento lento». A parte l'audizione di Carobbio, quasi tutti i giocatori sentiti sono riferiti ad atti, partite e situazioni già note da mesi. Anzi, molti dei tesserati convocati erano stati inspiegabilmente lasciati tranquilli la scorsa estate, quando era andato in scena il primo processo. In oltre 20 giorni di interrogatori, la Serie A è entrata solo di striscio. Eppure i jolly in mano al procuratore Stefano Palazzi non mancano. Pentiti alla finestra Il pm Di Martino ha consegnato quasi tutti gli atti alla Procura federale. In quelle carte ci sono almeno 25 giocatori della massima serie indagati. A parte Cristiano Doni e un paio di tesserati del Novara, nessuno è stato chiamato a Roma. Come mai? Difficile dare una risposta, forse Palazzi sta aspettando altri e più incisivi riscontri. Di sicuro è inspiegabile la non convocazione di Andrea Masiello. Il difensore dell'Atalanta è stato sentito due volte a Cremona (e altrettante a Bari): sta collaborando e le sue rivelazioni stanno permettendo ai magistrati di allargare l'inchiesta. Una sua chiamata permetterebbe a Palazzi di entrare a due piedi sul marcio dello scorso campionato di A e magari scatenare un effetto domino. Tra l'altro Salvatore Pino, legale di Masiello, ha richiesto più volte l'audizione. Comprensibile: il giocatore sta scontando una squalifica preventiva (non è stato più convocato da fine gennaio) e spera di patteggiare la pena, come accaduto con Micolucci (che aveva consentito il salto di qualità nella scorsa estate). Masiello e anche Gervasoni sono pedine fondamentali, eppure in questa fase sfilano figure di secondo piano. Per carità, va scoperto tutto e punito ogni comportamento fuori legge, ma forse sarebbe il caso di occuparsi delle situazioni più scottanti. E non di evitarle specie se, come annunciato dal capo della Polizia Manganelli, sono in arrivo delle novità che daranno un'ulteriore accelerata all'inchiesta sportiva. E se a questo aggiungiamo che il lavoro delle procure di Bari e di Napoli (ma almeno le carte di un caso preciso di frode sportiva non sono state già trasmesse?), presto coinvolgerà altri tesserati, allora il rischio è che il fantasma diventi cliente fisso delle classifiche. Certo, se Palazzi cambiasse passo...
  17. la Rovesciata di ROBERTO BECCANTINI (GaSport 15-03-2012) Quella strana moda del «ritornismo» Roba da Gattopardi Allenatori esonerati e poi richiamati: tutto cambia per restare come prima... Siamo riusciti a trasformare una malattia in una passione. Spacciato per la pastiglia che sopprime il mal di testa, il «ritornismo» è l'emicrania che cura la pillola. In principio fu Franco Carraro, nato in una culla a forma di poltrona, e di lì non più sceso. Antonio Matarrese cominciò dalla Lega per poi ritornarvi, prigioniero di quel senso del dovere che in Italia, spesso, diventa colla. Naturalmente, la riserva di caccia più vasta e variopinta coinvolge gli allenatori. Marcello Lippi fu ct due volte, e due volte mister della Juventus, con la quale vinse e rivinse, mentre in Nazionale fu primo in Germania e ultimo in Sud Africa. Neppure Silvio Berlusconi si negò il vezzo di ricondurre all'ovile le pecorelle smarrite: prima Arrigo Sacchi, poi Fabio Capello. Non fu la stessa cosa, ma questo è un altro discorso. Andò meglio al Real, con Capello: scudetto e ri-scudetto a distanza di dieci anni. I casi più recenti riguardano il Novara, da Tesser a Mondonico a Tesser, e il Cagliari, da Ficcadenti a Ballardini a Ficcadenti. Si tende a giustificare il ritornismo con l'idea del risparmio: in fin dei conti, ci si riappropria di un tecnico già a libro paga. Massimo Cellino a Cagliari e Maurizio Zamparini a Palermo sono acrobati spericolati e specialisti efferati. Con Zamparini, ci cascò addirittura Francesco Guidolin: coccolato, esonerato, reintegrato. E pure Delio Rossi non seppe resistergli: sostituito da Cosmi, ritornò a furor di popolo e fece in tempo a guadagnare la finale di Coppa Italia, persa contro l'Inter di Leonardo. Il ritornismo significa idee confuse e polso infermo. Lo praticano anche all'estero, non però con la voracità degli italiani. D'accordo, il futuro è un posto diverso, e non necessariamente migliore, ma se torniamo sempre indietro, sarà difficile uscire dal labirinto. L'alibi del risultato è la foglia di fico che non si nega a nessuno, tanto meno a un presidente isterico. Nel frattempo, la perversione di riattaccare i cocci della classifica con «quello che c'era prima» ha toccato picchi grotteschi. Hanno ceduto perfino a Novara, l'isola che, nell'immaginario popolare, aveva preso il posto del Chievo, la fiaba del quartiere e dei «mussi» volanti fino a Bettarini testimonial e agli schizzi di Scommessopoli. In alcuni casi funziona, in altri no. Resta il dilemma di chi giri attorno a chi: se il presidente al tecnico, o il tecnico al presidente. Penso, ogni tanto, a cosa sarebbe diventato il Palermo se Zamparini avesse tenuto Guidolin per una decina d'anni, come fece il Verona con Osvaldo Bagnoli. Altri tempi, d'accordo: ma non è che il metodo dell'usa, getta e riusa abbia portato lontano. Siamo, a pieno titolo, gli eredi del «Gattopardo»: qualcosa doveva cambiare perché tutto restasse come prima. Qualcosa o qualcuno. Nella speranza che una botta di fortuna faccia passare il ritorno come una scossa e non già come una mossa: la solita. Ci piace vivere sospesi fra trasformismo e trasformazione, felici che i clienti dei bar sport non colgano la differenza. Gira il calcio gira nello spazio senza fine, tanto per scimmiottare il Mondo che Jimmy Fontana cantava negli anni Sessanta. Senza fine o senza inizio?
  18. Auto in crisi LA SOLITUDINE DI FIAT (E DEGLI AGNELLI) Paese cambiato, mercato difficile La solitudine della famiglia Agnelli di MASSIMO MUCCHETTI (CorSera 15-03-2012) Domani John Elkann e Sergio Marchionne incontrano il premier Mario Monti a Palazzo Chigi per parlare del futuro della Fiat. Benché in programma da tempo, il colloquio sconta l'intervista dell'amministratore delegato al Corriere e il suo drammatico avvertimento: se non riuscirà a esportare abbastanza negli Usa, la Fiat chiuderà due dei cinque stabilimenti italiani, dove peraltro migliaia di persone sono già in cassa integrazione da tempo. Nonostante le rassicurazioni sulla capacità di vincere la scommessa, sono in pochi a credere che dall'Italia sia possibile esportare oltre Atlantico 400 mila vetture l'anno. Ma esiste un'alternativa? E il governo crede valga la pena di costruirla? A Marchionne il premier potrà chiedere conto del progetto Fabbrica Italia che prometteva di produrre qui 1,4 milioni di auto entro il 2014, quasi il triplo del 2011, in un'Europa appesantita da troppe fabbriche. Ma a Elkann, presidente e primo azionista della Fiat, che cosa si può chiedere? Monti avrà di fronte l'erede di Giovanni Agnelli, un giovane uomo assai diverso dal nonno. E, soprattutto, molto più solo. Il senatore Agnelli fu un grande protagonista della vita nazionale. Un Re senza corona che si stupiva se un Quandt, padrone della Bmw, lo veniva a trovare prendendo un volo di linea anziché l'avion privé. E trovava normale avere in Fiat una foresteria degna di un grand hotel, anziché il servizio corretto e spartano di oggi. Ma soprattutto Agnelli poteva contare su quattro fattori ormai venuti meno: a) un patrimonio aziendale enorme; b) un house bank, Mediobanca, che dava tutela in cambio di rispetto e, talvolta, di relativa sottomissione come testimonia l'ampio potere attribuito a Cesare Romiti per vent'anni; c) un rapporto sindacale profondo, che poteva comportare tanto l'assedio di Mirafiori quanto l'accordo sul punto unico di contingenza Lama-Agnelli e la concertazione fino ai tre anni fa; d) l'appoggio concreto dei governi: finanziamenti agevolati e a fondo perduto, acquisizione delle aziende deboli del gruppo come Teksid, negazione dell'Alfa alla Ford, una politica dei trasporti pro gomma e anti ferrovia. Con Giovanni Agnelli, e prima di lui con Vittorio Valletta, la Fiat era l'Italia e l'Italia la Fiat. Elkann, invece, è un soggetto del tutto privato. Laureato in ingegneria, nessuno lo chiama l'Ingegnere, a differenza del nonno che era per tutti l'Avvocato pur non avendo mai avuto sostenuto una causa. Il patrimonio aziendale si è molto ridotto. Tra il 1998 e il 2010 la Fiat Auto ha perso circa nove miliardi, una voragine colmata con emissioni azionarie della holding, cessione di partecipazioni e anche con il premio che General Motors pagò pur di non doversi prendere le quattro ruote di Torino. Negli ultimi undici anni i soci della Fiat hanno avuto 5 volte il dividendo, e non sempre rotondo, e 6 volte no, anche se debbono riconoscere a Marchionne una cospicua rivalutazione dei titoli. Ora, se la Fiat avesse bisogno di altri soldi, l'Exor, la holding degli Agnelli, ne avrebbe pochi da mettere e dovrebbe rinunciare alla diversificazione del portafoglio. Non a caso Marchionne ha promesso che mai più un euro di capitale verrà rischiato sull'auto. La Fiat del 2012 non può più contare su Mediobanca che, d'altra parte, ha perso la centralità di un tempo. E il sistema finanziario le fa pagare normalmente il denaro. Per decenni alla Real Casa di Torino i prestiti costavano meno che alle altre imprese. Si parlò a lungo di tasso Fiat. Adesso la Fiat paga il denaro più delle multinazionali tascabili nostrane. E non parliamo della Chrysler, che viaggia sull'8%. Il sindacato è diviso e sconfitto come ai tempi di Valletta. Non rappresenta più un problema: lo riconosce lo stesso Marchionne. Ma, aggiungiamo noi, non è nemmeno quel vincolo positivo che è stato storicamente nel Novecento costringendo le imprese a migliorare per recuperare gli aumenti salariali e come continua a essere alla Volkswagen per esplicito riconoscimento di Martin Winterkorn. Al governo del Paese d'origine la multinazionale Fiat non ha più niente da chiedere: non vuole nulla, se non una non meglio specificata politica industriale, forse perché pensa che il governo non abbia nulla da dare. E dunque gli Agnelli di oggi, guidati da Elkann, possono rivendicare il diritto di decidere dell'eredità dell'Avvocato senza più i vecchi vincoli dell'Avvocato. Come se l'industria dell'auto basata in Italia non fosse più adatta a loro e loro all'auto. Ma il premier potrà limitarsi a registrare, come fosse un notaio, la svolta della Fiat, che Marchionne ha reso ufficiale con l'intervista al Corriere ma che era già leggibile nel momento in cui rinviava di anno in anno l'investimento nei nuovi modelli mentre la concorrenza dava il meglio di sè? In altri Paesi, i colleghi di Monti avrebbero davanti tre, quattro, cinque produttori, nazionali ed esteri. In Italia non è così. Ormai tutti hanno capito quale errore sia stato aver concentrata l'intera produzione automobilistica in una sola mano. Chissà se il governo si è preparato all'incontro verificando in proprio se, decaduta Fabbrica Italia, esistano case internazionali interessate ai marchi e ai siti produttivi italiani. A cominciare dalla Volkswagen che da tempo fa intendere una passione per l'Alfa come, attraverso l'Audi, l'ha appena apertamente manifestata per la Ducati.
  19. BATISTUTA « Au Barça ou à Manchester, j'aurais été Ballon d'Or » DE RETOUR DANS LE MILIEU comme directeur sportif du Colon de Santa Fe, celui qu'on surnommait « Batigol », meilleur buteur de la sélection argentine (56 buts en 78 sélections), n'éprouve pas de regrets. Quoique ... di FLORENT TORCHUT (FRANCE football | MARDI 13 MARS 2012) SIPT ANS QUE BATISTUTA A RACCROCHÉ. Mais, en décembre, il est sorti de sa retraite pour revenir dans le milieu et devenir directeur sportif du Colon de Santa Fe, un club de l'élite qui aspire à terme à remporter son premier titre. «On a fait venir Gabriel Batistuta afin qu'il nous apporte son expérience et son image », explique German Lerche, l'ambitieux président du club depuis 2006, proche du président de la Fédération argentine, Julio Grondona, et dont on dit qu'il pourrait lui succéder dans quatre ans. Colon bénéficie déjà d'installations de pointe: huit terrains, un gymnase, un centre de formation flambant neuf. L'influence Batistuta se fait déjà sentir: il y a deux semaines, son ami Roberto Sensini (59 capes) est devenu l'entraîneur d'une équipe où évoluent entre autres Chevanton, l'ancien Monégasque, l'ex-Lensois Fuentes ou Federico Higuain, le frère aîné du Madrilène. C'est dans les jardins de l'hôtel quatre étoiles appartenant au club que Batigol s'est ouvert à FF. « Vous aviez quasiment disparu de la circulation depuis 2005 et votre retraite à Al-Arabi (Qatar). Qu'avez-vous fait depuis? Rien (silence). Je n'ai rien fait d'important. Je me suis reposé. J'ai joué au polo, au golf... Vous ne voullez plus entendre parler de football? J'étais vraiment fatigué, stressé. J'avais pas mal de pression par rapport à ce que j'avais réalisé dans ma carrière. Je devais me montrer à la hauteur. À trente-trois ans, cela devenait de plus en plus difficile. J'ai toujours été professionnel, je voulais maintenir le rythme et je n'y arrivais plus vraiment, c'est pourquoi j'ai décidé d'arrèter. On a souvent dit que vous n'étiez pas un passionné, que vous n'aviez jamais rêvé d'être professionnel... Je n'ai jamais pensé devenir footballeur. Il a toujours existé ce mythe comme quoi je n'aime pas le football. Mais j'ai toujours adoré jouer, m'entrainer, etre sur le terrain. En plus, cela a toujours été naturel pour moi. Par contre, je n'aime pas toutes les polémiques autour. Il paraît que vous aurlez voulu être médecin... Mais il y a beaucoup de médecins qui jouent au foot! Je me suis seulement rendu compte que le football pouvait me permettre de gagner de quoi manger. . . Joueur, vous déclariez ne pas regarder de matches... Désormais, j'en regarde davantage. Avant, je jouais, c'était mon métier. Je cherchais à prendre mes distances une fois ma journée terminée. C'était ma philosophie de vie, il n'empêche que le football m'a toujours plu. Pourquoi revenir maintenant dans ce monde? Cela fait sept ans que je me suis retiré. J'en ai profité pour me détendre, mais j'attendais une opportunité (NDLR: de revenir). Le football, c'est mon truc. C'est ce que je sais faire. Le président de Colon est venu me voir et je lui ai dit oui, car nous partageons la même vision du football. Qu'est-ce qui vous a séduit dans ce projet? Tout d'abord son sérieux, ensuite le fait que le club s'appuie beaucoup sur la formation de joueurs, leur enseigne que le football va au-delà d'un simple ballon. Je n'aime pas seulement participer, j'aime aussi gagner. Colon progresse, mais n'a jamais été un club d'élite. Il est temps de faire le grand saut C'est cette idée qui m'a enthousiasmée. Quelles sont vos fonctions au sein du club? Je collabore avec le président pour toutes les questions liées au football. Je suis de près l'équipe première et les jeunes du centre de formation, je donne mon avis sur ce que j'estime qu'il faut améliorer. Je supervise également les transferts. Comment expliquez-vous que la sélection - malgré ses grands noms, malgré Messi! - ne parvient plus à gagner sur la scène internationale? Messi est un phénomène qui évolue dans une équipe comptant plusieurs phénomènes. Il appartient à un groupe qui s'appuie sur une vraie philosophie. Un garçon de treize ans de la Masia (le centre de formation de Barcelone) pense déjà de la mème façon qu'un joueur de l'équipe première. C'est un exemple à suivre. Il faut cnostruire une identité de jeu qui perdure. Chaque formation a son identité. On ne va pas demander aux Italiens de jouer bien, de briller: on sait qu'ils préfèrent le jeu défensif, la contre-attaque. Le Brésil a toujours eu des latéraux qui débordent et qui centrent. Ils ont su conserver leur identité. C'est ce que nous devons rechercher. Vous avez disputé trois Coupes du monde. Laquelle vous laisse plus de regrets? Toutes. Les trois fois, nous y sommes allés pour gagner. En 1994, nous aurìons pu la gagner tranquìllement avec Maradona. Sans lui, cela restait faisable. Mais face à la Roumanie (défaite de l'Argentine 3-2 en huitièmes de finale), on a dû tirer trente fois au but, eux trois fois et ils nous ont mis trois buts ... En 1998, nous avions une équipe jeune. Contre les Pays-Bas (défaite 2-1 en quarts), je tire sur le poteau et, sur l'action suivante, ils marquent sur contre-attaque. Si j'avais réussi moo tir, nous ne serions peut-être pas là à parler de tout ça... Enfin, en 2002, tout le monde disait que nous allions gagner la Coupe et au final nous n'avons même pas passé le premier tour! Vous avez joué neuf ans à la Fiorentina, avant de partir à la Roma pour enfin décrocher le Scudetto, en 2001. Regrettez-vous de ne pas être parti avant? Non, je suìs resté parce que je volùais rester. Je voulais gagner le Championnat avec un petite équipe, pour marquer l'histoire. Je suis fier que de grandes formations soient venues me chercher. Gagner un titre avec Manchester à cette époque, c'était assez facile. Gagner un Championnat avec quinze poìnts d'avance, ça ne m'attirait pas vraiment. Je voulais marquer des buts contre les plus grands défenseurs d'Italie, les meilleurs de la planète à l'époque. Si j'étais parti, j'aurais inscrit plus de buts, j'aurais pu remporter la Liga ou la Premier League. Je me rappellerai toujours ce pourquoi je me suis battu. J'aurais gagné le Ballon d'Or si j'avais joué au Barça ou à Manchester. . . Mais je voulais gagner avec la Fiorentina. Il n'existe plus de renards des surfaces de votre trempe... Aujourd'hui les numéros 9 courent partout, ne vivent plus exclusivement du but. Nous occupions la surface, c'était notre travail. Mais le jeu a évolué, les avants-centres participent davantage au jeu collectif. À mon époque, on nous demandait avant tout de marquer des buts. L'an dernier, des rumeurs ont circulé sur votre santé. On a dit que vous aviez des problèmes pour marcher. Est-ce la vérité? Je ne peux plus jouer au football parce que je ne peux plus courir, mais je marche assez bien. Je dois reconnaître qu'il y a eu un moment où je me suis senti très mal. Je ne pouvais presque plus marcher. À cause des multiples infiltrations subies au cours de votre carrière? Oui, mais je n'en ai pas non plus reçu autant que ça. Je jouais tout le temps. Sur une saison à soixante-dix matches, j'en disputais soixante-cinq. Je me donnais toujours à food. J'avais du mal à accepter de ne pas jouer à cause d'une blessure. Si je devais le refaire, je ferais peut-être plus attention à moi, mais sans doute pas trop non plus. J'aimais marquer, sentir le public.»
  20. Notizia che fa a cazzotti con il meta-lupo in firma, ma stavolta meritano davvero ___ L'OIPA: «NON SI FA ABBASTANZA CONTRO LA STRAGE». ABETE ALL'ENPA: «SEGUIAMO IL PROBLEMA» Basta massacri di cani in Ucraina La protesta della curva Nord dell’Inter Un grande striscione esorta la Uefa a prendere posizione contro i rastrellamenti attuati in vista di Euro 2012 della redazione online Corriere.it 14-03-2012 MILANO - Alla fine le cose sono andate come sono andate e per quanto riguarda la Champions, l'Inter si è giocata la sua occasione. Ed è andata male: la vittoria per 2-1 sull'Olympique Marsiglia non è bastata alla squadra di Ranieri per passare il turno. I nerazzurri e i loro tifosi per questa stagione non avranno più a disposizione il palcoscenico europeo, ma in occasione dell'ultima performance lo hanno utilizzato nel migliore dei modi per mandare un messaggio chiaro alla Uefa: fermare subito il massacro di cani randagi in Ucraina, da dove continuano ad arrivare notizie di rastrellamenti e successive soppressioni con l'obiettivo di ripulire le strade e fare bella figura con i tifosi che arriveranno nel Paese per l'Europeo 2012. MESSAGGIO A PLATINI - Un grande striscione esposto in curva Nord ha chiesto di fermare la carneficina. E ha avuto, tra gli altri, un destinatario molto speciale: Michel Platini, presidente della Uefa, presente sugli spalti. La protesta è seguita da vicino dall'Oipa, l'Organizzazione internazionale protezione animali, che ha un proprio delegato in Ucraina, Andrea Cisternino, impegnato sia sul fronte della denuncia degli abbattimenti sia su quello più «diplomatico» del dialogo con le autorità locali. Proprio Cisternino aveva lanciato l'idea di utilizzare gli stadi come megafono per la protesta contro lo sterminio di cani. «UCCISIONI SISTEMATICHE» - «Dopo decenni di gestione inesistente del randagismo - fa notare l'Oipa -, le istituzioni hanno deciso di affrontare il problema del sovrannumero di cani randagi pianificando uccisioni sistematiche con avvelenamenti, colpi di arma da fuoco e forni crematori mobili. L’incremento di tale barbarie ha coinciso con la decisione della Uefa di designare il Paese come sede, insieme alla Polonia, di Euro 2012. Ecco perché, oltre ad appellarci e a fare pressione sulle istituzioni locali, chiediamo alla Uefa di prendere una posizione forte, non limitandosi a dissociarsi da quanto sta accadendo». ANCHE LA FIGC IN CAMPO - Non è solo l'Oipa, tra le associazioni animaliste, ad essersi fatta carico della questione. Nei giorni scorsi la presidente nazionale dell'Enpa, Carla Rocchi, aveva scritto una lettera a Giancarlo Abete, presidente della Figc. E Abete ha risposto spiegando che «il problema evidenziato è seguito con grande attenzione da parte della Federazione Italiana Giuoco Calcio che opera in stretta sintonia con la Uefa» e che la stessa Uefa, in qualità di organizzatore del torneo, «sta attivando ogni utile intervento al riguardo in tutti gli ambiti sportivi e istituzionali possibili». «Purtroppo - commenta però Carla Rocchi, che ha comunque apprezzato la replica di Abete -, nonostante la pressione internazionale sulle autorità ucraine e nonostante alcune rassicurazioni fornite al riguardo da esponenti del governo ucraino, non sembrano esserci ancora sviluppi favorevoli per i randagi. Tifosi, calciatori, squadre di club e rappresentative nazionali possono dare un contributo fondamentale a questa lotta di civiltà, per evitare che un momento di gioia, di spensieratezza, di festa collettiva continui ad essere macchiato con il sangue di animali.
  21. È tornata la (vecchia) Juve DOPO LA SFIDA COL GENOA, AGNELLI IN PRESSING SUGLI ARBITRI di CLAUDIO PAGLIERI (Il Secolo XIX 13-03-2012) LE SQUADRE che vincono sono antipatiche. Partendo da questa premessa, il presidente della Juventus Andrea Agnelli deve aver pensato di proseguire così il suo sillogismo: se io rendo la Juventus antipatica, la Juventus vincerà. I sillogismi però sono infìdi quanto e più degli arbitri post Moggi, e possono portare fuori strada, in cerca di scorciatoie senza uscita. Il nipote dell’Avvocato anche ieri è tornato a lamentarsi di presunti torti arbitrali: «Dobbiamo essere in grado di lottare contro tutto e contro tutti». Francamente, a Marassi contro il Genoa, la Juve avrebbe meritato di vincere per il gioco mostrato, e aggrapparsi a un fuorigioco millimetrico è davvero vedere la pagliuzza nell’occhio del guardalinee e non la trave con cui Marchisio ha abbattuto Palacio in area. O, per restare al recente passato, al baobab che impedì alla terna arbitrale di vedere il gol di Muntari parato un metro dentro la porta da Buffon. La Juve di Ibra vinceva, l’Inter di Ibra vinceva, il Milan di Ibra vince. Il resto è fuffa. Fra l’altro, la premessa di quel sillogismo è sbagliata. Eccone altre su cui riflettere: il Barcellona vince. Il Barcellona è simpatico. Il Barcellona gioca bene e non si lamenta mai. (anche il Barcellona, per dire proprio recentissimamente, si è lamentato degli arbitraggi a favore del Real, ndt) ___ il commento di GIUSEPPE DE BELLIS (il Giornale.it 14-03-2012) Riecco la Juventus o solo la voglia di odiarla? Sono giorni che nel condominio del pallone tutti bisbigliano mezze frasi sui vertici della Juventus: la Fiat, Agnelli, Conte. "È tornata la Juve o è tornata la proiezione della Juve sugli altri?" La domanda è da pseudointellettuali più che da bar Sport: «È tornata la Juve o è tornata la proiezione della Juve sugli altri?». Sono giorni che nel condominio del pallone tutti bisbigliano mezze frasi sui vertici della Juventus: la Fiat, Agnelli, Conte. Le lamentele dell'allenatore, poi il gol non visto da Tagliavento a San Siro, il rigore negato al Genoa e il dossier sugli errori arbitrali contro la Juventus: la sequenza, per i complottisti, direbbe che la potenza mediatico-politica smarrita dai bianconeri dopo il 2006 è tornata. Ad alimentare il sospetto, ieri è stato il Secolo XIX, che in prima pagina ha addirittura titolato: «È tornata la (vecchia) Juve». Ora, non si ricorda una grande rivalità Genoa-Juventus, se non forse per un vecchio gemellaggio tra i genoani e torinisti che potrebbe suggerire un ipotetico fastidio di riflesso dei grifoni per la Juve. Ma non è mai stata una cosa seria. Eppure il principale quotidiano della città sente l'esigenza di attaccare Agnelli e il suo club perché s'è lamentato dell'arbitraggio di domenica a Marassi e perché al Genoa non sarebbe stato dato un evidente rigore. Siamo tornati all'Italia, insomma. Tutti hanno bisogno di un nemico: la Juve ha svolto questo ruolo alla grande. Odiata da tutti per decenni, negli ultimi anni aveva perso questa prerogativa: non solo aveva smesso di vincere, ma faceva anche particolarmente pena. Sempre un po' improvvisata e sempre un po' maltrattata dai suoi stessi tifosi. Agnelli e Conte l'hanno riportata su e zac, adesso hanno ricominciato a detestarla. L'ipotesi che le questioni arbitrali che la riguardano siano determinate dal caso è già stata sepolta: ogni episodio favorevole che le capita diventa un indizio del ritrovato potere bianconero. Ogni lamentela per un torto subito è la dimostrazione evidente dei tentativi di condizionare in futuro le decisioni degli arbitri. La breve stagione dell'Inter antipatica perché vincente è già finita. È tornata la Juve, sì. Però resta quella domanda da pseudointellettuali: non è che è tornata la proiezione che si ha del club bianconero? Il desiderio di odiare qualcuno è sempre irresistibile. Così come è irresistibile la tensione emotiva che porta a ritirare fuori i vecchi nemici: come in politica sono già tutti pronti a tirare fuori il berlusconismo, in assenza del quale non si è più in grado di individuare un capro espiatorio, così nel pallone riemerge la Juventus. Nemica a prescidere e immediato richiamo a un teorico e detestabile superpotere in grado di condizionare risultati e campionati. Basta esserne consapevoli, poi può valere tutto: la rivalità, nel calcio, è l'unico vero superpotere. È anche uno dei motivi per cui vale la pena essere tifosi.
  22. Bosman tenta il suicidio Cambiò il calcio e il calcio ha cambiato lui Il belga fece riscrivere le regole sulla compravendita dei giocatori a parametro zero. Poi l’alcol, e la depressione di FRANCESCO CAREMANI (l'Unità 14-03-2012) L’inferno quotidiano fatto di alcool e depressione non è più un mistero per lui. Per questo e per tanto altro ancora Jean-Marc Bosman, l’uomo che ha rivoluzionato il calcio europeo, avrebbe tentato di spegnere per sempre quella luce fioca che in questi ultimi anni è diventata la sua vita. La notizia arriva dal quotidiano belga De Standaard, secondo il quale Bosman avrebbe tentato il suicidio, dopo essere stato dimenticato da tutto e da tutti, soprattutto da uno sport, il calcio, che non ama affatto essere sfidato e che ha dimostrato, ancora una volta, la propria forza distruttrice verso chi osa opporsi. Jean-Marc era un discreto centrocampista, prima dello Standard Liegi, con cui nell’83 ha vinto la Supercoppa del Belgio, e poi del Liegi Rfc, aveva una moglie, una figlia, due case e due auto di lusso. Nel 1990 giocava ancora nella Jupiler League (la loro serie A) quando, con il contratto scaduto, decise di trasferirsi alla squadra francese dell’Usl Dunkerque, che però non offrì una contropartita adeguata. A quel punto il Liegi bloccò tutto, riducendo l’ingaggio a Bosman e mettendolo fuori rosa. È stato in quel momento che in Jean-Marc è scattato qualcosa che ha poco a che fare con il patinato mondo del football e con le sue quotidiane ipocrisie, qualcosa che solo alcuni uomini provano almeno una volta in tutto l’arco della vita, il senso d’ingiustizia profondo che ti costringe a ribellarti: «Il mio avvocato sapeva che mi avrebbero fatto sputare sangue e mi disse che potevo fermarmi quando volevo, ma era una faccenda importante e sono andato avanti», ha dichiarato Bosman. Il suo caso approda alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee in Lussemburgo, denunciando una restrizione al commercio e la dura battaglia legale si concluderà il 15 dicembre 1995 con la sentenza che porta il suo nome, stabilendo che quello che gli era accaduto costituiva una restrizione della libera circolazione dei lavoratori, contro l’articolo 39 del Trattato di Roma, definendo così quella dei calciatori svincolati nell’area euro. Inoltre, un giocatore può firmare un precontratto con un altro club a titolo gratuito se quello in essere ha una durata residua, uguale o inferiore, a sei mesi. Il metronomo del Milan Mark van Bommel fu stato uno dei primi a poter usufruire della sentenza, lasciando il PSV Eindhoven per il Barcellona ed è uno dei pochi che si preoccupa della salute di Bosman, grazie anche al padre, costantemente in contatto con l’agente di Jean-Marc. L’ultima idea è quella di organizzare una partita di beneficienza con calciatori di Milan, Bayern Monaco, PSV, Barça e Olanda: «I soldi presi dalla Fif Pro (200.000 sterline, ndr) e il risarcimento stabilito dalla corte (circa un milione di sterline, ndr) sono stati inghiottiti dagli avvocati e dalle spese processuali, mentre la partita celebrazione non s’è mai giocata e mi sono accontentato di un match con il Lille davanti a 2.000 persone», ha raccontato Bosman. Dopo qualche campionato nelle serie minori francesi e anche nell’isola di Reunion, tornò in Belgio allo Charleroi per 650 sterline il mese, fino al sussidio di 750 euro che per legge gli impedisce di convivere con l’attuale compagna, Carine, e i due figli Martin e Samuel: nello status familiare, perderebbe questo diritto. Il resto è fatto di alcool e depressione (nell’ordine che preferite), di corsa verso il fondo, fino al gesto estremo, non riuscito. I calciatori non sono mai stati così ricchi, grazie anche alla sentenza Bosman, peccato che nessuno abbia insegnato a Jean-Marc che nel Risiko dei principi e dei valori il mondo del calcio recita, a memoria, il ruolo della Restaurazione e della Controriforma.
  23. GaSport 14-03-2012 ___ CALCIOPOLI Il giudice gela i legali nerazzurri e non prescrive il caso De Santis di ALVARO MORETTI ft.STEFANO SCACCHI (Tuttosport 14-03-2012) «MA LEI ha fatto qualche torto all’Inter, per venire pedinato? E lei si era accorto che qualcuno lo faceva, che controllavano la sua vita, le sue case, i suoi telefoni?» Anche l’ignara giudice Loretta Dorigo, della prima sezione del Tribunale Civile di Milano, ieri è entrata - con atteggiamento asettico, neutro - nella selva oscura di Calciopoli. La domanda l’ha posta a Massimo De Santis che chiede a lei una sentenza che ordini un risarcimento per il dossieraggio illecito ai suoi danni confezionati dagli uomini della security Telecom attraverso i servigi dello 007 Cipriani. «Beh, veramente no. Anzi: nell’anno di Calciopoli - ha risposto ieri in udienza davanti al tribunale civile l’ex arbitro - con me l’Inter vinceva, ha battuto la Juve e ha vinto contro i bianconeri anche la Supercoppa italiana con un gol irregolare, dato dal mio assistente. Eppoi i miei rapporti con Facchetti erano buoni: le telefonate scoperte durante il processo di Napoli, che vi produco, lo dimostrano. Sono rimasto molto stupito per quel che ho scoperto col caso Telecom». «LO DICONO I GIORNALI» Ieri mattina la prima udienza con le legali Silvia Trupiano e Luissa Beretta e l’ad Ronaldo Ghelfi per l’Inter, gli avvocati Lucarelli e Gallinelli con l’ex arbitro di Tivoli è stata l’apertura di un vaso di Pandora. Per carità la questione - secondo le tesi dell’Inter - doveva immediatamente chiudersi: prescrizione del diritto al risarcimento (dal 2002 al 2003) e totale negazione dell’input interista al dossieraggio nei confronti di De Santis stando a quanto ha affermato Rinaldo Ghelfi ieri. «Noi abbiamo saputo dai giornali nel 2006 di queste storie. La richiesta di 21 milioni è strabiliante», dicevano ieri gli interisti. «Non è una questione di cifre: lo decida lei - ha risposto De Santis alla giudice durante la fallita conciliazione con Ghelfi -, Lei mi chiede di Calciopoli e della mia condanna, che però è in primo grado in un processo dove non emerge nessuna frode specifica. E le ricordo che non esiste in tutta Calciopoli una partita incriminata che riguardi proprio l’Inter». Beh, la giudice Dorigo però non ha chiuso lì la storia, come chiedeva l’Inter: vuole capire, leggere approfondire. Vuole sapere che fine abbia fatto il famoso fascicolo archiviato a modello 45 dalla Bocassini, dopo la visita di “cortesia” di Danilo Nucini nel palazzo della Procura milanese, ad esempio. Ai legali di De Santis ha chiesto: «Perché non lo avete prodotto in atti?». «Perché ce lo hanno sempre negato», hanno risposto in coro. La Dorigo ha fissato i termini del 29 aprile per la produzione di ulteriori memorie da parte di De Santis, il 15 giugno controdeduzioni interiste. Il 24 ottobre la prima vera udienza. Se con i testi richiesti da De Santis, altra udienza.
  24. Notizia già alla ribalta in agosto 2011, poi casualmente smentita.
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