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Ghost Dog

Tifoso Juventus
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  1. Bancomat Football Club di MATTEO MARANI dal blog IL CORSIVO (GUERIN SPORTIVO.it 13-03-2012) Luciano Bianciardi, autentico genio purtroppo poco compreso in vita, aveva già anticipato tutto, ormai più di quarant’anni fa. Ai ragazzi che nel 1968 contestavano davanti alle Università milanesi, rivolgeva un semplice invito: occupate le banche. Quanta lungimiranza, quante geniale visione in quell’appello. Perché mezzo secolo dopo il Paese, il mondo, e ovviamente il nostro piccolo calcio, sono comandati dalle banche. Che esprimono presidenti del consiglio, carriere, lobby, che decidono della vita o della morte di un’azienda, che buttano nel lastrico esistenze intere. Dicevo: il calcio non fa ahimè eccezione. Anzi eccelle. Il presidente della Lega calcio, Maurizio Beretta, è un importante dirigente di Unicredit. Malgrado ciò, anzi grazie a questo mi viene da pensare, guida la Lega calcio. Secondario che alcuni club siano appesi al suo istituto e che lui non possa essere super-partes. Carraro, che lo precedette di qualche anno, fece analoga cosa con il Mediocredito centrale. Perché stupirsi, allora? Le banche possiedono da anni club. Addirittura più club insieme, contemporaneamente. Ci sarebbe una norma federale che impedisce la multiproprietà. Ma cosa volete che importi di fronte ai boss della finanza? Non ultimo: le banche sono arrivate persino alla Tessera del tifoso, ora simpaticamente ribattezzata Fidelity card. Non ho mai capito, insieme agli archivi donati alle Questure (saremmo ancora uno Stato di diritto, saremmo), il perché di questo colossale marchettone? Mi si dirà che se uno evita di utilizzare la carta non avrà commissioni da pagare. E va bene. Ma perché regalare comunque nuovi potenziali clienti alle banche, senza nemmeno la scomodità di sollevare il ċulo dalla sedia? Marginale anche qui che il fratello di Giancarlo Abete, presidente della Federcalcio, si chiami Luigi e sia uno dei principali banchieri italiani. Povero Bianciardi, avevi intuito tutto.
  2. Cosa Nostra, tentata strage all’Olimpico di MAURIZIO MARTUCCI dal blog il Fatto Quotidiano.it 09-03-2012 Stagione stragista 1993/1994, intoppo nell’atto finale, ai calci di rigore. “Il telecomando all’Olimpico non funzionò”. Strage mancata dopo i colpi in casa a Capaci (Falcone) e Via D’Amelio (Borsellino) e le trasferte corsare a Via Fauro (Roma), Via dei Georgofili (Firenze), Via Palestro (Milano). Prima delle bombe in Chiesa a San Giorgio al Velabro e fuori la Basilica di San Giovanni in Laterano. L’ultima svolta nelle indagini della Procura di Caltanissetta, rimanda alle deposizioni di Gaspare Spatuzza, pentito di Cosa Nostra: la summa teologia nella trattativa tra Stato e mafia era una strage allo stadio, un botto alla talebana per una carneficina di carabinieri e tifosi, orrore esplosivo di cinquanta chili di tondini di ferro dal diametro di un centimetro, letali tra divise, blindati, sciarpe e bandiere laziali. Contro tutto e tutti per rivendicare l’abolizione dell’articolo 41-bis, rigorosamente in pay per view, fuori onda come diretta di un calcio da ferire al cuore su Tele + (all’epoca, unica piattaforma prima di Stream e Sky). Era il 31 Ottobre 1993, all’Olimpico c’è Lazio-Udinese. Biancocelesti con Dino Zoff in panchina, friulani sconfitti dalle reti di Winter e Signori, è la decima del girone d’andata di Serie A, stagione scudetto numero 14 del Milan di Berlusconi, poi penta campione d’Europa. “Era già tutto pronto per l’attentato, ma il telecomando all’Olimpico non funzionò” – racconta Spatuzza ai magistrati di Torino nel processo contro il Senatore Dell’Utri – “Ci trovavamo sulla collinetta di Monte Mario. Benigno provò a dare impulso con il telecomando ma non successe nulla. Intanto i carabinieri si stavano allontanando. A quel punto dissero di lasciar stare e l’attentato era fallito. Lasciammo stare l’auto e ritornammo a Palermo”. Luca Tescaroli, già Pubblico Ministero nel processo per la strage di Capaci, ora Sostituto Procuratore a Roma e autore di un libro sul delitto ‘annunciato’ di Giovanni Falcone con cui ha vinto il Premio Paolo Borsellino, sostiene che “l’obiettivo in quel caso era di colpire soprattutto i carabinieri e di uccidere il più possibile. L’attentato non va a buon fine solo per il malfunzionamento del telecomando. Sarebbe stata la strage più tremenda: l’autobomba doveva esplodere di domenica, al termine della partita di calcio. Venne piazzata nel punto di concentramento degli appartenenti dell’Arma di servizio allo stadio, in occasione dell’incontro di calcio Lazio-Udinese”. L’ordigno era stato piazzato all’interno del complesso del Foro Italico, lungo Viale dei Gladiatori che conduce ai cancelli di Tribuna Monte Mario e Curva Sud, a pochi passi dall’ex Aula Bunker dei processi alla Banda della Magliana, per l’attentato al Papa e contro la colonna romana delle Brigate Rosse per rapimento e uccisione di Aldo Moro. “Un amico mi ha tradito”, sfogandosi in lacrime rivelò Borsellino, poco prima di saltare in aria. L’identikit del traditore porta ad un “esperto e anziano carabiniere”, sostengono oggi gli inquirenti nisseni, parlando di un pezzo grosso della stessa famiglia di quei militari che 19 anni fa erano in pattuglia allo Stadio Olimpico. Cavie con i tifosi. Misteri d’Italia, enigmi all’italiana tra Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni, col calcio sullo sfondo, a far da cornice. Tra una bomba e il boato di un goal. Un po’ di pallone non guasta mai.
  3. Contropotere di FABIO LICARI (EXTRATIME 13-03-2012) QUEL BOARD DA PROTEGGERE E RIFORMARE: UNA PROPOSTA Non è più possibile che solo le britanniche e la Fifa possano decidere le regole Ha ancora senso un International Board che se ne frega del parere di una commissione Fifa di ex campioni e respinge proposte tutto sommato logiche? Ha senso un International Board fatto al 50% di federazioni britanniche (una della quali, il Galles, non ha una serie A) ma senza Brasile, Argentina, Italia, Germania? Ha senso che il calcio, nella gestione delle sue regole, sia fermo al 1886 o quasi? Un po' ce l'ha. Non ce vogliano gli iconoclasti di oggi: la protezione della tradizione — come dice Blatter in una delle sue più sensate interpretazioni — è stata fondamentale per la sopravvivenza del pallone. Quando il Board nacque fu per evitare cambi vertiginosi e modernismi modaioli, garantendo unicità. Il calcio è rimasto quello delle origini, facile e chiaro — fuorigioco escluso — per un bambino come per un professionista. Guai a inventarsi time-out, rigori in movimento e «tre angoli un gol», viene da dire. Però il mondo va avanti. Dai cronometri manuali si è passati al 3D e all'ipad. Magari un cambiamento non offende: aiuta. E di una mano hanno bisogno urgente gli arbitri, oggi letteralmente calpestati da un flusso di informazioni in tempo reale (leggi: replay in diretta tv) contro il quale non possono combattere. Un avversario schierato a «catenaccio» come, spesso, i legislatori britannici. Ma per rinnovare le regole occorre cambiare il Board: non cancellarlo o stravolgerlo, solo renderlo più rappresentativo. Detto che la partecipazione totale (203 federazioni) non avrebbe senso, oppure si trasformerebbe in un carrozzone scandaloso (vedi le ultime elezioni), potrebbe non essere male un Board «mondiale». Magari sempre con 8 voti. Uno alla Fifa non più dominante; uno alle 6 confederazioni (Uefa, Nordamerica, Sudamerica, Africa, Asia, Oceania) rappresentate dai presidenti e pronte a discutere le richieste delle federazioni; uno a rotazione alle 4 britanniche. Sempre con maggioranza qualificata e tutte le garanzie possibili. Di sicuro ci sono idee migliori, ma è l'ora di parlarne.
  4. Tempo Scaduto di ALIGI PONTANI (Repubblica.it 13-03-2012) Salvate il soldato Palazzi Bisogna dirlo: Stefano Palazzi, capo della Procura federale della Figc, ce la sta mettendo tutta, snaturando un metodo di lavoro che di solito prevede l'invecchiamento di fascicoli e imputati ben prima di qualsiasi verdetto. E invece: audizioni serrate, calendario senza soste, grappoli di testimoni, indagati, sospettati, dirigenti, calciatori. Una marcia a tappe forzate verso i processi che dovrebbero liberare il calcio italiano dalla fogna del caso scommesse e soprattutto offrire certezze sulla classifica di due campionati: quello che deve finire e quello che comincerà l'anno prossimo. Per ora siamo al caos: non si ha idea di come, quanto e soprattutto quando saranno punite le squadre coinvolte, più o meno consapevolmente, dai loro tesserati. Due le ipotesi: saranno afflitte (la regola dice proprio così) in questa stagione, togliendo punti in misura sufficiente a creare un danno concreto. Oppure si imbastiranno per la prossima campionati di A e B ad handicap, con i colpevoli penalizzati in partenza. Perfino sorvolando su precedenti che non inducono all'ottimismo, vengono spontanee alcune domande: davvero il calcio guidato da Abete ha i mezzi, da solo, di trovare una soluzione rapida a questo gigantesco casino? Davvero Palazzi è in grado di indagare, deferire e poi sostenere i processi sportivi arrivando a verdetti che chiuderanno definitivamente la partita? O saremo tormentati per mesi da nuovi filoni, rivelazioni e impicci destinati ad assorbire la residua credibilità di uno sport dissanguato dagli scandali? Un'idea di cosa potrebbe accadere è arrivata dal procuratore Di Martino, che ha gettato nello stagno il tremebondo termine amnistia, causando un'indignata (e condivisibile) sollevazione. Se un magistrato si spinge a suggerire una soluzione tanto estrema, è proprio perché le risposte a quelle domande per lui (che molto sa) sono scontate: no, il calcio non riuscirà a sbrogliare in tempi stretti questo gigantesco casino. No, non risolverà in modo netto e definito il problema. No, non chiarirà tutto in modo da garantirsi pulizia e serenità nella prossima stagione. E quindi? Quindi, lasciando stare l'amnistia, è ora che il calcio e il Coni, che su di esso vigila, pensino alla questione scommesse come a un'emergenza di sistema e che come tale la affrontino. Cioè come fu affrontata - e parliamo solo di metodo - l'emergenza Calciopoli: salvando il soldato Palazzi, creando un pool inquirente e giudicante che lo affianchi, fissando e rendendo pubbliche le linee guida di indagine e del processo sportivo, decidendo fin d'ora su quale dei due campionati far ricadere le eventuali sanzioni. E disilludendo allo stesso tempo i club coinvolti: la responsabilità oggettiva non si tocca, non a incendio divampato. Semmai, se sarà il caso, se ne parlerà dopo, quando qualcuno che non sia Abete o Beretta capirà davvero che è ora di fare qualcosa per restituire agli italiani il diritto ad appassionarsi al calcio. Senza più turarsi il naso.
  5. CALCIOPOLI L'ARBITRO CONTRO IL CLUB L’Inter e lo scudo Facchetti Scatta il processo di De Santis che chiede il risarcimento per essere stato spiato Nel memoriale difensivo la società di Moratti sottolinea che l’operazione di intelligence era seguita “solo“ dal vice presidente di ALVARO MORETTI (Tuttosport 13-03-2012) ROMA. L’appuntamento se l’erano dati in autunno: alle 9.45 puntuali davanti alla giudice unico Loretta Dorigo , prima sezione del tribunale civile di Milano. Massimo De Santis , spiato dall’intelligence Telecom di Tavaroli grazie alla Polis d’Istinto di Cipriani - stando ai due - su input dell’Inter di Moratti e Facchetti chiede oggi un risarcimento monstre da parametrare con quello chiesto da Vieri per i pedinamenti ai suoi danni, roba da 21 milioni di euro, per quel dossieraggio chiamato “Operazione Ladroni”. L’ex arbitro, condannato a Napoli al processo Calciopoli, messo al centro delle attenzioni di Giacinto Facchetti, allora vicepresidente nerazzurro, e dell’autoproclamato cavallo di tr**a, Danilo Nucini , come terminale arbitrale di Moggi non ha mollato la presa. E oggi, assistito dagli avvocati Paolo Gallinelli e Federico Lucarelli , si presenterà a Palazzo di Giustizia a Milano e si troverà di fronte le avvocatesse nerazzurre Luisa Beretta e Silvia Trupiano . Ma anche un rappresentante legale del club: Moratti, Paolillo , Ghelfi . Il rito prevede anche il tentativo di conciliazione con l’ascolto della parti: cosa dirà l’Inter? Dei motivi che stanno alla base della richiesta risarcitoria di De Santis abbiamo a lungo parlato, coi legali ha ricostruito la fitta rete di elementi che vanno dalle ammissioni di Tavaroli, Plateo , Cipriani e Trochetti Provera sul caso Telecom (tra gli spiati anche la Juve), al lavoro sull’archiviazione sportiva precipitosa di Borrelli e Palazzi , ma solo per prescrizione e improcedibilità, vista la prematura morte di Giacinto Facchetti. Rileva, invece, in queste ore leggere le 35 pagine più allegati (su Calciopoli e Scandalo Telecom si affidano alle sintesi di Wikipedia) prodotte dalle due legali interiste. Le sorprese non sono poche, alcune anche piuttosto sconcertanti. PRESCRIZIONE Si parte con un refrain interista: il primo motivo di opposizione alla richiesta di risarcimento è la prescrizione. I pedinamenti, il lavoro di intelligence sui patrimoni, sui telefoni di De Santis risale al 2002 e 2003; peccato che la conoscenza di cosa avessero messo in piedi per spiare questo arbitro presuntamente al soldo di Moggi (neanche in Calciopoli si riesce a provare nulla a riguardo) sia stata successiva agli atti processuali del caso Telecom. L’Inter non vuole ascoltare testi, definendo Tavaroli, Plateo, Tronchetti e Cipriani non attendibili, anche se si riserva di ascoltare il suo direttore amministrativo Pessina . NON POTEVA L’aspetto però che più colpisce non è il merito della questione della commissione alla Polis d’Istinto di Cipriani del lavoro di spionaggio ai danni dell’allora arbitro internazionale: si punta forte sul fatto che - con produzione dei verbali d’assemblea del 2002 e 2003 - Giacinto Facchetti, che intratteneva i rapporti col cavallo di tr**a, Nucini , era “solo” vicepresidente interista, che aveva deleghe legate ai rapporti con le istituzioni sportive (anche la Fifa, nella quale c’era il tedesco Walter Gagg, di cui parla al telefono proprio con De Santis nel 2005), ma non il potere di commissionare dossier (qualcuno aveva forse questa delega?). Insomma non contava: e perché, allora, come ricordava anche il figlio Gianfelice, teneva in piedi il rapporto con Nucini, a che titolo? E perché doveva parlare con Tavaroli e riunirsi con lo stesso Moratti per parlare proprio delle informazioni avute sulla questione arbitrale? Certo singolare appare, ricordando l’importanza della figura carismatica di Facchetti, definire un vicepresidente e membro del comitato esecutivo come un soggetto che per una questione tanto delicata afferente proprio i rapporti con una delle istituzioni, quella arbitral-federale, non avesse possibilità d’azione. Quello dei dirigenti che esondano dalle loro deleghe, d’altronde, è una ridondanza nelle vicende attorno a Calciopoli. IRRILEVANTE Per l’Inter - ovviamente - nulla contano le notazioni di Palazzi nella sua relazione proprio sulla questione Nucini: la Casoria l’aveva trattato malino nella sua sentenza, l’arbitro bergamasco al centro della oscura vicenda del passaggio dalla Bocassini e di una archiviazione a modello 45 del suo report da cavallo di tr**a nella Can; ebbene anche le legali nerazzurre definiscono «totalmente irrilevanti» gli asseriti comportamenti dell’ex arbitro che si incontrava con Facchetti. PARZIALMENTE Curiosa la citazione parziale, come elemento a discarico, dell’archiviazione partorita dalla frettolosa e monca indagine dell’allora Ufficio Indagini di Borrelli e della Procura di Palazzi. Nel 2007 si arrivò all’archiviazione figlia di atti preliminari per «prescrizione» per i pedinamenti a Vieri e «improcedibilità» per la prematura morte proprio di Facchetti. L’Inter sostiene, poi, che i danni - semmai - De Santis dovrebbe chiederli a Pirelli e Telecom (cui erano state intestate le fatture per le indagini su De Santis): ma l’ex arbitro non era concorrente nella produzione di pneumatici o nella telefonia. AUTOGOL E’ un autogol, forse, quello che si legge alle pagine 28 e 29: sostanzialmente una legittimazione ad eventuali indagini private, visto che De Santis (10 anni dopo) è stato condannato per frode sportiva. Ma se loro sapevano, avevano indagato? E se sapevano perché non hanno denunciato alla Figc? Una bella sfida quella in programma da stamane, aspettando nelle prossime settimane la decisione sulla causa civile intentata da Vieri: proprio i suoi 21 milioni di risarcimento sono stati presi a parametro da De Santis per la sua battaglia legale.
  6. La tessera del tifoso cambia, Maroni si infuria Si chiamerà fidelity card e sarà più soft. L´ex ministro contro la Cancellieri: "Vincono gli ultrà" di FULVIO BIANCHI (la Repubblica 13-03-2012) Già il nome non era mai piaciuto. Tessera del tifoso. Sì, perché in qualche caso era stata vista come tessera di polizia, o si era trasformata in una tessera-business, facendo gli interessi (solo) delle banche. Ora basta. Dal prossimo anno si cambia. Addio, quindi, alla tessera del tifoso. Si chiamerà fidelity card. Ma la decisione fa subito litigare il vecchio e il nuovo governo. Con parole durissime di Roberto Maroni, ex Ministro degli Interni. La novità è stata annunciata dal direttore generale della Figc, Antonello Valentini: «La fidelity card sarà meno di controllo e più legata alla responsabilità dei tifosi dei club, con procedure snellite e molti servizi per chi se ne dota. Un´apertura di credito importante». E´ stata in vigore due anni, la tessera del tifoso: oltre un milione di supporter (esattamente 1.014.371) l´hanno sottoscritta, molti a malincuore. Ma era (è) obbligatoria per chi vuole abbonarsi o andare in trasferta. Adesso il neoministro dell´Interno, Anna Maria Cancellieri e il capo della polizia, Antonio Manganelli, hanno deciso che è arrivato il momento di dare fiducia ai tifosi e non rendere loro la vita difficile, come è successo (troppe volte) in passato. Importanti anche il parere del garante della privacy e del Consiglio di Stato per bocciare alcuni aspetti della tessera. Ma l´ex ministro Roberto Maroni attacca: «Hanno vinto le tifoserie ultras e violente. Hanno vinto quelle società come la Roma (di cui è tifosissima la ministra Cancellieri) che non avevano mai accettato le regole. La tessera aveva dato buoni risultati, lo ha detto anche il Viminale, ma hanno vinto ancora una volta le lobby del calcio». Manganelli assicura invece che la "tessera del tifoso si evolve, ma non cambia, manterrà le sue caratteristiche e sarà sempre necessaria per le trasferte e gli abbonamenti». Allora, cambia soltanto il nome? È un´operazione con l´inganno? Non dovrebbe essere così, almeno nelle intenzioni: le procedure per la futura ‘‘fidelity card´´ verranno di molto snellite, garantisce la Figc. Si otterrà in un breve tempo (massimo un mese). Servirà, è vero, sempre un documento d´identità ma non si passerà più dalle banche e si avrà in pratica una card a punti che, come tante altre (supermercato, librerie, benzinaio, eccetera), darà servizi e sconti. Spiega ancora Valentini: «Tra l´altro, così si supera l´effetto ingiustamente negativo del messaggio passato all´avvio dell´iniziativa: ovvero di un meccanismo di operazione di polizia. Nessuna intenzione, ovviamente, da parte della Figc di dare il via libera ai violenti». Prudente Lorenzo Contucci, avvocato degli ultrà: «Il segnale è positivo ma adesso bisogna fare il passo avanti decisivo, cambiando l´articolo 9 che ne vieta il rilascio a chi ha scontato il Daspo o una condanna. Altrimenti rischia di rimanere solo un´operazione di facciata». Secondo i Radicali invece resta «uno strumento di polizia, anche se dovesse chiamarsi fidelity card…». Per la Federsupporter invece è "un grande successo". Ma i club di calcio adesso non si potranno più nascondere.
  7. 13 03 2012 Dammi la tua mano “zingaro”... La sceneggiatura è oggettivamente una buona sceneggiatura: dopo le due “tranches” delle inchieste di “Last bet” della Procure di Cremona e di Bari, gli arresti, le confessioni ecc., e mentre la Procura sportiva del solito Palazzi va avanti non so quanto velocemente, ecco gli “zingari” latitanti e conversatori scovati da Repubblica. C’è Gegic, l’ex giocatore, e Ilievski, l’omone intervistato a Skopje, la macedonica città dei terremoti, da un drappello di colleghi. Era “irrintracciabile”, ma evidentemente è tutto relativo. Adesso manca una vera zingara, “donna misteriosa”, un “pentito” credibile, magari il padre di un calciatore che voglia “riscattare” un briciolo d’onore “vuotando il sacco”, e poi ci siamo. Darò un colpo di telefono a Ilievski per capire se è possibile imprimere un’acceleratina anche al copione: mi metto nei panni del lettore di queste pagine. Da mesi qui e in libreria (cfr. Il calcio alla sbarra, ed. BUR) trova anticipata tutta la vicenda, comprensiva di ipotesi di sviluppo sportivo, politico-sportivo e politico “tout court”, ed è costretto anche a far finta di stupirsi? E via, non è serio... Delle dichiarazioni del buon Ilievski comunque colpiscono il racconto dei dettagli (per esempio l’albergo milanese di Corso Como, quartier generale delle scommesse col trucco), e i confronti: “In Italia succede di tutto, in Inghilterra no”. Chissà come mai... MA MENTRE i cronisti fanno il loro lavoro egregiamente anche se con leggero ritardo sulla tabella di marcia, io me la cavo riproponendo una serie di interrogativi riassuntivi: 1) La giustizia sportiva di suo sa qualcosa o va sempre a parziale e discutibile rimorchio di quella ordinaria? 2) Aspetto che tutto il Gotha dirigenziale dello sport italiano, quindi non solo Abete (Federcalcio) ma anche Beretta (Lega di A), Abodi (Lega di B) e in primis il presidente del Coni che tutto controlla, Petrucci, dichiari candidamente e senza sorridere, che non immaginava nulla, meglio se a reti unificate e a favore di telecamera... Lo faranno mai? 3) La politica italiana, quella che usa il calcio come business e diversivo socio-economico, si può permettere uno scandalo del genere che stando anche soltanto a ciò che è già emerso (cfr. le ultime dichiarazioni del capo della polizia, Antonio Manganelli) dovrebbe far mettere il campionato dell’anno scorso e forse anche l’attuale in salamoia? E tra i lettori, chi si scandalizzerà davvero del fatto che in ballo oltre a “zingari”, scommettitori, giocatori, imbroglioni e giocatori-imbroglioni, ci siano anche dirigenti di club per conto degli stessi club? Volete che squadre di Serie A che secondo i dati più recenti del 2010-2011 (esattamente il campionato più indagato) avevano debiti per 1 miliardo e 550 milioni, si siano fermate di fronte all’opportunità di rifarsi del denaro attraverso delle puntate “monstre” su punteggi e risultati pilotati? Li prendete per stupidi? E davvero si finge di ignorare che da sempre ci sono porzioni terminali “gr igie” dei vari tornei oggetto di compravendita? Su tutto ciò bisogna aspettare Gigic e Ilievski, oppure tutti gli addetti sapevano tutto e hanno continuato finora all’insegna della più smaccata ipocrisia? Quello che mi impressiona è la differenza di trattamento da parte dei monopolisti del diritto e della morale: per Calciopoli e Moggi è venuto giù il teatro, anche se a mio sommesso parere la faccenda è tutt’altro che chiarita, sia sul piano della giustizia sportiva che di quella ordinaria. Per “Scommettopoli”, che mina alla base qualunque credibilità di qualunque partita, la soglia di accettazione è salita vertiginosamente, e ci vuole l’amico zingaro che assieme alla zingara legge la mano del campionato. Ripeto che tutti coloro che avevano o hanno a che fare con l’ambiente, a cena erano tranquillamente informati del precipizio imboccato con le scommesse e del loro volano planetario. Un conto era il designatore al telefono, che millantasse o manipolasse davvero (ricordo che le motivazioni della sentenza di Napoli parlano di “partite regolari”), un altro è il boss di Singapore che condiziona via Internet tutto quello che vuole, o quasi. Nel caso di Doni, Signori e C., si tende invece a minimizzare, come se il Reame Rotondocratico fosse già esausto per gli scandali pregressi e non potesse sopportarne un altro maggiore. Ma il calcio non è finito per arbitri sospetti, storia vecchissima, mentre può sparire come l’ippica in una sala scommesse. DUNQUE forza con l’indignazione a orologeria, forse in extremis si riesce ancora mediaticamente a coinvolgere un’opinione pubblica stremata. Per la mia modesta conoscenza del settore, nella vicenda delle partite truccate “ad usum scommettitorum”c’è una forma di “concorso esterno nell’arrangiamento truffaldino”, che forse oggi va poco di moda, ma è la lente per guardare a tutto l’ambiente. O sono correi, o sono complici, o favoriscono l’andazzo facendo finta di niente. Ho scritto che premiare la normalità di un Simone Farina, il terzino del Gubbio che ha denunciato il tentativo di corruzione, era il riconoscimento dello stato terminale del calcio. Stando agli “zingari”, invece, un Farina è un eroe superato dalla cronaca. Staremo a vedere, in base a quello che accadrà alla giustizia sportiva e a quella ordinaria, e alla lettura politica del Grande Pasticcio. Nel frattempo il Pallone sgonfio di debiti continua a licenziare e riassumere allenatori, non sapendo far altro. Mi domando se i “tycoons” rotondocratici (dico un Moratti, o un Della Valle, o lo stesso management Juve/Fiat) gestiscono nello stesso modo le loro aziende. Se devo rispondermi di sì, ecco la chiave di lettura del Paese. Se devo rispondermi di no, ecco la chiave di lettura di un’industria anomala più di un’onda omonima, quale è quella del calcio.
  8. Lotito il risparmiatore di STEFANO OLIVARI dal blog GUERIN SPORTIVO.it 12-03-2012 Invece di 2 anni, la condanna per aggiottaggio e ostacolo agli organi di vigilanza a Claudio Lotito sarà di 18 mesi: questo ha deciso la Corte di Appello di Milano e vedrete che qualcuno la presenterà, senza vergognarsi, come una mezza vittoria del presidente della Lazio. Già, la Lazio. Stiamo parlando di questa vicenda non perché appassionati di cronaca giudiziaria, ma perché c’entra il calcio. E in particolare il mitico e mitizzato calcio in Borsa, quello che alla fine degli anni Novanta avrebbe dovuto rendere più serio tutto lo sport sulla spinta degli innovatori Cragnotti, Sensi e Agnelli. Peccato che la Borsa, non solo in Italia e non solo per le società calcistiche, sia un modo formalmente legale di togliere soldi a piccoli e medi risparmiatori senza che i principali azionisti perdano il controllo o debbano rendere conto a qualcuno per le proprie azioni. Il cosiddetto ‘parco buoi’, a volte avido ma più spesso semplicemente disinformato, subisce le fluttuazioni del mercato comprando al picco massimo di un’azione e vendendo in perdita: non è sempre così, ma basta una piccola percentuale di persone che ragionino in questa maniera per far prosperare i furbi in giacca e cravatta. Ma torniamo a Lotito, (ri)condannato insieme a Roberto Mezzaroma (un anno e due mesi) per fatti del 2005. Mezzaroma che fra l’altro è un quasi parente, essendo zio della moglie di Lotito (e anche dell’attuale presidente del Siena, Massimo, che però non è fratello di Cristina: sembra Dynasty…) Secondo l’accusa, tra il presidente laziale, autodefinitosi qualche anno fa ‘moralizzatore’ e il costruttore Mezzaroma, ci sarebbe stato un presunto accordo occulto per evitare il lancio dell’offerta pubblica d’acquisto sui titoli della Lazio. Un accordo che secondo l’accusa portò l’imprenditore Mezzaroma ad acquistare il 14,6% di azioni della Lazio, per conto di Lotito. In tal modo il patron non sarebbe figurato come reale titolare del pacchetto azionario, in base al quale avrebbe dovuto invece lanciare l’Opa obbligatoria dopo il superamento del 30% delle quote. Opa sta per offerta pubblica di acquisto: in pratica il parco buoi avrebbe beneficiato (essendo l’Opa lanciata ad un prezzo superiore al valore borsistico) della valutazione data da Lotito alla società, evitando di vivacchiare fra gli alti e i molti bassi della Borsa. Un bel risparmio per Lotito, comunque la si voglia vedere, con il risparmiatore-tifoso ancora una volta all’oscuro di tutto.
  9. Caro Platini e se il fair play finanziario non fosse la strada giusta? di MARCO BELLINAZZO dal blog Calcio & business (Il Sole 24 ORE.com 12-03-2012) Il presidente della Uefa Michel Platini non intende tornare indietro sul Fair Play Finanziario. «Le discussioni le abbiamo fatte quattro anni fa, sono come il vostro Monti in Italia che deve fare cose impopolari ma le deve fare - ha ribadito in occasione della consegna del premio della Uefa a Gianni Rivera -. È la prima volta che tutti sono d'accordo: abbiamo un miliardo e mezzo di euro di perdite ogni anno, non torneremo mai indietro, È l'unica cosa che si può fare per far sopravvivere il calcio». Che non si possa andare avanti macinando perdite e debiti È chiaro a tutti. ma siamo sicuri che la strada imboccata sia quella giusta? Le attuali regole del fair play infatti rischiano di congelare le attuali gerarchie. Se si può spendere solo quello che si incassa, chi oggi incassa 400 potrà continuare a spendere 400 e chi oggi incassa 100 non potrà spendere più di 100. Rischio congelamento. Ma chi guadagna 100 come fa a incrementare i ricavi se non comprando campioni e remunerandoli adeguatamente? Ci vogliono investimenti per crescere, ma con il fair play il "rosso" del triennio non potrà superare i 45 milioni. In altri termini, mettere al bando sceicchi e oligarchi che "drogano" il calciomercato È positivo. Il rischio però È che le squadre di fascia medio-alta non potranno mai competere con quelle nobili (Real, Barcellona, Bayern, Manchester, Milan, eccetera), a meno che non abbiano la fortuna di acquistare giovani campioni che si accontentino di ingaggi inferiori a quanto potrebbero ricevere altrove. In definitiva, il fair play almeno nel breve periodo, rischia di cristallizzare l'attuale classifica del calcio europeo. Il caso Ranger Glasgow. Qualche settimana fa i Rangers Glasgow sono entrati in amministrazione controllata e hanno subito una penalizzazione di 10 punti. In queste ore si parla di un possibile fallimento. Sul club scozzese pende anche unasentenza di una commissione tributaria britannica che potrebbe condannarlo a pagare quasi 50 milioni di sterline a causa di tasse non pagate dal 2001 a oggi. Con le multe però si rischia di salire sino a quota 75 milioni di sterline. Una cifra monstre e la situazione È drammatica. Per rendere l'idea, pare che per fronteggiare i creditori la dirigenza dei Ranger avrebbe già impegnato 24 milioni di sterline dei ricavi degli abbonamenti dei prossimi quattro anni. ___ Beretta insiste: "Con gli stadi di proprietà usciamo dalla crisi" di MARCO BELLINAZZO dal blog Calcio & business (Il Sole 24 ORE.com 12-03-2012) "La questione del disequilibrio tra entrate e uscite riguarda il calcio inglese e spagnolo in maniera più grave rispetto al nostro. Si stanno facendo azioni per andare ad avvicinare entrate ed uscite, c'è il fair play finanziario, c'è lo sforzo per legare di più i risultati agli stipendi dei calciatori ma il deficit che noi accumuliamo sarebbe ridotto a zero se avessimo degli stadi di proprietá". E' questa la ricetta vincente per il presidente della Lega di Serie A, Maurizio Beretta. Il disequilibrio. "C'è uno sbilancio, secondo i dati resi noti in questi giorni. Noi incassiamo da stadio solo il 13% del totale del fatturato che è di circa 1,6 miliardi di euro. Se ci potessimo avvicinare, arrivando al 25%, il disavanzo sarebbe azzerato. Le entrate da stadio sono il problema. La Germania ha il sistema più virtuoso e in equilibrio e le entrate da stadio sono un terzo del totale. Il problema dell'indebitamento c'è in tutta Europa e va affrontato in maniera coordinata", aggiunge il numero uno della Lega di Serie A. Contratto collettivo. "Anche il nuovo accordo collettivo dei calciatori è un tassello in direzione del controllo dei costi. Poi si possono individuare altri meccanismi virtuosi, ma il dato fondamentale è avere stadi di proprietá con i quali si aumentano gli introiti, non solo del botteghino, ma da negozi per la vendita dei prodotti delle societá e dalle attivitá collegate, come palestre a ristoranti e rappresenta un'ulteriore leva per aumentare i ricavi. Ma per fare gli stadi è indispensabile una legge quadro per la velocizzazione burocratica e per compensazioni per l'investimento", aggiunge Beretta. Diritti tv. "Quando si vendono collettivamente i diritti televisivi, se rappresentano il 60% hanno un peso più importante, per questo la strada maestra è quella di trovare nuove vie per avere una struttura di ricavi più equilibrata", precisa il presidente della Lega A. Molto si è parlato della possibilitá di ricavi anche dai giochi per la play station. "È possibile, ma stiamo discutendo della ripartizione complessiva delle risorse. A fronte di una vendita collettiva va trovato un accordo equilibrato per poter mettere a disposizione della Lega e della Serie A, diritti che non sono collettivi ma nella disponibilitá delle singole societá. Si è deciso saggiamente di chiedere ai club più importanti, che sono titolari dei diritti soggettivi, di fare una proposta di suddivisione dei ricavi, per rendere questi diritti collettivi. È una delle grandi scommesse che abbiamo davanti". Per quanto riguarda il bando dei diritti tv in chiaro, spiega Beretta, «è la parte rimasta che deve essere portata a compimento, è l'ultimo tassello mancante, ma il complesso per i prossimi tre anni fará registrare un incremento significativo che ci lascia molto soddisfatti. Si registra una crescita forte dell'attenzione del calcio italiano di Serie A, non solo a livello italiano ma anche internazionale». La legge sugli stadi. "Con il ministro dello Sport, Piero Gnudi - conclude Beretta - c'è un rapporto costante, è una persona di grande competenza e passione, competenza per fatti economici e di programmazione. Questa credo sia la premessa migliore per guardare con la giusta luce l'opportunitá di avere la legge sugli stadi. Il Senato ha fatto uno straordinario lavoro, e la Camera ci sta lavorando da molti mesi, siamo vicini a trovare una soluzione per rendere possibile la realizzazione di stadi nuovi e moderni. L'auspicio è che si arrivi presto ad una svolta che è nell'interesse del calcio, dello sport nel suo complesso e nell'interesse generale".
  10. L´inchiesta Tutti al Grand Hotel Scommesse camere con vista sulle combine In un albergo milanese puntate da 30 mila euro in su di GIULIANO FOSCHINI & MARCO MENSURATI (la Repubblica 12-03-2012) Lo chiamano "Hotel scommesse". È in corso Como, a Milano. È frequentato da calciatori, ex campioni appesantiti, scommettitori accaniti, spesso malavitosi. Là dentro si decidono partite del campionato italiano. Si giocano scommesse, pagamento solo in contanti. E quasi sempre si vince. La storia, raccontata in molte pagine degli atti della procura di Cremona, è oggetto in queste settimane di ulteriori riscontri. Uno, arriva da Hrystiyan Ilievski, lo scommettitore macedone secondo la procura di Cremona a capo dell´organizzazione degli Zingari. Ilievski la racconta come una delle prove per smontare o comunque ridimensionare le accuse mosse dalla magistratura italiana nei suoi confronti: non esiste nessuna banda di Zingari, è la sua tesi, che trucca il campionato italiano. Ma attorno alla serie A e alla B girano da anni gruppi di scommettitori che comprano informazioni dai calciatori che sistemano le partite per semplici ragioni sportive o perché corrotti, ma da gruppi malavitosi. «Mafia, italiana o albanese» ripete Ilievski. «Non certo noi». Poi lo slavo aggiunge: «Indagano su di me o Gegic, ma perché non cercano di capire chi è che ogni domenica va in questo albergo?». Questo signore a quanto pare si chiama Salvatore. Forse è siciliano, forse calabrese. Ha circa 65 anni. «Di lui so soltanto che ha una serie di cellulari, fa un paio di telefonate, apre un computer e poco prima del calcio di inizio dice se la partita si può giocare oppure no. Se sì, si scommette. Altrimenti si va tutti a casa». Si accettano soltanto somme in contanti, e soprattutto si può scommettere soltanto cifre molto alte. Da trentamila in su. Una volta - racconta Ilievski - Bellavista e Bressan (due dei calciatori arrestati nell´operazione Last Bet) si presentarono con assegni, provarono ad arrabattare due parole ma Salvatore li rimandò indietro con qualcosa di più di un sorriso. «In Italia giocano tutti, ci sono gruppi organizzati. È incredibile che vengano a dire a noi, macedoni, di essere in grado di truccare le partite. È assurdo». Ilievski torna pure sulla combine di Lazio-Genoa e chiarisce. «La storia di Sculli io l´ho solo sentita dire. Non so niente di più, né tantomeno conosco il giocatore. Di certo la vicenda di Zamperini e Mauri è completamente inventata: l´1-1 al primo tempo l´hanno fatto gli altri, non certo noi! Andate a vedere quanta gente nella regione Lazio ha giocato su quel risultato». Tanti, troppi, confermano le agenzie di bookmakers. Tanti altri gli esempi: nel veronese leader del gioco sarebbero il gruppo dei fratelli Cossato (indagati nelle inchieste). Loro avrebbero gestito una delle partite emblema di questa inchiesta sul calcio scommesse, il 3-3 tra Albinoleffe e Piacenza del dicembre 2010 che costrinse le agenzie a bloccare le puntate. Napoli era invece una sorta di territorio inavvicinabile per gli scommettitori: la storia di Napoli-Parma dell´aprile del 2010 con i Lo Russo a bordo campo è solo una, così come è un dato ormai acquisito che i bookmakers di Singapore consentivano il pagamento delle scommesse anche in Campania. Qualcosa di strano avviene in Brescia-Lecce 2-2 del febbraio 2011: giocano tutti sull´over, gli slavi intercettano l´informazione solo alla fine tanto che riescono a scommettere solo qualche migliaio di euro. Un altro personaggio chiave sarebbe Ivan Tisci. Ex calciatore, grande scommettitore e anche lui ospite dell´Hotel Scommesse, è il trait d´union tra il gruppo di Erodiani, Bellavista, Pirani e appunto gli Zingari (come dimostrano centinaia di intercettazioni che gli uomini dello Sco e della squadra Mobile di Cremona stanno rianalizzando alla luce delle novità delle inchieste). È Tisci che tira gli slavi nel mercato italiano. Scoprendo poi quasi per caso una "vecchia" conoscenza: Armin Gecic, il calciatore considerato dagli investigatori con Ilievski capo del gruppo, era stato suo compagno nel Vicenza di Reja. ___ Il retroscena La farsa per Genoa-Lecce un sosia al posto di Corvia di GIULIANO FOSCHINI & MARCO MENSURATI (la Repubblica 12-03-2012) La partita è di Serie A, Genoa-Lecce, ma la storia sembra scritta dai fratelli Vanzina. Gli Zingari hanno appena preso il pacco da Marco Paoloni, il portiere della Cremonese, su Lecce-Inter: doveva essere un over, invece la partita era terminata con uno striminzito 1-0. Gli slavi, come i bolognesi di Signori avevano perso decine di migliaia di euro per colpa della soffiata sbagliata. Paoloni spaventato dalle possibili ritorsioni offre subito una ricompensa: Genoa-Lecce, appunto. Hristiyan Ilievski, quello che diventerà "lo Zingaro" nelle carte dell´inchiesta, non si fida e chiede di incontrare i giocatori che secondo Paoloni facevano parte della combine di persona. A organizzare l´incontro è Massimo Erodiani, il tabaccaio abruzzese che faceva parte della cricca (e con la cricca verrà arrestato nella prima retata, nel giugno scorso). L´appuntamento è in un autogrill all´altezza di Ascoli. Un luogo particolare, pensa sospettoso Ilievski: i giocatori - prova a spiegare Erodiani - hanno deciso di andare a Genova, da Lecce, in macchina... In ogni caso il macedone arriva all´appuntamento in autogrill. C´è Erodiani. E con lui si presentano tre ragazzi: hanno una tuta, una specie di cappuccio, dicono di essere Corvia, Brivio e Vives. Ilievski li guarda, storce il naso, non si convince. Fissa bene quelle tre figure, vestite da calciatori, in tuta Nike e con i berretti alla moda. Parla poco e torna in auto, prende il telefono, va su Internet, controlla le foto e ha la conferma al sospetto: i tre erano sosia, altro che Corvia, Brivio e Vives. Chiama Erodiani, strilla e dice che non si fa niente. I 200mila euro previsti dall´accordo svaniscono nel nulla. Quello balbetta che no, sbaglia, i giocatori erano davvero loro. Ilievski fa finta di crederci. E offre a Erodiani una seconda possibilità: «Fammi parlare su Skype con Corvia in webcam» gli dice. Il tabaccaio contatta Paoloni che diceva di avere il contatto con Corvia, l´attaccante del Lecce. La videochiamata avviene il giorno dopo. Il resoconto della farsa è nelle parole davanti al magistrato dello stesso Erodiani. «Mi disse Paoloni che Corvia non aveva la webcam, e allora il Paoloni si è fatto dare da Corvia le sue password e ha simulato una videochiamata spacciandosi per Corvia». Comincia la chiamata e c´è da ridere. «Arriva questo e dice di essere Corvia - racconta Ilievski - io avevo visto le foto del giocatore su Internet e avevo notato che aveva un tatuaggio sul braccio. Gli ho detto: fammi vedere il braccio, fammi vedere il tatuaggio. Quello non vi dico la faccia che ha fatto, non sapeva che fare: io ho chiuso la telefonata e chiaramente della partita non abbiamo fatto niente. Ma questo vi fa capire quanta paura facevamo agli italiani…».
  11. La storia Resta alta la tensione tra il governo del Paese organizzatore e l’istituzione calcistica, avviata un’azione diplomatica Brasile, un Mondiale che mette fifa alla Fifa Gli stadi sono a buon punto, Blatter preoccupato per alberghi e voli aerei di ROCCO COTRONEO (CorSera 12-03-2012) RIO DE JANEIRO — Non si amano il Brasile e la Fifa, non si amano da tempo. Troppi potentati che profumano di eternità, da una parte Ricardo Teixeira, che regna sul futbol brasiliano da decenni, e dall'altra Joseph Blatter e i suoi uomini. Troppa distanza culturale, tra un'entità che ha sede nella rigorosa Svizzera e un sistema calcio che vive in buona parte nel secolo scorso. E in più, negli ultimi anni, un governo gonfio di orgoglio nazionalistico, iper reattivo su ogni richiamo che arriva dall'estero. Il problema è che adesso c'è in ballo il Mondiale 2014, e mentre le lancette girano veloci i rapporti non fanno che peggiorare. La Fifa teme una catastrofe organizzativa, il Brasile risponde che non è vero, tutto procede. Volano parole grosse, letteracce, cancellazione di incontri. Blatter ha dovuto chiedere scusa al governo di Dilma Rousseff per una frase pronunciata dieci giorni fa dal suo braccio destro Jerome Valcke: «Il Brasile ha bisogno di un bel calcio nel sedere, a questo punto», si è lasciato scappare il segretario generale della Fifa. Poi ha tentato di prendersela con l'interprete, come si fa in questi casi, dicendo che voleva dire altro, qualcosa come «ha bisogno di una scossa». Ma ormai il guaio era fatto. Il Brasile ha immediatamente dichiarato Valcke persona non grata, chiedendo alla Fifa di sostituirlo come interlocutore (il dirigente Fifa segue i lavori con regolarità, venendo in Brasile ogni 2-3 mesi). Le scuse, dicevamo, sono poi arrivate, ma il Brasile ha deciso di tenere un po' a mollo la Fifa. Prima di riallacciare i rapporti, Blatter dovrà venire in pellegrinaggio dalla presidente Rousseff, ma la signora ha molti impegni e non si sa quando avverrà l'incontro. Poi, forse, Valcke potrà tornare alle sue missioni di controllo. Su chi abbia ragione nella diatriba è difficile dire. La Fifa ammette che i lavori negli stadi sono a buon punto (per il Brasile alcuni sono addirittura in anticipo sul cronogramma, come il Maracanã), ma sul resto è terrorizzata e non si fa una ragione che il Parlamento non abbia ancora approvato la legge quadro sulla competizione. «Non è mai successa una cosa del genere, a poco più di due anni dal calcio di inizio», ha lamentato Valcke. In un incontro a Rio, qualche settimana fa, disse al Corriere: «Lo so che gli stadi saranno pronti e pure bellissimi, vorrei capire come faranno a far spostare migliaia di persone in poche ore tra una città e l'altra, tra la prima e la seconda fase». Si riferisce ad alberghi, aerei, logistica in generale, tutto ciò che dipende dai risultati sul campo delle diverse nazionali. La legge quadro può sembrare appena un passaggio burocratico, ma definisce questioni delicate. Quando un Paese accetta l'organizzazione di una Coppa del mondo si sottopone a una raffica di condizioni della Fifa che sfiorano la perdita di sovranità, negli stadi e attorno ad essi. I deputati brasiliani hanno finora fatto muro su molte esigenze. Volevano i biglietti a metà prezzo per ragazzi e anziani, la proibizione di vendere birra, la non responsabilità su alcuni episodi e altro ancora. Sostenendo che le leggi federali vengono prima di tutto. A Brasilia, durante la discussione, c'è chi ha tentato di infilare proposte bizzarre, come l'accesso scontato alle partite a chi consegna un'arma illegale. Alla quale il solito Valcke ha replicato: «Non credo di aver abbastanza biglietti per tutte le pistole che circolano in Brasile...». C'è chi intravvede dietro a molte questioni uno scontro di potere nell'alta burocrazia del calcio mondiale. Colpito dagli scandali interni, il brasiliano Teixeira, che è pure presidente del comitato organizzatore, è da qualche giorno in licenza malattia. Blatter lo teme come concorrente per la poltrona più alta della Fifa, che già venne occupata dal suocero di Teixeira, l'altro eterno boss del calcio João Havelange. L'unico punto sul quale sono tutti d'accordo è che, qualunque cosa accada, a Copa non potrà essere tolta al Brasile. In teoria la Fifa ha tempo fino a giugno di quest'anno per spostare la sede, ma il giornale Folha de São Paulo ha seppellito l'ipotesi con un suo studio: ci sono già 921 contratti firmati tra sponsor, diritti tv, hotel, linee aeree. Cancellarli e ricominciare da zero da un'altra parte è praticamente impossibile.
  12. Il commento Negli anni di Moggi, molti episodi contrari alla Juve sarebbero andati in altra direzione Nessun complotto, ma ora pesa il passato di MARIO SCONCERTI (CorSera 12-03-2012) Due reti al Lecce con il gol numero 19 di Ibrahimovic: il Milan va in fuga e si porta avanti di 4 punti sulla Juventus nella corsa allo scudetto di Serie A. I bianconeri, furiosi per un gol negato e un nuovo pareggio, si chiudono in silenzio stampa. Tifosi in rivolta. Non credo agli arbitri disonesti. La storia qua e là mi dà torto, ma sono episodi che capitano in tutte le professioni, non fanno regola. Credo nella differenza di valutazione, nel peso diverso dei giudizi, in quella che si è sempre stata chiamata sudditanza psicologica, la disonestà piccola a cui ognuno ha diritto. Fatti tutti i preamboli, che cosa sta succedendo alla Juve o nei confronti della Juve? Non c'è un complotto, ma qualcosa c'è. Negli anni di Moggi molti episodi di questa stagione sarebbero andati in altra direzione. Perché così ci si sarebbe aspettato. Questo è il punto oggi. La Juve ha una dirigenza simile a quella, una forza economica anche superiore e la stessa vastità di popolo, ma le cose non accadono. Questo porta il popolo della Juve a giudicare con il metro di sei anni fa, ma non gli arbitri. È vero quello che pensa la Juve, c'è molta delicatezza nel maneggiare le decisioni che la riguardano, ma viene dal troppo maneggio precedente. Il calcio, tutto il calcio, ha vissuto l'epoca Moggi come un'ingiustizia come quella che la Juve pensa di vivere oggi. Oggi è vero che si è più realisti del re. La Juve è una materia calda, scabrosa, ora tocca a lei accettare le decisioni come fatali e tocca agli arbitri giudicare la Juve come chiunque. Il calcio ha una sua logica, gli errori di cui si lamenta la Juve sono gli errori di cui si lamentano gli altri. Di diverso c'è solo la forza della propaganda, i rigori di cento società passano sotto silenzio. Volete un esempio? Si dice il calcio perde ogni anno 250 milioni. Non è vero, il novanta per cento di quella cifra la perdono da soli Inter, Milan e Juve. Otto società sono in attivo, due sono a zero, le altre si scambiano attivi e passivi. Ma il «calcio», il totale, il complessivo, è sempre dove sta la massa critica, dove stanno i clienti. Il nostro problema sono in sostanza Inter, Juve e Milan, le società più grandi. Risulta a qualcuno? E soprattutto, qualcuno vorrebbe che cambiasse la storia? Questo è quello che intendo per propaganda, per forza di comunicazione. Questo rende diversi gli errori degli arbitri, la loro risonanza. La Juve sta gridando al calcio che ha recuperato la sua forza, pretende che il calcio questo lo capisca. Non chiede giustizia, quale giustizia? Quella del Catania, del Bologna o del Novara? Davvero pensa che ci guadagnerebbe? Chiede comprensione liberale, la giustizia dell'uomo e del denaro. Nel mezzo c'è un'Italia livorosa che cerca di tenerla lontano dalla mensa. Sento anch'io una certa mancanza di rispetto, una facilità di giudizio e di parole che in altri tempi nessuno si sarebbe permesso. Questo è il punto di discordanza: la Juve deve recuperare non l'antica arroganza, ma la vecchia universalità. Oggi governa come fosse all'opposizione, il branco non le riconosce cultura di potere. Colpa del branco, colpa anche della Juve. ___ Retroscena, il silenzio lo ha deciso Conte Errori arbitrali sicuramente ma anche motivi tecnici E lo scudetto si allontana di ROBERTO PERRONE (CorSera 12-03-2012) GENOVA — C'è un solo uomo al comando. Il suo nome è Antonio Conte. È l'allenatore squalificato (e arrabbiato per la giornata in tribuna e per quello che vede in campo) a decidere il silenzio che la Juve usa come una clava. Oscuramento totale. Neanche i fratelli di Juventus Channel ottengono una parola. La nota ufficiale alle 17. 32 su Twitter: «La Juventus lascerà Marassi senza rilasciare dichiarazioni: le immagini parlano da sole». Sotto accusa, soprattutto, c'è il gol di Pepe, annullato per una faccenda di cm. Contro il Chievo, De Ceglie aveva segnato in fuorigioco: il guardalinee aveva aderito al principio «nel dubbio non alzate». Questo alza. Sbagliano entrambi. In una settimana, la ruota gira da una parte all'altra. Ma la Juve su questo tace, aprendo il cahier de doleance fin dalla prima giornata (contro il Parma). Malgrado il 4-1, cominciò la battaglia di Conte per «le pari opportunità». La Juve ha avuto finora un solo rigore. Ne meritava di più: con l'Inter (Castellazzi su Marchisio, gigantesco), con il Lecce (Oddo su Vucinic) , con il Parma ancora (Biabiany su Giaccherini). E poi il mani di Vergassola con il Siena. Ovviamente da parte bianconera si glissa sul «braccione» di Pirlo con il Cagliari e si sorvola sul gol per non vedenti di Muntari. Madama pare rifiutare la logica (parafrasata) del profeta Giobbe: l'arbitro ha dato, l'arbitro ha tolto, alla fine si pareggia tutto (e i bianconeri di pareggi dovrebbero intendersene). In realtà, da Conte in giù tutti alla Juve sanno benissimo che lo scudetto (impensabile in agosto, comunque bravi a essere ancora in lizza) si sta allontanando per ragioni tecniche. La battaglia contro gli arbitri è per il «rispetto» e a memoria futura. È politica. Al di là delle singole decisioni, è l'atteggiamento degli arbitri a non piacere alla Juve. Un misto di arroganza e scarsa considerazione. Domani sapremo se il silenzio continua. C'è anche l'ipotesi che prosegua Conte da solo. ___ Fischio finale di PAOLO CASARIN (CorSera 12-03-2012) La confusione tecnica colpisce anche Rizzoli Nicola Rizzoli è l'arbitro italiano più titolato e, giustamente, parteciperà al prossimo campionato d'Europa. Ha talento e vasta esperienza; malgrado ciò è uscito dallo stadio, dopo Genoa-Juventus, tra le recriminazioni e i dubbi di entrambe le squadre. Tante polemiche perché in questa gara sono accaduti molti episodi in area per trattenute, entrate sulla palla e sull'uomo, falli di mano. Anche l'uso dei cartellini è stato impreciso e perfino il buon assistente Cariolato ha preso una decisione, annullamento del gol di Pepe per fuorigioco, molto discutibile. Rizzoli si aggiunge, pertanto, alle polemiche che avevano accompagnato alcune gare di Rocchi e Tagliavento, gli altri due arbitri di vertice. Potremmo dire che la confusione tecnica ha colpito i più forti fischietti, che dirigono le gare più difficili: a questo punto del campionato, dopo tante raccomandazioni per ottenere arbitraggi buonisti e/o leggeri, è difficile ritornare subito sui binari della regola. Rizzoli ha lasciato correre una evidente trattenuta di Carvalho su Matri: è vero che Matri aveva inizialmente strattonato Carvalho, ma è altrettanto certo che Carvalho ha placcato, subito dopo, il bianconero. Se non fischi il primo contatto non è detto che devi sorvolare su tutto il resto. Dopo questa scelta, ad inizio gara, tutti gli altri avvenimenti in area, più difficili da giudicare, sono stati considerati accettabili. Carenza anche nei falli e nelle ammonizioni, vedi De Ceglie meritevole del secondo giallo. Damato, in Cesena-Siena, ha deciso correttamente quando ha visto, in area, Ceccarelli sfiorare il pallone ma poi falciare Calaiò sul seguito dell'azione: rigore ed espulsione del difensore cesenate. A confermare le incertezze che hanno coinvolto, in questo periodo, anche gli assistenti, grossolano il fuorigioco di Brienza sulla ribattuta del rigore battuto da Terzi e inizialmente parato da Antonioli. Molto bravo il giovane Guida in Lazio-Bologna: ha mostrato una perfetta applicazione delle regole di gioco e della disciplina. Espulso Matuzalem per aver colpito Diamanti con una violenta manata al viso e altrettanto corretta l'espulsione del laziale Gonzalez per fallo su Ramirez diretto verso il gol. In Novara-Udinese, Peruzzo ha diretto con poca attenzione: in particolare annullato un gol di Danilo per fuorigioco inesistente.
  13. Secondo Sacchi, dopo una partita dominata in modo esemplare dalla Juve, che il presidente Preziosi abbia il coraggio di recriminare per il rigore sul contatto Pirlo-M.Rossi è vergognoso. Ebbravo Arrighe!!!
  14. UN TIFOSO SPECIALE RACCONTA LE SENSAZIONI PROVATE NEL NUOVO STADIO DELLA JUVENTUS Il nostro Mulino Bianconero di MASSIMO VENIER (GUERIN SPORTIVO | APRILE 2012) Milanese, classe 1967, regista e sceneggiatore per il cinema, autore per la tv, juventino. Ha iniziato con la Gialappa's Band, con cui ha ideato e scritto le prime sette edizioni di "Mai dire Gol". Nel '96 incontra Aldo Giovanni e Giacomo. Con loro esordisce al cinema, scrivendo e dirigendo "Tre uomini e una gamba" e "Chiedimi se sono felice". Nel 2006 inizia la "carriera solista". Scrive e dirige i film "Mi fido di te", "Generazione mille euro" e "Il giorno in più". Per la tv è tra gli autori di "Mai dire domenica", "Buona la prima" e "Quelli che il calcio". Settore 113, fila 17, posto 21. Questa è, per me, la formula della felicità. Una domenica sì e una domenica no, io sono lì. Quello è il mio posto e lo sarà per sempre. Non è una cosa da poco. E in più è tutto mio, non si discute. Che sulla mia seggiola ci appoggi il ċulo uno del Toro è una cosa che non succederà mai più. Mai più, capite? Potete immaginare qualcosa di più bello? È a questo che pensavo la prima volta che sono entrato in quella meraviglia che è il nuovo stadio della Juventus e che sarebbe davvero ora di cominciare a chiamare col suo vero nome, quello che noi tutti sappiamo essere l'unico nome possibile. Stadio Gaetano Scirea. Insomma, lo avrete capito, con lo stadio e con la Juve ho un rapporto sano ed equilibrato, gli do il giusto peso, diciamo. Sarà forse per questo che il Direttore mi ha chiamato e mi ha chiesto se avessi voglia di scriverci sopra un breve articolo. «Più precisamente» aggiunge, «vorrei un pezzo in cui spieghi perché grazie al nuovo stadio la Juve potrà vincere lo scudetto». Appena nomina quella parola, passano sì e no dieci, quindici centesimi di secondo, e mi tocco le palle. Più veloce non sono riuscito e chiedo scusa a tutti per questo. E anche adesso, lo giuro, scrivo queste scarne righe al computer con una mano sola. «Allora, com'è il nuovo stadio?». È una domanda, questa, che mi hanno fatto spesso. Beh, si potrebbe cominciare col raccontare quello che si prova entrando, quando all'improvviso ti ritrovi davanti un muro, un'immensa parete bianca e nera. Sono i tifosi della tua squadra, compatti, potenti, verticali. Impressionanti. E poi il rumore. Un rombo possente, costante, che vibra fin sotto i piedi e si capisce che non vede l'ora di esplodere. Oppure si potrebbe parlare dei posti, così vicini al campo che io sono praticamente sicuro che quando Boateng ha attaccato Pirlo alle spalle, e io ho sussurrato «Andrea, occhio dietro!», lui mi ha sentito, ha evitato con una finta l'avversario, e poi l'ha messa in mezzo per il gol dell'1-0 che, quindi, per un buon 40%, è merito mio. Ma la verità è che appena mi sono seduto al mio posto, in questo stadio che trasuda futuro, quello che mi è venuto in mente, invece, è stato il passato. Avete presente quel capolavoro di film che è Ratatouille? Quando il critico gastronomico assaggia il primo boccone e d'un tratto, come per magia, rivive istante per istante tutti i momenti più belli che lo hanno portato fino a lì? Una scena bellissima, da brividi. Ecco, a me è successa più o meno la stessa cosa. È il calcio che, chissà perché, mi fa sempre questo effetto: un intreccio misterioso di passato presente e futuro che si mischiano in un modo che non so spiegare e che, confusamente ma senza alcun dubbio, sento che ha a che fare con l'infanzia e con il domani. Dev'essere per questo, credo, che mi piace così tanto. Ho iniziato ad andare allo stadio da bambino, con mio papà. Il Comunale me lo ricordo in bianco e nero, come nei sogni. Da casa nostra ci si metteva una vita; per trovare un posto decente dovevi entrare tre ore e mezzo prima; si vedeva male; si stava sempre in piedi, tutti schiacciati. Ed era meraviglioso. Zoff, Gentile, Cabrini. Non penso ci sia da aggiungere altro. L'unica cosa più bella dell'essere lì, stritolato in mezzo a tutta quella gente nel bel mezzo degli anni Settanta, era il giorno prima della partita, quando mio padre mi diceva «domani andiamo a vedere la Juve, ti va?». E lì iniziava l'attesa. Poi è arrivato il Delle Alpi. Scomodo, gelido, costoso. Enorme. Vuoto. Se un architetto un po' didascalico avesse voluto raccontare con uno stadio il declino di una nazione e l'ottusità di un'epoca, il Delle Alpi sarebbe stato il suo capolavoro. Restano comunque, anche lì, istantanee da non dimenticare. In quasi tutte, sullo sfondo, c'è Moratti che rosica. Poi siamo andati in B. Ogni juventino sa che la cosa più dura, in quei giorni, era riuscire a trovare una risposta a quell'ingiustizia. La mia è stata correre a fare l'abbonamento. Di nuovo al Comunale, si ricomincia da capo. Il Crotone, il Frosinone, l'Arezzo. Poi la A: da comprimari, però. Ranieri, Del Neri, Felipe Melo. Momenti non bellissimi, ecco. Ricordo una sera, in particolare: nel palazzetto di fianco all'Olimpico c'era un concerto di Gigi D'Alessio. Gigi D'Alessio, non i Rolling Stones. Beh, c'era più gente lì che allo stadio. Noi le stavamo prendendo dall'Udinese, mi pare. C'era talmente tanto silenzio che si sentivano i fans di "Giggi" che tenevano il ritmo e cantavano in coro "Non dirgli mai di com'è stato bello quella volta al mare". Per dire. C'era di che abbattersi e mollare, e infatti in tanti se ne sono andati. Ma qualcuno è rimasto. E tra questi c'ero anch'io, seduto lì, tutte le domeniche, a prenderle dal Parma, dal Catania, da chiunque. Il motivo per cui restavo lì, è perché avevo fiducia. Avere fiducia, in quel momento, mi sembrava l'unica cosa che potessi fare, il mio modo di contribuire. La fiducia che prima o poi saremmo tornati quelli di prima; la fiducia che prima o poi avrei realizzato il sogno di portare allo stadio mio figlio. La fiducia che tenere duro per cinque anni e fare una lunga coda all'alba per poter scegliere i posti più belli del mondo nello stadio più bello del mondo, valesse la pena e la fatica. Ne avevo così tanta, di fiducia, che di abbonamenti, l'anno della B, ne avevo fatti due, anche se un figlio non ce l'avevo ancora. È tutto questo che, alla fine, mi ha portato qui, al mio posto numero 21. E in tutta sincerità, caro direttore, io non lo so quando vinceremo il nostro trentesimo scudetto. Non so se sarà quest'anno, o il prossimo, o quello dopo ancora. Quello che so è che Alessandro, che nel frattempo è arrivato e adesso ha due anni e già canta l'inno a squarciagola, lo festeggerà saltando come un matto sulla sua seggiola nel settore 113, fila 17, posto 22. Che è il suo posto e lo sarà per sempre.
  15. QUEL PICCOLO MONDO ANTICO CHE Cl RIPORTA BAMBINI di ROBERTO BECCANTINI dalla rubrica il mitico Beck (GUERIN SPORTIVO | APRILE 2012) ZOPPI PER NEVE Non sarà facile dimenticare quello che (non) successe le notti del 31 gennaio e primo febbraio 2012. E, soprattutto, come noi addetti commentammo i rinvii per neve di Parma-Juve, Siena-Catania, Bologna-Fiorentina e Atalanta-Genoa. Avete presente il vecchio juke-box? Sembrava di essere tornati bambini, cento lire e vai con la Caterina (Caselli) di "Nessuno mi può giudicare", rivolto ai dirigenti di Federazione e Lega, obsoleti come gli impianti. E poi, visto il k.o. inflitto dalle temperature, "Bisogna saper perdere" dei Rokes. Scherzo, ma non troppo. Sky e Mediaset hanno invocato le attenuanti generiche: noi paghiamo, i calendari li fanno loro. Il solito disco. Poteva mancare l'appello agli stadi di proprietà? No. È in classifica da almeno vent'anni, tallonato dal cha-cha-cha di "Venti squadre sono troppe", che resiste persino al tango di "Tolleranza zero". Morale della favola: l'inverno è freddo e l'estate calda, la Serie A non fa una piega, il sindacato neppure e, dunque, i rischi tra dicembre e febbraio rimangono alti. Lo stadio se l'è fatto solo la Juventus. Gli altri ne parlano, se va bene, al ritmo de "Il ballo del mattone" di Rita Pavone. Lentamente, guancia a guancia: come Petrucci e Lotito. SONO UN POLPASTRELLO DI GALLIANI Mi presento: sono un polpastrello di Adriano Galliani. Vidi la luce al buio di Marsiglia, la notte del 20 marzo 1991, quando per telefono mi venne suggerito di ritirare il Milan dal campo. Fu, quello, il primo cerino che mi bruciò la cute, il primo di una lunga serie. L'Uefa ci squalificò, il polpastrello superò lo choc e cominciò a familiarizzare con i fiammiferi. Quante volte ho dovuto mentire, e quante fingere di non fingere. Insieme, io e la punta del mio dito, abbiamo fatto carriera; siamo arrivati alla presidenza della Lega, abbiamo evitato la retrocessione di Calciopoli grazie a un trapianto massiccio di polpastrelli, quelli di Leonardo Meani, così eroici e stoici di farsi scudo del mio «Spinga, spinga». Fino al caso Tevez-Pato. Era tutto fatto: Tevez al Milan, Pato al Paris Saint-Germain. Improwisamente, mi si intimò di lasciar perdere. Lo zolfanello mi esplose sul polpastrello, annerendolo. C'era di mezzo la figlia del padrone, fidanzata con un suo dipendente (non io). Da Tevez precipitai a Maxi Lopez. Mi aspettavo voti bassissimi. Il polpastrello ricordava il numero della giornalaccio rosa. Lo digitò, tremante. Era la sera del 31 gennaio. Parlò con un polpastrello roseo. Trattai un 6,5. Il cerino arrossì e si spense. LA VISPA TERESA Il 6 febbraio sono arrivate le motivazioni di Calciopoli (primo grado, Napoli). Per la cronaca, e per la storia, 561 pagine. Lo stile della Triade, diretta da Teresa Casoria, sembrava un copia e incolla di un brano di Walter Veltroni: il campionato 2004-05 fu regolare, «anche se» qualcuno - Moggi, soprattutto - cercò di condizionarlo; nessuna delle partite sotto inchiesta risulta truccata, «anche se» per alcune di esse sussistono dubbi non lievi. Luciano resta il capo del sistema, «anche se» le indagini della Procura sono state troppo lacunose perché troppo orientate; i sorteggi erano materialmente immacolati, «anche se» le grigliate e le cene Moggi-designatori ne minavano moralmente la composizione; le sim straniere hanno costituito il piatto forte dei verdetti, «anche se», tuona la difesa, non hanno prodotto niente di che; sul piano civile, la Juventus esce indenne, «anche se» il potere «esorbitante» del suo ex direttore generale ha sfigurato gli equilibri del calcio italiano; come emerso dal dibattimento, le difese sono state ostacolate, «anche se», a giudizio del collegio, non si può e non si deve parlare di processo ingiusto. Ripeto, 561 pagine: «anche se» la Casoria aveva parlato dello scandalo come di una buffonata. DESTINO CINICO E CLAUDIO Il destino di Claudio Ranieri è sempre il destino di qualcun altro. A Valencia, preparò la pappa a Hector Cuper. Al Chelsea, ripulì la rosa in attesa di José Mourinho. A Napoli, arrivò subito dopo la partenza di un certo Maradona. Alla Juventus, venne inseguito dall'ombra di Marcello Lippi. Alla Roma, presa dopo due sconfitte, non gli bastò fare più punti di Mourinho: lo scudetto andò ali'Inter. E adesso che all'Inter c'è lui, Claudio il testaccino di anni 60, ecco la notizia delle dimissioni inglesi di Fabio Capello. Proprio il manager che Massimo Moratti, perso Leonardo, avrebbe voluto reclutare prima di ripiegare su Gian Piero Gasperini. Gira e rigira, Ranieri citofona sempre un attimo prima o un attimo dopo. La sua Juventus, spolpata da Calciopoli, contava poco e pesava ancora meno. La sua Inter è vecchia, sbadata e spesso sbandata. Ha raccolto sette successi consecutivi, ha vinto il derby, ha rigenerato Diego Milito, ma al bivio della storia trova sempre indicazioni spurie, cartelli ambigui. Nel dubbio, è raro che ci azzecchi o lo aiutino: Eto'o? era qui un attimo fa. Ranieri è l'ultimo carro attrezzi di un calcio tamponato. Lo chiamano, arriva, aggiusta, lo pagano. E poi lo cacciano. ABBASSO LA LEGA Il Belgio è stato senza governo per 540 giorni e non risulta che sia scomparso dalle mappe. Mai una volta che simili "calamità" premino noi . Siamo proprio sicuri che, se abolissimo la Lega, la Federazione non ce la farebbe a organizzare i campionati (e gli gnomi di Singapore a taroccare comunque le partite)? Abbiamo una classe di dirigenti senza classe. E, soprattutto, sempre quelli. Carraro, ex di qualcosa fin dalla culla; Geppetto Petrucci e i suoi Pinocchi della pace; Abete "incompetente" fino a nuovo ordine. La Lega, in compenso, è un allegro bordello all'interno del quale cambiano i tenutari, mai le abitudini. Non capita tutti i giorni di imbattersi in "un" Maurizio Beretta, presidente dimissionario da mesi, in barba alle mozioni di sfiducia che puntualmente la fronda gli dedica. Ed Enrico Preziosi? Candidato alla vicepresidenza, e per fortuna trombato, nonostante una fedina sportiva e penale da incubo. Era il cavallo di Claudio Lotito, il boss della Lazio in lotta con Petrucci su tutti i fronti, e con qualsiasi pretesto. Galliani non ha cambiato mantra («Ah, il fisco spagnolo»), Paolillo studia da Giraudo, gli strilli di Cellino e Zamparini riportano alle gag dei Gaucci e dei Matarrese. Ribadisco: e se abolissimo la Lega? UN MONDO CHIUSO A CHIAVE Inter zero Novara uno del 12 febbraio mi ha riportato all'epopea di "Tutto il calcio minuto per minuto", ai tempi in cui il catenaccio non era il lupo cattivo delle favole, a un'impresa corsara del Catania a Torino contro la Juventus: zero a uno, gol di Milan. Con lodevole scrupolo, i Pigafetta di San Siro hanno trascritto sul diario di bordo che l'Inter avrebbe avuto diritto a un rigore (per la "rosea", addirittura due!). Visti i beneficiati, è l'uomo che morde il cane. Emiliano Mondonico ci ha sorriso su, spiegando come l'abuso di legittima difesa non esista; e quanto sia corretto parlare, nel suo caso, di contro-calcio e non di anti-calcio. Un solo vezzo: ripartenza invece di contropiede. Gli è scappata, ha strizzato l'occhio. Per uno che ha combattuto e battuto il cancro, cosa volete che sia chiudersi in area e buttare via la chiave. C'è il calcio-cappotto di Mondonico e il calcio-tanga di Zeman: liberi di scegliere. L'importante è non tornare alle guerre di religione, al talebanismo che isolò Arrigo Sacchi e moltiplicò i fusignanisti, quando sarebbe stato meglio il contrario. Il Novara ha avuto fortuna, e allora? La nebbia di Belgrado cosa fu? A volte, anche la nebbia può essere una botta di muro. FORT TALAMO Postribolo di San Siro, la notte del 25 febbraio. A lenzuola di Milan-Juventus ancora calde, e Galliani e Conte appena "rivestiti". Evidentemente, l'uno non soddisfatto del servizio dell'altro, ed entrambi insoddisfatti delle prestazioni della quaterna. «Non sapete che piangere». «Mafiosi». C'era una volta la ditta Juve&Milan. In campo, botte; a cena, tartufi. Calciopoli ha spaccato le sinergie, e così è diventata un'ordalia selvatica devastata dalle topiche di Tagliavento e Romagnoli, uno degli assistenti. Il gol di Muntari, il pugno di Mexes a Borriello, il gol di Matri: il meglio della classe arbitrale in eurovisione. Povero Nicchi e povero Braschi, con 'sta storia che i nostri sono i migliori eccetera eccetera. I nostri sono, e basta. Certo, i tifosi adorano i dirigenti che fomentano i bassi istinti. Non uno che ammetta: «Stavolta ho rubato io». Sempre e soltanto: «Anche stavolta mi hanno derubato». Fuoco alle polveri, comunque. Contano tre-quattro società al massimo; le rimanenti, altro non sono che atolli sui quali sperimentare gli "ordigni" arbitrali a futura moviola.
  16. José Zárate Straniero in patria Nel 1975 un suo autogol ha impedito alla Colombia di vincere la Coppa America di calcio. Un errore che lo ha perseguitato per tutta la vita di ALBERTO SALCEDO RAMOS, Soho, Colombia (Internazionale 939 | 9 marzo 2012) Il cameriere arriva con le nostre portate. In un ristorante di Barranquilla, una città nel nord della Colombia, José “Boricua” Zárate mi confessa che per strada la gente non lo riconosce più. Passa inosservato, e ormai ci ha fatto l’abitudine. L’ultima volta che ha toccato un pallone, dice pensieroso, era il 1985. Il cameriere è troppo giovane per sapere che quel cliente dai capelli radi, zoppo e con una gamba ortopedica è stato uno dei due difensori centrali della Colombia che nel 1975 è arrivata in finale di Coppa America. Boricua stringe il manico del suo bastone con entrambe le mani. La sua carriera in nazionale è finita da più di trent’anni, ed è normale che sia invecchiato, che non somigli più al colosso ammirato in campo dai tifosi di tutto il paese. Il Boricua degli anni settanta era uno di quei difensori dall’aria minacciosa che sembrano sempre sul punto di decapitare qualcuno. Quello di oggi è un sessantenne malconcio. Nessuno lo immaginerebbe su un campo da calcio. Nemmeno come spettatore. Lo guardi e lo vedi in una casa di riposo mentre gioca a domino con gli altri pensionati. Anch’io, se l’avessi incontrato per strada prima di oggi, non l’avrei riconosciuto. E dire che appartengo alla generazione di tifosi nati negli anni sessanta, e ho seguito la sua carriera con le maglie dello Junior, del Deportivo Independiente Medellín e della nazionale colombiana. Ricordo che una volta, in una domenica della mia adolescenza, me lo sono trovato a pochi metri di distanza, nello stadio Romelio Martínez. Nonostante la stazza, aveva un’aria esuberante. Esattamente l’opposto dell’uomo cupo e lento seduto davanti a me. Boricua comincia a mangiare la sua zuppa. Quando ha smesso di giocare è sparito dalle scene, e non è mai più apparso in pubblico. Non ha mai dato il calcio d’inizio inaugurale di una partita importante. Non è mai stato intervistato da un’emittente televisiva. Ogni tanto, quando un difensore rinviava malamente in tribuna, qualche giornalista di lungo corso evocava il suo nome: “Una giocata alla Boricua”. Se un centrale di difesa rimaneva imbambolato a guardare il pallone invece di intervenire, i telecronisti ricordavano la celebre frase del commentatore radiofonico Pastor Londoño: “Non lasciarla lì, Boricua, non lasciarla lì!”. Il riferimento, naturalmente, è all’errore che ha perseguitato Boricua per gran parte della sua carriera. È il 1975, e a Lima si gioca la finale di ritorno di Coppa America tra Colombia e Perù. All’andata, a Bogotá, è finita uno a zero per la Colombia. Il Perù attacca e i colombiani difendono il pareggio, sufficiente per conquistare il trofeo. All’improvviso un attaccante peruviano avanza sulla fascia destra e lascia partire un cross verso il centro dell’area. Il pallone scende lento e prevedibile verso Zárate. Un pallone innocuo, facile da controllare. Basterebbe un colpo di testa per mandarlo in calcio d’angolo o in fallo laterale. Invece Zárate – le braccia attaccate al corpo, le mani poggiate sulle gambe – resta immobile a guardarlo. Come se fosse convinto che il pallone farà tutto da solo, allontanandosi dall’area senza creare problemi. Come se pensasse di poterlo respingere con lo sguardo. Quando si decide a reagire è troppo tardi. Juan Carlos Oblitas irrompe come un fulmine dalla sinistra. Prova a tirare in porta al volo, ma manca clamorosamente il pallone. In qualche modo riesce a controllarlo prima che superi la linea di fondo. Spalle alla porta, Oblitas decide di affidarsi alla sua buona stella. Con un colpo di tacco manda il pallone verso il centro dell’area, tanto per vedere come va a finire. Va a finire che la sfera colpisce accidentalmente il piede destro di Zárate e rotola alle spalle del portiere. Gigante buono Da quel momento, e fino al giorno del suo ritiro, dieci anni dopo, Boricua ha sopportato di tutto. Ogni volta che il pallone arrivava dalle sue parti, dagli spalti si levavano urla di rabbia e scherno. E Pastor Londoño ripeteva senza pietà: “Non lasciarla lì, Boricua, non lasciarla lì!”. La gente infieriva. Allo stadio, per strada, nei centri commerciali. “Non lasciarla lì, Boricua, non lasciarla lì!”. Anche se le provocazioni lo turbavano, Zárate rispondeva con un sorriso, perché era un uomo pacifico e perché sapeva che se avesse perso la calma sarebbe stato peggio. Per consolarsi, si aggrappava a un ragionamento ingenuo: se mi attaccano, vuol dire che almeno mi riconoscono. Ma ormai è passato tanto tempo. Adesso al suo passaggio incontra solo indifferenza. Nella Colombia di oggi, dove le notizie sono già vecchie dopo un giorno, un calciatore degli anni settanta è una specie di fossile preistorico. Soprattutto se nella sua carriera ci sono state più ombre che luci e nessuno ne ha saputo più niente per un quarto di secolo. Un personaggio che per i giornalisti è come un medicinale scaduto per una farmacia: un prodotto inutile, da togliere dalla circolazione. Al massimo gli dedicano un trafiletto nella sezione degli anniversari, per commemorare un evento – un autogol, per esempio – o raccontare ai lettori come è stata la sua vita dopo il ritiro. Il suo nome torna d’attualità solo quando ha un grave incidente o tira le cuoia. Mentre il cameriere arriva con i piatti di pesce, mi tornano in mente le parole di Chesterton: “Il giornalismo consiste soprattutto nel dire ‘lord Jones è morto’ a persone che non sapevano che lord Jones fosse vivo”. Boricua comincia a mangiare la sua frittura. Due anni fa nessuno parlava di lui, neanche i giornalisti più anziani. Confesso che nemmeno io sentivo la sua mancanza. Non che lo credessi un lord Jones morto e sepolto. Semplicemente l’avevo cancellato dalla memoria. Poi però è arrivata la disgrazia, e Zárate è tornato a fare notizia. “Boricua Zárate in condizioni critiche”, scriveva El Heraldo all’inizio del 2010. “Ha il diabete e dovranno amputargli una gamba”. L’articolo era ricco di dettagli sulla sventurata esistenza dell’ex calciatore: la malattia, le difficoltà economiche e tutto il resto. Spiegava anche che Boricua non aveva un’assicurazione medica e i chirurghi rifiutavano di operarlo. I suoi ex compagni stavano organizzando una partita di beneficenza per raccogliere fondi. Così abbiamo scoperto cosa aveva fatto Boricua dopo il ritiro. All’inizio ha lavorato nelle formazioni minori del Deportivo Independiente Medellín. Poi è rimasto senza lavoro, e sono cominciati i problemi: senza uno stipendio, ha perso la casa e ha cominciato a patire la fame. Per sfuggire alla miseria è partito alla volta di Mocoa, città petrolifera nella regione amazzonica della Colombia, dove ha lavorato in una scuola calcio per bambini. Un giorno si è svegliato con un’unghia del piede incarnita. Pensando che fosse una cosa da poco, non si è preoccupato più di tanto. Un mese dopo aveva bisogno di un bastone per camminare. “La gamba è diventata flaccida come quella di un bambino con la poliomielite”, racconta. Tra le sue mani da gigante, le posate con cui taglia il pesce gatto sembrano piccolissime. Mastica lentamente, con l’aria severa e lo sguardo triste. Vedo un collegamento tra il calciatore che in finale di Coppa America è rimasto immobile davanti a un pallone lento e prevedibile e l’uomo che ha perso una gamba perché non si è preoccupato di un’unghia incarnita. Mi viene in mente un pensiero crudele. Boricua l’ha fatto di nuovo, “l’ha lasciata lì”, un’altra volta. Mi piacerebbe sapere con quali occhi vede la realtà una persona che non si accorge di sintomi che agli altri risultano evidenti. Sua sorella Isabel lo considera una persona ingenua e fiduciosa. La sua mole fa pensare a un uomo capace di superare qualsiasi avversità, ma il povero José (Isabel non lo chiama mai per soprannome) è sempre stato un bambino indifeso in un corpo da titano. Un bambino che a volte ha i rilessi lenti. Perché ha aspettato così tanto prima di farsi vedere da un medico? “No, non è vero che ho perso tempo. La gamba si è indebolita subito”. Mi pento immediatamente di averglielo chiesto. Non è giusto che una persona colpita da una sciagura debba anche sentirsi in colpa. La forchetta quasi scompare nella sua mano smisurata. Il suo sguardo, che fino a un attimo fa mi sembrava cupo, ora mi appare affabile, cortese. Davanti a me c’è l’uomo descritto da Isabel: massiccio eppure indifeso, come l’orco buono di una favola. Boricua era così anche quando giocava: grezzo e nobile allo stesso tempo. “Una volta un commentatore ha detto che ero un pericolo per gli attaccanti avversari”, racconta. “Non era un picchiatore?”. “Mi avranno espulso due volte in tutta la carriera”. “Ma allora da dove viene quella fama?”. “Non so. Sono invenzioni di voi giornalisti. E siccome sono alto 1 metro e 82 e a quel tempo pesavo 86 chili, quelli che mi sbattevano addosso rimbalzavano per terra. Ma non passavo il tempo a tirare calci agli avversari”. La sua struttura fisica ha influito sul tipo di giocatore che è stato. Boricua non proteggeva l’area di rigore come un principe a cavallo ma come un boscaiolo in groppa a un mulo. Forse è per questo che ci siamo dimenticati di lui. Giocava nel ruolo del raffinato Beckenbauer ma apparteneva alla stirpe del rustico Scirea. Era un duro. Ha pagato per il fatto di non essere stato un calciatore di talento? Forse sì. Il mondo non celebra chi taglia la legna per costruire il violino ma chi scrive le sinfonie. Dico a Boricua che il tempo in un certo senso gli ha fatto anche un favore. Se avesse segnato quell’autogol alla fine degli anni ottanta o all’inizio degli anni novanta, quando il calcio in Colombia era nelle mani dei narcotrafficanti e degli scommettitori, forse non starebbe qui a raccontare la sua storia. “Già. Probabilmente mi avrebbero fatto secco”, risponde con l’aria pensierosa. “Guarda cos’è successo a Escobar”, dice Zárate mentre fa il tipico gesto del tagliagole, passandosi l’indice da una parte all’altra del collo. Si riferisce all’autogol che è costato la vita ad Andrés Escobar dopo i Mondiali Usa del 1994. “Meglio la presa in giro di Pastor Londoño, no?”. “Molto meglio”, dice ridendo. “Non lasciarla lì, Boricua, non lasciarla lì!”. Ride di nuovo. Condannati alla sconfitta In questi giorni ho pensato spesso al tempo. Boricua aveva 36 anni quando è uscito di scena, e 61 quando il suo nome è riapparso sui giornali. Nel frattempo l’acqua ha continuato a scorrere sotto i ponti. Boricua non porta più le basette che andavano tanto di moda negli anni settanta. Si è ingobbito e ha perso qualche dente. Soprattutto, se n’è andata la salute, e ha perso il lavoro. Eppure negli archivi dei giornali è rimasto lo stesso: un uomo duro come il legno che tira calci a un pallone. Pensiamo agli ex calciatori e conserviamo l’immagine di quando ancora scendevano in campo. Quando decidiamo di cercarli per farci raccontare che ne è stato delle loro vite, la realtà ci colpisce come sabbia negli occhi. Fino a ieri indossavano la maglia con i colori della nostra bandiera, rappresentavano la Colombia davanti al resto del mondo. Oggi vagano dispersi, sofferenti. Muoiono e noi non ce ne accorgiamo nemmeno, perché non ci importa più di loro. Il grande allenatore olandese Rinus Michels diceva che un ex calciatore vecchio e povero è uno straniero nel suo stesso paese. Passeggiamo per il quartiere. Boricua usa il girello, perché con il bastone si stancherebbe troppo e dovrebbe camminare più lentamente. E da queste parti, mi spiega, non è una buona idea. Su entrambi i lati di calle 29 c’è gente che grida come fosse al mercato. Boricua li guarda di sbieco e poi li saluta, prima di tornare a Fissare il marciapiede. La protesi gli arriva alla coscia. Tre passi, sei passi. Si ferma. Ricomincia a camminare. Non è che gli manchi la forza, si scusa. Il problema è che gli ci vuole ancora del tempo per abituarsi al suo stato attuale. Ogni tanto molla l’impugnatura del girello per allentare la tensione delle mani. Questo quartiere è considerato una specie di Mecca del calcio colombiano. Davanti a noi, in calle 30, c’è lo stadio Moderno, dove il 7 agosto del 1922 si disputò la prima partita ufficiale nella storia del calcio colombiano. Nel 1946, tre anni prima della nascita di Boricua, lo stadio ha ospitato le partite della nazionale colombiana che vinse i Giochi centroamericani e del Caribe senza perdere una partita. Mentre camminiamo lungo un canale di scolo, Boricua mi spiega che il calcio lo ha salvato “dalla cattiva strada”. Ha cominciato a giocare quando aveva otto anni. All’epoca nessuno dei bambini che correvano dietro a un pallone credeva che quel passatempo sarebbe potuto diventare un lavoro. Per guadagnare, pensavano, bisognava fare come gli adulti: caricare e scaricare casse al porto, lavare bottiglie nella fabbrica di birra locale o vendere salsicce in centro. Il calcio era solo un gioco, un altro modo per sfuggire alla tentazione dell’ozio. Al massimo si potevano guadagnare i soldi per andare a vedere un film il sabato al Mogador, il cinema del quartiere. Il professionismo non era certo quello di oggi. Boricua ricorda che nel 1970, quando fu ingaggiato dallo Junior, faceva la stessa vita di un commesso. Il capo del personale lo pagava in contanti, tremila pesos, una banconota dietro l’altra. Poi gli faceva firmare un registro malandato. La fortezza dei veterani “Come te la passi, vecchio Bori?”, gli grida un uomo con una birra in mano da un negozio all’angolo. Boricua risponde educatamente al saluto. Poi, con la solita espressione accigliata, si rivolge a me: “Vede, c’è ancora qualcuno che si ricorda di me”. Gli dico che non solo mi ricordo di lui, ma anche della sfortunata epoca in cui gli è toccato giocare. Gli anni in cui non ci qualificavamo per i Mondiali, perdevamo quasi tutte le partite (il secondo posto nella Coppa America del 1975 è stato un episodio isolato), le nostre migliori squadre di club non superavano il primo turno della Coppa Libertadores, e all’estero i nostri giocatori più forti non interessavano a nessuno. Mentre Boricua scambia due parole con un uomo del quartiere che ci ha raggiunto in strada, mi tornano alla mente alcune istantanee di quegli anni: vedo Pedro Pablo Pasculli e Jorge Luis Burruchaga segnare i tre gol con cui l’Argentina ci lascia fuori dai Mondiali messicani del 1986. Vedo il Brasile che ci massacra sei a zero al Maracaná di Rio de Janeiro, impedendoci di qualificarci per Argentina ’78. Vedo un’immagine che riflette alla perfezione la nostra mentalità di allora: i brasiliani hanno appena segnato il quarto gol, e l’attaccante colombiano Eduardo Vilarete si trova nel cerchio di centrocampo per riprendere il gioco. Invece di passarla a un compagno, però, si siede sul pallone e comincia ad agitare le braccia, impotente, come a dire che siamo condannati alla sconfitta, che non c’è salvezza. Tanto vale farla finita una volta per tutte e smettere di provarci, perché qualunque cosa accada continueremo a perdere. Ed è esattamente quello che è successo alla nazionale durante quegli anni disastrosi. Ha continuato a perdere. Riprendo a osservare Boricua. Per un attimo ho la sensazione che la camminata l’abbia fatto invecchiare di dieci anni. La strada gli pesa, ogni passo è un tormento. Penso che una grande squadra avrebbe vinto anche con un difensore centrale limitato come lui. Il Brasile ha trionfato ai Mondiali del 1970 praticamente senza portiere, e di sicuro ce l’avrebbe fatta anche con Boricua in difesa. Così penso che il problema della Colombia nella Coppa America del 1975 non è stata la presenza di Boricua, ma l’assenza di Pelé, Rivelino, Tostão e Jairzinho. Vorrei condividere questa rilessione con lui, ma ho paura che la prenderebbe come una battuta sarcastica, o come un tentativo di farlo sentire meglio. Si asciuga il sudore della fronte con l’indice della mano destra e si ferma di nuovo. Più che un malato esausto per lo sforzo fisico, sembra un penitente nell’atto di espiare una colpa. Una colpa che non è solo sua. Abbiamo lasciato che portasse da solo una croce, quella della nostra frustrazione, che era di tutti. Poi lo abbiamo dimenticato, e ora che è un uomo anziano, malato e povero, gli voltiamo le spalle. Fuori dello stadio tre ragazzini ci guardano con insistenza. Forse sono incuriositi dalla presenza di un forestiero che appunta su un quaderno le parole di uno del quartiere. Prima di cominciare la nostra passeggiata Boricua mi ha consigliato di lasciare a casa il registratore, l’orologio e il cellulare. Uno dei ragazzini, a torso nudo, porta una camicia avvolta in testa, come un turbante. Un altro ha una lunga cicatrice che gli attraversa il volto. Il terzo è girato di spalle. Ogni tanto si volta e ci osserva, poi riprende a parlottare con i suoi amici. Da dietro i cancelli dello stadio intravedo due squadre di veterani in campo. Non ci sono telecamere né cartelloni pubblicitari. Gli spalti sono deserti. Immagino i protagonisti di questa partita pomeridiana come vecchie glorie a cui nessuno presta attenzione. Forse qualcuno di loro è malato, o indigente. Non lo sapremo mai, perché da tempo sono finiti nel dimenticatoio. Giocano dietro le quinte, dove non arrivano le luci dei riflettori dell’industria del pallone. Sono la pagina sbiadita di un album di figurine. Quando ancora potevano giocare ad alti livelli vivevano in una bolla, protetti dalla miseria. Ricevevano stipendi e premi partita. Una volta appese le scarpe al chiodo, la bolla è scoppiata. “Andiamocene”, dice Boricua. Dopo cinquanta metri ricomincia a parlare. “Quei ragazzi sono di quel tipo lì. Però mi conoscono. Per questo ci hanno lasciato stare”. “Di quale tipo?”. “Delinquenti. Qui rubano tre cellulari al giorno”. Ripenso ai veterani che giocano dentro lo stadio. E mi rendo conto che dopo tutto, almeno su quel campo, sono ancora al sicuro. Più che santuari dedicati al dio del calcio, gli stadi colombiani sono fortezze che proteggono chi sta dentro. Anche se non lo sanno, quando giocano a pallone quegli uomini sono al sicuro dai delinquenti che si aggirano nei dintorni. La cattiva notizia è che prima o poi la partita finirà, e dovranno uscire allo scoperto. La città è qui ad aspettarli, con tutta la sua inclemenza. In questo quartiere nessun pallone può fare da scudo. Boricua respira profondamente. La strada del ritorno è ancora lunga. Rovistiamo nell’archivio di Zárate alla ricerca di una foto della nazionale che ha partecipato ai Giochi panamericani di Cali del 1971. È la seconda volta che controlliamo l’album dove conserva i ritagli di giornale, ma non riusciamo a trovarla. In quella squadra Boricua giocava insieme all’attaccante Jaime Morón, che sei anni fa ha dovuto affrontare anche lui le conseguenze del diabete. Prima ha perso una gamba, poi l’altra. Poi è morto, a 55 anni, nella sua città natale, Cartagena. Mi chiedo se ci sia un’altra nazionale di calcio sulla faccia della terra in cui hanno giocato due calciatori che hanno finito per essere amputati. Una specie di felicità Boricua non parla, continua a cercare tra i suoi ricordi. Poi mi guarda e mi dice che il diabete gli ha sconvolto la vita. Chiude l’album dei ricordi ed elenca le sue sventure sulla punta delle dita. Ha perso il lavoro (solleva il mignolo), è dovuto tornare a Barranquilla (l’anulare), è stato costretto a imparare a camminare per la seconda volta (il medio), ha “fatto il mantenuto” in casa di sua sorella (l’indice). E soprattutto (il pollice, il dito più grande) è diventato un malato cronico che passa la giornata a prendere medicine. Quando non gli restano più dita per contare, stringe la mano in un pugno, come se volesse spaccare qualcosa. Ma alla fine la appoggia delicatamente sulla sua coscia destra. Poi, con la voce spezzata, mi dice che la cosa più triste di tutte è sentirsi un peso per sua sorella e i suoi nipoti. Se abbiamo affrontato questi argomenti riservati è soprattutto per l’insistenza di Isabel. Non è giusto, dice, che suo fratello continui a raccontare di quell’autogol di cui nessuno si ricorda più. Sempre la stessa storia. Nessuno chiede dell’Anafrin, che costa più di settantamila pesos (30 euro). Nessuno parla dell’insulina che Boricua è costretto a iniettarsi ogni giorno. Per aiutare uno sportivo che ha rappresentato la Colombia non basta scattargli una foto o dargli una pacca sulla spalla. E nemmeno mandarlo a casa con il ricavato di una partita di beneficenza in suo onore e poi disinteressarsi dei suoi bisogni. Boricua non incrocia il mio sguardo. Sfoglia meccanicamente le pagine del suo album. Nella sala è calato un silenzio ingombrante. Isabel torna alla carica, stavolta abbassando il tono della voce: “Quando giocava, José era pagato pochissimo. Ha continuato ad andare in autobus agli allenamenti dello Junior anche quando era titolare in nazionale. La mattina raccoglieva le monete e si piazzava all’angolo dello stadio Moderno ad aspettare. Oggi qualsiasi signor nessuno che ha appena cominciato la carriera e non è mai stato in nazionale arriva all’allenamento con una macchina nuova di zecca”. La nuova piega della conversazione risveglia l’interesse di Boricua. Mi guarda, sorride. Mi racconta che alla fine degli anni settanta il Medellín pagava poco (e tardi) i suoi giocatori creoli, mentre gli stranieri ricevevano lo stipendio con puntualità e in dollari. Boricua chiude l’album e lo poggia sul tavolo. Dice che non ha una foto con Jaime Morón. Torna il silenzio. Prendo in mano l’album e trovo una sua foto del 1975. Pur con la solita espressione accigliata, nel suo viso c’è una certa soddisfazione. Una specie di felicità. Forse perché sta per cominciare la partita. Forse perché si sente vivo, importante. Di sicuro, quando il fotografo gli si è parato davanti, Boricua non ha sentito lo scatto della macchina fotograica, coperto dalle grida del pubblico. Oggi, invece, il silenzio è così profondo che il clic dell’otturatore si sentirebbe nitido e forte. Se qualcuno gli scattasse una foto adesso, sprofondato in una sedia di vimini, immortalerebbe un uomo dall’espressione assente e malinconica. Perché questo è l’altro estremo del tunnel che un tempo lo portava sul campo da gioco. Qui non si sente il ruggito della folla. Solo il peso della solitudine.
  17. Da Italia ‘90 al fair play finanziario: viaggio nel nostro calcio in declino Per il calcio italiano sono sempre più lontani gli anni Novanta. Oltre ai mondiali delle notti magiche, per cui ancora oggi spendiamo 55 milioni di euro, è la Serie A che sta sempre più perdendo spettatori. Perché? Stadi da rimodernare, che i club, Juventus a parte, non riescono a costruire e gestire. Strategie sui calciatori sbagliate e al ribasso. Nel resto d’Europa? Stadi pieni, merchandise e club più virtuosi. E all’orizzonte c’è il fair play finanziario voluto dall’Uefa di Platini. Con un’infografica, elaborata da Deloitte, sul conto economico dei primi venti club in Europa. di MARCO SCOTTI (LINKIESTA 10-03-2012) Chi ha passato l’adolescenza ed è devoto al Dio Pallone ricorderà con nostalgia i bei tempi in cui l’Italia era l’ombelico del mondo del calcio. Non serve tornare indietro agli anni in cui Zico giocava nell’Udinese e in cui, contemporaneamente, calcavano i campi di calcio dello Stivale Maradona, Van Basten, Gullit, Matthaeus e altri pezzi da novanta. Ma è un dato di fatto che oggi la Serie A abbia perso – forse definitivamente – l’appeal e il primato di cui ha goduto. C’è un inizio della fine: i Mondiali di calcio del 1990. D’altronde, è proprio dal ‘90 che il giocattolo ha iniziato, inesorabilmente, a rompersi, anche se gli spettatori ce ne sono accorti quando ormai era troppo tardi. Alla base del declino, investimenti sbagliati, politiche economiche dissennate, brocchi strapagati e campioni lasciati andare a cuor leggero. Il tutto mescolato con un po’ di doping, qualche scommessa e crack finanziari. Il risultato – ovviamente indigesto – è lo spettacolo penoso cui ormai si assiste ogni domenica. Perché se lo spread che più preoccupa il nostro Paese è quello dei titoli di stato con gli analoghi tedeschi, è evidente che c’è un altro divario che ogni anno si amplia: quello tra il calcio italiano e gli altri campionati europei di eguale livello. Mondiali di calcio del ‘90. Se si vogliono scandagliare cause e meccanismo di diffusione della malattia del pallone, si arriva immancabilmente al torneo più ambito. Affidato all’Italia nel 1984, ebbe come presidente del comitato organizzatore Luca Cordero di Montezemolo, allora 39enne manager della Ferrari. «Voglio far avverare un sogno» disse uno dei futuri proprietari dell’operatore di treni ad alta velocità Ntv. A conti fatti, il risveglio è stato traumatico. I 12 stadi teatro delle “notti magiche” – come cantavano Bennato e la Nannini quell’estate – hanno necessitato di lavori strutturali di ampliamento o ammodernamento. Il primo preventivo presentato al governo fu di 680 miliardi di lire, che levitarono ben presto dell’84%, raggiungendo la cifra di 1.248 miliardi. Al cambio attuale sarebbero oltre 645 milioni di euro, ma andrebbero parametrati con l’inflazione. Per poter sostenere una spesa di quel tipo, l’Italia si indebitò pesantemente tanto che oggi, a distanza di 22 anni, vengono ancora corrisposti 55 milioni di euro per pagare strutture che in alcuni casi andrebbero completamente ricostruite. Senza contare che per ottenere un risultato ancora più d’impatto, si coinvolsero archistar come Renzo Piano (che firmò il progetto dello Stadio San Nicola di Bari). E che cosa se ne faranno a Bari di uno stadio da quasi 60mila posti quando la squadra occupa attualmente il 10° posto nel campionato di Serie B e dal campionato seguente alla Coppa del Mondo ha trascorso più tempo nelle serie cadetta che in A? E lo Stadio Olimpico di Roma e il Delle Alpi di Torino (nel frattempo demolito) avranno tratto straordinari benefici da una pista di atletica quando tutti gli impianti calcistici d’Europa prediligono stadi più raccolti e più “a picco” sul terreno di gioco? Senza contare che sempre per i Mondiali furono realizzate altre opere imprescindibili come la stazione di Farneto a Roma, costata 15 miliardi e utilizzata quattro giorni. Si dirà: che c’entra questo con il calcio? C’entra non solo con il pallone ma, più in generale, con lo sport tutto, visto che il pagamento dei debiti di Italia ‘90 depaupera l’intero sistema privandolo di risorse che potrebbero essere vitali. Gli stadi: da almeno 15 anni si sente parlare con insistenza di stadi di proprietà e cittadelle sportive. Perché? Perché permetterebbero alle società, a fronte di un investimento stimato tra i 100 e i 200 milioni di euro, di poter incassare tutti i proventi delle partite (non solo i biglietti, ma anche merchandising, servizi ristorazione, parcheggi e via dicendo). Peccato che soltanto la Juventus sia riuscita in questa impresa, inaugurando proprio in questa stagione lo “Juventus Stadium”, sorto sulle ceneri del defunto Delle Alpi. Un investimento importante che ha però portato la società ad essere completamente indipendente rispetto al comune di Torino. E, non è un caso, lo Juventus Stadium è l’unico a far registrare spesso il tutto esaurito, essendosi dotato di una struttura moderna ed efficiente, sulla scorta di quanto avviene in Inghilterra. La capienza? Dai 69mila 295 posti a sedere del vecchio Delle Alpi (puntualmente semivuoto) si è passati ai 41mila dell’attuale struttura. Un “dimagrimento” di quasi 30. 000 posti che sembra essere una scelta azzeccata. Nelle prime tre giornate del campionato 2010-2011, la Juventus aveva totalizzato 63mila 950 ingressi complessivi, mentre in questo campionato la cifra ha raggiunto le 108mila 880 unità, con un incremento del 70 per cento. Anche la Fiorentina dei fratelli Della Valle ha cercato di costruire uno stadio di proprietà con annessa cittadella dello sport. Ma i veti del comune li hanno fatti desistere che da allora hanno di molto ridotto i loro investimenti nella società gigliata. A Milano invece il Comune dà in concessione lo stadio al Milan, che a sua volta lo affitta all’Inter. Il risultato è che il Meazza è spesso semivuoto (per la sfida di Champions League tra Inter e Cska Mosca sono state registrate circa 7mila presenze, meno di un decimo della capienza complessiva dell’impianto), le strutture sono fatiscenti, il manto erboso rende alcune partite pressoché ingiocabili. Nel frattempo, Spagna, Inghilterra e Germania dotano le loro squadre di stadi di proprietà che fruttano enormi proventi e permettono loro di ampliare ogni anno di più il gap con il nostro Paese. Prendiamo, ad esempio, la giornata 23esima giornata del campionato in corso e confrontiamola, per numero di spettatori, con quella inglese giocata nello stesso week end: 17mila 622 spettatori di media a partita per la Serie A nostrana e 33mila 470 in Inghilterra. Anche il singolo confronto tra partite è desolante: la più vista della 23esima giornata italiana è stata Lazio-Cesena, con 23mila 129 spettatori; in Inghilterra Manchester United-Liverpool ne ha attirati 74mila 844. Né dà conforto il paragone tra il valore assoluto degli introiti dei biglietti: la Serie A incassa circa 200 milioni all’anno, la Bundesliga tedesca 380, la Liga spagnola 440 e la Premier League inglese 649 milioni. Serie A e giocatori. Dagli stadi alle politiche finanziarie dei club il passo è breve. Qui il discorso potrebbe andare avanti per ore, ma basta ricordare i capisaldi della scellerata gestione economica. I calciatori, che un tempo facevano a gara per venire in Italia, oggi preferiscono senza dubbio Spagna e Inghilterra, a meno che non li si paghi a peso d’oro (Eto’o percepiva l’anno scorso 10,5 milioni di euro, Ibrahimovic quest’anno, calciatore più pagato della serie A, è a quota 9,5). Non dimentichiamo che le retribuzioni nette dei calciatori vanno raddoppiate per capire quanto gravano realmente sulle casse delle società. Da quando la Serie A ha deciso di allargarsi a 20 squadre, è diventata di una noia abissale, almeno a giudicare dai dati sulle affluenze. Non può essere addotto come giustificazione lo “spezzettamento” del campionato che inizia il venerdì sera e finisce il lunedì, anche perché lo stesso succede in Inghilterra, senza che questo crei una diminuzione così traumatica degli spettatori. L’ultimo acquisto di un giocatore giovane, futuro campione anche se ancora non di fama planetaria, risale al 2004, quando la Juventus prelevò dall’Ajax Zlatan Ibrahimovic. Da allora sono arrivati in Italia o giovani speranze (spesso rimaste tali) o calciatori sul viale del tramonto (Ronaldinho, tanto per fare un esempio) pagati spesso a peso d’oro. I giocatori più rappresentativi cercano di strappare contratti all’estero: nella sola estate del 2011 sono stati ceduti Javier Pastore per 42 milioni al Paris Saint Germain, Alexis Sanchez al Barcelona per 38 e Samuel Eto’o all’Anzhi per 27. Senza che nessuno di loro venisse rimpiazzato adeguatamente. C’è anche da sottolineare una palese inadeguatezza dei dirigenti italiani che, vincolati da bilanci sempre più deficitari, tentano il colpaccio quasi sempre fallendo: basti, per riassumere la situazione, il caso di Diego Forlan, acquistato dall’Inter nell’agosto scorso per 4, 6 milioni di euro per sostituire Eto’o. Peccato che si sia scoperto, troppo tardi, che Forlan non era schierabile in Champions League per l’intera fase a gironi perché aveva già disputato i preliminari di Europa League. Una svista che poteva costare carissima al management di Via Durini. Sempre l’Inter, d’altronde, ha scelto di impiegare i proventi dalla cessione dello straordinario attaccante camerunense per acquistare, oltre a Forlan, Ricky Alvarez, talento in erba pagato 12 milioni (e fin qui risultato pressoché nullo), il misterioso terzino destro brasiliano Jonathan, anch’egli pagato 4, 5 milioni, il diciottenne attaccante Castaignos, costato 1, 5 milioni e l’inutilissimo Mauro Zarate, pagato – per il solo prestito – 2,7 milioni. Il conto è presto fatto: i 27 milioni della cessione di Eto’o, invece che essere impiegati per acquistare un unico giocatore di valore, sono stati atomizzati in cinque investimenti privi di spessore. L’exploit in Champions League dell’Inter nel 2010 rischia così di diventare la drammatica eccezione che conferma la regola, visto che puntualmente tutti i principali club nostrani chiudono i propri bilanci con pesanti passivi che devono essere ripianati dagli azionisti di maggioranza (su tutti l’Inter, che ha presentato nel giugno del 2011 un bilancio con una perdita di 86 milioni). Nel frattempo, la capacità di attrarre investitori continua a latitare, tanto che nella classifica dei club più ricchi del mondo stilata dall Deloitte a febbraio, la prima squadra italiana è il Milan, con un fatturato di 235 milioni di euro, in calo del 6, 7% rispetto all’esercizio precedente e, soprattutto, più che doppiata dal Real Madrid (479 milioni) e quasi altrettanto dal Barcelona (450 milioni). Ancora più preoccupante la situazione dei bilanci italiani se la si guarda scomponendo i dati: dei 211, 4 milioni di fatturato dell’Inter, il 59% (124,4) proviene dalla vendita di diritti tv; il 25% dalla vendita di biglietti e il 16% dalla pubblicità e dal merchandising. Cifre impietose che testimoniano come solo una netta inversione di rotta potrebbe far cambiare qualcosa. Un ultimo, non trascurabile dettaglio è rappresentato dal Fair Play Finanziario, la norma voluta dal presidente Uefa Platini che costringe le società a spendere soltanto quanto incassato senza più passivi da record. Come faranno Inter e Milan, che impiegano oltre l’80% del ricavato per pagare gli stipendi, a finanziare nuovi investimenti e ad acquistare cartellini di giocatori importanti? È vero che la tassazione differente (in Spagna per pagare un calciatore 8 milioni di euro all’anno ne servono 12, in Italia 16) crea una situazione di oggettivo svantaggio per le società italiane. Ma, al contempo, è vero anche che manca sempre più quell’ingegno italico nel trovare giocatori importanti a prezzi adeguati, un po’ come fece il Milan con Kakà. In attesa che qualcosa cambi davvero, non rimane che sintonizzarsi su un altro campionato.
  18. Marco Bellinazzo ha un blog tutto suo (Calcio & business), da questo mese, sul sito de Il Sole 24 Ore. No a una legge sugli stadi se vince la speculazione edilizia di MARCO BELLINAZZO dal blog Calcio & business (Il Sole 24 Ore.com 07-03-2012) "Sulla legge sugli stadi siamo a buon punto". Uno spiraglio sull'approvazione della legge sugli stadi, attesa da tutto il movimento calcistico italiano, e non solo da quello, per riprendere seriamente il cammino di sviluppo, viene dalle parole del ministro dello Sport, Piero Gnudi, pronunciate nel corso di intervento al convegno indetto dalla FederSport sul tema "Il presente ed il futuro dello sport italiano" in corso a Roma. Il ministro. Gnudi ha dato assicurazioni sull'iter della legge. "Ho fatto vari incontri con i rappresentanti delle varie forze politiche e sono tutti d'accordo, ma sembra che non si riesca a chiudere il cerchio. Spero che si possa riuscire a chiuderlo in pochi giorni" ha auspicato ancora il ministro. Entro la fine di giugno si dovrebbe approvare il provvedimento: prima alla Camera e poi dovrà tornare al Senato, dove aveva ricevuto il primo sì all'unanimità due anni fa, per l'ok definitivo. La Lega. Dal canto suo il presidente dela lega di A, Maurizio Beretta ha ribadito la richiesta di una legge-quadro, di contenuti normativi che non costerebbe al contribuente nemmeno un euro e che consentirebbe alle società di realizzare impianti moderni, all'altezza di quelli che troviamo in Inghilterra, Germania e Spagna, gestiti dalle società. Sarebbe un salto di qualità e consentirebbe di recuperare un svantaggio competitivo nei confronti degli altri grandi club europei. Da noi gli introiti da stadio incidono per il 12-15% sulle entrate perché vecchi, poco sicuri e in molti casi inutilmente grandi. Servono impianti di nuova generazione, più tecnologici e gestiti tutta la settimana dalle società". La battaglia vera. La domanda allora è: ma se tutti sono d'accordo perchè la legge finora è rimasta nei cassetti? La risposta è che finora sono prevalse logiche "volumetriche" e interessi diversi e la legge ha rischiato di prestarsi più a speculazioni edilizie che all'interesse del calcio italiano. Lo stadio deve essere il centro del progetto e non una "scusa" per dar vita a parchi immobiliari fatti di supermarket, attrazioni e strutture residenziali.
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