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Ghost Dog

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  1. L'INTERVISTA Martedì il compleanno del portiere-allenatore-presidente: una carriera che ha accompagnato la storia del grande calcio «Io contadino diventato Nembo Kid» Zoff, settant’anni da numero 1 di GABRIELE DI BARI (Il Messaggero 25-02-2012) ROMA - I 70 anni di un Mito sono un momento speciale perché Dino Zoff ha rappresentato, e rappresenta ancora, l’icona del calcio italiano. Taciturno, ombroso, amletico: uno scrigno di ricordi, aneddoti, saggezza e, soprattutto, di vittorie che hanno costellato una carriera longeva, carismatica, inimitabile. Da consegnare alla storia sportiva. Mister Zoff, da dove cominciamo? «Da sessanta anni fa». Pensavamo peggio... «Veramente possiamo andare ancora più indietro nel tempo, perché avevo quattro-cinque anni quando cominciai a parare in cortile». Quindi, un predestinato? «E’ stata una vera e propria vocazione, i compagni tiravano e io cercavo di parare. Il ruolo mi piaceva, man mano il gioco diventò una cosa sempre più seria e concreta. E, siccome ero bravino, a quindici anni mi portarono alla Marianese, la squadra del mio paese». Perché le è sempre piaciuto questo ruolo? «Non sono mai stato né un artista, né un creativo, ho sempre preferito la solitudine». Aveva già la statura giusta? «Non proprio. Il presidente mi riteneva basso e, ogni quindici giorni, mi misurava, sperando che fossi cresciuto di altri centimetri. Effettuai un provino per l’Inter, fu Meazza a visionarmi, ma non mi presero. A farsi avanti, invece, fu l’Udinese. Così, a diciassette anni, venni tesserato dalla società friulana, facevo il pendolare con il capoluogo. Mi dividevo tra il lavoro di motorista e il calcio. Giocavo nel campionato De Martino, quello delle riserve. A diciott’anni, dopo l’esame di idoneità a Coverciano, divenni calciatore professionista a tutti gli effetti». Cosa ricorda dell’esordio in serie A? «Un vero disastro, incassai cinque reti. A Udine la situazione non era facile perché l’allenatore Eliani non mi vedeva, ogni settimana chiamava in prova un portiere. Solo il presidente Bruseschi mi stimava. Un giorno mi convocò e mi disse: ”Qui nessuno ti vuole. Seppure a malincuore, sono costretto a cederti però sono convinto che farai strada”. Ci rimasi male e passai al Mantova di Schnellinger». Fu l’inizio della grande ascesa calcistica? «Mantova ha rappresentato il trampolino. Nel 1967 ero praticamente del Milan». Poi, cosa accadde? «Avevo le valigie pronte, sapevo che il trasferimento era cosa fatta. All’ultimo momento, però, l’accordo saltò per una cifra molto esigua. Il Milan di Rocco acquistò Cudicini dal Brescia, dato da tutti in fase calante. Invece, passato in rossonero, giocò le migliori sei stagioni della vita, vincendo tutto. E io mi ritrovai al Napoli». Non le andò tanto male. «I cinque anni di Napoli furono magnifici, con l’esordio in Nazionale e l’affetto incredibile della gente. Praticamente mi costrinsero a salutare la Curva dietro la mia porta ogni volta che giocavamo al San Paolo. E, per una persona solitaria e schiva come me, questi gesti rappresentavano un’enorme forzatura al carattere». Quando nacque l’appellativo di Nembo Kid? «Dopo una partita contro l’Independiente nella quale parai anche l’impossibile, volando da un palo all’altro. Per i tifosi partenopei divenni un eroe e, quando il presidente Ferlaino, per motivi economici, dovette cedermi alla Juventus, a momenti scoppiò una rivoluzione». Undici anni in bianconero, senza saltare un incontro. «Le mie riserve, Piloni, Alessandrelli e Bodini, non erano molto felici della mia costanza. Giocavo anche con trentotto di febbre, non mollavo mai. Con Alessandrelli, in particolare, esisteva un rapporto di grande amicizia». I rapporti con l’avvocato Agnelli? «Stravedeva per me, sia come portiere, sia come allenatore. La sua telefonata arrivava puntuale, ogni mattina alle otto. Era un competente, conosceva i calciatori di tutto il mondo e, quando non sapeva tutto di qualcuno, si informava. Quando giocavamo in casa, nell’intervallo, scendeva negli spogliatoi a prendere un caffè. Mai un’interferenza tecnica o tattica, solo un incoraggiamento. Una presenza assolutamente discreta». La parata più bella in carriera? «All’Olimpico, all’ultima giornata di campionato, al primo anno di Juventus. Eravamo sull’uno a zero per la Roma, il tiro era di Spadoni: se fossimo andati ancora sotto non saremmo riusciti a rimontare e non avremmo vinto lo scudetto». E quella contro il Brasile ai Mondiale 1982? «Quella su Oscar è stata la più famosa e la più importante, non la più difficile». Il gol che mai avrebbe voluto subire? «Quello storico di Magath». E la partita che mai avrebbe voluto giocare? «La finale della Coppacampioni ad Atene, contro l’Amburgo. La Juve contava otto-nove nazionali, oltre a Platini e Boniek. Sembrava tutto scontato, facile, scritto, invece non riuscimmo a giocare. Una disfatta». Ai Mondiali del 1978, in Argentina, venne preso di mira dalla critica, per alcuni gol subiti da lontano, contro Olanda e Brasile. «Scrissero pure che ero diventato cieco. Anch’io potevo sbagliare, per fortuna Bearzot mi rinnovò la fiducia e, ai Mondiali di Spagna, arrivò il titolo». Che reazione aveva quando commetteva degli errori? «Non riguardavo le partite perché ci trovavo sempre qualcosa che avrei potuto fare meglio. Ero meticoloso, perfezionista, maniacale, il primo critico di me stesso. In questo avevo imparato da mio padre. Una volta, commentando insieme una rete subìta a Napoli, su tiro da lontano che non mi aspettavo, mi zittì così: “Non te l’aspettavi? Ma fai il portiere, non il farmacista. . . » Qual è il più forte calciatore con cui ha giocato? «Ne voglio citare tre: Platini, Altafini e Sivori». Quello a cui era più legato? «Gaetano Scirea, ci bastava uno sguardo per capirci». Ricorda il calciatore che l’ha più delusa? «Sì, Capocchiano». L’avversario più bravo in assoluto? «Johan Cruyff, campione e inimitabile condottiero». Il più temuto? «Paolino Pulici. Giocava davvero bene solo i derby perché, con la spinta del pubblico, si esaltava, si trasformava. Diventava immarcabile, una furia, mi faceva sempre gol». L’allenatore che ricorda con più affetto? «Dico Pesaola, Bearzot e Trapattoni». Quello che mai avrebbe voluto avere? «Eliani». Ci racconti della storica partita a scopone sull’aereo, di ritorno dalla Spagna con la Coppa del Mondo vinta. «Io e il Presidente Pertini, contro Causio e Bearzot». Chi la vinse? «Bearzot e Causio. E Pertini incolpò me di aver commesso un errore. Ma, dopo un mese, telefonò scusandosi e ammettendo che era stato lui a sbagliare. Oggi quella partita avrebbe riscosso un successo mediatico mondiale». Il passaggio sulla panchina è stato semplice? «Non ho incontrato problemi, mi sono tolto belle soddisfazioni: Olimpica, Juventus, Lazio, Nazionale». Chi sceglie tra i tanti calciatori che ha allenato? «Potenzialmente Gascoigne, purtroppo non aveva la testa. Dopo l’infortunio con Nesta rifiutò il preparatore nelle vacanze e, quando tornò, feci fatica a riconoscerlo: aveva dieci chili in più. Scelgo Signori». Il più grande rimpianto da tecnico? «La rete di Dalmat a tempo scaduto, a Bari contro l’Inter quando allenavo la Lazio. Senza quel pareggio avremmo potuto contendere lo scudetto alla Roma». Veniamo a Zoff ct dell’Italia. «Una bella avventura, anche se chiusa polemicamente». In azzurro ha guidato Totti, Baggio, Del Piero: chi sceglie? «Francesco Totti, che ho fatto esordire in Nazionale. Un fenomeno, di tecnica e potenza. Gli rimprovero solo di non aver fatto di più a livello internazionale, perché aveva tutti i mezzi per lasciare tracce ancora più importanti». Cosa pensò quando fece il cucchiaio contro gli olandesi? «Nulla di particolare, Francesco era bravo dal dischetto, non ho mai temuto che sbagliasse». Le hanno rimproverato di aver mal gestito la finale con la Francia, agli Europei del 2000. Se avesse effettuato un’altra sostituzione... «Subimmo il gol del pari su rinvio del portiere, non credo che una sostituzione avrebbe cambiato la storia. Mi ero lamentato con l’arbitro, Garcia Aranda, che conoscevo, dei quattro minuti di recupero. In semifinale avevamo avuto fortuna, in finale andò tutto storto. Non si può avere tutto dalla vita». Perché lasciò bruscamente la Nazionale? «Per le accuse di Berlusconi che ferirono la mia persona, non le potevo accettare. Ma pochi furono scontenti della mia decisione di lasciare la panchina azzurra». E Zoff presidente? «La nomina di Cragnotti mi sembrò una bocciatura come allenatore. Ad ogni modo è stata una esperienza importante anche questa, che ha completato la mia vita calcistica. Da presidente sono tornato due volte in panchina ad aiutare la Lazio, con ottimi risultati». Non è uscito troppo presto dal giro? «Forse, non sono mai stato bravo nelle pubbliche relazioni. E questo, per un personaggio sportivo, è un difetto». Che differenze trova tra il suo calcio e quello odierno? «Magari oggi si cura più l’aspetto fisico e lo spettacolo, a dispetto della tecnica che conta meno. I balletti dopo i gol, i modi di festeggiare un successo e di commentarlo». Oltre al calcio, quale altra passione ha coltivato? «Mi sono sempre piaciuti i motori e le auto». Perché, dopo tanto girare, ha scelto di fermarsi a Roma? «Mi sono subito trovato bene. Da buon friulano torno spesso nella mia regione. Però la vita ormai è in questa città». Possiamo considerare Zoff più bravo o più fortunato? «Entrambe le cose, perché la vita mi ha dato tantissimo e ho potuto fare la professione che mi piaceva e sognavo». Ha mai pensato di entrare in politica? «Me l’hanno chiesto diverse volte, non fa per me». Come trascorre il tempo il settantenne Zoff? «Golf, tennis, piscina e famiglia». Ma allo stadio proprio non va più? «No, preferisco guardare le partite in televisione e fare il nonno di due nipotini. Sono un contadino e le stagioni della vita devono rispecchiare quelle della natura». Allora, tanti auguri Super Dino.
  2. Dino Z o f f L’uomo che tenne il mondo fra le mani Settant’anni di una leggenda Portiere immenso, silenzioso, vincente. I record, la dignità. Sbattè la porta e disse a Berlusconi: «Non prendo lezioni da te» di COSIMO CITO (l'Unità 24-02-2012) Nel 1982, al centro della sua e della vita di milioni di italiani, Dino Zoff aveva 40 anni e si avviava in silenzio all’immortalità tenendo il mondo e una sua dorata riproduzione in alto, sotto il cielo del Bernabeu. Il 28 febbraio prossimo Dino Zoff taglierà quota settanta: settant’anni di calcio, silenzi, voli leggendari, uscite di classe. E un ricordo su tutti. Il 5 luglio del 1982, minuto novanta di Italia-Brasile. Calcio d’angolo teso. La palla vola sulle teste italiane e incontra Oscar, un difensore salito alla disperata tra le maglie azzurre alla ricerca del 3-3. Colpo di testa strepitoso, la palla viaggia indisturbabile verso il fondo del sacco prima che sulla linea di porta una mano immensa la fermi, pochi millimetri dentro al campo. Il padrone di quella mano immensa si alza, stringe il pallone, fa segno di no, lo urla, lo urlano da casa, i 56 milioni d’italiani, non è gol, è ancora 3-2, è ancora semifinale, è ancora Mundial. L’arbitro Klein dà ragione al portiere, dà ragione a Dino Zoff. La più indimenticabile delle parate cambia la vita dei 56 milioni, che 3 minuti dopo si riversano nelle strade e riempiono con la loro gioia tutto quello che trovano, auto, fontane, monumenti, trombe, tutta l’aria. Fu quella parata, fu quel no, fu Dino Zoff. Settant’anni da padre della patria calcistica, da uomo senza fronzoli, da portiere che niente concedeva allo spettacolo e agli avversari, 112 volte azzurro (grigio, in realtà, era grigia la sua maglia, intonata alla sua voce, al suo umore invariabile), tutto il possibile vinto, compresi un Europeo e un Mondiale a 14 anni di distanza: portiere, poi capitano, poi unico portavoce della Nazionale in Spagna durante quel mitico e irripetibile silenzio stampa che privò gli italiani di parole ma li arricchì di emozioni, di figli, di notti magiche davvero. Lui era il portiere, lui l’estremo difensore di una squadra che non era perfetta e non era la migliore, ma che fu la migliore per quattro partite di seguito, contro il meglio del mondo di allora, Maradona, Zico, Boniek, Rummenigge. Quattro partite in tutto. CHI IL PIÙ GRANDE? Chi è il portiere italiano più forte di sempre? Zoff o Buffon? Il dubbio resterà, stili diversissimi, epoche contrapposte. Buffon si augura di chiudere col calcio a quarant’anni. Zoff chiuse a 41, dieci anni di Juve e prima anche Napoli, Mantova e Udinese, la squadra del cuore, la squadra della sua terra. 570 volte in mezzo ai pali in serie A. Suo il record di imbattibilità in azzurro, 1142 minuti tra il 1972 e il 1974, tra Vukotic e Sanon, l’haitiano che non t’aspetti nel tragicomico mondiale tedesco, quello del vaffa di Chinaglia, dei dubbi di Valcareggi, quello ritratto per sempre da Giovanni Arpino in Azzurro tenebra. Zoff era "San Dino" in quelle pagine memorabili. Allenatore, anche, dell’amata Juve, condotta nel ’90 allo storico bis coppa Italia-coppa Uefa ma lo stesso messo alla porta per far spazio a Maifredi, al nuovo che avanzava. Fu rimpianto all’istante da una società che aveva puntato sulla zona, su De Marchi, Julio Cesar, Luppi, su uomini e mezzi lontani dalla sua storia. Fu anche il primo anno di Roby Baggio, quello, e fu un anno orribile. Zoff lavorò a Roma, sponda Lazio, prima con Calleri e poi con Cragnotti, preparando a future grandezze una società digiuna di vittorie. Fu anche presidente biancoceleste, poi ancora un anno in panca prima della chiamata in azzurro dopo Francia ’98. Due anni impossibili, pieni di polemiche, chiusi dal golden gol di Trezeguet alla fine di un Europeo già vinto, chiusi da una frase di Berlusconi e da una risposta di Zoff restata memorabile: «Non mi faccio dare lezioni di dignità da quel signore». Si dimise e andò via, lontano dal calcio. Ci rientrò due volte per poco tempo, Lazio e Fiorentina. Poi basta, poi fu solo silenzio. Lo stesso di oggi: dignitosamente lontano, immensamente diverso. I settant’anni arrivano come quel pallone di Oscar, attesi ma improvvisi. È l’assedio del tempo, che i ricordi tengono fermo sulla linea, a quei giorni di luglio, a quella coppa dorata tra le mani, a quello scopone con Causio, Bearzot e Pertini in aereo. A quei giorni, a quelle emozioni, così insostituibili, maiuscite dal campo, sempre in mezzo ai pali della memoria. Buon compleanno, leggenda.
  3. L’anniversario Il portiere campione del mondo nel 1982 fu acquistato dal Mantova nell’estate del 1967 Zoff, i settant’anni di super Dino «A Napoli diventai Nembo Kid» di NINO MASIELLO (IL MATTINO 24-02-2012) Cominciamo dagli auguri: tanti e di cuore, a Dino Zoff che di anni martedì prossimo ne compirà settanta e di questi cinque sono napoletani, per giunta quelli che segnarono l’ingresso del portiere di Mariano del Friuli nell’olimpo dei calciatori di assoluto valore mondiale: i campioni di tutti i tempi, in campo e fuori. Dino, Napoli ti vuole sempre bene. «L’amore è ricambiato perché Napoli è sempre nel mio cuore, la città e la squadra che la rappresenta così degnamente. Cinque anni indimenticabili, ho vissuto a Napoli in modo splendido e ancora mi emozionano i molti ricordi di quell’esperienza. Dall’amichevole con l’Indipendiente, alla vigilia del mio primo campionato, alle molte volte che sono venuto a giocare con la maglia della Juve e ogni volta i tifosi fischiavano tutti i bianconeri riservando invece a me, che ero rimasto il loro Nembo Kid, tanti applausi». L’amichevole con l’Indipendiente, il tuo battesimo al San Paolo... «Arrivai allo stadio un’ora e mezza prima della gara, venivo in macchina da Bologna dove, con Juliano, ero militare di leva. Gli argentini si scatenarono ma non mi spaventarono, i tifosi se ne resero conto e forse fu quel giorno che pensarono di soprannominarmi Nembo Kid, come scrissero su uno striscione esibito nella prima giornata di campionato. Quella domenica mi sentii acclamato e io, friulano timido, mi intimidii ancor di più al punto che a stento riuscii a ringraziare con un breve cenno della mano». I tuoi compagni di allora, li rivedi? «Spesso ci incrociamo, con Juliano, Panzanato, con Nardin, che è delle mie parti, con Micelli. Come rivedo vecchi amici napoletani, per esempio Bruno De Pascale. Ed è sempre una festa ritrovarsi». Le stagioni con il Napoli? «Le prime due furono ad altissimo livello, eccezionali, quella era una grande squadra. Poi calammo un po’, forse gli investimenti non erano più adeguati alle esigenze della piazza». Oggi il Napoli molte volte riempie lo stadio, visto? «Non mi meraviglio, ricordo che quando c’ero io il Napoli aveva, comunque, 55mila abbonati». Ricordi Gioacchino Lauro? «Certamente. Un presidente generoso, affabile. Pesaola mi voleva, lui mi prese dal Mantova all’ultimo minuto del mercato, qualcuno disse fuori tempo massimo. Ero destinato al Milan, che poi prese Cudicini. Andò alla grande a tutti e due, io dopo sette-otto mesi ero in Nazionale, Cudicini è rimasto al Milan per sette anni, non lo hanno dimenticato». Prima di te il Napoli vantava già la tradizione dei grandi portieri, che tu hai ulteriormente nobilitato. Ora c’è De Sanctis, caratterialmente ti somiglia? «Non dimenticherei Castellini, il giaguaro. Quanto a De Sanctis, è da tempo un grande portiere, sta facendo cose importanti tra i pali di una squadra che non finisce di stupire. Non mi perdo una partita del Napoli. In Champions si è dimostrata all’altezza di squadre abituate da sempre a competere sul piano internazionale. Contro il Chelsea, dopo aver superato il girone infernale, ha offerto un’altra prestazione maiuscola e sono convinto che passerà il turno giocando anche a Londra senza paura». Come si fa rimanere... Zoff per settant’anni? «Rispettando il lavoro e le persone, rimanendo se stessi, sempre. Non mi è mai pesato essere riconosciuto, rilasciare un autografo, farmi fotografare con un tifoso. In fondo nella vita ho avuto la fortuna di fare quello che mi piaceva. Qui, probabilmente, il segreto della mia serenità». La carriera Nella leggenda al Bernabeu di NINO MASIELLO (IL MATTINO 24-02-2012) Dino Zoff, il capolavoro di Gioacchino Lauro. Pesaola aveva visto all’opera nel Mantova il portierone di Mariano del Friuli e ne aveva parlato a Lauro jr e al ds Montanari. Il Mantova chiedeva la luna, la trattativa fu estenuante e Zoff arrivò proprio nell’ultimo giorno di mercato per la stagione 1967-68. Dava il cambio a un buon portiere, Claudio Bandoni, tre stagioni azzurre. Fu presentato al San Paolo in un’amichevole con l’Indipendiente, non ha mai dimenticato quel giorno. Come non ha dimenticato le mani d’acciaio di Michelangelo Beato, il massaggiatore tutto caramelle e pizzicotti. All’esordio in campionato contro l’Atalanta (1-0), davanti a Zoff c’erano Nardin, Pogliana , Stenti, Panzanato, Girardo, Orlando, Juliano, Altafini, Bianchi e Barison. Nella rosa, anche Sivori, Canè, Bosdaves, Montefusco. È la stagione che vede due azzurri in Nazionale, due grandi amici: Zoff e Juliano, protagonisti dell’Europeo con la finale bis con la Jugoslavia a Roma. Primo anello di una lunga carriera (143 partite nel Napoli), con sei scudetti alla Juve e l’apoteosi del Mondiale ’82 al Bernabeu.
  4. L’intervista Portiere campione del mondo, poi allenatore e commissario tecnico, anche dirigente, a 70 anni si racconta e spiega il suo calcio «Io, Zoff, abbastanza un buon esempio» «Sono sempre stato feroce nell'autocritica Più portato alla concretezza che alle scuse» di ALBERTO COSTA (CorSera 24-02-2012) ROMA — «Il portiere era considerato il pazzariello della compagnia. Io ho dato un'altra versione del ruolo». Dino Zoff compie 70 anni e il racconto della sua vita scorre pacato come il Tevere, che è lì sotto, torbido e silenzioso. Quelle mani immortalate in un celebre disegno di Renato Guttuso mentre sollevano la Coppa del Mondo nella notte madrilena dell'11 luglio 1982 ora hanno 70 anni. Il tempo non ha pietà neppure per i miti dello sport. «Sono di famiglia contadina e so che questa è la legge della natura. Sono passati quasi trent'anni ma tutti mi parlano ancora di quel Mondiale, della parata contro il Brasile. È un ricordo continuo per tante generazioni». Dino Zoff lei è una vera e propria icona vivente. Ne ha la percezione? «Mi inorgoglisce tutto perché ho la presunzione di avere seminato bene, di essermi sempre comportato come Dio comanda. La popolarità non mi ha mai dato fastidio, non mi ha mai pesato fare un autografo. Io non sono stato umile nel mio lavoro, sono sempre stato feroce nell'autocritica, ho sentito la responsabilità sui gol che ho preso e quindi credo di meritarmela, la popolarità. Sono sempre stato per la concretezza e non per le scuse». Com'era il suo calcio? «Era un gioco, una passione. Ho incominciato da bambinetto a fare il portiere. L'ho fatto per vocazione, non c'era la tv per darti un'immagine da prendere come mito, come riferimento. Anche i sogni erano limitati». E com'è il calcio di oggi? «Il campo è lo stesso, le misure sono le stesse. È cambiato l'ambiente esterno. Ora dopo un gol si fanno i balletti. Cose senza senso, ci vuole rispetto dell'avversario». In effetti... «Anche da allenatore ho sempre battuto sul chiodo. Un atleta deve dimostrarsi forte e invece basta una spintarella e uno stramazza a terra: ma che atleta sei? Che cosa racconti a tuo figlio? Che hai strappato un rigore con una furbata?». E com'era Dino Zoff da giovane? «A 10 anni al paese che divertimento migliore del calcio ci poteva essere? Fare 10 chilometri in bici per giocare la partita era una festa. Ho studiato — tre anni di avviamento professionale, poi il biennio tecnico — e sono andato a lavorare: facevo il motorista in una grande officina». E continuava a tuffarsi tra i pali. «Facevo la parte dello scemo del villaggio, mi buttavo sempre. Le lascio immaginare i pantaloni. I più grandi mi prendevano in giro. Ma già a 13-14 anni il paese era orgoglioso di quel portierino. Mi sono venuti a vedere quelli del Milan e quelli dell'Inter. Sa chi era il responsabile del settore giovanile dell'Inter? Era Meazza, pensi quanto tempo è passato. Poi a 17 anni sono andato a Udine e lì ho esordito in serie A con una scoppola a Firenze, perdemmo 5-2». Lei è cresciuto in un'Italia diversa, senza Festival di Sanremo e vecchi tromboni. (ride) «Il mondo di allora era più facile. Se uno ne aveva voglia c'erano più possibilità di emergere. E si facevano anche più sacrifici». Da ragazzo era per i Beatles o per i Rolling Stones? «Ero più legato al mondo dei motori. Il mio idolo era Jim Clark». E per chi faceva il tifo? «Ero juventino. Al paese erano quasi tutti juventini. A parte un paio del Toro e un milanista». I più grandi con cui ha giocato? «Sivori, Platini, Boninsegna, Altafini, Schnellinger. E poi gran parte dei miei compagni del Mondiale di Spagna». E invece i più forti tra quelli che ha allenato? «Signori, Schillaci. Per non parlare di Gascoigne che ha sprecato tutto con uno stile di vita non da atleta». Chissà le arrabbiature con Gazza. «Gli artisti li ho sempre amati, forse perché io non lo sono. Un portiere deve evitare quello che creano gli altri». Mundial dell'82. Erano così fuori luogo le critiche iniziali alla vostra nazionale? «Del tutto fuori luogo. C'era una campagna accanita contro Bearzot, furono scritte cose inimmaginabili. Quell'Italia ha cambiato molti luoghi comuni sul nostro calcio catenacciaro. Avevamo due punte, più Antognoni e Cabrini che andava sempre. C'era Tardelli. Certo, sapevamo anche difendere». Da c.t. avrebbe potuto fare il bis a Euro 2000. Che cosa non ha funzionato nella finale con i francesi? «Semplice. Il destino ci ha aiutato in semifinale con l'Olanda e non con la Francia. Se fossimo usciti con gli olandesi non saremmo andati nemmeno in finale. Sono fatalista». E l'entrata a gamba tesa di Berlusconi che la incolpò di non avere saputo imbrigliare Zidane? «Io non sono un integralista del calcio. Accetto tutte le opinioni. Lì la questione è stata furbescamente spostata sulle marcatura di Zidane ma a farmi dimettere sono state le parole di Berlusconi contro l'uomo, sulla mia indegnità a guidare la nazionale». Tra tutti i suoi ex compagni qual è quello che si è dimostrato più bravo come allenatore? «Capello, senza dubbio. È il più bravo perché è il più normale. Il calcio è semplice». Il personaggio più strano che le è capitato di incontrare? «Gascoigne. Una volta, nonostante io avessi cercato di dissuaderlo, se ne andò dal ritiro la sera del sabato perché era arrivata la sua fidanzata. Il giorno dopo, il giorno della partita, ero a pranzo con una parte del mio staff e me lo vidi piombare completamente nudo al ristorante. Non nudo con gli slip e i calzini: proprio nudo. ‘‘Mister, mi hanno detto che mi voleva e non ho fatto in tempo a vestirmi''. Aveva cambiato idea. Ovviamente non l'ho fatto giocare ma con uno così, a suo modo geniale, come ci si può arrabbiare?». Qual è stata la sua gioia più grande? «Beh, il Mondiale. L'ho vinto a 40 anni, da capitano». E la delusione? «La finale di Coppa dei Campioni persa ad Atene con l'Amburgo nell'83, gol di Magath. Quella era la Juve più forte di tutti i tempi. La partita sembrava una formalità, per l'ambiente era già vinta prima di giocarla». Se le fosse possibile, che cosa eliminerebbe dal calcio di oggi? «Mi piacerebbe un calcio più semplice, che finisse dopo la partita e che non sia virtuale. Ormai invece la televisione è una religione, se non vai in tv non esisti». Alla fine che cosa ha rappresentato Dino Zoff per il calcio? «Uno che ha lavorato bene, con serietà. Anche se è poco umile dirlo, sono stato abbastanza un buon esempio. Siccome me lo dicono tutti, ci credo».
  5. INTERVISTA Dino Zoff: I 70 anni (senza rimpianti) dell’uomo della porta accanto di MASSIMILIANO CASTELLANI (Avvenire.it 14-02-2012) ​ Lo sguardo ridotto a una fessura, raggrinzisce le mani nei guanti, pare assente, chiuso nel vetro di una sfera lontana...». Così uno degli irregolari della letteratura del ’900, lo “juventinissimo” Giovanni Arpino, vedeva il suo idolo e amico Dino Zoff. Noi siamo andati a bussare al vetro di quella sfera lontana, ma trasparente, per rivederci 70 anni della storia di un uomo (li compie il 28 febbraio) che in tuffo ha intercettato anche quella di un intero Paese. Nella storia popolare rimane un monumento, eretto ben oltre la porta di un campo di calcio. E come tutti i grandi monumenti, preferirebbe restarsene immobile, osservando la sua Roma, «dove da friulano sradicato ho scelto di fermarmi a vivere» e il mondo, in un “silenzio zoffiano”. Se è vero che Celentano ha inventato le “pause” in tv, allora Zoff ha portato il silenzio nel calcio... «Se l’ho portato, allora è finito in fretta, con tutto sto rumore assordante che si sente intorno al pallone... Mi hanno proposto di fare il commentatore, ma ho sempre rifiutato: ho già fatto tanti errori, perché dovrei giudicare quelli degli altri? E poi, quelle poche volte che mi riascolto dopo un’intervista, sono io il primo che si addormenta», sorride, accendendosi la prima sigaretta. Poche parole e anche rari sorrisi. Forse l’unica foto in cui sorride è quella in cui alza la Coppa del Mondo. «Può darsi, del resto la mia regola è sempre stata: poche chiacchiere, tanta concretezza, niente smancerie. Bearzot l’avevo spiazzato quella volta a Barcellona: dopo aver battuto il Brasile sono andato ad abbracciarlo. Me l’ha ripetuto fino alla fine, non credeva che avessi potuto osare tanto. . . ». Ha aperto l’album dei ricordi su quell’istantanea con il ct, ma chi era Enzo Bearzot? «Un integralista della coerenza e della dignità. Un uomo colto e pur essendo un friulano come me, Enzo era uno di tante parole, ma tante. . . ». Tante pagine invece ha il suo album. Sfogliamolo con ordine. Il dimenticato e dignitosissimo Cina Bonizzoni la fa debuttare in A all’Udinese, nel ’61, poi lo porta al Mantova e da lì approda nel Napoli di Omar Sivori. «Un genio assoluto, adoravo il sarcasmo di Omar. Mi diceva sempre: “Senza quei tre pali di legno, voi portieri fareste la fame...”. Adesso che ci ripenso con Sivori ridevo tanto». Invece ha fatto piangere di gioia Sanon, l’haitiano che le segnò un gol storico ai Mondiali del ’74. «In quell’Azzurro tenebra, come scrisse Arpino, almeno ho fatto felice qualcuno, Sanon grazie a quel gol è diventato un eroe nazionale. Tempo fa una onlus per i terremotati di Haiti, mi ha invitato a una serata, e lì, io sono stato accolto da eroe». Eroicamente arrivò alla Juve a trent’anni suonati. Ma anche a lei l’Avvocato faceva squillare il telefono di casa alle 6 del mattino? «No, a me chiamava alle 9, 30, probabilmente era già la cinquantesima telefonata. L’Avvocato capiva di calcio come pochi e quando era all’estero, oltre a chiedermi le condizioni meteo in Italia, voleva sapere di tutti i calciatori in circolazione in Europa». Quindi Agnelli ascoltava i suoi consigli per gli acquisti e Boniperti poi andava al mercato... «Il mercato per un “fattore astuto” come lui era la sua casa. Boniperti contrattava su tutto. Quando nel ’76 perdemmo il campionato per la sconfitta di Perugia, al ritorno dalle vacanze, ci mise la distinta di quella partita sotto il naso e disse: “Avete perso uno scudetto con questi sconosciuti, non pretenderete mica l’aumento?...”». L’anno dopo, il 30 ottobre 1977 tornate a Perugia: la partita finì 0-0, ma ci fu la tragedia di Renato Curi. «Cosa ci può essere di più terribile di una morte in diretta su un campo di calcio, dove tutti sono lì a celebrare un momento di festa? Un giorno troppo triste, non lo dimenticherò mai...». Ha cancellato invece quei gol presi da lontano (con Olanda e Brasile) ad Argentina ’78, con Gianni Brera che l’accusava di non avere abbastanza diottrie? «Le cose brutte si cancellano più in fretta. Ci rimasi male per quello che scrisse Brera, al punto da non parlare con i giornalisti per sei mesi. Oggi comunque quelli sarebbero considerati degli eurogol e non delle “papere” del portiere». L’uomo di calcio che vorrebbe rincontrare. «Gaetano Scirea. Forse non gli ho mai detto ti voglio bene, ma a noi bastava guardarci negli occhi per capirci. Anche la notte che vincemmo il Mondiale eravamo in camera e ci sorridevamo con gli sguardi, senza dire una parola, perché era troppo grande l’emozione che stavamo vivendo. Gaetano era migliore di me, era più autentico...». E qui gli occhi sono lucidi, e non è il fumo della seconda sigaretta accesa. Qual è stato l’esempio che ha seguito per diventare Dino Zoff? «L’educazione della mia famiglia. Oggi i genitori vorrebbero che i figli fossero tutti dei fenomeni. I miei mi dissero: se vuoi tentare con il calcio provaci, ma intanto tieniti stretto il lavoro in officina. Poi quando sono arrivato in Serie A, un giorno che mi lamentavo per un gol preso con un tiro che non mi aspettavo, mio padre mi fulminò: “Ma scusa Dino, tu che mestiere fai, il portiere o il farmacista?”». Ha fatto il portiere, il ct, il presidente, per poi chiudere da allenatore. Ma non le piacerebbe tornare in panchina? «Come potrei allenare una squadra dove a ogni gol ci sono 4-5 che si mettono a festeggiare con i balletti davanti al portiere? Non lo sopporto, anche perché non sono gesti istintivi di gioia, ma puro esibizionismo, coreografie studiate a tavolino per la diretta tv». Neanche i balletti televisivi di Rivera le sono piaciuti, eppure balla anche Bobo Vieri... «Sì ma Vieri è uno che si è sempre prestato allo show e alle copertine delle riviste. Rivera non può, lui come me è stato il calcio, è una questione di coerenza». Per coerenza, lei si è presentato davanti ai giudici al processo di Calciopoli... «Ho solo confermato che quando allenavo la Fiorentina avevo avuto dei “cattivi pensieri”. Certi arbitraggi erano quanto meno sospetti... Nessuno stavolta ha detto che avevo le diottrie e qualcosa di strano mi pare che alla fine è venuto fuori». Nel nostro calcio si passa da uno scandalo all’altro, ora è il tempo di Scommessopoli. «Il calcio, lo sport, ti permette di esprimerti e di mostrare ciò che sei realmente. Ma il mondo del calcio è lo specchio della società in cui viviamo, che è fatta di gente che vuole vincere e avere soldi e successo, anche a costo di violare continuamente le regole». Che Italia vede, rispetto a quella della notte mundial di Spagna ’82? «Siamo diventati un Paese molto strano che a volte faccio fatica a capire. Non sopporto tutto questo piangerci addosso. Capisco e soffro quando vedo le lacrime del padre di famiglia che ha perso il lavoro, ma non tollero la piangina per un po’ di neve». Dalla sua porta, qual è l’immagine che l’ha colpita di più? «Aver visto cadere il Muro di Berlino con dieci anni di anticipo. Giocavamo in Polonia e la gente allo stadio per la prima volta si ribellava ai militari. . . Pensai che il mondo stava davvero cambiando». I tifosi più speciali che ha incontrato? «Pertini e Papa Wojtyla. Come si arrabbiò il Presidente per quella partita persa a scopa di ritorno da Madrid... Poi però chiese scusa e mi disse: “Zoff, avevo sbagliato io la giocata”. Papa Wojtyla ci tenne a dirmi che da ragazzo aveva giocato in porta e mi ripeteva: “Il nostro sa, è un ruolo di grande responsabilità”. Confermo Santità, gli risposi». Come il suo corregionale Capello in Inghilterra, nel 2000 anche lei diede le dimissioni da ct della Nazionale, dopo che l’allora premier Berlusconi la definì “indegno”, per aver perso la finale degli Europei (al golden-gol). «Forse non era un gesto da fare, ma per come sono io, non potevo non farlo. . . Però a Berlusconi oggi posso dire che alla fine ha vinto Zoff». E qual è stata la sua vittoria? «L’affetto e il rispetto della gente. Ovunque vado, in qualsiasi strada d’Italia, c’è sempre qualcuno che si avvicina per stringermi la mano e per dirmi: “Grazie Zoff per tutto quello che ha fatto in campo e per l’uomo che è». Spegne la sigaretta e torna nella sua sfera lontana, in silenzio.
  6. I miei primi 70 anni II 28 febbraio è il compleanno di Dino Zoff. Una ricorrenza straordinaria come la sua vita. II Napoli, la Juve, la Nazionale Campione d'Europa e del Mondo. «In Spagna vincemmo grazie a Enzo Bearzot. La parata piu difficile della carriera? L'uscita sui piedi di Cerezo nella gara contro il Brasile» di NICOLA CALZARETTA (GUERIN SPORTIVO | MARZO 2012) Dino Zoff: un monumento della fiducia popolare. La pennellata, in un vecchio servizio in bianco e nero, è di Beppe VIola. C'e tutto Zoff nella definizione: monumento, perché grandissima é stata la sua carriera, dall'esordio nel 1961 all'addio a 41 anni dopo aver toccata la luna, ma solo perché «non posso parare anche il tempo» come disse annunciando il ritiro. Fiducia, perché lui c'era sempre. E Nando Martellini finiva sempre con la stessa, tranquillizzante frase: «Parata di Zoff». Popolare perché il suo nome e cognome - Dinozoff, tutto attaccato - alzi Ia mano chi non lo conosce. Ha unito Nord e Sud giocando per il Napoli e la Juve, ma soprattutto perché è stato il portiere della Nazionale Campione d'Europa nel 1968 e il capitano dell'Italia mundial quattordici anni dopo, quando diventò un francobollo. Il 28 febbraio compirà 70 anni. Un traguardo speciale, un'occasione per parlare di sé, forse come mai era successo prima d'ora. Lo fa seduto su uno dei divani del salotto del Circolo Canottieri "Aniene", sul Lungotevere romano. Sorridente e confidenziale. Ma allora non è vero che lei è una sfinge? «Questa è l'impressione che davo, sembravo freddo e distaccato. In realtà, alla base del mio atteggiamento, oltre a un naturale equilibrio, c'era molto pudore. Apparivo poco socievole e capisco di non essere stato molto "giornalistico"». Però per il Guerin Sportivo lei ebbe un'intuizione notevole. «Non mi piaceva che anche il Guerino stesse dietro aile polemiche. Una sera a cena, dopo una partita con la Nazionale a Mosca nel 1975, proposi a Italo Cucci di puntare sulla cronaca sportiva e sulle fotografie, come faceva "II calcio illustrato"». In sintonia con il suo stile di vero sportivo. «Lo sport è una cosa meravigliosa, con le sue regole, i suoi valori. Si vince e si perde e il risultato va accettato. Per me è sempre stata una cosa seria: mi sono allenato al massimo, spingendo a tavoletta tutti i giorni, con il segreto di migliorarmi, anche a 40 anni». Cosa le piaceva di più? «L'allenamento. Era una cosa bellissima, mi divertivo. Anche a sfottere i compagni. Quando non riuscivano a farmi gol, li prendevo in giro con il verso del granchio. Gli ultimi anni di carriera sono stati i migliori: cominci ad apprezzare veramente il lavoro. Da questo punto di vista mi sono sempre sentito un dilettante pagato bene. Ho lavorato tanto, per il piacere di farlo». Così tanto che per le sue riserve non c'è mai stato spazio. «Un po' mi dispiaceva, ma non mi sono mai sentito in colpa. Le gerarchie erano chiare. E d'altronde lo sport è questo. Gioca chi merita, chi è il migliore. Io, poi, facevo di tutto per non mancare». Anche quando non stava bene? «Non ero condizionabile dal male. Anzi, il dolore per me era un fattore positivo perchè significava aumentare la concentrazione, dote fondamentale per un portiere. Poi ci sono state anche situazioni limite: al Napoli (dodicesimo era Cuman, ndr) giocai addirittura con una mano incrinata». È successo anche alia Juventus, vista la collezione di panchine di Piloni, Alessandrelli e Bodini? «Ma qualche volta hanno giocato, magari a fine stagione o in Coppa Italia. A proposito di Alessandrelli, fu lui a suggerirmi dove buttarmi la sera del 15 marzo 1978, nei quarti di finale di Coppa dei Campioni finita ai calci di rigore. Ne parai due». Ma intanto in campo c'era sempre lei! «Volevo esserci. Diciamo che qualche volta c'è stato qualche accordo segreto con Trapattoni. Quando avevo qualche problema andavo dal Trap e gli dicevo: "Ho male". E lui: "Te la senti comunque di giocare?". E io: "Me la sento". La cosa rimaneva tra noi. Era un modo per condividere una situazione, non certo per scaricare le responsabilità. Quelle me le sono sempre prese senza sconti». Severo con se stesso? «Severissimo. Ero presuntuoso, orgoglioso, anche un po' vanitoso e dunque alla ricerca della perfezione. Per questo mi sono sentito sempre responsabile, in tutto o in parte, delle situazioni che si creavano in campo. Per questo non volevo saltare mai una gara». Se è per questo alla Juve c'e riuscito benissimo, undici anni senza mai una sosta. Quando è iniziata la serie infinita? «Quando ero ancora al Napoli. La prima delle 332 partite consecutive ha preso il via con la penultima giornata del campionato '71-72, dopo il rientro dall'infortunio al perone». Cosa era successo? «Mi ero fratturato la gamba durante un "torello" in allenamento: quella volta la mia solita voglia di fare senza risparmiarmi mi gioco un brutto scherzo. Potevo rompermi soltanto da solo». Come è stata la sua esperienza al Napoli? «Molto positiva. Anche dal punto di vista umano: c'è stata una fusione straordinaria tra il pudore friulano e l'apertura partenopea. Se non fosse stato per la società, quella squadra avrebbe potuto fare grandi cose. Essere andato al Napoli è stata una fortuna». Eppure lei nel 1967 pareva destinato al Milan. «Tra Mantova e Milan c'era un accordo verbale. All'improvviso saltò tutto in aria. Nell'ultimo giorno di mercato, il Napoli fece l'offerta. Addirittura di notte fu fatto aprire un ufficio postale per consentire la spedizione dei documenti in tempo utile». Affare rocambolesco, al pari del suo esordio con la nuova maglia in amichevole al San Paolo. «Ero militare a Bologna. Non avevano fatto in tempo a inserirmi nella compagnia atleti di Roma. Sistemate le ultime cose, presi la mia auto e mi misi alla guida per Napoli». Che macchina era? «Una Giulia GT. Ho sempre avuto la passione per le auto. Da ragazzo ho lavorato in officina tra pistoni e carburatori. A Mantova avevo una 850 Abarth, mentre prima viaggiavo su una 500 modificata». Torniamo al viaggio verso il Sud con la Giulia. «Feci tutta una tirata. Rimasi sempre lucido e concentrato. Arrivai allo stadio un'ora prima della partita. Era un'amichevole estiva contro l'Independiente, ma era la prima uscita con il Napoli, non potevo steccare. E poi, dovevo abituarmi alle nuove usanze». Quali? «Salutare il pubblico. Me l'aveva detto Pesaola. Quando entri in campo, devi andare sotto la curva. Un po' la timidezza, un po' il fatto che quella cosa mi sembrava una ruffianata, dissi: "Non ce la faccio". Le prime volte fu davvero faticoso, alzavo a malapena la mano. Con il tempo è diventata una bella abitudine». Come era quel Napoli? «Buonissima squadra. Zoff, Nardin, Pogliana; Stenti, Panzanato, Bianchi o Girardo; Orlando, Juliano, Altafini, Sivori e Barison. C'erano anche Canè e Montefusco. Quell'anno arrivarnmo secondi dietro al Milan. Era un Napoli bello e spettacolare. Là davanti c'erano dei pezzi da novanta, con il grandissimo Sivori». Ma è vero che era ancora arrabbiato con lei per quello scontro in un Juve-Mantova in cui gli ruppe un paio di costole? (sorride) «È vero, ma il motivo era un altro. Un giorno mi disse: "Non ti perdonerò mai: mi hai fatto portare fuori da1 campo in braccio da Heriberto Herrera!"». A Napoli arriva il debutto in Nazionale, 20 aprile 1968, Italia-Bulgaria 2-0. «Fu una bella coincidenza esordire proprio a Napoli. Così come fu fantastica la serata della monetina, contro la Russia. Semifinale dell'Europeo, il San Paolo era una bolgia. II pubblico ci sostenne sino alla fine». Poi arrivò la doppia finale con la Jugoslavia per il primo storico trionfo continentale. «La Jugoslavia era forte, il loro numero 11, Dzajic, era un fuoriclasse. La prima fu sofferta, e finì in pareggio. Nella ripetizione, cambiammo mezza squadra. Andò bene: Burgnich poteva sbagliare una partita, non due». Quali sono i flash di quel 10 giugno 1968? «L'1-0 di Riva, il raddoppio di Anastasi. Non ci crederai, ma al gol mi aggrappai alla traversa e ciondolai come una scimmia, pensa te. E poi le fiaccole accese alla fine della partita: la prima grande coreografia di massa che abbia mai visto». Lei è Campione d'Europa, ma ai Mondiali 1970 gioca Albertosi, perché? «Perché era il portiere del Cagliari che aveva vinto lo scudetto e che aveva mezza squadra in Nazionale. Io giocai tutte le partite di qualificazione ai Mondiali e dopo la penultima amichevole - Italia-Spagna finita 2-2, con due autogol di Salvadore - mi fecero fuori». Livello di rodimento? «Altissimo. Ero incazzato. E scaricavo la rabbia durante gli allenamenti. Ci rimise Bobo Gori che, almeno in due occasioni, fu vittima dell'esuberanza. Ma lo sport é anche questo, sono cose che varmo accettate. Con Albertosi c'era rivalità, non correva buon sangue, anche perché eravamo all'opposto su tutto». Anche nella scelta delle divise, vero? «Per me la divisa vera del portiere è nera, con le maniche lunghe. In Nazionaie ho sempre giocato con il grigio. Albertosi era più appariscente. Io, comunque sia, l'apprezzavo, era il portiere esuberante, spaccone». E che non parava con i piedi, come faceva qualcun altro ... «Quante volte l'ho dovuta sentire. Paravo anche con i piedi perché coprivo di più. Ero un portiere completo, ma il mio punto di forza erano le uscite basse. Anticipavo l'azione e tuffandomi riuscivo a coprire più spazio. E poteva venir fuori la parata coni piedi». Dicevano anche che volava poco. «Perché il volo, tante volte, copre un errore di piazzamento. Io sentivo naturalmente la porta, la vedevo, ovunque mi trovassi. E spesso riuscivo a capire un attimo prima. Per questo non c'era bisogno del tuffo plateale e la parata sembrava facile». E intanto torna la maglia numero uno della Nazionale e arriva la chiamata della Juventus. «Mi è dispiaciuto lasciare Napoli, lo dico con sincerità. La verità è che la società aveva bisogno di soldi». II matrimonio con Ia Juve era annunciato. «Erano almeno due anni che mi cercavano. Ricordo un episodio durante la prima stagione con l'Udinese. Giocammo a Torino, ma Ia Juve aveva una divisa nera, come la mia. II portiere juventino Vavassori, che quella domenica era fuori, mi prestò la sua. Tolsero lo scudetto e giocai per la prima volta con la divisa della Juve». La prima immagine del suo arrivo a Torino? «Il sentirsi in famiglia, visto che c'erano molti compagni di Nazionale. Tra i tanti mi viene in mente Francesco Morini, uno che aveva sempre voglia di scherzare. Una volta mi fece un autogol e, mentre il pallone mi superava, mi faceva: "Chiappala, chiappala": era il tormentone di Max Vinella, uno dei personaggi della trasmissione Alto Gradimento di Renzo Arbore». Si aspettava una prima stagione a Torino così ricca di eventi tra primati e scudetto? «Alla Juve non mi sono posto limiti. Avevo trent'anni e una gran voglia di vincere. Riguardo al record di imbattibilità (903 minuti, superato dopo 21 anni, ndr), non ho mai lavorato per quello». Belgrado 1973, la Coppa Campioni sfuggita all'ultima curva. «Non eravamo preparati in campo internazionale, ci mancavano esperienza e personalità. Di là c'era l'Ajax di Cruijff nel pieno boom. Peccato, perché con la Coppa in tasca avrei potuto vincere il Pallone d'Oro, visto che quell'anno arrivai secondo». Merito anche delle prodezze a Wembley. «La prima vittoria dell'Italia in Inghilterra. Giocai una delle più belle partite di sempre. Gli inglesi ti cacciavano dentro l'area e il portiere non è che fosse molto protetto dagli arbitri. Tiravano da tutte le parti e il pallone bianco, marca Mitre, era simile a quelli moderni: leggero, all'apparenza sgonfio, con traiettorie da decifrare. Quella sera fu l'apoteosi del calcio italiano». E per lei arrivò anche la copertina di Newsweek. «Fece clamore la mia imbattibilità in campo internazionale. All'estero ero più considerato rispetto all'Italia». Con la Juve 1976-77 lei ha messo insieme Italia ed Europa. «Fu una stagione eccezionale. II primo ricordo è per la Coppa Uefa vinta a Bilbao. Gli ultimi 15 minuti furono di vera battaglia. Quattro giorni dopo arrivò anche lo scudetto record dopo un derby durato tutto il campionato con il Torino del mio amico Castellini». Eravate amici? «Sì, nonostante la rivalità cittadina. Fu lui che mi procurò il primo paio di guanti moderni. Li fece venire apposta dalla Germania. Prima di allora si giocava con i guanti del '38, quelli con la gomma delle racchette da ping pong sul palmo. Meglio le mani nude». Contro chi era meglio avere i guanti? «Contro Paolo Pulici. Al Comunale, di fronte al proprio pubblico, si trasformava. Una volta riuscì a fregarmi con un pallonetto in corsa, da più di venti metri». I famosi tiri da lontano che lei non vedeva. (ride) «Eccola l'altra storia. Di diottrie parlò Gianni Brera dopo Argentina '78. Molto onestamente ai Mondiali non ebbi un gran rendimento. Ma a parte casi eccezionali, nel calcio non esistono tiri imparabili. Sui famigerati quattro gol presi da lontano, sicuramente avrei potuto fare meglio, e dunque le critiche erano giustificate. Ma si travalicò il limite e per sei mesi non parlai più con nessuno. Ma la cosa peggiore è che certe etichette non te le togli più. Vedi il gol di Magath». Gia, Atene 1983: perché? «Per tutti era diventata una formalità, quella finale con l'Amburgo. Noi eravamo fortissimi: la Juve più grande in cui ho giocato. Sicuramente i favoriti, ma eravarno mentalmente scarichi e fuori giri. Fu un disastro». Lasciamo Atene e spostiamo le lancette indietro di un anno: estate 1982. «Una gioia così violenta non l'avevo mai provata. È impossibile da descrivere. Solo lo sport riesce a dare questi scossoni». Perche I'Italia ha vinto il Mundial? «Perché aveva un uomo che si è preso tutte le responsabilità, anche non sue: Enzo Bearzot. E poi perché era forte, rapida, attaccava con cinque, sei giocatori davanti la porta, altro che contropiede! Quella era una squadra che aveva la straordinaria capacità di condurre l'azione con una velocità e qualità di gioco eccezionali». Che non poteva fare a meno di Paolo Rossi. «Era indispensabile per la sua rapidità di pensiero e il suo tempismo. Era veramente in crisi all'inizio. Però non hai mai mollato, trovando appoggio nel gruppo e, soprattutto, in Bearzot. E contro il Brasile è risorto». A proposito di Brasile: se le dico Oscar? «Rispondo: una parata complicata, perché era l'ultimo minuto e perché ho bloccato la palla sulla linea. Sono stati secondi di terrore, già una volta in Romania mi dettero gol per un pallone che non era entrato. Andò bene, anche se devo dire che la parata più importante la feci sui 2-1, uscendo a terra su Cerezo». Dopo il fischio finale è scattata la festa. Ci racconta cosa è successo tra lei e Bearzot? «Gli ho dato un bacio sulla guancia. Una cosa francamente straordinaria, dettata dall'euforia, dall'immensa gioia. Un gesto bello, spontaneo. Autentico». Cosa ha significato sconfiggere i brasiliani? «È stata la partita della svolta. Dopo la vittoria con il Brasile ciascuno di noi ha avuto la convinzione che avremmo vinto la coppa. Nessuno ha mai detto nulla. Era una certezza intima, non espressa con le parole». Cosa rimane dopo aver vinto un Mondiale? «La gioia pura, quella dei bambini. E poi Sandro Pertini. La partita a carte sull'aereo presidenziale ha azzerato ogni distanza. Quando ci invitò a pranzo al Quirinale fu eccezionale. Disse: "Voglio Bearzot alla mia destra e Zoff alla mia sinistra. Poi tutta la squadra. I ministri se trovano posto, bene. Sennò vadano pure da un'altra parte". Unico». Spostiamo nuovamente le lancette del tempo e torniamo al 1983: si chiude la sua carriera. «Avrei potuto anche andare avanti, stavo bene. Ma dissi basta. Certo: Atene aveva inciso non poco». E la fascia di Capitano alla Juve passò a Scirea. «Quello di Scirea è un capitolo doloroso per me. Pensa che la notizia della morte ce l'ha data un casellante dell'autostrada a Torino. Tornavamo dalla partita contro il Verona con il pullman, ci fermammo a mangiare in un ristorante. Poi ripartimmo senza sapere nulla. Gaetano era un uomo dallo stile autentico. Mi manca molto, soprattutto per la sua serenità. Me lo sono chiesto tante volte come faceva a essere sempre così sereno». Siamo in chiusura: c'è lo spazio per un bilancio finale di una vita di sport. «Il bilancio è positivo. Non ci sono delusioni o rimpianti. La mia filosofia è questa: se una cosa non l'ho fatta e perché in quel momento non potevo farla. O perché non me l'hanno fatta fare».
  7. DINO ZOFF NEI MIEI PRIMI 70 ANNI HO PARATO TUTTO. PERSINO BERLUSCONI IL COMPLEANNO DEL PORTIERE-LEGGENDA CHE, NELL’82, VINSE I MONDIALI. UNA STORIA DI SERIETÀ «FRIULANA» ANCHE DA ALLENATORE AZZURRO, SINO ALL’INCIDENTE COL CAVALIERE NEL 2000. RIMPIANTI? NON ESSER RIUSCITO A PULIRE IL CALCIO di MAURIZIO CROSETTI (IL VENERDI DI REPUBBLICA | 27 GENNAIO 2012) ROMA. Questo sembra un compleanno, ma non è mica vero. Perché Dino Zoff è una creatura senza tempo. Il 28 febbraio saranno settant’anni, gli stessi di Muhammad Alì, dieci più di Vasco Rossi, quaranta più del mundial di Spagna che ne festeggia trenta a luglio. «Io la chiamo la fortuna della vecchiaia: hai capito com’è il mondo, e più di tanto non t’incazzi». Ha lo stesso viso di quando stava in porta, la stessa andatura. Zoff guarda il Tevere in un lucente mattino d’inverno, lo fissa come si scruta l’orizzonte di un campo di calcio. Serio, attento. «Forse, ero un po’ vecchio già da giovane». Dino, a settant’anni come si guarda il futuro? «Si pensa a quello dei nipoti, magari la soluzione alla crisi è diventare idraulico, o aggiustatore di sedie. Io, per me, ero motorista e quello avrei fatto nella vita». Era meglio, una volta? Proprio vero? «Ho vissuto un mondo bellissimo, un mestiere fatto per bene. Lo sport migliora le persone. Se ci credi, ci riesci. Poi, certo, arriva Calciopoli». Perché è arrivata? «Più per stupidità che per avidità. Il giocatore può essere facilone, può farsi tirare dentro. Ma se mi avessero anche solo proposto un trucco, li avrei picchiati ». Lei ha giocato 330 partite consecutive: cos’è, la durata? «Oggi non ci riuscirei. Oggi, il centravanti ti fa gol e comincia un ridicolo balletto, una coreografia da varietà. Anche lì, se l’avessero fatto davanti a me, li avrei menati, mi sarei fatto squalificare di sicuro. Sono pagliacciate, io ho sempre tolto invece di aggiungere, ho cercato di semplificare i gesti, le modalità, per arrivare all’osso delle cose». Come invecchia una leggenda dello sport? «Cercando di non macerarsi, visto che a 70 anni si comincia ad aspettare la morte. Sorridendo di più, anche se non sono mai stato musone, quella è una stupidaggine dei giornali. Serio sì, non musone ». Il contrario di questi tempi da circo, e non s’offendano i clown. «Ho visto Rivera ballare in quel programma con la Carlucci, che tristezza. Con le battute scontate, però se sei Rivera non puoi farlo. Viviamo tempi eclatanti e inutili, repliche di brutte commedie». Ormai ci manca solo Zoff al Grande Fratello. «Nel caso, ammazzatemi». Qual è il calcio più bello che ha visto? «Ma il calcio è sempre bello, è il contorno che non va, l’orpello, la pesantezza. Le sceneggiate, i fronzoli: l’Italia ama premiare i furbi, i simulatori, i venditori di fumo, è così che ci siamo rovinati. Ma un proverbio dice che i furbi un bel giorno muoiono per colpa degli stupidi ». Esiste una possibile difesa? «Io lo chiamo “il canone friulano”: lavorare bene ed essere seri. Ho fatto il possibile, ho cercato di dare l’esempio. Non si può cambiare il mondo, solo modificarne una piccola porzione, la nostra, con l’impegno ». Perché la vostra generazione di campioni non è riuscita a cambiare lo sport? Perché, invece di ballare con le stelle, non avete provato a diventare dirigenti? «Perché la politica ha chiuso tutti gli spazi, il vero potere ci ha respinti. E perché in Italia non si vuole il cambiamento: dopo Calciopoli è rimasto tutto uguale». Come si diventa Zoff? «Lottando con i numeri, con i risultati che non bastano mai. Fare, fare, fare. E mai un volo di troppo, non solo tra i pali. Per essere Zoff ho dovuto vincere un mondiale a quarant’anni, eppure nel ’73 ero arrivato secondo nel Pallone d’Oro dopo Cruyff. Ho cercato di tenermi basso, forse troppo, per il pudore di far vedere cose che non ci sono». Quali sono stati i portieri più grandi? «Combi e Sentimenti IV sono lontanissimi e non li posso giudicare. Direi Yashin, Banks, Zoff, Maier, Albertosi, Schmeichel e poi Buffon. Da giovane, Gigi aveva più personalità di quanta ne avessi io alla sua età, ma da vecchio io sono stato quasi imbattibile. Vedremo lui, a quarant’anni». Il portiere può essere creativo? «No, mai. Limita i danni dei creativi veri. Io sono stato un artigiano di qualità, magari il migliore al mondo, però non un artista. Lo erano semmai Pelè, il più grande di sempre, l’essenza del calcio, poi Maradona, forse più geniale ma meno completo, Sivori, Cruyff, Platini, Messi che ora merita il Pallone d’Oro a vita. E Paul Gascoigne». Gazza Gascoigne? In questa incredibile compagnia? «Sapeste che dolore, vederlo buttarsi via. L’arte sprecata è un crimine. L’ho amato e odiato, per questo genio e questa dissipazione». Trent’anni da Madrid ’82: lei e la coppa festeggiate insieme. «È stato enorme, irripetibile. Perché l’Italia segnò tanti gol su azione, velocissimi, perfetti. Riguardatevi la prima rete contro i tedeschi, con tre azzurri sulla linea della palla. Ci trovavamo a meraviglia. Anzi, si trovavano a meraviglia, perché io stavo in porta». La nazionale era stata anche più bella in Argentina, nel ‘78. «Vero, lì c’era pure Bettega, campione enorme. Il suo gol agli argentini, Bettega- Rossi-Bettega, resta una delle migliori azioni nella storia del nostro calcio ». Invece lei non prese quei tiri da lontano. «Se avessi giocato meglio, chissà, forse si poteva anche vincere il mondiale. Ma non ero vecchio, anche se Brera scrisse che era una questione di diottrie. Per mia fortuna, Bearzot vide più lontano. Mi sono sempre sentito figlio di Enzo: era talmente limpido che non voleva neppure che gli osservatori della nazionale volassero con le squadre di club che andavano a visionare, questo per essere più liberi, irreprensibili ». Mancheranno Bearzot e Scirea, alla sua festa. «Gaetano era lo stile, la serenità. Un vuoto grande come il primo giorno. Era sincero e pulito. Ed era più giovane di me, avrebbe ancora dato tanto esempio». Esiste la parata della vita? «Italia-Brasile dell’82, il famoso colpo di testa di Oscar nel finale. Volo e blocco a terra quella palla, sapendo che non esiste altra soluzione. So di averla presa in campo e non oltre la linea, ma è terribile l’istante in cui aspetto di capire se anche l’arbitro ha visto bene, mentre i brasiliani già gridano gol». Cos’è stata la Juve, per lei? «La consacrazione sportiva e la concretezza. Era come lavorare alla Fiat: produrre e ricavare, produrre e ricavare. Si guadagnava sui premi più che sull’ingaggio, e arrivare secondi era fallire. Logica industriale pura. Quando si discuteva il rinnovo del contratto, Boniperti cominciava a giurare sui figli: allora io pensavo che chi giura così, non può fregarti. Il mondo, però, non è degli ingenui». Cos’è la sconfitta? «Rappresenta la vera consapevolezza dell’atleta, il suo momento di crescita, perché si perde molto più di quanto si vinca. La finale di Atene contro l’Amburgo fu tremenda, la chiusura anticipata della mia carriera. Troppo entusiasmo: alla partenza, all’aeroporto di Caselle, ricordo un cartellone enorme del Trap che pubblicizzava un amaro. E lo bevemmo davvero, quell’amaro amarissimo». Ripensa spesso al gol di Magath? «Tutti lo ricordano come un tiro da lontano, invece era un metro dentro l’area. La palla si abbassò in modo strano, con un effetto maledetto. Quella finale di Coppa dei Campioni nell’83 venne perduta dalla più grande Juventus di tutti i tempi». Com’è una giornata da settantenne? «Un po’ di sport la mattina, tennis, nuoto, e il pomeriggio con i nipotini di due anni e mezzo e sette mesi. Sono un nonno operativo». Perché lei passa per musone? «Perché le parole di troppo sono fumo. Perché non mi è mai andato di giudicare, di criticare, di dire bugie pur di dire qualcosa. Perché la banalità uccide, invece il silenzio fortifica». Un giorno Berlusconi la giudicò indegno, alla lettera. E lei lasciò la panchina della nazionale. «Sono sempre stato un uomo scomodo. Ma tanti di quelli che hanno provato a farmi la morale li ho visti in azione, li ho conosciuti da vicino. Poi penso all’onestà feroce di Bearzot e mi consolo». Dino Zoff, le capita mai di sognare una partita di calcio? Di sognare il desiderio di essere ancora un portiere? «No, mai. Anche da giovane i miei sogni notturni erano confusi, indecifrabili e caotici proprio come adesso, però non riguardavano mai il lavoro. Neppure quelli ad occhi aperti, di cui sono uno specialista, e nessuno lo crederebbe. Sognare una carriera nel calcio, le vittorie, sognare la vita che poi ho avuto sarebbe stato impossibile: non c’era la tv che fa sembrare tutto a portata di mano. Le prime partite dentro un televisore le vidi che avevo dodici anni, era il mondiale del ’54». Un sacco di tempo fa. «Il tempo sconfigge tutto».
  8. Il pretesto di ANTONIO CORSA (uccellinodidelpiero.com 26-02-2012) Mi tolgo subito il dente: il gol di Muntari era regolare e l’errore del duo Tagliavento-Romagnoli, unanimemente considerati i n. 1 italiani nel proprio ruolo (arbitro e assistente, rispettivamente), è grave e inspiegabile. Nessuno l’ha messo in dubbio, nè tanto meno lo farò io. Ha pesato tantissimo sull’andamento del match, ha penalizzato fortemente il Milan e posso addirittura arrivare a concordare con coitus interruptus (e Boban, sigh!) che abbia in un certo senso falsato l’incontro perché, quando c’è un episodio simile, non si compensa dopo con gli errori successivi: sono errori tecnici allo stesso modo, ma il match ha preso un binario diverso da quello che avrebbe dovuto e potuto prendere (i rossoneri avevano speso tantissimo, forse troppo, ed era inevitabile un loro calo alla distanza). Credo di dimostrare con questo la massima onestà intellettuale possibile. Vi risparmio sulla fiducia analisi e fotomoviole, perchè gli episodi da ambo le parti sono chiarissimi e tra l’altro non contestati ( peròforse non è stato mostrato). Che il Milan sia stato penalizzato lo posso pure accettare, anche se non si possono scordare (come hanno fatto in troppi) gli errori che hanno penalizzato poi noi, sempre per quel discorso sull’onestà intellettuale. E non sono, a ben vedere, tecnicamente meno gravi (si parla di un rosso al 46' e di un gol regolare annullato, mica di rimesse laterali invertite). Una giornata no per la terna, si commenterebbe all’estero. Beati loro, che il giorno dopo si parla già della partita successiva. Ho vissuto tantissimi dopo-partita infuocati, specie prima del 2006, nei quali si accusava la Juventus di aver rubato. Mai, però, mi era capitato di vivere una situazione simile, ovvero di aver seguito l’intero dopo-partita su Sky (e tramite commenti di amici e lettori posso confermare sia accaduto lo stesso anche su Mediaset e Rai) e non aver sentito praticamente nessuno chiedere la testa dell’arbitro o dell’assistente responsabili dell’errore rivendicato (perchè si è parlato di fatto solo di “un” errore, ovviamente). Nessuno. Il linciaggio che ci si sarebbe potuti aspettare non c’è stato (o meglio è stato riservato ad altri), come non fosse “colpa” loro. Vi siete chiesti come mai? Perchè i mostri non sono stati sbattuti in prima pagina? Perchè nessuno ne ha chiesto radiazione o stop di 10 turni? (arriveranno comunque: Romagnoli si è già giocato la proroga). A ben vedere non si è neanche lanciata più di tanto, nel dopo-partita, la solita e scontata campagna “nel 2012 non è possibile non avere la moviola per i gol fantasma”. Forse qualcuno l’ha accennata, come inciso. Forse. Ma nemmeno. Un improvviso picco di cultura sportva? Ovviamente no. Semplicemente, non era quella la polemica. Adriano Galliani, all’intervallo, ha prima litigato con Braschi, poi ha mandato a fare in c_ (ricambiato, pare) Andrea Agnelli, per poi scendere negli spogliatoi dove, al di là di uno scambio con Tagliavento (non si è fatto mancare nulla..), si è scagliato con ferocia prima contro il resp. della comunicazione Juve Albanese, poi contro Conte (e per fortuna che l’ha placato Seedorf visto che si era persino avvicinato minaccioso a cercare il contatto fisico). La linea? L’errore è colpa delle esternazioni “sui giornali” della Juventus, altro che giornata storta! E pensare che si era ancora 1-0 all’intervallo con tutto un secondo tempo da giocare. Probabilmente, la partita da parte milanista è stata giocata molto sull’orgoglio e sul “vendicare” alcune dichiarazioni che non sono piaciute. Lo si capisce anche dalla rissa nel dopo-partita, con Chiellini inseguito (guarda un po’) da Ambrosini (ricorderete le accuse dopo la Coppa Italia). Si è, però, decisamente esagerato (parliamo pur sempre di un errore avvenuto al 25' pt). La linea adottata da coitus interruptus nel dopo-partita è stata pressochè la stessa. A Sky, ovviamente, gli hanno mostrato solo il gol di Muntari (non sia mai. . ) e lui, sorridente (l’aria da gentleman “è più finta dei soldi del Monopoli”, scrive la Bocci sulla Ġazzetta), ha lanciato bordate contro Conte, invitato a tacere la prossima volta, quasi fosse “colpa sua” dell’errore e non dell’assistente. La stampa, ovviamente, si è adeguata immediatamente (in questo i media italiani non sono secondi a nessuno): per una logica comprensibile (e sbagliata), ovvero quella della polemica da far scattare fra le due società, che “vende” molto più delle analisi a bassa voce. L’arbitro e il guardalinee non interessavano già più a nessuno dopo il triplice fischio. La notizia era altrove. Le domande, sempre le stesse, sono state a senso unico. Il primo (e gli altri hanno seguito a ruota) giornalista a fare una domanda al tecnico bianconero in conferenza stampa ha esordito dando la responsabilità al duo Conte-Marotta di aver lucrato in settimana per ridurre «quel gap di differenza tecnica che c’è col Milan», perchè «se c’è una squadra che dovrebbe lamentarsi alla luce delle ultime partite di Campionato è proprio il Milan: ha perso un sacco di punti e stasera pesa come un macigno quella svista del guardalinee sul gol del 2-0 che avrebbe chiuso la partita». Questo quando si son fatte le domande, perché ad esempio un Carlo Pellegatti da querela (pessimo, davvero pessimo) ha commentato la partita per Mediaset aggredendo Conte a fine partita a suon di “testa di c.. ” e “malato mentale”. Il tutto, ovviamente, in diretta televisiva e con la scusa della “telecronaca del tifoso” (non me ne voglia il buon Zuliani: una buffonata tutta italiana). L’avessimo fatta noi una roba del genere.. Il risultato è comunque che nel giro di poco più di una settimana si è passati dall’accusa bianconera che “gli arbitri sono condizionati dal 2006 nel non fischiare rigori dubbi” (come si sono permessi?) al “Conte si è lamentato e il pianto ha pagato”. E al “se si è arrivati allo scontro è colpa sua“. Tutto capovolto. Dal “condizionamento” al “controcondizionamento”. Che, se è sbagliato il primo, è sbagliato a maggior ragione il secondo (vero Abete?). Il gol di Muntari, come dicevo, e l’ho messo in premessa per non incorrere in equivoci o accuse di faziosità, era regolare e l’errore gravissimo. Ma è stato chiaramente il pretesto di quella che Tuttosport definisce “un’aggresione”, non la causa. Ed è piuttosto evidente, perchè “preparata” già nei giorni precedenti all’incontro. Già dopo la conferma della squalifica di Ibrahimovic il tema era quello, con una decisione assolutamente scontata e basata sul regolamento fatta passare per decisione “politica” (senza che nessuno si sia sognato di fare un’analisi tecnica, magari comparando la situazione con i centinaia di precedenti identici), fino ad arrivare al capolavoro firmato Corriere della Sera dove, in un’intervista a Paolo Maldini, si dava voce e spazio a sospetti del tipo “è stato fermato Ibrahimovic perchè si vuole favorire la Juventus per i torti subiti con Calciopoli” (c’è da aggiungere, per onestà, che si è fatto lo stesso con Nedved, cui è stato chiesto del condizionamento degli arbitri. E in questo caso non mi è piaciuta per tempismo l’uscita dell’ex centrocampista bianconero, troppo prossima al match già di suo ricco di tensione). Di tutto questo, la stampa italiana dovrebbe riflettere. Prima ancora di Antonio Conte. E’ palese come alla macchina del fango, raffreddatasi dopo il 2006, servisse giusto quest’episodio (purtroppo evidentissimo e oggettivamente imbarazzante), quasi “costruito” in settimana (ci scommetterei soldi: molti ci speravano pure). Serviva la scusa per tornare in azione. Ora, puntuali, torneremo apertamente a sentir parlare di “campionato rubato” dalla Juventus (occhio a non crederci che siamo ancora a febbraio, ed è ancora lunghissima, con un recupero difficilissimo da giocare in un campo per noi storicamente ostico come Bologna), di “Juve ladra” e di “vincitori morali” dello Scudetto, con Conte che prende ufficialmente il posto che fu di Moggi. Già, Moggi. Ovviamente lo sentirete nominare in tutti i servizi televisivi e lo leggerete in ogni giornale, manco fosse stato lì a bordocampo. Si è voluto trasformare un errore tecnico (non l’unico della gara), grave, in un complotto a comando (chissà se Braschi e Nitti avranno qualcosa da ridire e troveranno “inadeguato” anche questo atteggiamento..). In un condizionamento arbitrale da sudditanza. Il Milan, fino a quel momento palesemente aiutato dagli arbitri, è ora vittima del “sistema Juve”. Una vendetta a tifoserie unificate per aver provato ad aprire bocca. Una punizione in piena regola (leggere per tutti lo “sfregio meritato” di Crosetti) per aver tentato di riaffacciare la testa fuori, manifestando senza giri di parole un malessere provato. Che la Juventus, ladra per definizione, non può provare. Non ce l’hanno concesso, e non ce lo concederanno. Certo, sarebbe bello, tra una polemica e l’altra, ricordare come si stia parlando di un gioco, come ci sia stata una partita, come si sia ancora a febbraio. Ma in Italia questo piacere non l’avremo mai e la responsabilità di tutto ciò è di chi ci mangia, in questa melma. A noi è successa la stessa identica cosa contro l’Inter a San Siro, con un errore forse ancora più clamoroso, seguito a polemiche ancora più dirette dei nerazzurri, eppure nessuno è entrato negli spogliatoi a cercare la rissa, nè si è insultato Paolillo o Ranieri in diretta. Purtroppo si continua a vivere di trucchetti e polemiche perchè, sostanzialmente, non si è in grado di proporre niente di qualitativamente migliore. Credo in tutta sincerità Conte abbia capito. Gli altri, purtroppo, no. Peccato.
  9. La finta guerra fra Milan e Juventus di STEFANO OLIVARI dal blog GUERIN SPORTIVO 26-02-2012 E’ difficile prendere sul serio le polemiche dopo uno dei più belli e intensi Milan-Juventus degli ultimi decenni, ma non solo perché gli errori arbitrali alla fine sono stati più o meno in entrambe le direzioni. E’ evidente che un errore che si verifica ‘prima’ pesa di più rispetto a uno ‘dopo’, ma non è questo il punto. Dal clamoroso gol non visto di Muntari al ‘primo’ uno a uno annullato a Matri per fuorigioco inesistente, passando per il pugno di Mexes a Borriello a tante situazioni minori male interpretate, questo Milan-Juve sarà di sicuro ricordato e non per l’ottimo calcio che pure c’è stato. Detto che eravamo allo stadio e che sul momento, senza monitor, abbiamo pensato che Buffon avesse davvero evitato il gol con una prodezza che ci ha ricordato quella di Banks su Pelé a Mexico 1970, il discorso di fondo è sempre lo stesso: se si pensa che ci sia un complotto contro la propria squadra (e ci può essere, in teoria) bisogna denunciarlo con moventi e mandanti, se no tutto rientra nel normale ‘mettere pressione’ ad arbitri che già di loro sono sotto pressione. Alla fine di tutto questo, rimane la domanda: il Palazzo tifa Juventus, per mettere una pietra su Calciopoli (semplifichiamo), o Milan in quanto club politicamente trainante della Lega (anche qui semplifichiamo)? Perché poi staremmo parlando di due società alleate, cosa che non è un reato ma comunque un fatto sbandierato dai dirigenti di entrambe, fin dall’inizio dell’era della Triade in bianconero (quindi dal 1994), che non potrebbero essere alleate se avessero il sospetto che una delle due lavori per imbrogliare l’altra. Tutta una settimana, quindi, dalle dichiarazioni di Conte e coitus interruptus in su, va derubricata a normale (purtroppo) lavorio sulla terna arbitrale, con dossier fatti scrivere da terzi senza nemmeno metterci la faccia come uno Zamparini qualunque. Se la partita è stata falsata, lo è stata paradosalmente proprio dalla tivù che tutti invocano (anche noi) come rimedio a tutti i mali del calcio. Impossibile che nell’intervallo Tagliavento non sia stato informato delle immagini relative all’episodio Muntari-Buffon, impossibile che non ne sia stato condizionato. Da questa pseudo prova-tivù è poi nato l’atteggiamento anti-juventino del secondo tempo, superato dal calo del Milan e dal carattere della squadra di Conte. Concludendo? Non sempre ci sono i complotti, nel calcio italiano, mentre i furbi sono una simpatica costante. E siamo anche costretti a prenderli sul serio. ___ Mi viola in campo di IVAN ZAZZARONI dal blog Il calcio è un cartone animato per adulti 26-02-2012 A San Siro è successa una cosa straordinaria e bellissima: dopo settimane di polemiche e tentativi più o meno velati di condizionamento, il miglior arbitro italiano, Tagliavento, e il suo guardalinee più capace, Romagnoli, hanno commesso almeno due errori da sospensione senza appello danneggiando prima il Milan e poi la Juventus. Questa – sì – e democrazia, altro che eredità di Calciopoli e derivati! Nessun disegno, nessun piano: nessuna strategia ha armato Taglia & Roma: hanno toppato di brutto e grossolanamente. La partita è stata falsata, il risultato anche, nonostante molti osservatori l’abbiano considerato giusto. Gli effetti immediati. Chi – durante e dopo – ha gridato allo scandalo, chi ha avuto cali di pressione, chi invece l’ha risolta con la solita pretesa dell’introduzione della tecnologia. Conte ha addirittuo dato del mafioso all’apparato berlusconiano. Le solite manfrine. Italiane? No, europee: ricordate i recentissimi Real-Barça? Il calcio è uno sport della strada, è nervoso, maleducato, arrogante e ipocrita. Solo Buffon ha ammesso che se si fosse accorto dell’errore non avrebbe aiutato l’arbitro, Vidal s’è fatto giustizia da solo. Come Mexès. In fondo è uno sport stupendo, il guaio è che ci sono i calciatori. E gli allenatori. E i dirigenti. E i giornalisti tifosi.
  10. VELENOPEDIA Beppe Severgnini di GIUSEPPE POLLICELLI (Libero VeLeNo Numero 8 - Libero 26-02-2012) Giuseppe Severgnini nasce a Crema nel 1956 sotto il segno di Indro Montanelli, il quale abbandona l’Ungheria nel bel mezzo della rivoluzione e, guidato da una stella cometa, fa ritorno in Italia per essere sicuro di assistere alla nascita del predestinato Beppe. Quando il bimbo viene alla luce, familiari e amici comprendono che ha peculiarità fuori dall’ordinario: nasce infatti già fornito di un paio d’occhiali nonché degli inconfondibili capelli da coverista dei Beatles. Il caratteristico mento alla Totò, che ancora oggi rappresenta una delle più efficaci armi di seduzione di Beppe, sembra invece conseguenza del maldestro intervento col forcipe di un ostetrico, il quale si sarebbe poi giustificato dicendo che Montanelli lo aveva distratto raccontandogli di come - senza mai mollare la sua Lettera 22 - fosse arditamente riuscito a schivare un carro armato sovietico che stava per schiacciarlo. Crescendo, Beppe seguita a manifestare segni di eccezionalità. Le prime lettere che scandisce, a neppure due anni, sono BBC, pronunciate per di più con un impeccabile accento della Regina. E in effetti il bambino - che a sei anni ha già l’aspetto di un nerd diciannovenne - impara a esprimersi in inglese ancor prima che in italiano. Da qui l’idea, che Beppe sfrutterà nel migliore dei modi divenendo un bestsellerista, di irridere con un numero incalcolabile di libri quei milioni di italiani che a stento sanno dire “How are you?” senza aspirare l’acca. Le doti di Severgnini inducono Montanelli a nominarlo corrispondente da Londra del Giornale, scelta di cui molti londinesi sono tuttora grati a Indro poiché la frequentazione di Beppe ha molto migliorato la loro conoscenza della grammatica inglese. Momentaneamente stancatosi delle figure di ɱerda degli Italians all’estero (lui escluso, ovviamente), Severgnini dà alle stampe 36 libri consecutivi sull’Inter, nei quali sostiene tra l’altro che i nerazzurri, senza intrallazzi juventini, avrebbero oggi in bacheca 48 scudetti e che Luciano Moggi è l’Anticristo. Di recente ha pubblicato su un supplemento del Corriere della Sera il resoconto di una settimana passata senza Internet. Esperimento interessante che ha dimostrato soprattutto una cosa: Severgnini non fa una mazza dalla mattina alla sera. In sette giorni, come si evince dal suo diario, ha scritto tre brevi pezzi dedicandosi per il resto alle più disparate forme di ozio, nessuna esclusa: cinema, mostre, aperitivi, pennichelle, incontri con gli amici, trasferte (pagate) a Roma, ospitate in tv dalla Gruber ecc. Tornato on line, trova 346 nuove mail e, sudando freddo, chiosa preoccupato: «Si annuncia un periodo impegnativo». Beppe potrebbe imitare il suo idolo Mario Monti e mostrarci la dichiarazione dei redditi: verificare quanto fruttano tre articoletti in un’intera settimana di infingardaggine sarebbe ancora più interessante che leggere i suoi diari.
  11. Criticare è un’azione da temerari Siamo ammalati di querelite LA STRATEGIA DEL BAVAGLIO Dopo il caso Fiat-Formigli Quel vizietto dei permalosi che si chiama querelite I giornalisti non finiscono in tribunale solo quando sbagliano: ormai basta esprimere un’idea per ritrovarsi citati da potenti o politici di GIAMPIERO MUGHINI (Libero 26-02-2012) Una proposta piccola piccola ad aggiornare il dizionario della lingua italiana. Introdurvi il termine “querelite” a dire la smania diffusa di querelare chiunque ti abbia dato un colpo negli stinchi, ad esibire il fatto che tu lo vuoi morto e chiedi euro a centinaia di migliaia a proteggere il tuo onore violato. Ho detto colpo negli stinchi, insinuazione maliziosa, opinione di chi non ti stima e non ti trova sexy, giudizio altamente negativo su un tuo film o un tuo libro o una tua fidanzata, “buffetto” alla Zlatan Ibrahimovic (troppe tre giornate!), affermazione sbagliata che tu hai tutto il diritto di rettificare e di cui il colpevole ha tutto il dovere a raccogliere la tua verifica. E non che io sia dell’opinione di Lucia Annunziata, che la libertà di straparlare sia totale e tu possa dire qualsiasi scemenza senza pagarne il fio. Nemmeno per sogno. Tu hai tutto il diritto di dire che Maurizio Belpietro e Massimo de’ Manzoni ti stanno antipaticissimi. Però se hai scritto che loro due molestano sessualmente la loro colf o che li hai intercettati nel mentre che loro incassavano la “mazzetta” da qualche figuro, o lo provi o paghi gli euro. Se in punta di fatto l’ha sparata grossa, allora sborsa gli euro perché non c’è “libertà di espressione” che tenga. M’è venuto in mente di parlare della malattia chiamata “querelite” a partire da una notizia che ho letto su Dagospia, un sito dove di calci agli stinchi dell’universo mondo se ne tirano un migliaio al giorno. Uno lo hanno tirato di recente a una parlamentare di An, la quale ha subito scritto a Dagospia correggendo e smentendo, e persino con una certa eleganza. Va bene così, ho pensato. E invece no, sembra che all’indomani sia arrivata una lettera dell’avvocato della parlamentare con tutto l’annesso corredo di minacce di querela. Così pure, non è che io sia pazzo di come i giornalisti del il Fatto Quotidiano (un ottimo giornale!) ce l’abbiano duro duro per tutte le 24 ore della giornata. Epperò spero non sia vero quello di cui ha parlato Marco Travaglio in un suo editoriale di un paio di giorni fa, e cioè che il ministro Paola Severino ha minacciato di querelarli per avere subito da quel quotidiano qualche calcio negli stinchi. Spero ardentemente che non lo faccia. Milena Gabanelli, una giornalista che è stata querelata più volte da quelli cui lei sferra calci negli stinchi nelle sue trasmissioni televisive, e che in tribunale è risultata poi vincitrice nella grandissima parte di quelle contese, ha ricordato di recente che la legge italiana è particolarmente tenera nei confronti di chi intenta una causa “temeraria”, di chi ti querela e poi perde perché la sua querela non aveva alcun fondamento di fatto. Filippo Facci ha ricordato due giorni fa il suo caso, d’essere stato querelato in una causa multimilionaria dalla Rai per averne scritto malevolmente e alla maniera sua. Milioni di euro per avere espresso un’opinione per quanto malevola? E arriviamo alla questione Fiat vs. Rai-Formigli, con quella gran condanna a pagare la bellezza di sette milioni di euro all’azienda torinese. Premetto che non avevo visto la puntata di Annozero in cui si diceva che una certa auto Fiat facesse bell’e schifo se raffrontata a due auto rivali. Dalla sentenza mi pare di aver capito che in quella trasmissione siano stati utilizzati scorrettamente alcuni dati oggettivi relativi al funzionamento dell’auto Fiat. Mi stupisce che un giornalista accorto come Enrico Mentana abbia un tantino difeso Corrado Formigli con lo strano argomento che Formigli paga le tasse in Italia e Sergio Marchionne no, un argomento che vale un po’ meno di zero. E con tutto questo mi pare che una condanna a pagare sette milioni di euro sia strabordante, e forse una sentenza e una notizia del genere non giovano poi così tanto all’immagine dell’azienda madre della storia industriale italiana. A paragone gli eventuali colpevoli che cosa dovrebbero pagare per l’affondamento di quella nave innanzi al Giglio e a causa del quale sono morte annegate trenta persone, tra cui una bambina di cinque anni? Dimenticavo l’essenziale. Quel che succede davvero, nei meandri della comatosa giustizia italiana, quando tu quereli qualcuno a essere risarcito e ripagato di un’offesa che ti è stata fatta. La causa la più semplice, quella che ci vorrebbero al massimo quindici minuti a decidere se sì o no, con i ritmi della giustizia italiana dura sei o sette anni. Uno che s’è sentito leso nell’onore da una riga che lo riguardava e che faceva parte di cinque pagine che gli avevo dedicato in un mio libro, ha querelato me e la casa editrice che aveva pubblicato il libro. Ha chiesto a entrambi un risarcimento di 500mila euro, un milione in tutto. È una causa che va avanti da due anni e di cui è prevista la sentenza di primo grado fra 7-8 mesi. Non che nel frattempo sia successo qualcosa in tribunale. Niente di niente. E del resto a decidere se sì o no sarebbero bastati quindici minuti, il tempo di leggere le cinque pagine di cui ho detto. Quindici minuti in tutto. E invece scartoffie a cataste, soldi agli avvocati, tribunali ulteriormente intasati, eventuali chiacchiere a rinfocolare la polemica. PS - Confesso che una volta ho razzolato male. Un giornale che mi era ostile aveva pubblicato un articolo - firmato con uno pseudonimo - in cui si diceva a proposito del mio essere ospite in una trasmissione televisiva Mediaset che avevo “l’aria di uno spastico”, che ero talmente “ripugnante” che gli ospiti invitati a quella trasmissione si rifiutavano di venirci e che la situazione si era fatta tale che Silvio Berlusconi in persona aveva deciso di congedarmi e che però doveva pagarmi una buonuscita, ciò di cui l’autore dell’articolo era terribilmente contrariato. Ora, non era vero niente. Non che io non fossi “ripugnante”, tutto il resto. Portai l’articolo a un avvocato romano celeberrimo. Non credeva ai suoi occhi. Querelammo. Una causa che doveva durare al massimo dieci minuti. Durò un paio d’anni sino alla sentenza di primo grado in cui il giudice disse che l’articolo che io avevo impugnato era un articolo di satira, un articolo scritto benissimo. Mi condannò a pagare le spese legali della controparte. Una lezione di giurisprudenza la sua. E difatti la prossima volta che qualcuno dirà di me che ho l’aria di uno spastico e che sono ripugnante, mi guarderò bene dal querelarlo. Andrò ad aspettarlo sotto casa. Questa sì che è giustizia.
  12. Il personaggio In abito bianco alla sfilata di Gucci, in Ferrari mimetica alla festa di «Vogue». La seconda vita del nipote dell’Avvocato Presenze e gaffe, il magico mondo di Lapo di MATTEO PERSIVALE (CorSera 26-02-2012) MILANO — Lapo che lascia in divieto di sosta la Ferrari mimetica con il simbolo pacifista sul parafango (notizia dell'altro giorno), poi andando indietro nelle settimane e nei mesi ecco Lapo che si perde per Londra e invece di usare il Gps o chiedere lumi ai passanti assolda un taxi e lo segue fino a destinazione, Lapo in abito azzurro che segue dalla tribuna Napoli-Chelsea, Lapo con il loft milanese svaligiato dai ladri, Lapo che ferma il tram con il Suv mimetico parcheggiato sulle rotaie, Lapo in felpa Fiat e Borsalino, Lapo che si sfila i mocassini foderati di peluche, Lapo che marchia la 500 con il logo di Gucci e personalizza le Ferrari con l'interno di cashmere, Lapo sulla barca del nonno con la t-shirt «libertà o morte», Lapo in pantaloni coi graffiti, Lapo che porta gli abiti gessati del nonno con le scarpe da ginnastica verdi, Lapo in costume da bagno con la mappa dei tatuaggi pubblicata dai magazine, Lapo con la Maserati Gran Turismo nero pece lasciata sulle strisce, Lapo che ruba palla a un giocatore durante una partita di basket Nba a Los Angeles fermando il gioco e finendo sulla Cnn, Lapo alto sei piani a torso nudo nella pubblicità di una radio. L'avvocato Agnelli sapeva classificare con lo stesso intuito e occhio clinico un po' tutto, dai calciatori alle belle donne, dalle barche ai suoi nipoti. E aveva capito subito che John era quello metodico, più grande dei suoi anni, destinato a raccogliere l'eredità aziendale di famiglia. Che Ginevra era quella con il temperamento artistico e la passione del cinema. E che Lapo era quello estroso e imprevedibile, che divideva con lui la passione del mare. Ma forse neanche l'Avvocato che fu ritratto da Warhol avrebbe potuto prevedere che Lapo Elkann, nato il 7 ottobre 1977 a New York, sarebbe diventato, nel linguaggio del marketing, un «brand»: un marchio. Il fratello John è a capo della multinazionale di famiglia, il cugino Andrea è a capo della squadra con più tifosi nel Paese che per il calcio ha un'ossessione. Ma della nuova generazione della famiglia Agnelli, quello trasversalmente famoso a livello internazionale — bastano pochi secondi su Google — è Lapo. O meglio, il «brand Lapo». Interprete di una forma di popolarità nuova, post-moderna, amplificata mostruosamente da Internet. Celebrità che sarebbe sbagliato definire soltanto «pop» perché Lapo è un habitué delle riviste di gossip ma finisce anche a pranzo con il Financial Times nella rubrica-salotto buono dei media finanziari europei. Esattamente come capita a manager che hanno un curriculum assai più nutrito del suo, il cui autista della berlina grigia mai finirebbe in divieto di sosta. Lapo con mega servizio sull'ultimo numero di GQ britannico, un'attenzione che nessun manager (o, ancora più tristemente, nessun attore) del nostro Paese ottiene, un tipo di spazio che, tra gli italiani, soltanto gli stilisti più affermati possono vantare (e Lapo ha creato sì il marchio di occhiali e abiti «Italia Independent», ma non è uno stilista). Come ha fatto? Mezzo secolo dopo che la sociologia (cfr. Boorstin) ha coniato la definizione di coloro che «sono famosi per essere famosi», non per quello che fanno, Lapo — per istrionismo Avvocatesco o per strategia precisa importa poco — trasforma le gaffe in performance mediatiche cliccatissime su Internet e diffuse esponenzialmente via Twitter: finendo nelle classifiche degli uomini meglio vestiti del mondo esattamente perché rompe tutte le regole, ospite a pranzo del Financial Times perché si pone come l'anti manager paludato. Capace per questo di superare lo scandalo della serata sesso, overdose e coma del 2005 (ormai passato in giudicato dai media internazionali come «un'indiscrezione» che se possibile accresce la sua popolarità). Che un giovane gaffeur di ottima famiglia e di grandissimi mezzi diventi tanto famoso grazie alle soste vietate con veicoli fuoriserie può essere, a seconda dei punti di vista, un segno dei tempi o la dimostrazione di quel nuovo tipo di popolarità — onnivoro e irrefrenabile, dove la sola unità di misura sono i «clic» su Internet — che viene studiata attentamente dai brand manager perché si tratta d'un gioco globale da miliardi di euro. Poi, certo, anche i lati non pittoreschi della vita di Lapo — il lavoro vero e non di facciata nella raccolta fondi per l'ospedale israeliano Tel Hashomer, lo studio dell'ebraismo religione di suo padre — finiscono in secondo piano. Ma, come da saggezza popolare, nessuno conosce un uomo meglio del suo sarto. E Lapo dal sarto ci va per adattare i gessati inglesi del nonno come per misurare doppiopetti fluorescenti: «Tanto — assicura il sarto e amico Alessandro Martorana — gli stanno bene tutti allo stesso modo».
  13. la controinchiesta TERZA PUNTATA Lo scandalo senza verità Quei segreti di Calciopoli custoditi dalla Boccassini C’è un fascicolo sulle dichiarazioni di un arbitro che potrebbe rispondere a tanti perché. Ma nemmeno Borrelli ha voluto leggerlo di GIAN MARCO CHIOCCI (il Giornale 26-02-2012) Il vero mistero di Calciopoli è un faldone d'indagine che il pm milanese Ilda Boccassini custodisce gelosamente in archivio. Al processo di Napoli a Moggi & co l'hanno ribattezzato il «fascicolo del Calcio Graal» perché sa ormai di leggenda posto che i custodi delle segrete cose in esso contenute non ci sono più (il compianto presidente dell'Inter, Giacinto Facchetti) non parlano (l'arbitro Danilo Nucini), non sentono la necessità di confermarne l'esistenza (il magistrato Boccassini). Questo fascicolo dovrebbe/ potrebbe contenere la confessione esplosiva del fischietto gola profonda di Facchetti, ma essendo stato archiviato a «modello 45» («notizie manifestamente infondate») nessuno può consultarlo, se non previa autorizzazione della sola Boccassini. Che non rilascia autorizzazioni. A nessuno. Eppure al fascicolo sarebbe utile dare almeno un'occhiata per sgombrare il campo dai sospetti sull'intenzione, dell'Inter, di colpire Moggi & co seguendo strade a rischio perché penalizzabili dalla giustizia sportiva. Il faldone avrebbe potuto/dovuto interessare soprattutto Francesco Saverio Borrelli, che però non sentì mai il bisogno di richiederlo alla collega dai capelli rossi durante le sue indagini sugli illeciti sportivi, nonostante la procura da lui un tempo diretta gli avesse trasmesso i verbali dei protagonisti dello scandalo Telecom (il capo security Giuliano Tavaroli, il detective Emanuele Cipriani, il presidente Tronchetti Provera ecc. ) dove si faceva espresso riferimento a Nucini, alla Boccassini, alla spy story nerazzurra. Proprio Tavaroli, nell'interrogatorio del 29 settembre 2006, riferisce che sul finire del 2002 incontrò Massimo Moratti e Giacinto Facchetti, con quest'ultimo che raccontò di essere stato avvicinato da un arbitro di Bergamo «che in più incontri» gli parlò del condizionamento delle partite attraverso un sistema che da Moggi portava all'arbitro De Santis. Tavaroli propose a Facchetti due opzioni: diventare «fonte» di un maggiore dei carabinieri di Milano oppure rivolgersi ai pm con un atto formale: «Mi risulta che la società Fc Inter ha presentato un esposto in procura» chiosò il manager della security Telecom. Marco Tronchetti Provera, preso a verbale il 9 marzo 2010, confermerà: «Moratti aveva chiesto immediatamente un aiuto alla procura perché c'era un arbitro che raccontava di strane storie a Facchetti (…). La prima cosa che fece Massimo Moratti fu di andare dalla dottoressa Boccassini a raccontare questa vicenda. La Boccassini gli suggerì di far venire questo arbitro a denunciare la cosa». Ascoltato dall'Ufficio Indagini della Figc, il 3 ottobre 2006, Moratti aveva dato invece una versione differente: quando Facchetti gli disse che voleva denunciare in procura i fatti raccontati da Nucini «mi opposi per la «genericità» delle accuse» e aggiunse che semmai «doveva essere Nucini a segnalare il fatto » ai magistrati. Due versioni, una è falsa. Quale? Nel frattempo, proprio per tutelarsi, Facchetti si era registrato di nascosto le confessioni devastanti di Nucini che aveva spedito a infiltrarsi nelle linee nemiche: avvicina l'arbitro De Santis, ficca il naso sul ds del Messina Fabiani ( vicino a Moggi), fa da talpa a Coverciano. Quindi aveva girato dei numeri di telefono a Tavaroli, eppoi non s'è ancora capito se fu lui (o Moratti, che nega) a ispirare le indagini invasive sull'arbitro De Santis a un amico detective di Tavaroli, Emanuele Cipriani, che poi fatturerà 50mila euro a Pirelli e non all'Inter «perché Tavaroli- così riferisce a verbale Cipriani­ spiegò che era opportuno che l'investigazione non risultasse» all'Inter. Il passaggio successivo vede Nucini fare il suo ingresso in procura. E qui calano le ombre. Non s'è mai capito, infatti, quando quest'incontro s'è verificato; se in procura ce l'ha mandato Facchetti, previo accordo col magistrato; se all'ufficio della Boccassini l'arbitro ha bussato di sua sponte; se l'incontro è stato verbalizzato e registrato; se il pm ha convocato il fischietto di Bergamo essendo venuta a sapere delle sue intenzioni. Nulla si sa. Nulla si deve sapere. Ma perché? Al processo di Napoli l'arbitro Nucini («inconsistente teste d'accusa » secondo quanto si legge nella sentenza) non è stato capace di ricordare il giorno della sua visita in procura che a fatica colloca «verso la fine del 2003». Sul resto, è a dir poco ondivago, stranamente confuso, quasi reticente. Nell'udienza del 26 maggio 2009 fa presente che «qualcuno vicino alla società (Inter, ndr) ha consigliato che io andassi davanti al pm, la dottoressa Boccassini, a dire quanto avvenuto». Aggiunge che venne contattato telefonicamente dalla segreteria della Boccassini, che l'oggetto dell'incontro pensava fossero alcuni articoli in merito ad ammonizioni pilotate, e che al dunque la pm «mi ha fatto delle domande specifiche. . . che erano le confidenze che nell'anno e mezzo io e Facchetti siamo venuti a conoscenza.. . ». Nucini confessa che non se l'è sentita di tradire Facchetti. Così alla Boccassini decide di non dire più niente: «Non ce l'ho fatta, ho trovato nella dottoressa Boccassini una delle donne più intelligenti, probabilmente aveva capito tutto. Non ha insistito, sono uscito dalla procura e la cosa è finita lì». Aveva capito cosa? Non ha insistito? Gli avvocati si scatenano: signor Nucini come ha risposto alle domande della Boccassini? «Io a lei non glielo dico!», sbotta in faccia al difesore di Moggi, Prioreschi. «Abbiamo parlato di calcio, dell'andamento del calcio». Chiacchiere da bar? E con la Boccassini parlavate di tattica? Richiamato a deporre al processo napoletano il 15 marzo 2011 Nucini manda ulteriormente al manicomio gli avvocati con un mantra incessante, con chicche surreali: «Con la dottoressa Boccassini abbiamo parlato di calcio, punto». «Nessuno mi ci ha mandato», «Fu una chiacchierata informale». «Non firmai il verbale». Se questo fascicolo saltasse finalmente fuori si capirebbero tante cose. A cominciare dal famoso cd con la voce di Nucini, registrata di nascosto da Facchetti (circostanza riportata da Repubblica a maggio 2006 e mai smentita dai diretti interessati). Consentirebbe di dimostrare, o smentire, ciò che le difese degli imputati hanno sostenuto nel processo di Calciopoli, e cioè che qualora l'Inter, con un esposto, avesse allertato direttamente la procura di Milano, avrebbe violato la cosiddetta «clausola compromissoria » che obbliga le società a rivolgersi alla giustizia sportiva e non ad altre autorità. L'avvocato Paolo Gallinelli, difensore dell'arbitro De Santis, per due volte (nel 2009 e il 3 febbraio 2011) ha sollecitato invano il pm Boccassini e il procuratore Bruti Liberati a fargli prendere visione del fascicolo-Graal. Niente da fare. In dibattimento a Napoli la richiesta è stata fatta in extremis, il pm si è opposto, non se ne è fatto niente neanche qui. Nelle nuove istanze si fa cenno anche all'attività dei pm di Milano che il 19 novembre 2004, con l'indagine avviata a Napoli, chiede a Telecom la verifica su alcuni «file di log» per verificare l'esistenza di determinati contatti telefonici monitorati proprio da Telecom. Utenze fisse e cellulari che potrebbero coincidere con quelle che Nucini spiffera a Facchetti, che a sua volta gira a Tavaroli il quale li passa al fedelissimo Adamo Bove (morto suicida nel luglio 2006) che li farà sviluppare alla segretaria Caterina Plateo. Che a verbale ammetterà come tra i numeri controllati da Tavaroli & co c'erano quelli della Juventus, del guardalinee Cennicola (il telefono era in uso a De Santis) della Gea World, della Figc, di Moggi. All'Inter che spiava i nemici è difficile pensare. Ecco perché occorre rendere pubblico ciò che nessuno vuol vedere pubblicato. (3-continua)
  14. ORA BASTA: TECNOLOGIA di STEFANO AGRESTI (CorSport 26-02-2012) Hanno rovinato Milan-Juve. L'hanno falsata, l'hanno trasformata da show calcistico - e per un bel po' lo è stata, soprattutto per merito dei rossoneri - in una rissa di strada. Impossibile non vedere che il colpo di testa di Muntari era entrato in porta (sarebbe stato il 2-0), grave non accorgersi che Matri era in posizione regolare quando si è avventato sul pallone e lo ha messo in rete (sarebbe stato l'1-1). Dal punto di vista tecnico, è certamente più clamoroso il primo errore. Ed è probabile che, nello sviluppo della partita, il raddoppio milanista avrebbe avuto un peso importantissimo, tagliando le gambe ai rivali in modo forse definitivo. Ma, alla resa dei conti, mancano un gol di qua e uno di là: uno a uno anche nelle ingiustizie subite, insomma. Questa serie di follie arbitrali, però, ha scaldato gli animi all'eccesso. E quegli inseguimenti finali che abbiamo osservato in campo - e immaginiamo ciò che può essere successo nel tunnel - non sono stati un bello spettacolo, così come il pugno di Mexes all'ex compagno romanista Borriello svelato dalla tv. Della notte scudetto preferiamo ricordare le parole pronunciate da Conte e Buffon alla fine della partita: il fatto che abbiano elogiato il Milan, riconoscendone i grandi meriti tecnici, ci ha un po' riconciliato con questa sfida. Il gol negato a Muntari (un gol solare e netto, che tutti, ma proprio tutti hanno subito visto: in campo, allo stadio e davanti alla tv; tutti meno l'arbitro e i suoi collaboratori), ecco, questo episodio così clamoroso deve adesso portare a un intervento finale e risolutivo: l'introduzione della tecnologia almeno per eliminare le reti fantasma. Diciamolo in modo chiaro: è ridicolo, assolutamente ridicolo che una partita osservata da milioni di persone, un incontro che vale uno scudetto (e anche tanti soldi), sia condizionato, se non deciso, da una situazione che potrebbe essere risolta affidandosi a un semplice e modesto intervento delle macchine. Ed è paradossale che pochi istanti dopo quell'errore chiunque a San Siro avesse la certezza di quanto era accaduto: i giocatori, gli allenatori e gli spettatori sapevano che il pallone era entrato nella porta di Buffon, l'arbitro certamente aveva compreso l'errore commesso, eppure doveva dirigere quella battaglia ancora per un'ora. Quasi una crudeltà. Ci ha molto colpito il messaggio che ha immediatamente lasciato su twitter Nole Djokovic: «Ancora non capisco perché il calcio non usa la tecnologia. E' incredibile per lo sport più importante del mondo. Non credo a quello che è successo! La palla era dentro di un metro e hanno continuato a giocare». Non sono parole di un grande tifoso del Milan, quale lui è, ma del numero uno mondiale di una disciplina, il tennis, che da anni usa la macchina per essere più attendibile. Un intervento che non ha sconvolto il gioco, ma ha aumentato la credibilità e migliorato l'atmosfera. E lo stesso è accaduto in molti altri campi. Quelli di basket o di rugby, ad esempio. Rifletta, il calcio. E rifletta Nicchi, il presidente degli arbitri, quando si vanta della qualità dei guardalinee, sostenendo che sono fenomenali perché sbagliano quattro interventi su cento. In realtà, nelle sue goffe statistiche, include decine di segnalazioni che è impossibile fallire. La percentuale di errore è clamorosamente più elevata quando le decisioni sono sul filo dell'incertezza. E capita anche che un guardalinee scelto per la partita dell'anno riesca a non vedere un pallone che ha superato la linea di un metro e poco dopo lui stesso - è di Romagnoli da Macerata che stiamo parlando - sbandieri un fuorigioco inesistente a Matri lanciato a rete. Inconscia compensazione? Chissà. Riflettano, Nicchi e i vertici del calcio. Quelli che «quando entrerà la tecnologia non sarà più calcio». Sarà, semplicemente, un calcio più giusto. A qualcuno questo non piace? Qualcuno si preoccupa? ___ l'Editoriale MENO PAROLE MOVIOLA SUBITO di ANDREA "Sfiduciato" MONTI (GaSport 26-02-2012) Dopo una serata di calcio appassionante vissuto, sofferto, sospirato, urlato dall'Italia intera, ha ancora senso parlare di arbitri? Sì, ce l'ha eccome. Perché l'incandescente terzo tempo di San Siro dimostra che la sfida scudetto è stata decisa da chi doveva semplicemente dirigerla. Il risultato di parità avrebbe potuto essere qualsiasi altra cosa. Scegliete voi. Ma una partita così non lo meritava. Adesso si dirà che le ripetute indignazioni della Juve a proposito di rigori e dintorni erano pressioni vere e proprie sul mondo arbitrale, e hanno dato i loro frutti. Almeno fino al 34o del secondo tempo quando, dopo lo svarione sul gol di Muntari, a Matri è stato annullato un gol regolare. Vogliamo parlare di riparazione? Più interessante sarà vedere come nei prossimi giorni, dopo un piccolo mea culpa a caldo «Partita troppo caricata», se la caverà Antonio Conte. Arbitri che non fischiano in memoria di Calciopoli? Suvvia! Era una faccenda ridicola e, col senno di poi, avremmo dovuto dirlo con più fermezza senza aspettare, per rispetto di una bellissima squadra e di tanti tifosi, l'inevitabile riprova. La verità è che Tagliavento e il suo guardalinee Romagnoli hanno preso un gigantesco, abnorme e umanissimo granchio di cui si parlerà a lungo. Inutilmente, perché le conclusioni sono già scritte nel buon senso che al nostro calcio spesso manca. Gli arbitri sono uomini, anche se ad alcuni servirebbe un ottico. E cinquanta centimetri oltre la linea bianca nel calcio moderno sono una distanza siderale: se il Cern sbaglia di un milli-nano-secondo sugli inafferrabili neutrini e viene universalmente spernacchiato, andrebbe appeso per i pollici — sorry, mr. Blatter — chi non autorizza l'uso di una buona, vecchia telecamera sulla linea di porta. O almeno di un arbitro posteggiato nei paraggi. Visto che l'involontario pasticciaccio avviene proprio nel classico italiano e rischia di condizionare l'assegnazione dello scudetto più di ogni presunto complotto, occorre dirlo con chiarezza: francamente, è roba da matti. Il gol-non-gol l'hanno visto, moviolato e twittato tutti, tranne quelli che lo dovevano vedere. In conclusione: moviola o arbitro di porta. Non domani, subito. Peccato. Perché l'incontro è stato un bellissimo spot per il bistrattato calcio italiano. Il Milan avrebbe meritato di vincerlo. Per 70 minuti ha battuto in breccia la Juve con le sue stesse armi: velocità, compattezza, determinazione e ottime geometrie. I bianconeri, comunque, hanno reagito da grande squadra al gol annullato ingiustamente, acciuffando un pari che peserà, e parecchio, sulla classifica. Tutto qui. Conclusione? Banale: se la smettessimo di strologare sui complotti, di occupare il nostro tempo con un'interminabile moviola mentale, ci godremmo di più il bello del calcio. E potremmo pure sopportare con animo compassionevole i suoi errori. In attesa che un'anima pia, o una telecamera ben piazzata, ce ne risparmi gli orrori. ___ Tuttosport 26-02-2012 ___ La scena madre di GABRIELE ROMAGNOLI (la Repubblica 26-02-2012) L’eterno gol fantasma sopravvissuto al futuro nel calcio che non cambia Dovrebbe essere morto e sepolto, un caro ricordo come il mangianastri, Carosello o le festività infrasettimanali. Invece sopravvive, forse proprio perché è un fantasma. Il gol fantasma si ripresenta a San Siro, fuori tempo massimo, quando la tecnologia avrebbe dovuto renderlo superato. Quel che invece supera è la linea, e di qualche decina di centimetri perfino. Accade sull´1-0 per il Milan e la partita, per come è messa in campo la Juventus, potrebbe finire lì. Invece. A segnare il non-gol è Muntari, un altro fantasma, uno che sul palcoscenico non doveva esserci più, annunciato dallo speaker «per la prima volta a San Siro con la maglia giusta». Anche lui era scomparso, prigioniero della soffitta interista, invisibile per Ranieri. Invece eccolo lì, da due turni protagonista, capace di mettere il piedone bianco calzato su ogni traiettoria e ora, nella serata più importante, di concludere un´azione sbilenca con una rete di testa. Anzi no. Non c´è nessuna copertura, eppure il guardalinee non vede. Tagliavento è un bravo arbitro, eppure non vede. È gol. Ma non lo è. Il calcio sfugge a ogni definizione ontologica. È filosofia inapplicabile avendo per regolatore il libero arbitro anziché il libero arbitrio. In questa valle di lacrimevoli errori il gol fantasma resta a galla anche se dovrebbe essere affondato da anni. Dovrebbe stare nell´album di Gianni Minà, confinato nelle teche Rai dove qualcuno, punto da nostalgia, andasse a rivedersi il raccattapalle e buttafuori dalla rete di Ascoli il pallone infilato da Beppe Savoldi, centravanti del Bologna. Invece vive, si moltiplica, ha perfino il passaporto e va ai Mondiali. Memorabile quello dell´inglese Lampard alla Germania due anni fa in Sudafrica. Come è possibile che siamo ancora a questo punto? Se lo chiede anche il numero uno del tennis, Novak Djokovic, con un messaggio su Twitter un minuto dopo il no-gol. E qui c´è tutta la differenza del mondo. Dieci o venti anni fa il gol fantasma manteneva il suo lenzuolo di mistero per tempo sufficiente a farne un´entità durevole e mistica. Bisognava aspettare padre Carlo Sassi e la liturgia della moviola per avere la rivelazione e conoscere la verità delle cose. Ora la diretta è l´unico istante in cui il dubbio è prevaricato dalla fede. Nel momento in cui la palla colpita da Muntari viaggia verso il confine delle possibilità sono seduto in una tribuna a netta prevalenza milanista. Non c´è un filo di esitazione, si passa direttamente alla recriminazione e alla denuncia del complotto. Si dirà che questa è la reazione tipica del tifoso. Ma c´è qualcosa di più: c´è la capacità intuitiva della folla. Anche quella, a suo modo, un mistero. La folla accalcata in piazza San Pietro plaude al nuovo papa quando la fumata è ancora indecifrabilmente grigia. E a San Siro grida al furto non appena si accorge che il gioco continua. Non ha un angolo di osservazione migliore del giudice di gara, non è schiava del cuore. Ha visto, in modo chiaro quanto inesplicabile la palla oltre la riga. Anche qui, rispetto a vent´anni fa, al raccattapalle di Ascoli c´è una differenza decisiva. Dopo un minuto la folla sa. Il gol di Turone ha attraversato il limbo. Quello di Muntari è evidente in un lampo. Basta telefonare a casa, al cugino seduto davanti a Sky. C´è chi si collega a internet con lo smartphone, legge i primi commenti, osserva le immagini chiave. Non esiste mistero. Niente non è quello che sembra. Gol è quando arbitro sa. Ma perché non dà? Da Turone a Muntari è cambiato il mondo. Una sola cosa è rimasta immutata. Io non tifo per nessuna squadra, la risposta datela voi.
  15. Buongiorno Arbitro venduto di MASSIMO GRAMELLINI (LA STAMPA 25-02-2012) Nei giorni scorsi era tutto un lamento di juventini. «Di sicuro ridurranno la squalifica a Ibrahimovic. Quest’anno lo scudetto deve andare a Berlusconi». Poi la squalifica non è stata ridotta e il virus del sospetto è immediatamente trasmigrato fra i milanisti. «L’élite al potere vuole punire Berlusconi e far vincere di nuovo lo scudetto alla Juve». Il calcio è lo sfogatoio delle nostre paturnie e dunque non ci sarebbe da preoccuparsi troppo, se non fosse che l’approccio tifoso si è ormai allargato agli altri aspetti del vivere. Non esiste decisione di un’autorità che non venga sottoposta a lettura dietrologica, tesa a far passare il penalizzato per vittima di un complotto. Per limitarsi all’ultima settimana: se tre periti universitari danno ragione alla Fiat in una causa di diffamazione sono dei prezzolati, se Caselli indaga sulla frangia violenta che opera all’ombra dei No Tav è un mafioso, se un pubblico ministero ritiene B un corruttore appartiene alla categoria dei bolscevichi ossessivi. Questo nella vita pubblica, ma scandagliando quelle private troveremmo casi analoghi: nella mia c’è un vigile che mi ha multato per un minuscolo divieto di sosta ed era chiaramente in malafede, così come uno dei miei migliori amici è convinto che il votaccio rimediato dalla figlia sia una rappresaglia dell’insegnante nei suoi confronti, non essendosi lui presentato all’ultima riunione dei genitori. Abbiamo talmente screditato il concetto di autorità che l’idea che un giudice, un vigile o un insegnante decidano e magari sbaglino di testa propria non viene più nemmeno presa in considerazione.
  16. INTERNATIONAL di PAOLO CONDÒ (SW SPORTOWEEK 25-02-2012) PRIGIONI E PALLONI CHE IL MONDIALE D’ARGENTINA DEL 1978 NASCONDESSE MOLTE BRUTTE STORIE SI SAPEVA. ORA EMERGE LA VICENDA DI 13 PERUVIANI VENDUTI E DESTINATI A MORIRE. MA POI… Di tutte le storie segrete legate ai Mondiali di calcio, il 6-0 col quale l’Argentina batté il Perú nel ’78, guadagnandosi l’accesso alla finale poi vinta contro l’Olanda, è sempre stata considerata una delle più lerce. A quel match, tra l’altro, si deve una modifica regolamentare che oggi ci pare ovvia, ma all’epoca non esisteva: la contemporaneità delle partite dell’ultimo turno di un girone di qualificazione. Quella volta Argentina e Brasile arrivarono a pari punti alla giornata finale: il 21 giugno la Seleçao giocò alle 16. 45 a Mendoza contro la Polonia, e quindi i padroni di casa argentini andarono in campo alle 19.15 a Rosario conoscendo il numero di gol (quattro) di cui avevano bisogno per scavalcare i rivali nella differenza reti. Finì 6-0 in un clima di grande pressione popolare e assai mediocre resistenza peruviana. Nel tritacarne dei sospetti finì inizialmente il portiere ultrabattuto, Ramon Quiroga, che oltretutto era un argentino naturalizzato; col passare del tempo, però, emersero episodi di intimidazione a carico di tutti i giocatori peruviani, e la storia venne archiviata come un “normale” aggiustamento di risultato fra squadra motivatissima e avversaria già eliminata. In realtà c’era dell’altro. Qualche giorno fa il settimanale Tiempo Argentino ha riaperto il caso dando notizia della denuncia che un ex senatore peruviano, Genaro Ledesma Izquieta, ha presentato a un giudice di Buenos Aires. Ledesma sostiene che il dittatore peruviano dell’epoca, Francisco Morales Bermudez, “cedette” al suo collega argentino Jorge Videla 13 oppositori politici (fra cui lui) come scorie da smaltire: in cambio, la sua nazionale in caso di bisogno non avrebbe creato problemi ai padroni di casa. Governato in gran parte da militari felloni e sanguinari, nel Sudamerica dell’epoca vigeva il cosiddetto piano Condor, ossia la cooperazione tra polizie segrete per ammazzare gli oppositori alle varie dittature in qualunque Paese si trovassero. I tredici peruviani vengono deportati in Argentina il 25 maggio, una settimana prima dell’inizio del Mondiale; il loro destino è una morte atroce, venire gettati dall’aereo in mare ancora vivi, come realmente accadde a centinaia di sventurati desaparecidos. Ma non subito, perché sono l’assicurazione sul buon esito del match mondiale. Per fortuna, però, i loro familiari già espatriati in Europa piantano un casino infernale, e la Francia – da sempre Paese sensibile al tema – riesce a pressare Videla fino a imporgli la “vendita” (sì, Parigi paga una sorta di riscatto) della vita dei tredici. Questo succede dopo la fine del Mondiale, mentre una Buenos Aires in gran parte ignara canta la gioia per il trionfo di Kempes, Ardiles e Passarella.
  17. La grande notte Nel nome del padre (e dello zio) la Dinasty del gol continua così Agnelli & Berlusconi, generazioni contro di EMANUELA AUDISIO (la Repubblica 25-02-2012) Energie nuove, sfide vecchie. Agnelli contro Berlusconi, la saga continua. Sempre nel nome del padre, ma con la faccia dei figli. Dopo i senior, ecco gli junior. Questo Milan-Juve, nel segno dello scudetto per la prima volta è gestito dai giovani eredi. Andrea Agnelli, 37 anni, figlio di Umberto, nipote dell´Avvocato, è presidente della Juve e siede dal 2004 nel Cda della Fiat. Sposato, con Emma Winter, ha una figlia di sei anni e un bimbo appena nato, Giacomo Dai (nome gallese). Conduce vita normale, senza guardie del corpo, gira in bicicletta, viene da una famiglia molto unita, ha una madre, Allegra Caracciolo, che non perde una partita e che va allo stadio con il cappotto con lo stemma della Juve. Andrea è sincero, dice quello che pensa, non cerca di piacere, è fedele alla amicizie, preferisce il muso duro alla diplomazia. Rivoleva lo scudetto 2005-2006 non per far piacere ai tifosi, ma perché di quella Juve gestita dal padre Umberto e da Moggi-Giraudo lui non sconfessa niente. Ha studiato a Oxford e alla Bocconi, ma ha modi spicci, che allo zio Gianni sarebbero piaciuti, da uomo controcorrente. Barbara Berlusconi ha 28 anni, due figli, Alessandro e Edoardo, avuti da Giorgio Valaguzza, nessun marito, un fidanzato brasiliano, Pato, giocatore nella squadra di papà. Barbara siede nel Cda del Milan dall´anno scorso e dal 2003 nel Cda Fininvest, ha fatto scuole steineriane, è lureata in filosofia all´università San Raffaele, è appassionata di arte contemporanea. Ha saputo e dovuto gestirsi nel difficile divorzio dei genitori, nel duro derby Arcore contro Macherio, nel rapporto con gli altri figli del primo matrimonio, lo ha fatto non stando zitta, dimostrando carattere e personalità. Ha scelto liberamente i nomi per i suoi bambini, interrompendo la tradizione di famiglia, ha dichiarato affetto per il padre, ma ha anche detto che un politico non può permettersi di fare differenza tra pubblico e privato. Si è anche permessa la frase: «Non ho mai frequentato uomini anziani». Poteva occuparsi di altro, ha scelto il calcio, perché le piace, è entrata in punta di piedi, non fa la figlia del padrone, ma quella che deve studiare e imparare. È curiosa del settore ricavi, vuol capire come una società può non perdere soldi e anzi fare guadagni, soprattutto ora con il fair-play economico e con un bilancio del Milan in profondo rosso. Barbara lavora per restare, non solo per fare esperienza. Poteva scivolare sulla storia d´amore con Pato a un passo dal trasferimento in Francia al Psg, ma ha lasciato che a decidere non fosse il cuore. Papà Silvio l´ha tolta dall´imbarazzo dicendo che la trattativa non era «un buon affare economico». Il mondo del calcio è ancora un pianeta per uomini, ma nel futuro è condannato ad avere più donne, soprattutto con le società quotate in Borsa. Per questo Barbara, subito soprannominata Lady B, mira a trovare alleanze che possano essere nuove risorse finanziarie e a promuovere il brand. Evelina Christillin, oggi presidente dello Stabile di Torino, che ha condiviso con l´avvocato la passione per sci, Juve e storia, spiega che all´inizio la rivalità non c´era. «Agnelli era visceralmente contro l´Inter, il Torino, e la Roma di Viola per le note polemiche. A Sankt Moritz frequentava Berlusconi che aveva affittato l´ex castello dello scià di Persia e passava la serate con lui a parlare di calcio. Tutto cambiò quando Berlusconi si mise a gestire direttamente il calciomercato, la Juve di Agnelli-Boniperti all´estero era abituata ad affidare la trattativa ai dirigenti Fiat di quel paese e a raccogliere informazioni tramite propri canali istituzionali, per questo Maradona venne bocciato. Ma il Milan iniziò ad acquistare chi voleva, con velocità e prepotenza. La Juve, che non poteva, fu oscurata, e Agnelli si domandava: ma come accidenti fa a spendere tutti quei miliardi? Era incuriosito, ma anche molto seccato, lui da buon piemontese non avrebbe potuto». Così la Juve si attrezzò con l´altro Agnelli, Umberto, e con Moggi-Giraudo. Nacque la Santa Alleanza tra Juve e Milan su scambi commerciali, diritti tv, marketing e giocatori. Oggi che tocca ai giovani farsi largo le due società torneranno a farsi male?
  18. Calcio e business. Nel 2011 i due club perdono 70 e 95 milioni Stasera Milan-Juventus, per ora vince il «rosso» di MARCO BELLINAZZO (Il Sole 24 ORE 25-02-2012) Andrea Pirlo è il simbolo di questo Milan-Juventus. "Liberato" dal Milan quest'estate per questioni di bilancio (ormai troppo alto per le casse rossonere il compenso di circa 6 milioni netti a stagione), il trentatreenne regista campione del mondo è stato ingaggiato dalla Juventus (per circa 4 milioni all'anno). Il club presieduto da Andrea Agnelli, infatti, dopo le spese sostenute negli ultimi anni per costruire lo stadio di proprietà e rifondare la squadra, aveva l'esigenza di tornare subito a vincere per riaffacciarsi nel munifico mondo della Champions league e ha deciso di fare quest'ulteriore investimento. In attesa di verificare se Pirlo sarà decisivo nel match di stasera a San Siro (20 tv collegate per 160 paesi, il pronostico è da tripla), sul piano dei conti, tra bianconeri e rossoneri a vincere senz'altro il "rosso". Se l'ultimo bilancio della Juventus (al 30 giugno 2011) registrava un -95 (record negativo storico per il club di Torino), il Milan ha chiuso il 2010 (al 31 dicembre) a -77 e si appresta ad approvare nella prossima assemblea del 20 aprile un bilancio 2011 in perdita per circa 70 milioni. Peraltro, la trimestrale della Juventus al 30 settembre 2011 ha prodotto una perdita di 26 milioni (rispetto ai -18 del primo trimestre 2010). «Per l'esercizio 2011/2012 – precisa il comunicato che accompagna il voto del cda – è prevista ancora una perdita significativa, anche se inferiore all'esercizio 2010/2011, in quanto esso sarà negativamente influenzato dalla mancata qualificazione alla Champions, dalla stagnazione dei ricavi derivante dalla vendita centralizzata dei diritti radiotelevisivi, nonché dagli effetti economici derivanti dal processo di rinnovamento della rosa di Prima Squadra». Dunque, Milan e Juve sono ancora lontane dai parametri del fair play finanziario, anche se il club guidato da Adriano Galliani sembra stare leggermente meglio. Nonostante i tagli, gli ingaggi peseranno ancora per 190 milioni sul fatturato rossonero, che nel 2011 dovrebbe scendere da 253 a 235 milioni per effetto della contrazione dei ricavi tv "collettivi" (per 33, 4 milioni di euro) causati dall'entrata in vigore della legge "Melandri" il 1° luglio 2010. Le altre due fette che compongono la torta dei ricavi ovvero quello commerciale e la biglietteria hanno avuto ottime performance passando la prima da 63,4 milioni a 91,8 milioni, le seconda da 31,3 a 35,6 milioni. Il Milan ha così consolidato in Italia il primato dei ricavi commerciali attestandosi a 91 milioni contro i 53 della Juventus. Per la Juve, che potrà contare sull'iniezione di capitale da 120 milioni sottoscritto integralmente a fine gennaio, sarà fondamentale, oltre a riconquistare la zona Champions, aumentare i redditi dello stadio. Gli abbonamenti (24.137) hanno portato introiti per 14, 7 milioni (+183% rispetto alla stagione precedente). Le visite guidate allo stadio sono state già 20mila e da maggio 2012 sarà inaugurato il museo bianconero. Gli ingaggi, dopo la sforbiciata alla rosa del mercato di gennaio (le sole cessioni di Toni, Iaquinta a Amauri comportano un risparmio di circa 20 milioni) pesano per 110 milioni su un fatturato che a metà 2011 era pari a 153 milioni.
  19. Il settimanale SW SPORT(O)WEEK della Gazza si rinnova e comincia la sua nuova avventura con questo articolo beneaugurante. ___ RIPARTENZE di LUIGI GARLANDO (SW SPORTOWEEK 25-02-2012) GLI SCHERZI DELLA MEMORIA ANTONIO CONTE: Attenzione, ho un archivio. Conservo tutto: articoli, interviste... E ogni tanto lo rileggo. Vedo che in sei mesi siamo passati dal sesto-settimo posto a essere favoriti per lo scudetto e mi dico: «È successo un miracolo!». Ringrazio tutti. Di niente, mister. Ma un consiglio: ci vada piano con la memoria che è un pozzo profondo e può venire su di tutto. Se la ricorda la poesia di Montale? “Cigola la carrucola del pozzo / l’acqua sale alla luce e vi si fonde. / Trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un’immagine ride”. Bellissima. Mister, se tanti hanno giudicato da sesto-settimo posto la sua Juve è anche perché lei ha attraversato l’autunno come un penitente ripetendo il suo cupo memento mori: «Ricordate che veniamo da due settimi posti consecutivi». Noi abbiamo semplicemente preso nota, come Troisi con Savonarola: “Mo’ me lo segno”. Trema un altro ricordo, forse un filo imbarazzante, nel ricolmo secchio: tutti gli esterni che lei ha fatto comprare in estate per poi scoprire che non servivano. Per l’amor di Dio, legittimo cambiare in corsa e il suo lavoro successivo è stato un vero capolavoro. Illuminata la riconversione di alette come Giaccherini. Ma uno potrebbe pensare: se i soldi spesi per gli Elia fossero stati investiti in giocatori funzionali al progetto attuale, oggi l’Europa avrebbe una superpotenza in più. Zamparini ha svelato che il progetto iniziale dei dirigenti bianconeri prevedeva Pastore e Aguero. Ecco, proprio ciò che manca a questa fortissima Juve, che spesso però fatica a tradurre in gol il suo dominio: l’uomo dell’ultimo passaggio e un realizzatore spietato. Troppo cari? Rinunciando ai Vucinic e agli Estigarribia, vendendo i Krasic e i Toni, senza bisogno di aggiungere poi iBorriello, non ci sarebbe stato da svenarsi. E comunque, data l’età, sarebbero stati investimenti a lungo termine. Trema un altro ricordo nel ricolmo secchio: la prima giornata di campionato saltata per sciopero. La Juve affrontava fuori casa l’Udinese che aveva anticipato la preparazione per il preliminare di Champions, spaventando l’Arsenal. Andava a mille. Se la Juve, ancora alle prese con l’equivoco tattico, fosse caduta subito al Friuli e non avesse mai iniziato la serie record di imbattibilità, quanto ci avrebbe messo a guadagnare l’attuale autostima? Invece ha preso coraggio attraverso un inizio soft e ha poi incontrato l’Udinese nel suo picco più basso. E nel suo picco più basso ha affrontato anche il Milan. Brava, ma anche baciata dalla sorte questa Signora. Lo vede, mister, che ad aprire gli archivi uno ci trova di tutto? E poi porta pure gramo. L’ultimo allenatore della Juventus ad avvertire i giornalisti di avere “un libro nero” è stato Ciro Ferrara. Si goda la sua splendida creatura, mister. Se lo merita, dopo l’ottimo lavoro svolto in questi mesi. Sorrida come l’immagine nel ricolmo secchio, senza voltarsi troppo indietro. E se la carrucola cigola, la lasci cigolare.
  20. Dura protesta (ma gentile) contro Rio Paladoro, l’anti-Juve (Il Foglio 25-02-2012) Al direttore - Sono un vecchio lettore e abbonato del Foglio (ho 70 anni) e mi permetto, da juventino, un sommesso consiglio. Veda di mandare il sig. Rio Paladoro a svernare a Cochabamba, magari in compagnia di El Diablo! Per tutto il resto complimenti! Franco Taroni Rio è un campione, ma non è destinato a piacere agli juventini. Gli chiederò di riscattarsi per il bene del giornale.
  21. Palazzo di Vetro di RUGGIERO PALOMBO (GaSport 25-02-2012) Diritti tv e mutualità i padri sono tanti ma il Coni non ci sta Nel Milleproroghe un emendamento che piace a Ghirelli ma non a Pagnozzi Ha molti padri l’accordo sulla mutualità sottoscritto giovedì 9 febbraio dalle quattro Leghe. Ve li citiamo in ordine di nostra personale apparizione: Abete, Macalli, Abodi, Beretta, Tavecchio, Lotito (sì, c’è pure lui). A ciascuno di essi, può essere più o meno attribuita la frase «grazie a me e soltanto a me si è realizzata un’intesa che altrimenti sarebbe ancora in alto mare». Dato a tutti i Cesari quel che loro appartiene, nel segno di una democratica par condicio, corre tuttavia l’obbligo di segnalare che la questione sembra tutt’altro che chiusa. L’accordo riguarda quel 10% delle entrate dai diritti televisivi che la Lega di serie A deve ogni anno destinare all’altro calcio (e non solo, almeno in teoria) sulla base della cosiddetta legge Melandri. Con effetto valido fino al 30 giugno 2012 si è stabilito che i 182,2 milioni complessivi (rappresentano la mutualità delle ultime due stagioni) siano ripartiti, 134 milioni alla B, 39,3 alla lega Pro, 8,9 ai Dilettanti. Nulla al Coni, cosa che non è piaciuta a Petrucci: «Si potrebbe trattare anche di qualche milione di euro» (Ġazzetta dello Sport, 17 febbraio). La Melandri in realtà prevede che di quel 10%, il 4% sia nella disponibilità di una Fondazione, che «determina—scrive la legge del 1 febbraio 2008 — nelle forme stabilite dallo Statuto da emanarsi entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto, le modalità e i criteri che presiedono allo svolgimento della propria attività, con particolare riferimento alle modalità di individuazione delle iniziative da finanziare nel settore sportivo giovanile e dilettantistico. . . » «La Fondazione—si legge ancora — detta specifiche regole per individuare annualmente almeno due progetti da finanziare relativi a discipline sportive diverse da quelle calcistiche. . . ». Particolare non trascurabile, la Fondazione (12 membri, 6 di A e B, 3 FIGC, 1 Federbasket, 1 Lega basket, 1 Coni) e il suo relativo Statuto che dovevano materializzarsi entro il 31 luglio 2008 ancora non esistono, ma di questo tutti gli addetti ai lavori di cui sopra non menano vanto. Veniamo ai giorni nostri: nel Milleproroghe approvato giovedì scorso dalla Camera è stato infilato un emendamento, «dal 1 luglio 2012, con effetti a partire dalla stagione sportiva 2012-2013, la Fondazione per la mutualità generale negli sport professionistici a squadre svolge necessariamente le funzioni e i compiti ad essa assegnati ai sensi dell’articolo 23 del decreto legislativo 9 gennaio 2008 (la Melandri convertita in legge l’1 febbraio 2008, ndr)». Una vera e propria resurrezione (soffermatevi su quel «necessariamente » che è tutto un programma), che fa cantare vittoria alla Lega Pro, assolutamente convinta che questo emendamento certifica la «non esistenza» precedente della Fondazione, da cui, parola del direttore generale Francesco Ghirelli, «a questo punto sul passato il Coni non ha nulla a pretendere». Certezze che tuttavia il Coni (e anche la Lega di basket) sembrano proprio non condividere. Parola di Lello Pagnozzi, questa volta.
  22. MORATTI CERCA SOCI La «8holding» studierebbe l’opzione: 100-120 milioni per 4 anni La rinascita Inter? Cose turche Un fondo sarebbe interessato a rilevare Pirelli come «main sponsor» dei nerazzurri di FILIPPO GRASSIA (il Giornale 25-02-2012) La rinascita dell’Inter parte dalla finanza con l’ingresso, sempre più plausibile, di un fondo turco che ha in portafoglio una società particolarmente interessata allo sport come fattore di comunicazione. Nel mirino la sponsorizzazione dell’Olimpiade 2020 che vede Istanbul fra le grandi favorite dopo la rinuncia di Roma. Ma c’è dell’altro in attesa della decisione del Cio, prevista a settembre 2013. Vale a dire una serie d’interventi intermedi fra i quali una forte presenza nell’Inter come main sponsor se non addirittura come azionista di minoranza. Quanto servirebbe per posizionare il brand a livello europeo. A occuparsi della questione è Marco Tronchetti Provera, presidente di Pirelli nonché vice­presidente di Mediobanca e consigliere d’amministrazione dell’Inter. A questo riguardo si parla di contatti con la “8holding”, un network internazionale di serissima e consolidata esperienza che ha sede a Lugano. Potrebbe spettare infatti ai vertici della holding, presente in svariati settori imprenditoriali e in numerosi Paesi, la verifica del business e la sua congruità in relazione agli scopi del fondo turco, che ha anche forti interessi in Azerbaijan dove ha presentato un progetto per lo stadio olimpico di Baku. Tronchetti Provera si pone due scopi: innanzi tutto trovare un’alternativa alla sponsorizzazione della Pirelli sulle maglie della squadra nerazzurra e concentrare sulla F1 l’attività di marketing; in secondo luogo assicurare all’Inter un partner in grado di supportare un bilancio che si mantiene in profondo rosso nonostante le criticate cessioni di alcuni fra i migliori giocatori come Eto’o, Balotelli e Thiago Motta. Negli ultimi tre esercizi la perdita è stata di oltre 310 milioni. Ma di questo i tifosi, abituati fin troppo bene a scudetti e coppe in serie, si dimenticano facilmente. E il fair play finanziario dell’Uefa, tanto sbandierato, fa davvero paura. Per rientrarvi Moratti dovrà dimostrare una netta inversione di tendenza sui conti e far risalire la gran parte del disavanzo agli ingaggi firmati in data anteriore al primo giugno 2010. Di qui l’importanza di associare una cura dimagrante sui costi fissi (stipendi e cartellini) all’ingresso di denaro fresco proveniente da fonti esterne alla società. In caso di main sponsorship Tronchetti Provera si propone l’ambizioso traguardo (per lui non sarebbe una novità) di ottenere un contratto quadriennale fra i 100 e i 120 milioni. Diverso sarebbe il discorso se il fondo in questione, supportato da «8holding» a livello consulenziale, entrasse fra i soci con capitali importanti. È quanto si augurano Moratti e Tronchetti Provera che sono fortemente interessati sul piano extrasportivo anche alle altre attività di «8holding», in particolare nel campo energetico e in quello dell’impiantistica sportiva. Per capire qualcosa di più sul network svizzero è interessante riportare un paio di frasi che compaiono nel biglietto da visita: «La nostra rete è il nostro prodotto, e il capitale intellettuale è la nostra risorsa principale », «Non abbiamo clienti, ma partner». Nel board è massiccia la presenza di management italiano, e questo fattore potrebbe aumentare il successo dell’iniziativa. Nel core-­business non solo olio, gas e minerali, ma anche biotecnologia, agricoltura e alimentazione, servizi finanziari, lusso e fashion, media e comunicazione, trasporti, infrastrutture anche sportive, utilities. La società è presente in 18 Paesi fra cui Azerbajian, Brasile, Italia, Turchia, Regno Unito e Sudafrica. Al momento i suoi emissari guardano con interesse al recupero dell’area industriale di Marghera e al passante energetico.
  23. The Coolest Soccer Team in Europe Why you should root for Napoli By Brian Phillips on February 24, 2012 (GRANTLAND) Napoli's startling 3-1 upset of Chelsea in the Champions League last Tuesday accomplished three important things. It put a formal timestamp on the moment everyone realized that Serie A had caught up to the Premier League.1 It launched a thousand "Andre Villas-Boas DeathWatch" columns, to the point that hasandrevillasboasbeensackedyet.com became a vital resource for soccer journalists. And it cemented Napoli's status as the coolest club in Europe and the default answer to the question, "If you're an American looking to get into European soccer, which team should you support?" Seriously, if you're a fan in search of a club, how do you not consider Napoli at this point? Not only are the Azzurri not English — meaning you won't be lumped in with the 40 trillion bros who picked a Premier League club because that's what everyone else was doing — and not only are they a fun, overachieving young team, they're also, and this is putting it mildly, a sky-wide constellation of the elements that make sports amazing. They're perennial underdogs who come packaged with a glorious history. They're the agony object of a furiously loyal and continually heartbroken fan base,2 but within living memory they've also been the trophy-winning home of the greatest soccer player in the world. They're a team of crazy highs and pulverizing lows — basically the entire sports-fan experience in its most extreme and operatic form, all compressed into one club in a terrifying and fascinating city on a gulf at the foot of a volcano. Really, you'd rather root for Arsenal? If you're still not convinced, then it is for you, my reluctant friend, that I have compiled the following list of aspects of the awesomeness of Napoli. 1. Naples Most of the economic and political power in Italy is concentrated in the north, around Milan and Turin. Naples is the de facto capital of the south. Everything you need to know about this arrangement for soccer purposes is contained in the sick old northern saying "Africa begins south of Rome," i. e. , the Neapolitans don't really factor in when it comes to assessing whom you have to treat like white people. Soccer tends to flower in close proximity to money, meaning that cartographically the top Italian clubs — Milan, Inter, Juventus — look like they're waiting for dark before slipping on a tuxedo and trying to sneak into Switzerland. Napoli is carrying the hopes of everybody on the wrong side of that geographic/cultural divide.3 And Naples itself is a totally broken, beautiful, lush, and dangerous city, run by the mob, with piles of burning trash in the streets (because the mob controls waste management), packs of wild dogs … and, incidentally, a lot of gorgeous architecture and an unbroken cultural tradition that predates the Roman Empire. Picture New Orleans, only with the Catholicism turned up to 14 and actual blood vendettas replacing voodoo bus tours.4 Also, there's this huge, sunstruck bay, with Mount Vesuvius looming in the blue distance. Also, Kiton > Brioni. This is an appropriate venue for your fantasies of European soccer to inhabit. Plus, if you visit for a game, you can go see the ruins of Pompeii, which now include most of the Chelsea defense. 2. Maradona It was at Napoli that Diego Maradona transformed himself from "talented but difficult Argentine player who can't quite make it work in Europe" to "figure of quasi-religious significance the mere sight of whom makes sane people break down weeping. " Napoli bought him from Barcelona for a then-world-record (now-world-rounding-error) 12 million euros in 1984. He dragged Argentina to the World Cup title in 1986, carried Napoli to its first Serie A championship a year later, did it again in 1990, became an icon for anyone who's ever been unfairly kicked around or felt hopeless or stood on the wrong side of a track, and launched the wobbly cocaine spaceship he's been piloting, wine bottle in one hand, ever since. Honestly, it's almost impossible to put into context what Maradona meant to southern Italy between 1984 and 1991 — this scrappy, unpolished kid shocking the world on behalf of a region that had always been locked out of its soccer-mad country's soccer hierarchy. What do you compare it to? If Michael Jordan had led the Cubs to the World Series in the middle of Beatlemania, it might have been close, although even that would have missed the weeping-statue-of-Virgin Mary religious overtones and the weird constant ground note of the Camorra.5 Maradona was hit with a 15-month ban for drug use in 1991 and left Napoli with his reputation in tatters.6 But this, more than any other club or city, was where Maradona happened. That's the huge and unmanageable legacy the club has been coping with ever since. 3. Money Napoli went up in smoke in 2004, bankrupt and unable to field a team. (Be forewarned: This is the kind of thing that happens to Napoli. ) The film producer Aurelio De Laurentiis7 reestablished the club the same year but wasn't able to buy back its history (!) until 2006. Since then, they've been improvising on a low budget — never a wise strategy in soccer — but have nevertheless managed to climb from the third division back into Serie A, where they are currently sitting, pretty astonishingly, in sixth place. It's both apt and very funny that the two English teams they've upset this year are Chelsea and Manchester City, clubs owned by a Russian plutocrat and an oil sheikh, respectively, and the world's two leading representatives of the football-club-as-billionaire's-plaything movement. Billionaires don't go to Napoli unless it's to get new suits. The current team Napoli has assembled is a fast, fluid, counterattacking machine that scores goals for fun. (Only Milan has more in Serie A. ) It's built on something like the classic Billy Beane model — undervalued spare parts and young players Napoli develops in-house — but you get the impression that the front office is reading sonnets and talking to gypsies rather than consulting spreadsheets. In 2007, they signed Ezequiel Lavezzi for 6 million euros, roughly a tenth what Chelsea dropped on Fernando Torres, at a point when he was a not-terribly-successful striker in the Argentine Premiera Division with the nickname el Pocho.8 He flew into town and promptly scored Napoli's first hat trick in 14 years. On Tuesday he scored a goal and repeatedly exploited Chelsea right back Branislav Ivanovic. Chubby nobodies with handgun tattoos blowing up on a big stage is what Napoli is all about. (Also, Aurelio De Laurentiis? He's a crusty, sunglasses-wearing tyrant who's prone to fiery rants, once told his own manager "I won't beat you up because you're an old man," called Lionel Messi a "cretin, " and threatened to chop Lavezzi's agent's balls off if Lavezzi thought about leaving the club. A couple of years ago, when several of Napoli's players were being linked with moves to England, De Laurentiis' tactic for convincing them to stay was to warn them that English women "do not wash their genitalia." "To them," he said, in a concerned, fatherly way, "a bidet is a mystery. " This is the kind of thing that happens at Napoli.) 4. Edinson Cavani It took me a while to appreciate Napoli's best player. The first few times I saw him play, I thought he seemed a little overly languid or casual, and while there's a great tradition in Serie A of Andrea Pirlo-style sleepy murderousness, it didn't quite make sense to me in a big striker who looked like he should be powering over defenders. Then I watched his hat trick against Juventus last January. The last goal was a wicked low-altitude scorpion kick, the sort of move after which, once you've seen it, you can't possibly doubt or even question the player who pulled it off: Cavani is a sort of laboratory cross between Pippo Inzaghi and Zlatan Ibrahimovic, endowed with both that mysterious right-place-right-time instinct that some players have and also the ability to score from any angle with what feels like an exhaustive karate repertoire. That languor I thought I detected was really just a subtlety, a way of feeling out space and playing for the killer gap. It's a joy to watch, and Cavani, who's scored 41 goals in 57 league appearances for Napoli,9 is probably the most undercelebrated player in world soccer — something that will surely change if he decides to take his chances with foreign vaginas in the future. Follow him before the fear lifts! 5. Italian soccer's glittering theater of masculinity You could pick an English team. There are lots of good ones. But you would miss Serie A's compellingly hilarious peacock-vitelloni aesthetic of tough, competitive, and frequently violent men carefully tying back their lustrous ponytails before slipping into their hot-pink away gear to take the pitch, then celebrating big wins by crying and stripping down to their jockey shorts. For Americans used to laconic sports heroes in badly fitting suits, the sheer fabulousness of Serie A is either uncomfortably gay (if you are a bro who is bro'd out by that sort of thing) or an entertaining injection of pro-wrestling-style ego-theater into an otherwise serious sport. Either way, remember that Mario Balotelli, Manchester City's mohawked and elaborately be-earringed fashion bomb of a striker, came to England from Inter and only makes sense in the context of Italian soccer.10 Rooting for Napoli means that instead of watching brave English midfielders scowl into the cold week in and week out, you will be watching highly talented, self-indulgent fashion plates act out a never-ending cologne ad. This is a win, believe me. Their girlfriends are hotter than yours, too. For these and many other reasons, I nominate Napoli as your new European club. Quick, fall in love now before Chelsea buys the whole team and everything reverses again. 1. There's a long conversation to be had about why that change has happened: tactical adjustments, three-center back formations, the talent drain from England to Spain, Italy's gradual recovery from calciopoli, this one really amazing party at Berlusconi's house, etc. But that it's happened seems safely beyond doubt. After sending three teams to the Champions League semifinals every year from 2007 to 2009, England has fizzled, relatively speaking, in European competition for three straight seasons. This year, Manchester City (which lost to Napoli in the Champions League group stage) and Manchester United were flushed down to the Europa League months ago, while Milan supplemented Napoli's win over Chelsea with a 4-0 rampage over Arsenal. 2. When Napoli was in Serie C in the mid-aughts, its home games routinely outdrew Serie A matches. 3. There are also the big Roman clubs, Roma and Lazio, but they're really locked in their own thing and don't have much to do with the rest of the league or the country. 4. Also replacing jazz, for that matter. 5. The Neapolitan mafia, chronicled in Roberto Saviano's book Gomorrah and the film that was based on it. Maradona was criticized by some people for being too friendly with them, although given his later penchant for hanging out mainly with dictators and people with machine guns, you could regard this as an early apprenticeship. 6. Although again, at this point it's tough to see the brilliance and the appetites and the insanity and the grace as anything but parts of a fused whole. I realize that this is an unfeeling thing to say in many ways, but Maradona without the drug catastrophes would be like Jimi Hendrix's guitar without frequent periods of being lit on fire. 7. Note: Not Dino De Laurentiis, who brought you many of the greatest films of Fellini, Blue Velvet, and Evil Dead 2 (not to mention Conan the Destroyer), but his nephew, who brought you mostly Italian movies that don't have their own Wikipedia pages. 8. "The Chubby One." 9. That's better than Maradona's scoring rate for the club, by the way. 10. To the extent that he makes sense at all, obviously.
  24. In arrivo il maxi-processo al calciomercato italiano di GIOVANNI CAPUANO dal blog Calcinfaccia 24-02-2012 Settimana di lavoro intenso per la Procura federale alle prese con il calendario di audizioni che avvia di fatto il cammino della giustizia sportiva verso il processo Calcioscommesse-bis. Un'attività frenetica che ha messo in secondo piano l'autentico diluvio di deferimenti per società, dirigenti, procuratori e calciatori che apre uno spaccato inquietante sul mondo del calcio italiano. Dentro ci sono tanti nomi che contano del calciomercato: 20 società, 44 agenti, 36 dirigenti e 26 giocatori. Il motivo? Una lunga indagine conoscitiva sulle modalità di incarico agli agenti e lo svolgimento della loro attività di intermediazione in decine di affari che hanno caratterizzato le ultime sessioni di mercato. Palazzi e i suoi 007 hanno scoperto quello che da tempo si diceva a bassa voce e cioè che le regole della Figc in materia vengono osservate solo in rare occasioni. In particolare sembra che a nessuno dei protagonisti del nostro calcio interessi, ad esempio, che per fare gli agenti o procuratori bisogna avere una licenza e che non possono esserci commistioni tra il ruolo dei mediatori e quello dei direttori sportivi. A scorrere le centinaia di pagine che accompagnano i deferimenti e raccontano trattative ed accordi si ha la conferma, invece, che il mercato italiano resti un sottobosco privo di regole. Ci sono dirigenti inibiti che mantengono contatti con altri dirigenti, giocatori che si fanno rappresentare da agenti senza procura, società che versano compensi ai procuratori al posto dei calciatori e che si affidano agli stessi sia per il reclutamento di futuri campioni che per trattarne gli interessi. Un pastrocchio inaccettabile ma che suona nuovo solo a chi non ha voluto in questi anni aprire gli occhi quando si denunciava il potere ormai dominante dei procuratori sul calcio europeo e italiano in particolare. Non è un caso che nell'elenco dei deferiti ci sia la 'crema' del settore: Raiola, Pastorello, Damiani, Mendes, Branchini, Bonetto, Pallavicino, Martina, Bonetto e tanti altri. E lo stesso vale sul fronte dei dirigenti (Lotito, Zamparini, la triade moggiana, Blanc, Oriali, Ghelfi, Sabatini, Preziosi, Gherardi, Capozzucca, Marotta, Leonardi solo per citare i più famosi) e delle società. A processo andranno Inter, Juventus, Napoli, Atalanta, Palermo, Parma, Genoa, Bologna, Lazio, Siena, Cesena attualmente in serie A, Sampdoria, Bari, Torino, Livorno, Padova, Crotone ed Empoli che si trovano in serie B, più Benevento e Pescina. Cosa rischiano? Difficile dirlo. A rigor di regolamento si va dalle semplici ammende a pesanti squalifiche per dirigenti e procuratori fino anche a penalizzazioni in classifica per i club. Ci sentiamo, però, di escludere che si possa arrivare a tanto considerato come in passato altri casi 'clamorosi' non portarono a ripercussioni sulle classifiche. Si tratterà comunque di un vero e proprio maxi-processo al calcio italiano e ai suoi vizi più nascosti. Tra le pieghe dell'inchiesta anche un paio di curiosità. Inter e Juventus per una volta vanno a braccetto nella corsa alla prescrizione che è scattata inesorabilmente per entrambe quando Palazzi si è misurato con le stranezze dell'estate del 2006. Erano i giorni del passaggio di Ibrahimovic e Vieira in nerazzurro gestiti da Raiola e dalla società Steve Kutner Management Ltd senza alcun mandato formale. Le società sono state prosciolte per prescrizione. Dirigenti, procuratori e calciatori sono stati invece deferiti. E nei faldoni di Palazzi c'è anche la ricostruzione del famoso litigio tra Preziosi e Panucci nei sotterranei dello stadio Marassi di Genova dopo un accesissimo Genoa-Parma. Era il 6 dicembre 2009 e i due si presero prima a male parole e poi a spintoni. All'origine dello scontro proprio una trattativa saltata per la quale l'uno accusava l'altro di aver operato scorrettamente. La Procura federale ora ne chiede conto ad entrambi. Preziosi era inibito (tanto per cambiare) e comunque trattava, Ghirardi e Panucci parlavano con Damiani e Pastorello senza mandato... Bene che se ne faccia luce anche se due anni e tre mesi per arrivare al deferimento sono troppi anche per un ufficio alle prese con la mole di lavoro del calcioscommesse.
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