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Ghost Dog

Tifoso Juventus
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  1. La foto di Dino Zoff Oggi compie 70 anni il portiere che tenne la coppa nell'82, e che seppe come tenerla di LUCA SOFRI (Il Post 28-02-2012) Oggi è il settantesimo compleanno di Dino Zoff, il portiere della Juventus e della Nazionale che nel 1982, a quarant’anni, vinse i leggendari mondiali spagnoli dell’82 in porta di una squadra molto più giovane, dopo essere stato sotto accusa per le presunte disattenzioni sui tiri da lontano a quelli del ’78 in Argentina. Poi fu allenatore, e allenatore della Nazionale, e da preso in giro per la sua brusca timidezza divenne simbolo di sobrietà e discrezione ben prima che arrivasse il governo Monti. Di questo simbolo e di molte altre cose ha scritto Luca Sofri, il peraltro direttore del Post, in un capitolo del suo libro Un grande paese. È una vecchia pagina di «Time», ingiallita dal suo quarto di secolo, e con il segno dello scotch sugli angoli. L’avevo attaccata al muro, quando avevo diciassette anni, e me la porto dietro da allora, di casa in casa, nella ricca scatola dei ritagli e ricordi (si è appiccicata assieme al biglietto di Bob Marley a San Siro e a un vecchio foglietto a righe su cui è scritto: TANTI BACI DAL TUO PAPÀ). La pagina di «Time» è fatta così: c’è una foto in bianco e nero che occupa la parte superiore. Al centro della foto c’è la Coppa del Mondo. L’Italia aveva appena vinto i Mondiali spagnoli. La coppa è in mano a Dino Zoff, circondato dai suoi compagni durante il giro di campo al Santiago Bernabeu, alla fine della partita in cui battemmo la Germania. Siamo nei minuti successivi al «Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo» di Nando Martellini. Come noi davanti alla foto, anche Zoff guarda la coppa. Non la esibisce, non è rivolto verso il pubblico, i fotografi, noialtri: non dice «Ecco, guardate un po’ cosa abbiamo combinato!». Zoff guarda la coppa porgendola a Gentile, e insieme la porge a tutti noi, e pensa «prego, è anche vostra», con quell’aria da Zoff che aveva Zoff. Quell’aria con cui la volta che Silvio Berlusconi gli disse che avrebbe dovuto far giocare la Nazionale in un altro modo – Zoff era diventato allenatore, nel frattempo – lui rispose: «Ci sono rimasto particolarmente male per le sue parole. Certamente non ho dormito bene». E si dimise. Parentesi. In questa storia, Zoff è un modello. Quelle parole sono un insegnamento. Disseminare insegnamenti, predicare col proprio esempio. Quelle parole sono un esempio di misura, umiltà, mancanza di vittimismo. La misura nelle parole usate per definire i propri guai è una delle cose che abbiamo perduto, convinti tutti che terribili persecuzioni e sfortune si accaniscano sulle nostre nobili e autorevoli esistenze. Ho trovato un altro ritaglio, rovistando nella scatola di Zoff, che viene da una vecchissima copia del «Manifesto». Nel giornale era pubblicato il racconto di un anziano signore tedesco, Heinrich Steiner, che aveva fatto parte di un gruppo di intellettuali e artisti – soprattutto ebrei – che vivevano a Firenze prima della guerra e che si ritrovavano alla pensione Bandini. Molti di loro erano stati deportati e uccisi nei campi. Il «Manifesto» aveva presentato l’articolo in prima pagina con l’illustrazione di un brandello di una vecchia lettera che uno di quegli artisti, Rudolph Levy, aveva scritto alla signora Elena Bandini il 21 dicembre 1943: Cara signorina, avrete saputo già la disgrazia che mi è capitata. Sono in prigione alle Murate da più di una settimana. Dio solo sa quando potrò uscire. È duro per un uomo di 68 anni che non ha mai fatto male a nessuno ritrovarsi in questa situazione. Pazienza. Cordiali Saluti. Rodolfo Levy. A rileggerle adesso, come il giorno in cui le ritagliai dal «Manifesto» quelle parole di understatement, quella capacità di affrontare le catastrofi con minor vittimismo e debolezza di quelli con cui oggi si affronta un mal di gola mi sembrano spettacolarmente esemplari: gli americani usano quella parola svenevolmente new age che è «inspirational». Noi non ce l’abbiamo una parola così, nemmeno svenevole: sarà perché non capita di doverla usare. Torniamo alla pagina di Zoff. È una pagina pubblicitaria, comprata da «Time» sullo stesso «Time»: immagino comparisse solo sull’edizione internazionale, o europea, non so. Per compiacere i lettori e gli inserzionisti italiani, per confermare un rapporto con questa clientela. Ma non è importante. Sotto la fotografia c’è scritto «Suddenly, the whole world is italian», che vuol dire «All’improvviso, tutto il mondo è italiano». O anche «Siamo tutti italiani». Quella pagina si impolverò, ingiallì e una volta si strappò, ma è bella anche con un pezzo di scotch in un angolo. E sto rischiando di rinnovare il fondato quanto trito luogo comune sugli italiani patriottici solo con la Nazionale di calcio. Però in quella foto c’è molto più che il calcio: c’è un italiano di cui essere fieri che è al centro dell’attenzione del mondo e sa come comportarsi. C’è l’Italia al centro del mondo, e si capisce che non si tratta solo di calcio. [...] Torniamo ancora a quella foto di Zoff e al perché è importante. Non perché si tratti di calcio: altrimenti a farci sentire italiani basterebbe il solito inno nazionale prima della partita. Le porga la chioma. Non parlo di essere «italiani» in senso proprio: lo siamo, ovviamente. Parlo dell’avere caro un sistema di cose condiviso, che somigli a quello che ognuno di noi sente per la sua famiglia, o per la città dove è nato, o per il movimento politico che frequenta, o per il gruppo di amici con cui condivide una passione. Per i suoi simili. Parlo, e questo è il problema, di una cosa che si chiama ahinoi patria. Non ha altro nome che quello lì, complicato come se non bastasse dallo scricchiolio irritante di quella ti e quella erre. Bisognerebbe cambiarle nome, alla patria, e chiamarla più dolcemente: paglia. «Amo la mia paglia» si può dire. «Amo la mia patria», salvo alcuni arditi, no («Tutti hanno il diritto di essere patriottici» disse Jon Stewart alla Manifestazione per il buonsenso, sottraendo inni e bandiere al fanatismo di destra). [...]
  2. Zoff compie 70 anni: classe e dignità d'un campione in campo e fuori di GIUSEPPE CERETTI (Il Sole 24 Ore.com 28-02-2012) Zoff, le due consonanti sono un soffio pudico che svela l'arcano delle origini. Si spengono nell'aria lievi, come una coppia discreta che non ha voglia di mettersi in mostra, predilige i toni bassi, le parole essenziali e infine il silenzio. Zoff, la sola pronuncia di quel cognome rassicurava i nostri sogni di appassionati della Nazionale. C'è Zoff tra i pali e tanto basta. Anche quando non era in campo pareva una garanzia. "In panchina, con Zoff" cantava Mina , celebrando nel 1970 con il brano omaggio Ossessione lo storico incontro Italia - Germania. Dino Zoff da Mariano del Friuli, di professione portiere, compie oggi 70 anni, spesi tra la pratica sportiva che non manca mai e gli affetti familiari da "nonno operativo", come ha confessato in una bella intervista rilasciata a Maurizio Crosetti di Repubblica. È stato uno dei più grandi portieri del secolo trascorso, senza pasticciare con citazioni e paragoni che lasciano il tempo che trovano. Dei suoi primati, forse il più significativo è la conquista della Coppa del Mondo a 40 anni suonati, nel 1982. Un record che abbiamo il fondato sospetto reggerà a lungo e indica la straordinaria statura tecnica e atletica del giocatore. La Coppa levata accanto a Pertini e la famosa partita a carte sull'aereo sono forse il ricordo più bello di un uomo che per un istante abbandona lo stile sotto traccia: «Da giovane Buffon aveva più personalità di quanta ne avessi io alla sua età, ma da vecchio io sono stato quasi imbattibile, vedremo lui». E bravo Dino. Perché sobrietà fa rima con sincerità, come quando confessa di provare rabbia dinnanzi ai ridicoli festeggiamenti d'oggi in campo o tristezza di fronte alle esibizioni di vecchi e famosi colleghi in tv. Preferisce di gran lunga la parola rispetto. Lui la conquistò e riconquistò dopo che qualcuno (e che razza di qualcuno, il mitico Gioanin Brera), gli consigliò d lasciare perdere e di fare una visita dall'oculista per via delle diottrie che gli mancavano dopo le reti incassate da fuori area nel Mondiale del 1978. Quattro anni dopo non solo si prese la rivincita sportiva, ma diede un contributo decisivo alla Nazionale, oggi entrata nel mito riassunto nella celeberrima immagine dell'urlo di Tardelli. A proposito di immagini, nella prima rintracciata negli album della Panini veste la maglia del Mantova. Gli è accanto un terzino familiare agli appassionati di calcio che hanno superato da tempo l'età, che di nome fa Schnellinger. Nella pagina accanto un altro suo compagno di maglia che si chiama Gigi Simoni. La didascalia recita: "Cresciuto nell'Udinese, al Mantova dalla stagione 1963-64, esordio il 24 settembre 1961 in serie A in Fiorentina Udinese 5-2". Ma con la maglia bianconera friulana manca la sua figurina perché all'esordio è riserva dell'istriano Franco Dinelli. Con i biancorossi resterà sino al 1967 per approdare al Napoli dove rimarrà sino al '72. Poi la lunga stagione e i ripetuti trionfi con la Juve e in maglia azzurra. Inizia negli anni Ottanta la faticosa carriera d'allenatore, non per gli ottimi risultati raggiunti, ma per la fatica di dover fatalmente esporsi più del dovuto ai riflettori che tanto detesta, sino alla panchina della Nazionale nel 1998. Due anni conclusi con una sconfitta nella finale degli Europei del 2000 contro la Francia e le sue dimissioni dopo le parole dell'ex presidente- allenatore degli italiani che lo giudicò indegno. Zoff anche allora mostrò schiena diritta e tanta dignità, replicando con fermezza, ma rifiutando la rissa. Una lezione nei tempi d'oggi tanto pieni di addetti ai lavori sempre proni al potente di turno e attenti a infilare perle di banalità. Un paio d'anni fa Marco Masini scrisse nel testo d'una sua canzone: "È Un Paese, l'Italia, che rimane tra i pali, come Zoff". Chiamarono Dino per chiedergli se non si sentisse offeso da quella frase che voleva essere uno sberleffo contro l'ignavia e di chi non osa. Lui ci fece una bella risata e invitò i giornalisti a occuparsi di cose più serie. Noi ci auguriamo, al contrario, che l'Italia sappia, meglio impari, a restare tra i pali come Zoff. Sobria, pudica, essenziale nei gesti, ma non ignava, pronta a lottare per un posto da conquistare con fatica, con sudore e con onestà. Nella già menzionata intervista a Repubblica Il Venerdi di Repubblica, alla domanda sul significato della sconfitta, Zoff risponde: «Rappresenta la vera consapevolezza dell'atleta, il suo momento di crescita, perché si perde molto di più di quanto si vinca». Auguri Zoff, uniti alla nostra stima di appassionati del calcio. Continui a sognare ad occhi aperti. In silenzio, s'intende. Buon campionato a tutti.
  3. È il meno pagato dei 23 in campo. Ma i suoi errori scatenano polemiche che durano anni. La vita impossibile del direttore di gara L'arbitro Per cinquemila euro di gettone in serie A corre almeno dodici chilometri a partita prendendo una decisione ogni tre minuti, ma se la sbaglia può durare per sempre Vita da arbitro, uomo solo al comando con un unico obiettivo: che nessuno s´accorga di te La sfida del fischio perfetto di ANGELO CAROTENUTO (la Repubblica 28-02-2012) Il più crudele degli attimi. Dura due decimi di secondo. Prima c´è un orizzonte pieno di eventualità, dopo arriva il giudizio del mondo. La vita di un arbitro abita lì, nel mezzo, dentro il cuore di quella minuscola porzione di tempo che scorre lentissima, prima di ogni sua decisione. La sottile linea tra il giusto e il malfatto è nel soffio d´aria dentro il Fox 40, il nome dei fischietti che portano al collo, sono di plastica, quelli di ferro spaccano gli incisivi. Via pure la pallina interna. Così non si inceppano. Come se bastasse a far filare tutto liscio. Ne sa qualcosa Paolo Tagliavento, l´ultimo finito nella polvere dopo Milan-Juventus dell´ultimo week-end. A lui, come agli altri, tocca vivere il più crudele degli attimi almeno una trentina di volte in ogni giornata di lavoro. Significa una decisione da prendere ogni 3 minuti, e però in fretta, subito, con la stessa capacità di reazione di un macchinista delle ferrovie. Vent´anni fa si sbagliavano sei decisioni a partita, oggi ne basta una per finire sulla croce. Decidere, sempre col fiatone. Non sono meno di dodici i chilometri che un arbitro corre durante una partita di serie A, più spesso diventano quindici, mai tutti allo stesso ritmo. Scatto, stop, marcia indietro, una sbirciata dietro le maglie, e intanto la palla è già dall´altra parte. Vai, corri, fischia. A 45 anni in Italia li mandano già in pensione, come in Spagna, lavoro usurante. È in Inghilterra che durano un po´ di più: un gruppo di ricercatori ha verificato che gli arbitri più anziani corrono sì di meno, ma sono più spesso vicino alla palla: «Sono più bravi a prevedere il gioco e ad anticipare i movimenti». All´estero non è raro trovare corsi dedicati per la cura dell´autostima e per allenare la rapidità con cui vanno prese le decisioni. È una questione di strategie di programmazione neuro-linguistica, per questo i bilingui sono avvantaggiati. I nostri arbitri corrono. Si allenano due ore al giorno. Fanno gli architetti, gli assicuratori, i bancari. Oppure il parrucchiere, (Tagliavento). Guadagnano poco più di 5mila euro per una partita in serie A, circa 2. 500 in serie B e 1. 300 per una notturna di Coppa Italia. Se vieni designato come "quarto uomo" (l´assistente che siede fra le panchine) non si va oltre i 500 euro. Ai gettoni di presenza s´aggiunge un´indennità di preparazione che premia il curriculum: 37.180 euro annui agli internazionali, 24. 180 a chi ha messo insieme più di 25 gare in serie A, 18mila per tutti gli altri. Ma la strada per arrivare in serie A è lunga, non meno di un decennio di battaglie sui campi impolverati dei dilettanti, la diaria che oscilla fra i 26 e i 40 euro, più le spese di viaggio. Se alla fine si arriva a 200 è già tanto. Domeniche di smacco e avvilimento. «A Fossalta di Piave, una volta arrivai con la borsa da arbitro e tre ore di anticipo. Chiesi al guardiano dove fossero gli spogliatoi, il custode si rivolse all´amico che stava segnando il campo: Nino, tira fora el cavalo che xe rivà l´arbitro», il racconto è di Paolo Casarin. Per iniziare bisogna aver compiuto almeno 15 anni e non averne più di 35, occorre il diploma di scuola media inferiore. Li reclutano in 212 sezioni, da Abbiategrasso a Vibo Valentia, con gli arbitri da bambino finisci per studiare pure la geografia. Uno diceva Barbaresco di Cormons, e imparavi qualcosa in più sul Friuli. La convocazione in serie A arriva con una telefonata, oppure con una mail, due o tre giorni prima. Il computer in ufficio fa plin, e ti dice che ti tocca Inter-Fiorentina, o Roma-Udinese. Da quel momento comincia lo studio della partita. Le squadre, le tattiche, le possibili insidie. Chi sono i simulatori, chi sono quelli che protestano. Perché nel tempo il mestiere più difficile al mondo è cambiato. Il fischio è solo una parte. Hanno cominciato dando all´arbitro una divisa colorata, hanno continuato cambiandogli le regole sotto gli occhi. Nel dubbio, prima dovevano privilegiare i difensori. Poi sono arrivati i noiosissimi Mondiali del ‘90 e il desiderio della Fifa di migliorare la qualità della vita degli attaccanti. Così nascono il fallo da ultimo uomo, il fuorigioco ininfluente, il concetto di "danno procurato" sul fallo di mani al posto della "volontarietà". È il calcio che va più veloce, più gol, più rigori. Ma significa anche con più contestazioni. Scriveva Mario Soldati che «l´equità del comportamento dell´arbitro di calcio viene messa a repentaglio da due ordini di pressioni: la violenza psicologica dei giocatori e del pubblico: la possibilità di corruzione». L´arbitro perfetto è quello di cui non si parla, paradossale per un uomo che ha scelto di mettersi al centro di una scena. Ogni mese, dei loro errori, discutono all´interno di una stanza, al centro di Coverciano. Faccia a faccia con il più grande nemico della categoria. La moviola. Ne hanno una in casa. Ai raduni parte il replay e scorre il fallimento. Dopo averlo visto e rivisto cento volte in tv. Le immagini non sono mai d´aiuto. Il referto va spedito al giudice sportivo senza vederne, prima di lasciare lo stadio. C´è un fax nella stanzetta. Non c´è mestiere più di questo che abbia l´errore per compagno di percorso. Una carriera si può ribaltare per centimetri. «Il dovere di decidere», lo chiamava Rosetti, arbitro internazionale, uno dei migliori al mondo, la carriera spenta da un fuorigioco dell´argentino Tevez non visto al mondiale in Sudafrica. Da un po´ s´è aggiunta la dieta. Si mangia tre ore prima della partita, 100 grammi di pasta con pomodoro fresco e parmigiano. Una fetta di crostata con marmellata, evitare crema, panna o cioccolato. Due volte all´anno si tiene il test per verificare le condizioni di forma, si chiama Yo-Yo, scatto avanti e scatto indietro, ecco perché. E poi c´è quello della tv che ne sa più di te. La durezza del mestiere la conosce bene il cinema. «Quando facevo l´arbitro in serie C mi minacciavano in tutti i modi, ma io non ho mai avuto paura», è la bugia migliore che il ministro Botero (Nanni Moretti) sa scovare ne Il portaborse per descriversi come un duro. Poi c´è il protagonismo. Prima ancora del delirio di Lando Buzzanca nei panni di Carmelo Lo Cascio da Acireale (L´arbitro, film del 1974), c´era stato Marcello Mastroianni come arbitro Tornabuoni ne Il nemico di mia moglie (1959). Lo insultano, gli sfasciano la Lambretta, lui torna a casa e sua moglie (Giovanna Ralli) gli dice: «O smetti di fare l´arbitro o divorzio». Avrà il fiato per mormorare a un amico: «Solo sul campo mi sento qualcuno». La debolezza dell´arbitro dev´essere questa. Del resto Vittorio Pozzo, il ct mondiale dell´Italia ‘34 e ‘38, diceva che «neppure lo spettatore è un uomo perfetto. Paga per fare lo spettatore e poi vuole fare l´arbitro». Il commento Sono una metafora del presente. Si prendono troppo sul serio, ma dobbiamo esser loro grati Così sono diventati i simboli della nostra incapacità di giudicare di MASSIMO CACCIARI (la Repubblica 28-02-2012) Strana faccenda: "arbitro" e "arbitrio" son quasi la stessa parola, eppure saremmo propensi a pretendere che nulla di arbitrario venga a macchiare l´operato di un arbitro. Esigenza già assai ardua da soddisfare per un giudice, che arriva alla sentenza attraverso lunghe indagini, sedute e sedute di dibattimento, giorni di camere di consiglio, ecc. Figuriamoci per un povero arbitro costretto a decidere letteralmente su due piedi. E si vorrebbe non lo facesse un po´ ad libitum? Praticamente tutte le sue decisioni avvengono all´insegna del "a me pare che". Perciò non sono sopportabili quegli arbitri che nel loro comportamento sul campo assumono la maschera della divinità inappellabile, della tetragona certezza. Questi arbitri rivelano il lato più oscuro della vocazione "tremenda" a giudicare il prossimo. Giudici e arbitri svolgono, ahimè, funzioni insostituibili nella città dell´uomo, sempre pronta a trasformarsi in città del diavolo – ma che le svolgano, per quanto possibile, con modesta coscienza dei propri limiti e del carattere infernale (come diceva Simone Weil) che sempre l´affliggere pene porta con sé. L´arbitro di calcio può valere come metafora della crescente quasi-impossibilità a "giudicare secondo giustizia" nella realtà attuale. Si dovrebbe decidere sulla responsabilità individuale, dice il diritto. Ma come fare? Tutto è "in rete", tutto si tiene. Posso forse tutto altrettanto vedere? Seguo un´azione, ma, nello stesso momento, attori della stessa partita si cazzottano lontani dal mio sguardo. I comportamenti della squadra, o dell´organismo sociale, che dovrei "sorvegliare e punire" sono tutti tesi ad ingannarmi, ad occultare le loro intenzioni. Fa parte del gioco il farsi gioco di me. E questi attori, in lotta tra loro, strenui difensori del proprio interesse e noncuranti di ogni "bene comune", sono sempre più aggressivi, più rapidi, più "atleti". Come può starci dietro un distinto signore, per quanto bene allenato? Impari lotta, davvero. Il meno che possa capitargli è non vedere una pallone in gol – o andare sistematicamente nel pallone con i fuorigioco. E allora un modesto ragionamento. O si sostituisce l´arbitro con un´occulta Presenza che segue la partita da un Panopticon dotato di potenti mezzi audio-visivi, moviole, ecc. , e proclama attraverso altoparlanti a giocatori e pubblico le sue decisioni (sostituendo, magari, il fischietto con una sirena da allarme aereo). Oppure si riduce drasticamente il peso delle decisioni che l´arbitro assume rivedendo il regolamento. Già limitare il fuorigioco alla sola area di rigore semplificherebbe la vita, risultando fisicamente impossibile cogliere insieme l´istante di un lancio e la posizione di un giocatore trenta metri oltre. Si farebbero più gol - e più gol si possono fare, meno drammatico diventa beccare un rigore. Da bambini facevamo sei corner, oppure tre falli non eclatanti in area, un rigore. Sarebbe divertente. Ma giudici e arbitri hanno la cattiva abitudine di prendersi tremendamente sul serio. Mai, però, quanto le "società" che debbono, e gliene siamo grati, tentare comunque di far giungere a fine gara senza troppe vittime.
  4. ZOFF 70 Domande per... 70 anni Auguri Dino La vita, la carriera, gli incontri, i segreti di un mito italiano «Se devo definirmi dico questo: sono una persona seria» di FURIO ZARA (CorSport 28-02-2012) Ci sono nomi che sono più belli di altri. Zoff. Nella doppia effe c’è il tuffo, lo schiaffo del vento, l’essenza del portiere. Faceva cose semplici, è stato straordinario. Il più forte portiere italiano di tutti i tempi. Essenziale, definitivo. Friulano, non a caso. Un mito per un paio di generazioni, se ancora mito significa qualcosa. Tale Eliani, allenatore dell’Udinese, quando il nostro gli si presentò davanti sentenziò: «Se ti te diventi un zogador, mi me tajo i cojoni». Ruvido, ma chiaro, e la traduzione indebolirebbe il concetto. Non sappiamo come è finita. Oggi compie 70 anni. Ci ha fatto felici; lo è stato - felice - con pudore. Forse, nella vita, non servirebbe altro. Non ha mai smesso di essere Dino Zoff: per capire cosa significa, vi siano di aiuto queste 70 risposte. 1 - Zoff, se li ricorda i suoi primi guanti da portiere? «Avevo dodici anni, me li regalarono: guanti con i gommini rossi» 2 - Come passava il tempo da bambino? «La mia è una famiglia di contadini: lavoravo in campagna e studiavo da motorista, tre anni alla scuola di avviamento» 3 - Il primo lavoro? «In officina a Cormons, aiuto meccanico. Quattro chilometri e mezzo da Mariano del Friuli, dove sono nato. Poi a Gorizia: quattordici chilometri andare e quattordici tornare, bici o corriera, dipendeva anche dal tempo. Se non avessi fatto il calciatore, sarei finito a fare il meccanico. La Ferrari? No, non sognavo così in grande» 4 - Per che squadra tifava? «Juventus. Era la squadra dei miei amici, della mia generazione, quelli nati negli anni ‘40» 5 - Il suo mito? «Non ne avevo, non c’era la televisione: facevo il portiere prima ancora di leggere su «Sport Illustrato» che i portieri esitevano» 6 - La prima delusione. «Venni scartato da Inter e Milan: non ero maturo» 7 - Ha mai giocato in un altro ruolo? «No, mai avuta voglia» 8 - Cosa le disse suo padre quando capì che si sarebbe guadagnato da vivere con il calcio? «Hai imparato un mestiere. Se ti piace e sei bravo, fallo. Questo mi disse. Non mi ha mai impedito di seguire la mia passione, gliene sarò sempre grato» 9 - A cosa pensa un portiere? «A seguire l’azione, se ti distrai ti fregano. Devi sempre stare attento, prevedere, immaginare» 10 - Stare tra i pali cosa significa? «Sentirsi a casa. Hai anche la porta, no?» 11 - E’ vero che i portieri vivono di solitudini? «Sì, sei un uomo solo anche se fai parte di una squadra. Ma la verità è che sei solo» 12 - La parata più bella di tutta una vita. «Mondiale ‘82, Italia-Brasile 3-2. Ultimo minuto, colpo di testa di Oscar, fermo il pallone sulla linea. Non so se è stata la più bella, ma sono sicuro: è stata la più importante» 13 - La papera che non si perdona? «Lecco-Udinese, primi anni ‘60, serie B. Pallone facile, devo rinviarlo, un rimbalzo strano, sbaglio, lo colpisco male, con la punta, finisce a Clerici, il nome me lo ricordo ancora. Dunque Clerici è lì a pochi metri. Tiro, gol. Non se ne accorse nessuno che avevo sbagliato» 14 - Eppure. «Nessuno tranne me. Ci rimasi male, mi bruciava aver sbagliato così» 15 - All’epoca rivedeva le sue partite in tv per poi correggersi? «No. E succede anche oggi: se le rivedo scopro sempre qualcosa che andava fatto meglio. Anche Italia-Brasile o Italia-Germania, insomma le più celebri. A parte che le ho viste davvero poche volte, ma ogni volta trovo qualche errore» 16 - 24 settembre 1961, il debutto in serie A: difendeva la porta dell’Udinese, ne prese cinque contro la Fiorentina. «In settimana andai al cinema, davano la Settimana Incom, come succedeva all’epoca. Sullo schermo mostrarono i gol che avevo preso. Sprofondai sulla poltrona. Che vergogna, volevo alzarmi e andare via» 17 - I portieri più grandi di ogni tempo. «L’inglese Banks, il russo Jascin, il tedesco Maier. E Zoff» 18 - Chi è il suo erede? «Buffon, senza ombra di dubbio» 19 - A proposito di Buffon. Come giudica la sua uscita dopo Milan-Juventus: anche se avessi visto che era gol non l’avrei detto all’arbitro? «L’arbitro è lì per giudicare, giusto? Comunque se fosse stato l’arbitro a chiederglielo in campo, beh, allora sarebbe stato diverso» 20 - Moviola in campo: sì o no? «Non lo so, non mi convince. Meglio magari il quarto arbitro dietro la porta, altrimenti diventa calcio virtuale» 21 - L’avversario italiano più temibile. «Paolino Pulici, era un incubo giocarci contro nei derby Juve-Toro: si trasformava, diventava una furia. E poi Gigi Riva» 22 - E lo straniero? «Cruijff e Maradona» 23 - Il più matto che ha incontrato? «Facilissimo: Gascoigne» 24 - La squadra più forte in cui ha giocato? «La Juve del 1982-1983» 25 - Quella della finale di Coppa dei Campioni persa ad Atene. Il tiro di Magath si poteva parare? «No, era difficile, insidioso. Ma non è quello il punto: fu una partita strana, andò tutto sorto. Peccato, eravamo fortissimi» 26 - L’allenatore che ricorda con più affetto? «Bearzot. Cioè, sono tanti, ma se devo fare un nome allora dico Enzo Bearzot» 27 - Dino Zoff era più forte a 20 anni, a 30 o a 40? «A 20 ero un buon portiere, a 30 ero straordinario, a 40 ero molto buono» 28 - 1983, il 29 maggio, subito dopo Svezia-Italia 2-0. «Non posso parare l’età», lo disse lei prima di salutare la compagnia. «Era il mio congedo, mi ritirai. Avrei potuto fare qualche altro anno, ma non a quei livelli. E allora non ne valeva la pena» 29 - Cosa le ha insegnato il tiramolla Reja-Lazio? «Niente. Sapevo già come andava a finire. Conosco Reja. E conosco Lotito» 30 - Lei si è divertito di più in campo, in panchina da allenatore o da presidente? «Ma scherza? In campo» 31 - E incazzato di più? «In campo: non c’è paragone» 32 - Cosa le piace di questo calcio? «Il calcio» 33 - E cosa non le piace? «Le esasperazioni, le sceneggiate dopo i gol, le simulazioni, giocatori che si rotolano a terra per due minuti dopo un fallo» 34 - Perché non le hanno mai proposto seriamente un ruolo dirigenziale in Federazione? «Sinceramente? Non lo so» 35 - E’ tardi? «Diciamo che non è presto» 36 - Come passa il suo tempo? «Golf, tennis, mio nipote» 37 - Handicap a golf? «Un handicap da pippa: 17» 38 - Ce lo giuri: non la vedremo mai a «Ballando con le stelle» o all’«Isola dei famosi». «Lo giuro» 39 - Ha visto Rivera ballare? «Mi sono rifiutato di vederlo» 40 - Cosa pensa dei giocatori che twittano tutto il twittabile, per lo più clamorose banalità da pianerottolo? «Sono i tempi moderni, non me la sento di condannarli. E’ un’altra gioventù. Ai miei tempi non ci si poteva nemmeno pettinare i capelli in un certo modo» 41 - Dino Zoff con un tatuaggio. Si sforzi. «Non ce la faccio, ripeto: altri tempi» 42 - Piccole gioie quotidiane: a cosa non rinuncerebbe mai? «Alla giacca blu» 43 - E la cravatta? «Vengo dalla campagna. Se serve, la cravatta si mette. Certe occasioni vanno onorate, e allora ci si veste bene» 44 - Il calciatore italiano più forte degli ultimi cinquant’anni? «Modestamente nei 50 grandi scelti dalla Fifa io ci sono. Comunque dico Paolo Maldini, un grandissimo» 45 - Platini o Sivori? Lei ha giocato con entrambi. «E’ come dire Pelè o Maradona. Sono stati due artisti. Se proprio vogliamo Platini era più Pelè, Sivori più Maradona» 46 - Totti, Baggio o Del Piero? «Totti e Del Piero. Alex ha vinto di più in campo internazionale, ma alla fine si equivalgono» 47 - Il cantautore preferito. «Francesco Guccini» 48 - Il film e il libro della vita. «Il film è «Cinderella Man». E’ un film di boxe e di vita. Ha una morale, una storia forte. C’è tutto, dovrebbero mostrarlo nelle scuole. Il libro invece «La marcia di Radetzky» di Joseph Roth: ogni tanto me lo prendo e lo rileggo, qua e là» 49 - Su Facebook le hanno dedicato una pagina. Non so come dirglielo, ma 8.348 persone hanno cliccato «mi piace». «Che dire? Mi fa piacere» 50 - A che ora va a dormire? «Tardi, dopo la mezzanotte» 51 - Prega? «No. Ringrazio Madre Natura e i miei genitori» 52 - Sogna? «Sogni strani, che non hanno nè capo e nè coda» 53 - Europei del 2000, finale persa con la Francia, golden gol di Trezeguet, l’attacco di Berlusconi contro di lei, le sue dimissioni da ct, la sua dignità. «Non potevo non darle. Fece apprezzamenti sull’uomo, mascherate con altre considerazioni tattiche. Non sono un integralista, non lo sono mai stato, ma certe cose no, non si possono sopportare. No, Berlusconi poi non l’ho più rivisto» 54 - Perché dicono che lei era un musone? «Ero un po’ orso, questo sì, ma musone no» 55 - Gigi Sabani, Neri Marcorè e altri ancora l’hanno imitata per anni. La facevano ridere? «Beh, insomma... Lo capisco anch’io quando riascolto qualche intervista che ho una voce che fa addormentare, però certe volte mi trattavano da deficiente. Comunque non me la prendo, sono uno sportivo, io» 56 - Cosa la fa ridere? «Molte cose. Attori, film, circostanze, episodi durante la giornata. Per esempio i due del «Ruggito del coniglio», la trasmissione che va in onda su RadioRai, mi fanno molto ridere: sono davvero bravissimi» 57 - Si divertiva a fare la pubblicità dell’Olio Cuore? «Pfff, per niente. Sul set non vedevo l’ora di andare a casa» 58 - Suo figlio Marco una ventina d’anni fa ha provato a fare il portiere. L’ha convinto lei a smettere? «Marco ha giochicchiato, niente di più. Comunque ha deciso lui. Ora fa tutt’altro» 59 - E suo nipote? Le piacerebbe che seguisse la sua strada? «Ha due anni, è piccolo, lasciamogli il tempo di crescere e scegliere di testa sua» 60 - Giampiero Boniperti e Gianni Agnelli: che ricordi ha? «Con Boniperti facevamo un po’ la guerra, ma è stato un grande dirigente. Gianni Agnelli mi prendeva sottobraccio prima dell’allenamento. Voleva sapere tutto di tutti i giocatori che affrontavo, soprattutto in campo internazionale: chiedeva e ascoltava attentamente» 61 - Chi era Gaetano Scirea? «La persona più bella che ho incontrato, un amico vero» 62 - Cosa le manca di Scirea? «Lo stile, la serenità. Pensi che Tardelli, durante i ritiri della nazionale, veniva nella nostra camera e diceva: vado in Svizzera. Cercava tranquillità, io e Gaetano eravamo una garanzia» 63 - Ha rimpianti? «Nessuno. Ho avuto moltissimo dalla vita. Dovrei baciare dove cammino. Ho trasformato il mio hobby in un lavoro. Ho giocato a lungo, più di quanto pensassi. Sono stato felice» 64 - E allora tiri fuori dal film della memoria un’immagine che per lei significa felicità. «Il bacio a Bearzot al Bernabeu, dopo il trionfo al Mondiale dell’82, subito dopo la fine di Italia-Germania. Con quel gesto sono riuscito a scalfire il mio pudore» 65 - Cosa è stato per lei fare il portiere? «Una vocazione» 66 - Le qualità di Dino Zoff portiere. «La completezza e l’intelligenza» 67 - E dell’uomo Zoff? «La misura» 68 - Cosa si aspetta dal futuro? «Sono realista, cerco di stare bene: so che la natura fa il suo corso» 69 - Si definisca con un aggettivo. «Una persona seria. Ma forse è una espressione antica, non crede?» 70 - No. E’ quanto di più moderno e rivoluzionario ci sia di questi tempi. «Bene, allora lo scriva: penso di essere una persona seria»
  5. OGGI SUPER DINO COMPIE 70 ANNI Zoff: «Io un mito? Sì, adesso lo sono» L’ex portiere della Juve e dell’Italia: «Il mio Mundial resterà unico» Il 1° scudetto con la Juve il massimo. Platini, Sivori e Altafini i più forti. Gascoigne il più pazzo. Che discussioni con Boniperti. Sì, a Scirea penso spesso di FILIPPO CORNACCHIA (Tuttosport 28-02-2012) BUON compleanno, Dino Zoff. «Eh, sono arrivato proprio a 70. Tanti o pochi non lo so, sicuramente i 30 erano diversi... La natura lavora. Eccome». Un mito per i portieri e per tutto il calcio. «Sono sincero, io non mi sono mai sentito tale. Anche se le centinaia di telefonate che sto ricevendo mi fanno capire che qualcosa ho fatto». Mondiale ‘82, scudetti, trofei internazionali. Cosa mette davanti a tutto? «Il primo scudetto con la Juventus, quello del 1972-’73. Ero appena arrivato». In realtà la maglia della Juve l’aveva vestita l’8 aprile 1962, quando era ancora il portiere dell’Udinese. «Che giornata. La Juve indossava le maglie nere, proprio come la mia di numero 1 dell’Udinese. Gaspari, il loro portiere di riserva, mi prestò la sua. Ovviamente gli tolsero lo scudetto. Un segno del destino, visto tutti quelli che poi ho “ricucito” a Torino». Il suo podio dei fuoriclasse ? «Platini, Sivori e Altafini. Il primo un Pelé bianco, il secondo un artista e il terzo una forza della natura. Però in una classifica del genere metto anche i compagni del Mondiale ‘82». Dovesse raccontare il Mondiale ai suoi nipoti con poche frasi? «Direi una cosa, in particolare: “Un Mondiale così straordinario non lo vedrete mai”. Squadre fortissime, tanti gol su azione. Quello del 2006, strappato con le unghie, è stato un grande trionfo, ma il nostro non ha paragoni come spettacolo». Ha mai mandato a quel paese un compagno? «Mai. E nessuno si è mai permesso con me». Cosa detesta del calcio? «Le sceneggiate. Ho sempre cercato di combatterle». L’ultimo tormentone riguarda il suo erede, Gigi Buffon. «Non giudico, non mi sono mai trovato in una situazione del genere. La situazione, al massimo, sarebbe stata poco simpatica se l’arbitro gli avesse chiesto un parere. Ma se non gli ha domandato nulla... Gigi è sincero, non ipocrita». Quali sono i maestri di Zoff? «Ho imparato da tutti, da Trapattoni e Bearzot in modo particolare. L’entusiasmo del Trap è unico». Le capita spesso di pensare a Gaetano Scirea? «Molte volte. Gaetano era lo stile fatto persona, oltre che un grande amico. Scirea è Scirea, non può esistere un suo erede. I miti non hanno cloni». La telefonata di Boniperti è già arrivata? «Non ancora, vediamo... Duro e simpatico, con lui ho avuto molti scontri sportivi». Quello che non scorderà? «Quando andai a discutere il contratto dopo aver perso lo scudetto. Aveva la distinta di Perugia in mano e a tutti ripeteva: “Dunque, vediamo... Lei c’era? Sì. E allora che soldi volete che avete perso anche con questi!”». L’attaccante avversario che sognava la notte? «Pulici. Era fortissimo e contro di me si trasformava. Anche Riva toglieva il sonno». Le capita ancora di rimuginare su qualche gol preso? «No, neppure quello di Magath in finale di coppa Campioni 1983 ad Atene. Sono sempre più convinto che in quella occasione non sbagliai. Era un bel tiro. Contro l’Amburgo fu tutta la Juve a fallire». Le maglie che conserva come cimeli? «Una delle mie prime dell’Italia e quella del grande Sepp Maier, numero uno della Germania e del Bayern. Sono affezionatissimo anche al samovar che mi ha regalato Jashin». Se pensa a Berlusconi? «Non porto rancori per l’offesa dopo l’Europeo del 2000. Però non mi sono pentito delle dimissioni». Del Piero a fine stagione lascerà la Juve: consigli? «Non ne ha bisogno. È uno dei pochi che non ha mai sbagliato una virgola né in campo né parlando sui giornali». Chi vince lo scudetto? «Juve e Milan sono ancora 50 e 50. La squadra di Conte è la novità più bella del campionato. Gioca bene e Buffon è tornato sui suoi livelli. A Gigi auguro di giocare così fino a 40 anni, tanto il record di presenze consecutive resta mio». Ultima curiosità: il giocatore più strano? «Gascoigne. Ai tempi della Lazio una volta si presentò nudo in albergo. “Mister, mi hanno detto che mi voleva subito”».
  6. il compleanno Festa speciale per l’ex ct, leggenda del calcio Dino e Gigi uguali in porta ma così diversi nelle uscite Entrambi juventini e campioni del mondo Uno muto fino alla noia, l’altro parla troppo di TONY DAMASCELLI (il Giornale 28-02-2012) Dino aveva già settant'anni quando era un bel frut friulano di anni venti. Gigi è ancora uno sbarbato quindicenne, adesso che conta trentaquattro anni. Dino non è mai stato intervistato dalle Iene, Gigi va davanti a qualunque telecamera. Dino ha alzato la coppa dorata al cielo e ha giocato a scopa con il capo dello Stato, anche Gigi ha messo le sue manone sul Mondiale ma con Giorgio Napolitano non ha tentato nemmeno un cruciverba enigmistico. Dino non ha mai avuto un suo sito web, Gigi tuitta , feisbucca , naviga in ogni dove. Dino non ha mai fermato i suoi capelli con una forcina e il gel, Gigi davanti allo specchio studia le uscite sulle palle alte e, nei dettagli, la propria immagine; Dino e Anna, nonni, hanno un figlio che si chiama Marco, Gigi ha messo il nome di Louis Thomas e David Lee ai due pupi che gli ha regalato Alena. Dino Zoff è stato uno dei più grandi portieri della storia del football, Gianluigi 'Gigi' Buf­fon è, forse, il migliore di tutti, oggi. Numeri uno, della Juventus, della nazionale, campioni sicuri, garantiti, uguali e vicinissimi tra i pali, distanti una vita quando non c'è più un pallone da parare. Le quattro lettere del cognome sincopato del friulano rappresentano la sintesi della sua esistenza, una firma rapida sotto la fotografia della carriera, Zoff, basta, avanza. Il nome del casato di Gigi si presta alla stucchevole battuta ma è anche un ritorno all'antico, a parte il filosofo francese di nessuna parentela, piuttosto a Lorenzo che fu portierone pure lui, sposo di una valletta televisiva, la Campagnoli di Lascia o Raddoppia e cugino di secondo grado del campione contemporaneo, Buffon, con l'accento sulla seconda vocale. Dino Zoff compie oggi settant'anni proprio nel momento in cui Gigi Buffon avrebbe voglia di lanciare qualche torta in faccia a chi vuole calciare una domanda sul suo fair play. Due persone e personaggi che appartengono alla stessa categoria ma a due generazioni che non hanno alcun contatto. Leggendo e ascoltando le frasi dure e anche volgari che Gigi sta pronunciando sulle ultime vicende di campionato si può intendere perché questo calcio sia figlio di un mondo nel quale i campioni di un tempo non troverebbero posto, per scelta. Di Zoff si scrisse e si disse, dopo il mondiale del Settantotto in Argentina, che non avesse più le diottrie per giocare a pallone, i tiri da lontano di olandesi e brasiliani lo avevano fatto fesso; quando Dino annunciò il ritiro dall'attività Giorgio Forattini disegnò una vignetta feroce e malinconica, l'area di rigore deserta, la porta vuota, un paio di occhiali posati sul prato e questa didascalia: ZOFF LIMIT. Quattro anni dopo, Zoff, senza lenti a contatto, andò a conquistare il titolo mondiale, Brera e Forattini parteciparono, sul carro del vincitore come usiamo noi italiani. Buffon ne ha passate mille, tra accuse difascismo, corruzione, bravate, secondo repertorio con­temporaneo. Per entrambi mi torna alla mente una frase che Enrique Omar Sivori sbattè sul muso imbronciato proprio di Dino, durante una partita: «Se noi ci fossero quei tre pali, voi portieri fareste la fame…». Dino e Gigi non hanno mangiato pane nero e duro, semmai brioches e caviale ma stando seduti a tavole diverse. Onore a Zoff, per il suo compleanno e per la leggerezza e la discrezione della sua esistenza di calciatore, campione, uomo, portiere. Del resto quando aveva vent'anni già ragionava, bene, e parlava, poco, come oggi, maturo e saggio, anche un po' noioso come accade a chi posa ogni parola sulla bilancia e non sul microfono. Un messaggio a Gianluigi Buffon: sappia che i pensieri e le parole degli altri, che non siano calciatori e allenatori sodali suoi, meritano comunque rispetto. Non sbagli uscita, lasci che soltanto il pallone superi l'ultima linea bianca mentre lui, saldo, cerchi di mantenere l'equilibrio al di qua, difendendo con l'intelligenza, non con le mani, il proprio cognome, la propria storia. E spedisca oggi un augurio e un ringraziamento a Dino. Omar Sivori, forse, aveva ragione.
  7. Il pallone di Luciano Rissa verbale nel tunnel a San Siro Ma solo a me hanno fatto la pelle di LUCIANO MOGGI (Libero 28-02-2012) Recitano alcuni blog a riguardo di Milan-Juve, «Immaginate cosa si sarebbe potuto scrivere se alla Juve ci fossero ancora Moggi e Giraudo». L’abbiamo pensato anche noi, vista la guerra senza esclusione di colpi. Galliani che s’infila nel sottopassaggio alla fine del primo tempo per gridare a Tagliavento «era dentro di un metro» non è consentito dal regolamento. Ci sembra comunque giusto rilevare come sul 2-0 poteva essere tutta un’altra partita a favore del Milan, tenendo anche conto del “bonus” che ha la Juve: il recupero col Bologna. Significa che lo scontro con i bianconeri valeva doppio, e vederlo a rischio per il gol non visto dall’assistente Romagnoli, ha fatto saltare i freni inibitori. Galliani doveva sentirselo, la Juve ha pareggiato nel secondo tempo e al Milan resta un pari mingherlino. La guerra è continuata a colpi di immagini spulciate in ogni fotogramma. Questo è un vizio del Milan e per esso di Mediaset, costò tre giornate di squalifica a Ibra all’epoca in cui vestiva la maglia bianconera. Ora la guerra viaggia ancora a fini di prova tv, chi ne ha fatte di troppe e di più, sicchè ai richiami da parte juventina di due botte date da Mexes e Muntari ad altrettanti bianconeri vengono proposte due gomitate di Pirlo che non sembrano tali. Infatti i provvedimenti del giudice vanno in quella direzione: tre giornate a Mexes, assolti Muntari per non essere riuscito ad abbattere l’avversario e Pirlo per non aver commesso il fatto. Per il resto c’è solo da vergognarsi. Quello che doveva avvenire con le squalifiche non è avvenuto. Nel caravanserraglio finisce anche Buffon: “non mi sono accorto del pallone dentro, ma se me ne fossi accorto non avrei dato una mano all’arbitro”. Apriti cielo, «fuori dalla Nazionale » il coro dei siti rossoneri. Buffon è ovviamente vittima della sua sincerità. Il quadro di baraonda è completato dalla cronaca “tifosa” di Pellegatti. Le scuse non cancellano gli insulti beceri e sguaiati a Conte. Nicchi, bontà sua, ha accusato il colpo, finalmente si è accorto che la sua squadra di arbitri, difesa ad ogni caduta come se nulla fosse successo, ha più crepe che pecche. Dice «il Dio del pallone non ci ha voluto bene» senza neppure immaginare come, il Dio del pallone, sia incazzato con quanti hanno contribuito a creare la farsa di Calciopoli, sono solo gli inizi di dimostrazioni atte a sconfessare il teorema. Poi dirotta su Buffon, «Sono deluso, il capitano della mia nazionale ha detto cose che si poteva risparmiare». Se qualcuno poteva risparmiarsi il commento questo era proprio Nicchi. Arbitri: posso convenire che «sono solo errori che possono capitare», ma si dovrebbe spiegare perché prima non era così, e si volevano vedere ad ogni costo complotti e macchinazioni. Sul punto sta zitto Moratti. Fino al 2006 i suoi fallimenti erano tutti colpa del “potere” della Juve, adesso dovrebbe guardarsi allo specchio, il fallimento di oggi appartiene a lui, come gli appartenevano tutti gli altri. Ranieri dice di sentirsi ancora sicuro in panchina, noi ne dubitiamo, vede la squadra in progresso. . . (avrà visto un’altra partita). Luis Enrique sarà anche “un uomo tutto d’un pezzo”, per dirla alla Totò, ma con De Rossi ha esagerato. Ogni forma di “punizione” deve salvaguardare l’interesse della squadra e non so che cosa ci stia a fare lì Baldini. L’allenatore va bene nella sua autonomia ma se questa confligge col bene del club deve prevalere il buon senso. Enrique non spiega una disfatta colossale, come se la difesa di un progetto dovesse giustificare ogni tracollo. «Aspiriamo al terzoposto » aveva detto Baldini prima della gara, «ci stiamo consegnando alla mediocrità» ribatteva Sabatini nel dopo, segno che nella Roma c’è confusione.
  8. Il commento Che Malinconia quando la Verita' Diventa un Tradimento di BEPPE SEVERGNINI (CorSera 28-02-2012) Il calcio è lo specchio deformato del Paese: non l'unico, di certo uno dei più interessanti. Possiamo non essere contenti dell'immagine che ci restituisce; ma quella è la nostra faccia. Se abbiamo ambizioni estetiche — o civili, se vogliamo uscir di metafora — è meglio non farci illusioni, e partire di qui. Non c'era bisogno di Milan-Juventus per capirlo. Nel calcio abbiamo trasferito alcuni meccanismi psicologici collettivi: tra questi, il tribalismo fazioso. L'eccitazione e la rassicurazione della tribù sono piaceri superiori a quello dell'obiettività e dell'onestà intellettuale. Noi tifosi siamo contradaioli senza cavalli e senza traguardi: la nostra corsa non finisce mai. C'è un aspetto romantico, nel tifo calcistico, che ha prodotto molti bei ricordi, tante buone amicizie e qualche bella pagina. Finché gli occhi, la testa e il cuore vedono e dicono le stesse cose, va tutto bene. Ma quando gli occhi e la testa sono obbligati a smentire il cuore, vengono zittiti. In materia di calcio, conta la fede. Che, come insegna la storia recente del mondo, non intende sentire ragioni. C'è addirittura un orgoglio intellettuale nel negare l'evidenza con eleganza. È lo stesso orgoglio che rende piacevoli certe vigilie allo stadio o certe serate al bar; e ha guidato la vita di tanti militanti politici. Trovare un modo di dar ragione alla propria parte anche quando ha torto! Questa è la sfida. Dopo lo spettacolo di sabato a San Siro — anche i disastri possono essere spettacolari — tutti danno addosso alla Juventus, agli juventini e all'allenatore Conte che, a dispetto del nome, non ha tenuto un comportamento aristocratico. È vero: c'è poco di cui andare orgogliosi. Mi chiedo però, e vi chiedo, cosa avrebbero fatto le altre tribù calcistiche, davanti a un errore arbitrale che, di fatto, assicura un pezzo del totem — scusate, dello scudetto. Noi ragioniamo, in queste materie, come uffici stampa, dedicati a un cliente che non ci paga. Della nostra squadra non siamo solo tifosi, siamo avvocati difensori: diamo ragione all'assistito oppure taciamo (solo in casi eccezionali rinunciamo all'incarico). È un destino amaro e romantico, che ci obbliga a sperare che l'assistito sia innocente. Alcune tifoserie, negli ultimi anni, sono state più fortunate di altre. Ma non è detto che vada sempre così. Dire la verità, nell'Italia faziosa, viene considerato un tradimento, se la verità danneggia la propria parte. Il bianconero Gianluigi Buffon e il rossonero Thiago Silva, nella loro ingenuità, hanno ben riassunto la questione. Buffon: «Non ho visto se la palla è entrata, ma non avrei aiutato l'arbitro». E poi, rispondendo al presidente degli arbitri, Marcello Nicchi: «Non ho capito che tipo di aiuto chiede, altrimenti arbitrano i giocatori. Sinceramente non capisco, è una retorica avvilente, stucchevole». Thiago Silva: «Anch'io avrei fatto lo stesso, il calcio è la mia vita è il mio lavoro, avrei fatto come lui, non avrei parlato». Onestà = retorica, nel calcio di oggi. E i tifosi — salvo eccezioni — si comportano allo stesso modo. Prima i colori, poi i principi. Ecco perché un aiuto tecnologico per gli arbitri è urgente e indispensabile, soprattutto in Italia. Perché aiuterà il cuore ad avvicinarsi alla testa. È malinconico, ma non sorprendente, che i calciatori siano disposti a dire qualsiasi cosa pur di non mettere in difficoltà la propria società: sono professionisti ben pagati. Ma che noi facciamo lo stesso, gratis e senza che ce lo chiedano: be', questo è più grave.
  9. CALCIOSCOMMESSE L’idea della procura di Cremona: amnistia sportiva per i giocatori che collaborano Di Martino: Darebbe la possibilità di ripartire da zero, senza danni I giovani non si vedrebbero interrompere la carriera di ANDREA RAMAZZOTTI (CorSport 28-02-2012) MILANO - Un’amnistia sportiva per favorire le confessioni dei giocatori. E’ questa l’idea lanciata dal procuratore di Cremona, Roberto Di Martino, per far decollare definitivamente l’inchiesta sul calcio scommesse e sconfiggere una volta per tutte il problema: «Secondo me - ha detto a Sky - sarebbe auspicabile un’amnistia sportiva. Dal punto di vista penale no, ma per un provvedimento simile consentirebbe un chiarimento, darebbe la possibilità di ripartire da zero, senza provocare danni a nessuno. Magari così facendo sarebbe favorita una sorta di moralizzazione e certi fenomeni che per lo sportivo corretto sono veramente fastidiosi, sparirebbero». Quella di Di Martino è tutt’altro che una provocazione. Il magistrato sa che solo facendo qualcosa per rompere il muro dell’omertà l’estensione del “cancro” calcio scommesse può venir fuori nella sua interezza. «E’ noto che i calciatori temano più la giustizia sportiva che quella ordinaria. Soprattutto i giovani, coloro che hanno ancora diversi anni di carriera davanti. Un’amnistia potrebbe essere un bell’incentivo a parlare. La Giustizia Sportiva può garantire sconti a chi è nel pieno dell’attività agonistica e di fronte a certi “incentivi” è possibile che coloro che hanno qualcosa da dire lo facciano. E’ già successo con Micolucci. Ecco perché sottolineo che l’amnistia potrebbe essere una soluzione». Naturalmente però il fenomeno scommesse va combattuto anche in altri modi: «Il problema è vasto ed esteso, non solo in Europa, ma anche fuori. Anzi, ci sono dei posti “esotici” dove i risultati si addomesticano ancora meglio perché le pressioni dei tifosi sono minori e i controlli più difficili e meno efficaci. Lì può succedere di tutto. E poi ci sono i famosi “over”, una scommessa per la quale l’accordo è più facile da raggiungere, un risultato per tutte le stagioni che frutta molti soldi». Dipendesse da lui, non sarebbe più possibile scommettere l’“over” nei vari campionati. Finale su Gegic che continua la sua latitanza: «Rispetto a giugno la sua posizione è molto peggiorata. Vuole chiarire costituendosi? Io al posto suo l’avrei già fatto. Per me comunque ha poco da chiarire visto il suo coinvolgimento, ma le sue confessioni potrebbero essere utili per ampliare il quadro, far venire a galla nuovi episodi e tante altre partite combinate». BARI CALDA - A Bari intanto i Carabinieri hanno sequestrato nella sede della società i contratti di alcuni calciatori tesserati nelle passate stagioni. Gli accertamenti della Procura vanno avanti ed è possibile che altri giocatori finiscano sotto la lente d'ingrandimento per match ritenuti combinati. Tra le ipotesi di reato anche la truffa ai danni del club di Matarrese. DOMANI AUDIZIONE DI DONI - Domani mattina a Milano presso lo studio del suo legale, Salvatore Pino, è in programma l’audizione di Cristiano Doni da parte della giustizia sportiva. Per la Figc saranno presenti il vice procuratore federale Squicquero e l'avvocato Pinna. In contemporanea a Roma ci sarà l'interrogatorio di Carobbio nella sede della Procura Federale. Ieri infine la Cremonese ha annunciato che ricuserà la sentenza del Tnas relativa alla penalizzazione di 6 punti e che chiederà la riapertura del caso con un altro giudice.
  10. IL CALCIO E LA QUESTIONE MORALE Quando Montero dichiarò: «Si può rubare» Il difensore della Juve disse: «Sono onesto nella vita, ma in campo io voglio vincere» di LUCA CURINO (GaSport 28-02-2012) Meglio una brutta verità di una verità falsa. Perciò è da apprezzare la sincerità con cui Buffon ha dichiarato che, se si fosse reso conto che quello di Muntari era gol, non l'avrebbe certo detto all'arbitro. E il modo con cui ha sottolineato il suo essere onesto «nel caso in cui» fa sorgere il dubbio che un piccolo dubbio, pur nella concitazione del momento, lì per lì sia venuto anche a lui. Bergamo, 1990 La sua dichiarazione ne riporta alla mente una fatta da Montero una decina d'anni fa in una delle sue rarissime e preziose conferenze stampa, preziose e rare proprio perché è uno incapace di false verità, delle banalità che intossicano il pallone. «Il calcio è dei furbi — ammise Paolo —. Se per vincere devo rubare, rubo. Io sono onesto e voglio essere un esempio nella vita. Ma non in campo, dove voglio vincere». Benché non fosse che la formalizzazione di quanto Franco Baresi e Alemao avevano già codificato in due diverse occasioni nel 1990 a Bergamo, allora si aprì il cielo, e già il fatto che a distanza di dieci anni la reazione non sia più la stessa potrebbe indurre a riflettere. Prescrizione Sbagliato, invece, sarebbe riflettere e malignare sulla coincidenza che a parlare così fosse un altro juventino. Quella volta questo giornale fece un'inchiesta tra i giocatori di Serie A e a chi scrive toccò raccogliere l'opinione in merito degli interisti: un florilegio di banalità, di verità sfacciatamente false. Tutto sommato il più onesto fu Gigi Di Biagio, che a taccuino chiuso disse: «La penso esattamente come Montero, e non credere a chi sostiene il contrario. Ma non posso permettermi di dirlo, dunque non voglio che si scriva». Oggi che il capitano azzurro ha definitivamente sdoganato e mandato in prescrizione il concetto, a distanza di tanto tempo si può scrivere. Mano de dios A questo i troppi soldi hanno ridotto non solo il calcio, ma anche altri sport, compreso forse quello chiamato vita (si vedano, per restare in ambito calcistico, i casi Terry-Bridge e Giggs-Giggs): pur di vincere, tutto è lecito. Il risultato conta più dell'etica (sportiva), fare sesso più dei rapporti di amicizia e parentela. Col bizzarro effetto di arrivare a concepire un paradosso come «sono onesto perché ammetto di essere disonesto». Ma molto meglio riconoscerlo, come ha fatto il Gigi nazionale, che comportarsi da struzzi (e chi non ha mai avuto un moto di compiaciuta indulgenza per la mano de dios scagli la prima pietra). Una falsa verità porta solo a perdurare nell'errore, mentre una brutta verità può servire a prendere atto di un problema, se lo si ritiene tale, e magari ad affrontarlo. Quindi bravo Buffon, bravo Montero, belle le sonorità, bravi tutti. Solo una cosa, però: in nome delle brutte verità, che la smettano di considerarli — e loro di proporsi — come degli esempi. E viva la verità!
  11. Non c’è Trippa per Boccolini (per non parlare della Juve) di RIO PALADORO (IL FOGLIO 28-02-2012) L’Anziolavinio pareggia contro il Cynthia, zero a zero a Genzano. Molto del merito è di Boccolini: a fine gara ho dovuto dargli otto in pagella. I castellani sono stati incolori, poca grinta, troppo attendismo. E’ vero, a metà primo tempo Mammetti ha avuto una buona intuizione ma quando scambi il lampione dietro gli spalti per l’incrocio dei pali ottieni il solo risultato di far ritardare la partita perché nessuno vuole scavalcare la recinzione e cercare la palla. Nella ripresa l’occasione migliore è degli ospiti. Ma Trippa rovina addosso a Boccolini che s’infortuna ma almeno fa salvo il risultato. Settimana prossima seguirò l’Orvietiana a Pontedera, a meno che qualche lettore del Foglio non dica al mio direttore che avevo ragione io (sulla Juve intendo).
  12. PUGNI e Caresse Quanta trippa per Pellegatti di ANDREA SCANZI (il Fatto Quotidiano 28-02-2012) LA PARCELLIZZAZIONE mediatica del calcio ha sdoganato una nuova figura professionale: il telecronista tifoso. Per iscriversi all’albo, aiuta conoscere la massima di George Bernard Shaw: “Per giocare a golf non è necessario essere imbecilli. Però aiuta molto”. La voce ufficiale del Milan è Carlo Pellegatti. Imperversa su Mediaset e Milan Channel. Di Pellegatti si ricordano vertici invidiabili, ad esempio il record mondiale di annuimenti durante le interviste a Galliani e Berlusconi, oppure gli scritti memorabili (dedicati ai cavalli) sulla Ġazzetta dello Sport, che dimostrano da soli perché l’ippica sia gergalmente presa come approdo ultimo dei senza qualità. È prassi dei telecronisti ultrà trovare un soprannome per ogni calciatore. Roberto Scarpini, desolante megafono interista, chiamava Materazzi “Matrix” (Keanu Reeves ha sporto querela). Pellegatti è più elegiaco: Laursen (sì, Laursen) era “Raggio di Luna”, Rui Costa “il Musagete” (dopo averlo saputo, il portoghese non ha più indovinato una partita). Sabato, dopo l’arbitraggio illuminato di Tagliavento e soci in Milan-Juventus, Pellegatti si è scagliato contro l’ameno Antonio Conte. Mediaset si è giustificata parlando di un fuori onda trasmesso per errore: ovviamente non ci ha creduto nessuno. Ispirandosi a un rapper afasico, Pellegatti ha ripetuto autisticamente la frase: “Che ingiustizia, che vergogna”. Poi se l’è presa con il tecnico bianconero: “Conte senza vergogna va a protestare!”. Quindi il crescendo rossiniano: “Conte è malato mentale! Vai e vai negli spogliatoi stasera, cązzo rompi i ċoglioniI stasera! Stasera muto e vai negli spogliatoi (. . ) Colpa di quel testa di cązzo! (..) Per fare inca**are Ambrosini ce ne vuole!” (notoriamente Ambrosini è uno dei giocatori più fumantini del Milan). A questo punto perfino Pellegatti si è reso conto di avere esagerato. Ha così biascicato uno straziante: “Non dir stupidate”. Parlava con se stesso, ma come spesso capita non si è sentito.
  13. L’AZZURRO Bonucci e l’ombra di Udinese-Bari di ANTONIO MASSARI (il Fatto Quotidiano 28-02-2012) Dalle inchieste incrociate sul calcio scommesse, quelle delle procure di Cremona e Bari, emerge il coinvolgimento del 23enne Leonardo Bonucci. Difensore della Nazionale, un passato nell’Inter e nel Bari, il nome di Bonucci non è stato inserito nel registro degli indagati, ma compare negli atti d’i n d agine. E su di lui sono in corso gli accertamenti degli investigatori. Il riferimento a Bonucci è legato alla presunta combine tra Udinese e Bari, terminata 3-3, nel campionato 2009/2010 di Serie A. La partita – già inserita nell’elenco di 150 incontri con flussi anomali di scommesse, consegnato dai monopoli di Stato alle procure – con le sue 6 reti rientra nella tipologia di scommessa “over”, la preferita dagli scommettitori legati al clan degli “zingari” che, stando all’inchiesta di Bari, non sarebbe stato l’unico gruppo interessato alle combine. La procura pugliese, infatti, indaga anche sul coinvolgimento dei clan mafiosi di Bari nella corruzione dei calciatori. ___ Udinese-Bari: spunta Bonucci La posizione del difensore attualmente alla Juve al vaglio degli inquirenti per il 3-3 del maggio 2010 di FRANCESCO CENITI (GaSport 28-02-2012) C'è un nome nuovo nelle carte che sta esaminando la Procura di Bari: Leonardo Bonucci. La posizione del giocatore della Juventus è al vaglio degli inquirenti che da oltre due anni stanno indagando sulle infiltrazioni mafiose nel mondo delle scommesse e su un numero consistente di partite combinate. Le prime indiscrezioni parlano di un possibile coinvolgimento del difensore per quanto riguarda Udinese-Bari 3-3, partita segnalata dal factotum Angelo Iacovelli al gip di Cremona, Guido Salvini, durante l'interrogatorio di garanzia dello scorso 7 febbraio. L'ausiliario aveva fatto mettere a verbale: «So che alcune amici scommettevano a nome di Andrea Masiello. Una circostanza avvenuta per Udinese-Bari. Andrea avrebbe poi riscosso i soldi delle puntate fuori da un noto ristorante». Il particolare era già noto ai magistrati del capoluogo pugliese tanto che nella lista degli attuali 17 indagati dovrebbero esserci proprio delle persone riconducibili agli ex calciatori del Bari. Oltre a Masiello, le indagini avrebbero portato alla ribalta anche Bonucci. Scommesse e combine Al momento il difensore della Nazionale (è in ritiro a Genova) non dovrebbe essere indagato, ma il pm Angellilis e il procuratore Laudati dovrebbero approfondire la sua posizione in tempi rapidi. Per gli investigatori un fatto è certo: diversi giocatori del Bari scommettevano. E lo facevano a credito presso alcuni ristoratori, una sorta di «centro raccolta» che piazzava le puntate in bookmaker sicuri (secondo la procura dietro questo movimento c'era il clan Parisi e quindi la criminalità organizzata che riciclava fiumi di denaro). Le persone scommettevano in nome dei calciatori e in caso di vittoria riscuotevano i soldi e poi li consegnavano. Non mancano gli strumenti per arrivare a scoperchiare questo giro: movimenti bancari, tabulati telefonici, intercettazioni e una serie di testimonianze. A partire da quella di Iacovelli, ma anche delle persone indagate che rischiano incriminazioni pesanti (l'ipotesi di reato prevede l'associazione per delinquere di stampo mafioso e il riciclaggio) a meno di una collaborazione proficua con i magistrati. Questa potrebbe essere l'unica strada praticabile per i calciatori indagati come Masiello, Marco Rossi, Bentivoglio, Parisi, Belmonte, Ghezzal, l'ex Marco Esposito, ma anche la new entry Portanova. Perché Bonucci Ma come si è arrivati al nome di Bonucci? La risposta è nelle carte dell'inchiesta. Gli inquirenti ritengono che molte partite del Bari dello scorso campionato siano state combinate e le «informazioni» vendute al miglior offerente per far cassa. Ma il fenomeno parte da lontano e affonda le radici in un'altra piaga: le scommesse. L'indagine dimostrerebbe che tutto parte da qui: molti calciatori si «divertivano» a puntare nonostante il divieto della giustizia sportiva. Per farlo si appoggiavano a gente «poco raccomandabile», per i magistrati veri e propri affiliati alla criminalità che offrivano la possibilità allettante di giocare su bookmaker sicuri e dal profitto alto. Seguendo questa traccia si è arrivati a una partita come Udinese-Bari 3-3, ultima giornata del campionato 2009-2010. Sfida senza assilli, con le due squadre già in «vacanza». Per Iacovelli alcuni calciatori decidono di sondare il terreno per organizzare un over (almeno 3 gol segnati). I riscontri porterebbero non solo a Masiello come ipotizzato da Iacovelli, ma anche a Bonucci compagno di reparto di una difesa (che quel 9 maggio non ha certo dato prove di affidabilità) era completata da Parisi e Belmonte, poi sostituito da un altro nome che compare nelle carte: Stellini, attuale vice di Conte alla Juve. Resterebbe da chiarire un solo tassello: hanno fatto tutto da soli oppure c'è stata anche una sponda da parte di qualche giocatore dell'Udinese? Nei prossimi giorni potrebbero esserci altre novità. ___ Scommesse Coinvolto anche Bonucci l´inchiesta arriva in azzurro Il pm Di Martino: "Al calcio serve un´amnistia" di GIULIANO FOSCHINI & MARCO MENSURATI (la Repubblica 28-02-2012) L´inchiesta sul calcioscommesse arriva in azzurro. Il difensore della Juventus, Leonardo Bonucci, è coinvolto nell´indagine condotta dalla procura di Bari. Il suo nome è finito agli atti in relazione alla gara Udinese–Bari del 9 maggio 2010, quando Bonucci giocava con la maglia biancorossa. La partita terminò 3-3. Le cronache sportive raccontano che fu la classica festa di fine campionato: il Bari voleva chiudere bene una lunga striscia positiva, Di Natale era sul punto di festeggiare i 100 gol in serie A, l´Udinese non aveva nulla da perdere e nulla da vincere. Le cose andarono spensieratamente in discesa, per tutti: un pareggio, tanti gol, tanto spettacolo e festa collettiva. Oggi si scopre però che probabilmente quella goleada non fu l´epilogo di una bella giornata di calcio ma il frutto di un accordo raggiunto sulla base di denaro messo a disposizione da alcuni gruppi di scommettitori. I primi a segnalare la gara alle Procure sono stati i Monopoli di Stato qualche mese fa, inserendola tra gli eventi delle ultime due stagioni che hanno fatto registrare flussi anomali di scommesse. Il secondo a elencare quella partita in un verbale giudiziario è stato Angelo Iacovelli, il facchino barese arrestato e poi scarcerato un mese fa, dopo aver svelato ai magistrati molti dei segreti del calcioscommesse italiano. Tra questi segreti anche quello di Udinese-Bari, partita taroccata. Non disse né come né da chi. Solo che, a quanto gli risultava, quella gara era stata decisa a tavolino ben prima del fischio di inizio. Da quel giorno i magistrati si sono messi al lavoro sulla traccia e ora sono arrivati ai primi, preziosi, riscontri. Particolari, cifre, nomi. Uno è, appunto, quello di Leonardo Bonucci, che secondo quanto risulta a una fonte qualificata, «avrebbe saputo per lo meno dell´accordo» tra le squadre. Al momento Bonucci non è indagato ma il suo coinvolgimento a livello di giustizia sportiva appare probabile (Palazzi procede anche solo per omessa denuncia), a conferma della necessità di trovare una via d´uscita "politica" a una situazione sempre più drammatica: «Il fenomeno è dilagante - ha detto a Sky ieri il procuratore di Cremona Roberto Di Martino - Il calcio forse dovrebbe pensare a un´amnistia per ripartire». In attesa delle mosse della Figc il procuratore di Bari, Antonio Laudati, è impegnato a ricostruire il flusso del denaro delle scommesse. Vuole cioè capire da chi provenivano i soldi, dato che l´ipotesi dell´accusa è che a tirare le fila del gioco sporco fossero le mani dei potenti gruppi mafiosi locali. Del resto la procura di Bari e quella di Cremona – che recentemente erano entrate in una sorta di conflitto di competenza proprio sull´inchiesta Calcioscommesse - sono addivenute ad accordo. Bari da ora in avanti procederà solo sulla parte relativa alle connessioni con i gruppi mafiosi del sud, mentre Cremona sull´associazione a delinquere internazionale, quella, per capirsi, che riporta direttamente agli "Zingari" e agli asiatici. Anche su questo versante l´inchiesta minaccia di avere risvolti piuttosto pesanti. Proprio in queste ore, ad esempio, gli inquirenti hanno maturato la definitiva convinzione che quel "Corvia" che sin dal primo istante era comparso nelle pieghe dell´indagine non fosse una millanteria di Paoloni, ma che si trattasse invece proprio di Daniele Corvia, centravanti del Lecce, ed ex Roma. Se ciò fosse vero (e a quanto pare ci sono anche dei riscontri tecnici positivi) mezza serie A tornerebbe d´improvviso a tremare: la posizione di Corvia era strettamente collegata a due partite fortemente sospette: Inter-Lecce 1-0, con i giocatori nerazzurri che si ritirarono dall´affare nel tunnel del Meazza. E Roma-Fiorentina: «Sarà over glielo, ha detto (a Corvia, ndr) il capitano della giallorossa», recitava una intercettazione del giugno scorso, recentemente recuperata dalla procura di Cremona. Quella gara finì 2-2. Over, appunto.
  14. 28 02 2012 Ma le polemiche non vanno in prescrizione Per chi ama il calcio ed è preoccupato dal precipizio che ha imboccato, l’ultimo fine settimana è stato fantastico: il sabato il gol di Muntari non concesso, le polemiche, gli insulti nel sottopassaggio tra dirigenti e staff tecnico di Milan e Juventus, gli strascichi che continuano. E continueranno. E Buffon, il portiere più famoso del mondo, che intona con sincerità un peana alla menzogna. O all’omissione, va... E la domenica l’arbitraggio di Gava a Siena e il rigore (non penalty) vittoriano di Luis Enrique con De Rossi, e le catastrofi annunciate di Inter e Fiorentina mentre risorge la Lazio e risogna il Napoli... Ragazzi, questo è il calcio di sempre, con gli arbitri discussi e sospetti, l’ipocrisia di tutto l’ambiente, le aggressioni verbali, i sentimenti e i risentimenti per un allenatore ecc. Siamo tornati o stiamo tornando finalmente a casa. Persino per quanto concerne il club compatriottico più titolato, che infatti dopo anni di magra ricomincia a far titolo e titolone dappertutto e per qualunque cosa, dentro e fuori dal campo: già, ma allora lo scandalo di Calciopoli con tutto il suo alone di giustizia sportiva e penale, i dubbi, le indagini taroccate ecc., insomma in un solo cognome che sembra sempre far saltare in aria qualunque ragionamento cioè “Moggi” (il virgolettato è ambientale, soggettivo e oggettivo, ognuno ci può leggere quello che vuole), quel famoso scandalo lì non è finito? PERCHÉ come ci insegna la dottrina se per una serie di delitti collegati viene arrestato il serial killer, processato e condannato, e i delitti continuano, o non era stato lui oppure ci sono in giro dei suoi “colleghi” ancora in attività. “In concorso”... e giacché giustamente si è parlato di uno scandalo di sistema perché riguardava il condizionamento dell’esito di più campionati attraverso designatori e arbitri, è evidente che il sistema è andato avanti nello stesso modo. A meno che non si preferisca sottintendere che ciò che prima, per Calciopoli, era mascalzonaggine e truffa più o meno mafiosa, sia stato oggi sostituito da “errori arbitrali” magari dovuti a “poca serenità per le polemiche dei giorni precedenti”. Credete che quest’ultimo doppio virgolettato me lo sia inventato? No. Sapete da dove l’ho preso? Citando un qualunque titolo o “catenaccio” o “sommario” o articolo di giornali precedenti a partite del periodo incriminato, quando Juventus e Milan si contendevano lo scudetto nell’era moggesca, con incursioni romaniste. Dunque non si inventa nulla. Ma il nocciolo resta intatto: come fossi Pollicino, sassetto a sassetto: la partita più importante di questa fase del campionato è di sicuro Milan-Juve. NON SI SA se risulterà decisiva, questo lo si vedrà poi. Rigori dati e non dati, la squalifica di Ibra non ridotta (ma anche qui un “déjà vu” con l’animale mitologico che però vestiva l’altra maglia...), le polemiche della vigilia, i condizionamenti tentati o supposti ecc. fanno da premessa al Meazza, con Berlusconi prescritto e di buon umore in tribuna con tanto di “salvacondotto”. Non gli basterà: prescritto immediatamente anche un gol, con il pallone che entra di mezzo metro, l’assistente Romagnoli (nel ruolo di uno di quelli che una volta “cinguettavano” con il Meani collaboratore milanista dello scandalo) che non convalida, l’arbitro Tagliavento (un Collina minore. . . comunque assai stimato e senza precedenti sospetti con i due club) che non fa una piega. E va tutto bene così? Intendo dire “così come sempre”? Con il solito contesto già descritto, simile a prima, un b.c., ma “before Calciopoli” (che avevate capito), che innamora? Ma come è possibile che non si mettano insieme le situazioni per confrontarle? Lo sceneggiatore sembra lo stesso, il copione lo conosciamo: e tutti rimuovono il parallelo? Perché? Non sarebbe utile per capire quanto il marcio di ieri permanga, oppure quanto dipenda oggi come ieri da approssimazione, cialtroneria, inadeguatezza, pressione eccessiva ecc.? Vedete, se si dimostrasse che chi ha respinto fuori quel pallone oltre a Buffon è stato l’occhio di un corrotto, o di un “affetto da sudditanza”, o trovate voi una definizione più “trendy”, sarebbe un paradiso: se lo provi è fatta e togli la mela marcia. Altrimenti è tutto nebuloso, dai contorni indistinti che arrivano sulla soglia del reato senza configurarlo: un ambiente che vive da sempre in questa penombra di lealtà sportiva dissolta, evocata solo a certe condizioni. PER ESEMPIO per Buffon: può il portiere/capitano della Nazionale dare un cattivo esempio o meglio non dare “accidiosamente” il buon esempio affermando che si guarderebbe bene dal dire “era dentro” durante la partita, dopo e nei secoli futuri? Ed è sincerità non ipocrita ammettere senza ambagi che non lo farebbe perché non gli conviene? È una questione di etica o di opportunità? Avrebbe fatto bene almeno a tacere o trincerarsi dietro un “non so”? E come si sarebbe comportato il suo omologo tedesco giacché oggi in tutto impazzano i confronti? E ha ragione un Baldini che dice di Luis Enrique “le regole vanno applicate anche se sconvenienti”, se cioè non convengono al club che infatti paga duramente l’assenza del mediano? Mentre squadra e tifosi metterebbero al rogo a Campo de’ Fiori il tecnico giordanobrunesco? Rimango della mia idea iniziale: in mezzo ai flutti polemici mi sembra il solito calcio, più o meno accettabile, ma il solito, Moggi o non Moggi, arbitri o non arbitri. Molto meno peggio di quello che si sta preparando o è già in atto con la cancrena delle scommesse: quelle sì si mangeranno il pallone in fretta, se le istituzioni sportive e la magistratura non correranno prima ai ripari. Anzi, già che ci siete, chiedete a Buffon invece che notizie di Muntari se sa qualcosa del calcio-scommesse...
  15. SPY CALCIO di Fulvio Bianchi (Repubblica.it 27-02-2012) Un calcio senza fair play Abete attacca la Lega di A Giancarlo Abete forse se lo sentiva. Ecco perché alla vigilia della supersfida di San Siro aveva messo le mani avanti, tanto da scatenare le (assurde) accuse da parte della Juventus. D'altronde, se non può parlare il n.1 del calcio. . . Ma Abete non si arrende di sicuro, non è nel suo carattere: ed ecco che oggi a Coverciano è tornato all'attacco della Lega di A dove parlano (e litigano. . . ) soltanto sui soldi da spartirsi e mai che discutano con serietà e serenità dei veri problemi del nostro calcio così rissoso. ''Milan-Juventus non è stato uno spot a favore del calcio e del fairplay per come è nata, maturata e per quanto è accaduto dopo'', ha sostenuto Abete. Poi l'affondo: ''Che cosa chiedo? Ai giocatori, ai tecnici e ai dirigenti di avere senso della misura, buonsenso e atteggiamenti responsabili, alla Lega di serie A, che si riunirà il 2 marzo, chiedo di fare una riflessione a 360 gradi sulle situazioni comportamentali, in modo che tutti ne siano consapevoli. Agli arbitri e agli assistenti chiedo di non commettere errori come quelli di sabato sera, errori importanti che pesano su una partita importante. E comunque, non era una finale di Champions o di Coppa del mondo, visto che il campionato è ancora lungo''. Insomma, la Lega nella sua assemblea dovrebbe parlare dei "sistemi comportamentali": Abete è in linea con Giovanni Petrucci, suo "sponsor" numero 1. L'assemblea è stata convocata per parlare della situazione del presidente Maurizio Beretta, fra chi è contro (per ora otto club) e chi è a favore o non si è ancora schierato. Parleranno anche di etica? Abete, come da noi anticipato ieri, inoltre spera che si trovi una soluzione per i gol-fantasma ma lo scontro è fra Blatter (a favore della tecnologia, ma chissà se è vero...) e Platini che ancora oggi ha ribadito la sua posizione per i due arbitri di porta. Antonello Valentini, dg della Figc, sostiene che qualsiasi soluzione potrebbe andare bene, "purché se ne venga a capo". E' vero, i due arbitri (e non assistenti) in più a partita possono creare problemi di reclutamento, e anche di spese. Ma la Figc è pronta farsene carico: pur non di vedere più partite come Milan-Juventus.
  16. Mi permettete di parlare con voi di calcio, come a una puntata di "Controcampo"? di GIAMPIERO MUGHINI (tiscali: opinioni 27-02-2012) Confesso che ieri, domenica 26 febbraio, m'è mancato molto di non esserci alla puntata di "Controcampo", la trasmissione Mediaset di cui sono stato ospite per tanti anni, un'esperienza professionale che ho chiuso due anni fa. Il calcio è uno sport bellissimo, e gli imbecilli che dicono di non amarlo non sanno che cosa si perdono. E quanto alla domenica sera, è difficile che ci sia un argomento da commentare in televisione più caldo e importante di quel che è successo sui campi verdi della serie A, un gioco e uno sport che coinvolgono circa trenta milioni di italiani. Domenica 26 febbraio avrei tanto ma proprio tanto voluto chiacchierare del Milan-Juve del sabato precedente e di quel che è successo in campo e fuori dal campo. Bellissima partita, non solo rovente. Premetto che in termini di lealtà sportiva, avrei preferito che Ibrahimovic ci fosse (eccessiva la sua condanna a tre giornate). Ovvio riconoscere che un Milan astrale ha dominato per 60 minuti buoni. Ovvio che se il gol validissimo di Muntari fosse stato riconosciuto da guardalinee ed arbitro e il Milan fosse andato sul 2-0, sarebbe stato difficilissimo per la Juve rimontare e pareggiare, e che di tutto questo giocatori e tifosi del Milan siano furenti. Per quel che mi riguarda, ancora una volta mi tolgo il cappello innanzi alla squadra e alla società rossonere, gente che ha fatto la storia del calcio italiano e che (a differenza di altre squadre) s'è cucita sulle maglie scudetti sempre meritati e strameritati. E invece non vanno bene certi atteggiamenti e certe parole usate ai bordi del campo o negli spogliatoi o ai microfoni televisivi. Dico subito che non mi riferisco all'intemerata in diretta di Carlo Pellegatti contro Antonio Conte. Conosco Carlo, so che è un bravissimo ragazzo e che quelle espressioni gli sono scappate in un momento di esaltazione e rabbia. Leggo da qualche parte che Conte ha intenzione di querelarlo. Se potessi direi a quello che chiamo "il capitano" (perché ai miei occhi continuava lui ad essere il capitano e anche se la Juve aveva affidato la fascia di capitano ad Alex Del Piero) di ripensarci e lasciar perdere. Le scuse fatte da Pellegatti bastano e avanzano. Di querele i tribunali italiani sono già intasati. Scuso meno Galliani per tutto quanto ha inveito contro la Juve. Da un uomo esperto come lui non mi aspettavo che offendesse quelli che fanno il suo stesso mestiere in altre squadre. E poi la questione è di fondo. Non è che ogni volta si possa trasformare il risultato di 90 minuti di calcio nella terza guerra mondiale. Quelli del Milan accusato la Juve di "arroganza". A dire il vero sabato sera nessuno si è tirato indietro in fatto di arroganza. Può darsi che Conte e la Juve avessero ecceduto in lamentele per il rigore e mezzo che la Juve non aveva avuto nella partita contro il Parma, e anche se ammetterete che sia un po' strano che in questo campionato che sta dominando dalla a alla z (con un possesso palla per partita del 61 per cento), la Juve abbia avuto in tutto un solo rigore a favore. Detto questo, pensare che guardalinee ed arbitro (il miglior arbitro italiano) abbiano sbagliato perché intimoriti dalle lamentele juventine di un paio di domeniche fa, mi sembra da babbei. Succede che gli arbitri sbaglino nel valutare le cose del campo. Talvolta sono sbagli grossolani. Talvolta sbagliano a favore dei tuoi beniamini, talvolta contro. Solo che il torneo si gioca in 38 partite e alle fine i conti si bilanciano Quanto agli errori dell'arbitro in Milan-Juve sono stati fondamentalmente tre. Avere annullato un gol buonissimo del Milan, non avere espulso Mexes per il gran cazzottone dato a Borriello, avere annullato un gol buonissimo della Juve. Vedo che Gigi Buffon viene criticato per avere ammesso che se avesse visto che la palla era dentro non lo avrebbe confessato all'arbitro. Qualcuno arriva a dire che Buffon non merita più la nazionale. Ecco, se Buffon avesse ammesso che la palla era dentro e poi l'arbitro non espelleva Mexes e poi non convalidava un gol buonissimo di Matri, Buffon sì o no avrebbe vinto l'Oscar per il giocatore più fesso al mondo? Plachiamoci. Evviva il grande Milan, evviva il calcio, evviva noi che lo amiamo. E vinca il migliore, com'è sempre stato.
  17. FIGC News In Breve Violazione regolamento agenti: un anno a Pasqualin e D’Amico 27/02/2012 Sospensione della licenza per un anno e 15. 000 euro ciascuno per violazione del regolamento agenti: sono queste le sanzioni adottate nei confronti degli agenti di calciatori Claudio Pasqualin e Andrea D’Amico dalla Commissione Disciplinare Nazionale, nella riunione odierna presieduta da Claudio Franchini. Per consultare il testo integrale del documento N.B. Deferiti anche i fratelli Capone (spettacolo!).
  18. Juventus e vecchi merletti di GIANFRANCESCO TURANO dal blog RAGÙ DI CAPRA 27-02-2012 In Borsa come in campo tira un’aria nuova sulla Juve di Conte e di Andrea Agnelli. Così nuova che assomiglia alla vecchia. Ecco qualche indizio. Indizio numero uno. San Siro, 25 febbraio, poco dopo le 21. La quaterna arbitrale non si accorge di un gol del milanista Muntari che avrebbe visto anche Stevie Wonder. Nel secondo tempo, un gol regolare viene negato al bianconero Matri. Pareggio dei torti? In realtà, il bilanciamento regge soltanto nell’arringa difensiva post-partita dei Gobbi. Il fuorigioco di Matri è questione di pochi millimetri. Il gol di Muntari è dentro di 1 metro, pari a 1000 millimetri. Altro indizio. Qualche giorno prima Andrea Agnelli si libera di un peso e beatifica l’asse di Calciopoli dicendo che Giraudo è un padre per lui e che Moggi era il migliore. La dichiarazione contraddice parzialmente quanto il Presidente bianconero ha detto per riconquistare lo scudetto perso a tavolino nel 2006, ossia che Moggi era una scheggia impazzita e che, se ha imbrogliato, ha imbrogliato in proprio e ad insaputa dell’azionista. Ma fa niente. Terzo e conclusivo indizio. La Juventus ha chiuso da poco l’aumento di capitale da 120 milioni di euro necessario a riparare le perdite di bilancio. Ci sono solo tre soci segnalati alla Consob al di sopra della quota di possesso del 2%. Uno è il socio di controllo, cioè l’Exor della famiglia Agnelli. L’altro è la Lafico, la finanziaria libica entrata nel capitale ai tempi di Gheddafi, con il 7,5%. Il terzo è un socio nuovo, inglese. Si chiama Lindsell Train ltd ed è una società londinese di investimenti privati che prende il nome dai due fondatori, i signori Mike Lindsell e Nick Train, appunto. Il loro mestiere è prendere i soldi dei clienti e farli fruttare attraverso investimenti in azioni. Di chi sono i soldi di Lindsell & Train? Inutile chiederlo a loro. Sono tenuti a non dirlo. Altra domanda. Quale cittadino italiano si è trasferito a lavorare a Londra dopo essere stato amministratore delegato e azionista della Juve? Domanda finale. A volte ritornano?
  19. Il posticipo_Milan-Juventus (La strada per San Siro, con Arturo Bandini Buffon) di FRANCESCO SAVIO dal blog Non c'è fretta 27-02-2012 Che Arturo Bandini puzzasse di pesce era cosa nota. Di sapone e di pesce per la precisione, a causa delle giornate trascorse a lavorare alla California Packing Company, la fabbrica per l'inscatolamento del pesce a Terminal Island, giornate alle quali seguivano ripetuti lavaggi che tuttavia non riuscivano a toglierli di dosso quell'odore forte di abitanti del mare. Sull'autobus la gente si allontanava da lui, al cinema i posti che confinavano con il suo venivano immediatamente abbandonati. Dentro uno stadio tutto esaurito, avevo pensato, vuoi vedere che stiamo più larghi. Così avevo convinto Arturo, 25 euro per un biglietto al terzo anello rosso gli erano sembrati un buon prezzo, anche considerando il fatto che se li era procurati vendendo gli unici gioielli di famiglia, rubati alla madre. Al monte dei pegni di via Capecelatro, l'ebreo arcigno oltre il banco l'aveva fregato, ma che importava con il biglietto fila 7 posto 21 fra le mani. Salendo rotatori una delle quattro torri dello stadio, Bandini mi aveva raccontato di aver fatto un sacco di mestieri per mantenere la famiglia dopo la morte del padre: spalatore di fossi, lavapiatti, scaricatore di camion, commesso di drogheria. Ma nessuno che si decidesse ad assumerlo come scrittore, anche perché Arturo non riteneva la sua prosa in vendita, scrivendo egli per la posterità: "Scrivo sia romanzi che racconti, sono ambidestro". Dalla vetta di San Siro, una partita deceduta veniva portata in vita al quattordicesimo del primo tempo da Beckenbauer Bonucci, abile prima a servire via Robinho l'avversario Nocerino con un grottesco disimpegno difensivo, poi a deviare sfortunato il tiro da fuori area del numero 22 rossonero alle spalle di Buffon. La Juve più brutta della stagione sprofondava, e il Milan pur senza mostrare un bel gioco raddoppiava con Muntari al venticinquesimo, pronto sottoporta a spingere in rete dopo una strepitosa respinta sulla riga del più forte portiere del mondo su colpo di testa di Mexes: Milan 2, Juventus 0. Il match pareva concluso, ma nel secondo tempo gli omini bianconeri reagivano di nervi sfiorando il goal con Quagliarella e pareggiando nell'ultimo quarto d'ora con una doppietta di Matri: al settantottesimo su imbeccata di Vucinic e all'ottantatreesimo in splendida girata su cross di Pepe. Riscendendo in circolo verso la terra da sopra illuminata con fari e sirene volteggianti, Bandini mi aveva sorpreso estraendo dallo zaino due fucili ad aria compressa. "Adesso sai che facciamo? Ci fermiamo in questo punto della torre e ci mettiamo a sparare addosso a tutti quelli che getteranno benzina sul fuoco di questo Milan-Juventus. Presidenti, dirigenti, allenatori, giornalisti corrotti e incapaci. Tieni il tuo fucile, e spara. Addio, codardi. Sputo su di voi, disgustato. La vostra codardia ripugna il Fuhrer Bandini. Odiosa gli è la codardia quanto gli è odioso un morbo. Non vi perdonerà. Possano le maree mondare la terra dal crimine della vostra codardia, canaglie".
  20. Beha: “Calcio nuovo e vecchie polemiche” di OLIVIERO BEHA (il Fatto Quotidiano.it 27-02-2012) Nell'ultimo fine settimana è successo di tutto. Prima il tribunale di Milano ha mandato in prescrizione il processo Mills, poi a San Siro è stato "mandato in prescrizione" il gol di Muntari. Un errore macroscopico, quasi ridicolo. Che tuttavia fa pensare che il calcio stia tornando meravigliosamente indietro. Le polemiche che si sono scatenate tra Milan e Juventus appartengono al calcio di ieri, così lontano da quello di oggi, segnato dalle scommesse e dalle riforme di Blatter e Platini. Il clamoroso errore di sabato sera fa venire in mente Calciopoli. Allora una domanda sorge spontanea: ora che non c'è più, chi è che gioca a fare il Moggi?
  21. Il commento Calciopoli non è finita: la Juve si sente una vittima, lei sola contro tutto il resto del calcio Quella ferita che non si rimargina mai di MARIO SCONCERTI (CorSera 27-02-2012) Tra la Juve e gli altri c'è un grande equivoco che impedisce comportamenti usuali. La Juve è convinta di essere stata truffata dal calcio, il calcio è convinto di essere stato truffato dalla Juve. La parte amara perfino della grande partita di sabato è questa. Siamo davanti a due vittime eterne, inconciliabili. Da una parte la Juve, dall'altra tutto il resto del calcio. Quando Conte dà del mafioso a Galliani è talmente improprio da poterselo permettere solo perché gli esce da una convinzione profonda, una specie di riflesso automatico. Eppure la Juve è stata condannata da qualunque giudizio ufficiale. Il Milan alla fine c'entra poco, è solo un accessorio di serata. È il Grande Caso Juve che continua ad allargarsi senza tregua, colpo dopo colpo. Una lotta dove non si può accettare di rimanere in silenzio perché il silenzio significa accettare la colpa. Così tutto in modo davvero pesante continua a rotolare su tutto. È una storia senza precedenti. Una società messa spalle al muro da qualunque giudice che risponde facendo causa alla federazione per 444 milioni. Cosa volete sia un guardalinee oscuro in questo ambiente? È stato Conte l'ultimo a evocare Calciopoli, ma chi segue il calcio sa che non c'è mai stata cenere, la fiamma non si è mai spenta, il caso Juve non ci ha mai lasciato. Con il tempo anzi le parti si sono mescolate. La Juve non pretende più innocenza, pretende la colpa degli altri. Gli altri vogliono solo la vergogna della Juve. È un caso infinito in cui cadono anche gli arbitri più innocenti degli ultimi vent'anni, semplicemente inservibili perché terrorizzati di essere confusi con la deriva. Quando Tagliavento sul gol di Muntari indica il centrocampo e un attimo dopo ascolta Romagnoli, rinuncia semplicemente alla sua potestà sulla gara. Teme eccessiva la sua presenza, lascia un po' di sé sulla schiena degli altri. In altri termini, scappa. Da questo ad arrivare alle risse in campo, alle offese negli spogliatoi, è solo una conseguenza naturale. Il problema è incancellabile, come un vero grande dilemma religioso. Non può avere verità, solo interpretazioni, ma queste allungano la pena. E non c'è concilio che possa imporre l'obbedienza. Siamo ormai incartati in una pena che ci blocca, in un'eterna compassione di facciata dove i tifosi più assidui e insistenti dettano i tempi della vulgata. Non c'è remissione dei peccati, siamo diventati un calcio cattivo, pieno di dannazioni insuperabili. L'Inter intanto prosegue la sua missione di allontanarsi dal terzo posto, altra sconfitta e altra partita senza reti. Vanno avanti Udinese e Lazio. Fiorentina e Bologna guardano con apprensione il Lecce vincere a Cagliari e riportarle dentro il rischio. Prosegue il lungo attimo del Napoli. Il Palermo subisce un pessimo arbitraggio a Siena, ma nessuno se ne occuperà.
  22. Dal Friuli alla Juve una vita tra i pali Zoff, 70 anni da n. 1 “Il mio calcio silenzioso” La festa del Mito: “Per diventare qualcuno ho dovuto vincere un Mondiale” di MARCO ANSALDO (LA STAMPA 27-02-2012) Dino Zoff, 40 anni e non sentirli»: era la pubblicità di un olio di cui lei fu testimonial dopo il Mondiale dell’82. È così anche con i 70 anni che compirà domani? «Questi li sento di più. Mi barcameno con il golf, il nuoto e il tennis ma so quale stagione sto attraversando». Come invecchia un monumento? «Serenamente. Mi fa ridere chi a una certa età insegue ed accantona i soldi come se non dovesse mai morire: nella cultura contadina si sa che le stagioni esistono in natura e nella vita. E con quanto ho ricevuto, sarebbe un delitto lamentarmene». Molti suoi coetanei non riescono a staccarsi dal calcio, lei lo ha fatto nel 2005 quando chiuse con la Fiorentina. Perché? «Non mi sono mai dannato per avere un posto e ho continuato a non farlo. Comunque non c’era la fila per cercarmi: ho avuto qualche proposta da Nazionali un po’ sfigate. E basta». Eppure lei è stato un buon allenatore: vinse la Coppa Italia e la Uefa con una Juve appena discreta e a 15" dalla fine era campione d’Europa con la Nazionale. Forse la grandezza del calciatore ha schiacciato l’immagine del tecnico? «Ero visto come l’esponente di una generazione vecchia di allenatori, io dicevo contropiede e non ripartenza mentre il nostro mondo chiede enfasi ed entusiasmo nelle parole. Io di entusiasmo ne avevo in modo esagerato, ma per la sostanza». È stato l’unico a dimettersi da ct per una critica. Non fu un’esagerazione? «Non accettai l’offesa di Berlusconi all’uomo, disse che ero inadeguato e che si vergognava di me». Poteva replicare. «Non capivo cosa c’era sotto: ho pensato a tante cose. Diciamo che con il mio carattere poco malleabile faceva comodo a tutti che me ne andassi. Infatti la Federcalcio non mi difese. Preferii dimettermi e fu un gesto rivoluzionario perché nel calcio si litiga su tutto senza arrivare mai alla rottura. Io ci arrivai». Trapattoni era più malleabile? «Ha una furbizia straordinaria, tutto ciò che fa e dice è in funzione degli effetti che produce. Come la tirata su Strunz». Lei ha giocato 11 anni senza saltare una partita. Era di ferro? «No, ero uno sciocco. Anch’io stavo male ma quando lo dicevo al Trap lui replicava “davvero non te la senti di giocare”? Così andavo in campo e la responsabilità della decisione diventava mia» Ma perché si rendeva disponibile? «In fondo mi piaceva poter pensare "io c’ero" e poi fa parte delle regole della vita: gioca chi dà più garanzie». A luglio saranno passati 30 anni dalla vittoria del Mondiale, nel 2013 altrettanti dal suo ritiro. Come starebbe nel calcio di oggi? «Non sono un cavaliere dell’800 però faticherei ad abituarmi alle cose che ho sempre combattuto: i balletti dopo un gol, le sceneggiate per una spinta o uno sputo che ormai fanno quasi parte dello spettacolo» Quale è stato il massimo della sua esultanza in campo? «Il bacio a Bearzot dopo la vittoria sul Brasile nell’82. Fu un gesto al di fuori del nostro pudore friulano» Un pudore generazionale. Rivera disse di vergognarsi per i pugni alzati dopo il gol del 4-3 alla Germania. «Però adesso va a ballare in tv. Non è da mito del calcio» Da mito, non sarebbe stato meglio chiudere con il Mondiale? «Fangio diceva "potrei ancora correre ma non sono più i miei tempi" ma io non sentivo che non lo fossero più. Nell’ultimo anno mi diedero responsabilità che non avevo. Nel ’78, in Argentina, posso aver sbagliato. Nell’83, sul gol di Magath, no. Era la Juve più forte di tutti i tempi ma quella sera non fu in campo». In una settimana disse addio a Juve e Nazionale. Come visse quei giorni? «Col mal di cuore, si chiudeva la parentesi più straordinaria della mia vita. Da ct dicevo sempre ai giocatori: “cercate di fare bene perché in futuro potrete avere successo in altri campi ma niente vi darà più la soddisfazione che provate giocando”». È vero che appese i guanti al chiodo e non li indossò più? «Feci ancora 2 partite: a Zurigo per l’anniversario della Fifa e a Bologna per un’Italia-Germania. Ma con gli amici non giocai più in porta. Mi pareva di sporcare la sacralità del ruolo». Si riconosce nella definizione di John Wayne del calcio? «John Wayne interpretava chi è alla ricerca del giusto anche se non lo raggiungi mai. Ho sempre cercato di stare nelle regole dello sport come della vita anche nel saper vincere, che è difficilissimo: nel successo tanti vanno fuori di testa». Lei disse: a questo mondo l’uomo vero passa per banale. «Fu una forzatura dopo la morte di Scirea vedendo la corsa a santificarlo di chi fino al giorno prima non lo considerava. Feci un intervento molto duro dal palco di un premio con il suo nome. Tra le autorità scese il gelo ma la gente applaudì: io sono sempre stato qualcuno per la maggioranza silenziosa». A proposito di Scirea: cosa si rimprovera della sua morte? «Ho il rimorso di non essermi opposto con più forza al suo viaggio per vedere gli avversari in trasferta. Lo ritenevo superfluo». Per restare a quei tempi: è vero che con Boniperti erano scintille? «Soprattutto quando fui allenatore. È stato un grande dirigente ma quando non gli si dava ragione si arrabbiava ai limiti dell’isteria e a me non piaceva» Non pensa che di lei si sia esaltata la serietà più della bravura? «Non ho voluto essere personaggio in un mondo che ha bisogno di esaltarne. La mia forza è stata solo nei numeri, ho dovuto vincere il Mondiale per diventare qualcuno anche se mi hanno inserito tra i migliori atletie calciatori del Novecento. Forse essere seri e bravi da noi è giudicato troppo». Conferma il giudizio: Buffon da giovane era più bravo di me, poi lo sono stato io? «Da giovane è stato più forte di tutti quelli che ho conosciuto, dopo io sono durato più a lungo. Buffon esce ora dagli infortuni che l’hanno frenato: diciamo che sta tornando ad essere come fu Zoff da vecchio».
  23. L’intervista TRAPATTONI Domani compie 70 anni Dino Zoff, il monumento del calcio italiano E Giovanni Trapattoni, a lungo suo allenatore alla Juve, racconta una carriera e un’amicizia: “Quando apriva bocca, gli altri stavano zitti. Questo è il capitano: uno che non dice stupidaggini” Caro amico Dino di GIANNI MURA (la Repubblica 27-02-2012) Caro Trapattoni, vogliamo augurare buon compleanno, e sono 70, a uno che conosce bene? «M´invita a nozze. Auguri, Dino. Pubblicamente. Poi ci sentiamo in privato». Da quanto tempo vi conoscete? «Non è che prendessi appunti, lui era in porta al Mantova e io giocavo nel Milan. Si capiva che avrebbe fatto strada, doveva solo maturare. È maturato a Napoli. Quand´è arrivato alla Juve mi ha chiesto: come mi regolo? Devo darti del tu o del lei? Mi sono messo a ridere: ma dài, Dino, abbiamo giocato insieme dandoci sempre del tu, vuoi cambiare adesso? Non scherziamo. È inutile ricordarti il rispetto dei ruoli». Era inutile, in effetti. «Lo so, ma qualcosa dovevo pur dire. Vede, io con Zoff ho avuto un rapporto molto bello fin dagli inizi. Avevamo una cosa in comune: il padre contadino. E poi ho verificato che tra bergamaschi e friulani ci sono altre cose in comune: il saper lavorare anche tanto, ma senza lamentarsi, e il rispetto per gli altri». Due ruoli diversi, però. «Il portiere è un calciatore diverso da tutti gli altri. È un uomo solo. Deve avere una forza interna che lo tiene su, quando un altro si demoralizzerebbe. Anche a Dino sono capitati episodi negativi, dai cinque gol che beccò all´esordio, a Firenze, a quello di Magath ad Atene. Ecco un´altra cosa in comune: Atene è il nostro ricordo più brutto». Era parabile il tiro di Magath? «No, son passati quasi trent´anni e non cambio idea. Tiri gobbi, li chiamo. Nei campionati britannici se ne vedono ancora molti, qui sono abituati a tirare da tutte le parti. La valutazione visiva di un portiere, ho parlato con degli specialisti, non è la stessa di uno spettatore. Questi tiri gobbi, di collo pieno, sembrano destinati ai piccioni e s´abbassano di colpo. Dino era piazzato correttamente, Magath ha indovinato l´angolino alla sua sinistra». Brucia ancora? «Tantissimo. Era una grande Juve, arrivò in finale senza perdere mai. Me la sentivo, l´ho detto chissà quante volte a Boniperti: questi ci fanno uno scherzo da prete. Infatti hanno vinto con un tiro in porta. Noi potevamo segnare di testa con Bettega, c´era un rigore su Platini, ma è inutile rivangare. Il calcio è anche questo. Bisogna accettarlo e guardare avanti». Un mese dopo Atene Zoff annuncia il suo ritiro. Ha fatto bene? «So che avrebbe voluto continuare, che non si sentiva un pensionato, e che ha smesso per rispetto della Nazionale e del titolo di campione del mondo. Non lo critico per questo, è una decisione sua. Qui al nord c´è più rispetto per gli anziani, non sono visti come fossili ma come esempi di attaccamento alla maglia, allo sport. So di non essere originale, ma Dino è stato un grande calciatore e un grande esempio. E poi ha fatto bene anche da allenatore e da dirigente. Mica facile. Come calciatore, nel suo ruolo non faceva certo la gioia dei fotografi. Il famoso volo plastico, nemmeno a pagarlo che lo faceva. Era tutto concentrazione e senso della posizione. In più, estrema professionalità. Ha fatto campionati interi, al Napoli come alla Juve, senza saltare una sola partite. Mai un raffreddore, un reumatismo. Niente. E sa qual era la fatica maggiore, quando lo allenavo?». Farlo parlare? «No, farlo smettere di allenarsi. Avrebbe fatto notte. Dovevo sempre dirglielo due o tre volte: oh, Dino, dopodomani giochiamo, tieni qualche parata per domenica. Poi, detto tra noi, non è obbligatorio che il capitano sia uno che racconta le barzellette. È vero che Zoff parlava poco o niente, ma appena apriva bocca tutti gli altri stavano zitti e non solo i giovani, anche Platini e Boniek. Questo è il capitano: uno che non dice stupidaggini. Nel calcio contano anche i numeri: se nelle squadre di club Dino inizia e chiude in modo amaro, con la maglia della Nazionale vince gli Europei a 26 anni e chiude a 40 da campione del mondo. E tutti abbiamo in mente il pallone che inchioda sulla linea all´ultimo minuto su un colpo di testa dei brasiliani. Per molti, Dino era da pensionare dopo Argentina ‘78. Ma il tempo sa essere galantuomo». E lo Zoff allenatore? Lei si sarebbe dimesso dopo le critiche di Berlusconi? «Io no, ma capisco Zoff: l´aggettivo indegno non poteva accettarlo. L´avvocato Agnelli diceva: l´italiano offende chi può, non chi vuole. E io lo tengo a mente. In generale, se un pirla mi dà del pirla non faccio una piega, mi entra da un´orecchia e mi esce dall´altra. Veda di metterlo in un italiano corretto». È più efficace così, direi. «Va be´, solo che in quel caso Berlusconi non era un pirla ma copriva un ruolo istituzionale, e questo ha reso le sue frasi molto più pesanti. E comunque, visto che stiamo parlando dei settant´anni di Dino, gli voglio dire che tirarsi fuori dal calcio è stata una scelta giusta. Oggi non riuscirebbe a starci dentro». Lei sì, però. «Io sì, ma non in Italia. In Irlanda. Non mi avrete mica preso perché sono nato il giorno di San Patrizio, vostro protettore? Io sono Giovanni il peccatore. Così ho detto il primo giorno, una risata non fa mai male. E qualcosa di buono ho combinato: da trentaquattresimi a ventesimi nel ranking mondiale, qualificati per gli Europei e se non c´era la manina di Henry andavamo anche ai Mondiali. Il mio vecchietto, e me lo tengo stretto, è Robbie Keane, 32 anni, ma ha sfondato così giovane, come Franco Baresi, che rischia di passare per Matusalemme». Cosa non va, in Italia? «È un calcio svilito sul piano comportamentale. A un tecnico si richiede sempre più pazienza, più capacità di mediare. Non solo in Italia. Prenda Platini, uno dei più intelligenti che ho allenato. Aveva tutto per essere un ottimo allenatore ma ha smesso quasi subito. Perché ha capito che era un mestieraccio. La cosa più complicata è fare i conti con un ambiente che ha un codice etico diverso dal tuo. Con certi frillini sofisticati smussi, limi, abbozzi e prima o poi sbotti, perché rodersi il fegato e star zitti è peggio. È un mestieraccio ma ci sono affezionato e non saprei farne un altro». La storia Piloni, l´eterna riserva "Io per lui non esistevo" All´ombra del Mito: "Come stare in un imbuto" di MAURIZIO CROSETTI (la Repubblica 27-02-2012) E poi c´era anche lui. Con quella tuta celeste che pareva un pigiama, a bersi tutta l´ombra che le leggende si lasciano dietro, una corrente che porta via ogni cosa. Perché il prezzo della gloria lo paga sempre la gente comune. La luce abbagliante di Dino Zoff gli cadde addosso come un sacco, e Massimo Piloni ci restò dentro per anni. Era il portiere di riserva, ma Zoff avrebbe giocato anche da moribondo, anche nel sonno, anche a briscola. Non gli serviva a niente, una riserva. «Ero grande e grosso, però agile. Se la Juve mi aveva scelto, vuol dire che mi stimava. Nella vita bisogna conoscere il proprio ruolo, e il mio era essere la riserva di Zoff». Il dodicesimo, come si diceva allora. «Fu importante, fu come scivolare dentro un imbuto». Di lui hanno memoria i bambini di cinquant´anni, quelli che lo spalmarono sull´album a partire dalla stagione 1971-72. Piloni aveva una faccia senza sorriso. Tre scudetti nell´imbuto e zero presenze. «C´era quest´amichevole ad Ancona, la mia città. Speravo che Zoff mi cedesse il posto, invece volle giocare lui a tutti i costi. Una delusione come fosse ieri». Poi i giorni passano, aspettando quello che non verrà. Massimo Piloni si sedeva sulla panchina e tirava fuori la radio, se la metteva all´orecchio come un pensionato ai giardinetti e ascoltava Tutto il calcio minuto per minuto. Il suo compito era aggiornare la squadra sui risultati degli altri. Gregario anche in questo. «Ma io mi vanto di quegli anni, ero sempre pronto, facevo vita da atleta più di tutti, perché se mi avessero chiamato sarei stato pronto, perfetto, in forma. Non mi chiamarono mai». I tartari non vennero, ma ecco Piloni sempre di vedetta, con la mano a visiera. L´ombra, non solo negli occhi. «Con Dino non parlavo mai di me, la sensibilità avrebbe dovuto averla lui, quella di accorgersi ogni tanto che esistevo. Ma Zoff non era così sensibile. Una volta giocò una semifinale di Coppa Italia togliendosi il gesso dalla mano, perdemmo 2-3 in casa. Credo che se lui è stato così grande, un po´ di merito l´ho avuto anch´io, non gli ho mai dato fastidio». L´uomo della radiolina si levò il pigiama solo due volte, le uniche da titolare: in Coppa Italia con il Cesena e prima dell´arrivo di Dino in semifinale di Coppa delle Fiere a Colonia, 1-1 il punteggio: «Fui un drago, il migliore in campo, parai tutto e anche di più». Ma il destino è come il tempo, è come un portierone friulano, è troppo forte e senza sensibilità: «Mi ruppi il polso prima della finale contro il Leeds che sarebbe toccata a me, lui non era ancora arrivato, io persi la partita e la Juve la coppa». Massimo Piloni detto Pilade. «Sarà lui il futuro della Juve», annunciò un giorno Boniperti. Poi prese Zoff. Pilade ebbe una sorte simile, ma peggiore, di quella delle altre riserve del mitico, Alessandrelli e Bodini, divorati dalla mantide. Però Piloni di più, Piloni peggio. Gli hanno pure dedicato uno spettacolo teatrale, Perseverare humanum est. Non più un giocatore di pallone ma una metafora, forse una vittima, più probabilmente un eroe della resistenza, della cieca fiducia, perché domani sia migliore. Non lo è quasi mai. «Per giocare dovetti andarmene». Si fece crescere la barba e passò al Pescara: con quella faccia nuova, piena di setole, finalmente era un altro, finalmente era lui. «Titolare tre anni su tre, 107 partite su 108, la storica prima promozione in serie A, tra i pali anche con uno strappo all´inguine. Ero bravo, lo ero sempre stato, ora però si vedeva. Un giornalista di Pescara chiese a Zoff: com´è, questo Piloni? E Dino rispose non so, non lo conosco bene, eppure mi vedeva in allenamento ogni santo giorno». Il resto fu un viaggio nuovo, fuori dall´ombra del mito, fuori dall´imbuto, nella luce tremula che si riverbera in periferia: Rimini, Fermo, poi la carriera da preparatore dei portieri, Perugia, Catania, San Benedetto, anche in Scozia, al Livingston. «Ho lavorato con allenatori del calibro di Mazzone, Reja, Cosmi, Boskov, modestamente ho allevato portieri come Iezzo, Mazzantini, Pantanelli, Storari». Storari che è una specie di moderno Piloni, visto che fa la riserva di Buffon alla Juve: al destino piace girare in tondo. «Vorrei ancora stare in campo, ho solo 64 anni, però non si trova lavoro. Comunque nessun rimpianto: io ero quello che sono stato». E Zoff? Mai più sentito? «Un giorno andai a trovarlo a Roma, quando Dino allenava la Lazio. Mi presentai al campo, gli dissi ciao, mi rispose ciao. Poi si mise a leggere il giornale».
  24. L’INTERVISTA MARTEDÌ È IL COMPLEANNO DELL’EX C.T. AZZURRO Il portiere festeggia il traguardo Zoff Cin cin 70: «Viaggio tra i miti» «Ho conosciuto Jascin, Cruijff, Totti, Buffon... E una parata da Oscar m’ha lanciato tra i grandi» di ALBERTO CERRUTI (GaSport 26-02-2012) Non aveva mai parlato tanto come in questi giorni. Nemmeno nel 1982, in Spagna, quando era il capitano che rappresentava i compagni in silenzio stampa. Ma settant'anni sono un bel traguardo e Dino Zoff lo para volentieri, saltando da un palo all'altro dei suoi ricordi, con lo stile di sempre, asciutto ed efficace. Lo stile di un campione che ha saputo vincere in campo e nella vita, come marito, padre e nonno sereno. Buffon in un'intervista in tv si è immaginato più vecchio di 40 anni, lei che cosa farebbe se tornasse indietro di 40? «Per l'amor di Dio, non ho mai fatto voli di fantasia, specialmente sul lavoro, si figuri se li faccio adesso». Nell'amichevole di mercoledì, Buffon la supererà nel numero di presenze in Nazionale: contento o un po' geloso? «E' logico che mi superi, perché adesso si gioca di più. Ma a me rimane il record di 330 partite consecutive con la Juve e quello sarà difficile da battere». Si ricorda la prima partita vista da ragazzo? «Avevo 12 anni e da solo, quasi di nascosto, andai nel bar strapieno del mio paese, per vedere il Mondiali del '54. Era tutto un circo, allora». Quando è andato allo stadio l'ultima volta? «Tre anni fa a Roma per la finale di Champions Barcellona-Manchester United. Un'eccezione, perché preferisco la tv». E davanti alla tv per chi tifa? «Mai stato tifoso, a parte quando ero ragazzino ed erano tutti juventini dalle mie parti. Al massimo provo simpatia per le squadre in cui ho giocato, perché sono stato bene ovunque». Lei è stato bene ovunque, ma a quale città è più legato? «Vivo bene a Roma, anche se mi sento sempre friulano. A Udine vado a trovare mia sorella e quando torno rivedo tutti i ricordi degli anni verdi». Lei ha sempre amato le auto: qual è stata la più bella che ha avuto? «Ricordo una 850 Abarth, ma anche la prima Giulietta non era male». E qual è stato il pilota che ha ammirato di più? «Il mio idolo era Jim Clark, mentre oggi mi piacciono Lewis Hamilton e Sebastian Vettel». Tra i campioni degli altri sport chi avrebbe voluto conoscere? «Coppi. Ricordo le discussioni al bar tra i coppiani e i bartaliani, ma io ero per Coppi». Nel 1942 sono nati anche Ali, Agostini, Facchetti, Gimondi, Mazzola, Reutemann: a chi si è sentito più vicino? «Sicuramente non a Cassius Clay. Mi riconosco di più in Gimondi». Che cosa la inorgoglisce di più dei suoi 70 anni? «Il fatto di avere sempre fatto le cose per bene». Qual è il complimento che le fa più piacere? «Sentirmi dire che sono sempre rimasto lo stesso, senza montarmi la testa». Qual è, invece, la critica che la disturba? «Non mi piace passare per orso, perché non mi sento un orso». C'è stato qualcuno, o qualcosa, che l'ha fatta arrabbiare? «Nel ‘68 avevo vinto l'Europeo, poi ho giocato tutte le gare di qualificazioni al Mondiale del '70, ma lì Valcareggi scelse Albertosi. Rimasi molto male, però a mente fredda capii che non era stata un'ingiustizia perché Albertosi aveva appena vinto lo scudetto con il Cagliari e lì c'erano molti suoi compagni». Qual è stata la squadra più forte che ha visto? «La Juve che perse la finale di Atene nel 1983. Tra le straniere dico l'Ajax di Cruijff». Non si è mai pentito di avere dato le dimissioni da c.t. della Nazionale, dopo le critiche di Berlusconi? «Forse non erano da dare, ma non potevo non darle, perché erano critiche all'uomo, non alle tattiche». Poi anche Berlusconi ha dato le dimissioni... «Lui è stato costretto, è diverso». Se lo incontrasse che cosa gli direbbe? «Ma io non lo incontro». Come c.t., dopo aver allenato Baggio, in quell'Europeo aveva Totti e Del Piero: chi sceglie? «Totti è stato un fenomeno di tecnica e potenza, peccato che non abbia avuto più successo a livello internazionale». Giochino dei migliori: il miglior compagno? «Segato all'Udinese, perché mi sosteneva nei primi momenti difficili». Miglior portiere? «Jascin, l'unico Pallone d'Oro». Miglior avversario? «Cruijff». Miglior c.t.? «Bearzot». Miglior allenatore di club? «Capello». Miglior presidente? «Bruseschi, l'unico a credere in me a Udine. Piangeva mentre mi diceva che era costretto a cedermi al Mantova, perché lì non mi volevano più. Venivo da un campionato balordo, ma lui vedeva lontano». Anche lei aveva visto lontano con Buffon... «Capii subito che sarebbe diventato il miglior portiere italiano». Parliamo del Mondiale vinto: la parata su Oscar è sempre la più bella, o ce ne sono state di migliori nella sua carriera? «È stata la più importante e la più difficile. Se non avessi trattenuto quel pallone, adesso non starei facendo questa intervista e non sarei stato invitato a Vienna nella serata in cui la Fifa ha radunato i 50 campioni di tutti gli sport». E il ricordo più dolce del 1982? «Quella sigaretta fumata la notte del trionfo a Madrid, in camera con Scirea. Nessuno sapeva trasmettere serenità come Gaetano, sorridente e pacato come nessun altro». Quanto le manca Bearzot? «Per me è stato come un padre e non è la solita frase. Sprigionava un alone quasi di santità, con la sua onestà feroce. Oggi molti si lamentano delle critiche, ma nessuno è stato linciato moralmente come lui, offeso a livello umano con una cattiveria oggi inimmaginabile». Che cosa avrebbe detto Bearzot a Ibrahimovic dopo l'ultima squalifica? «Gli avrebbe parlato un po' scherzando e un po' seriamente. Ma credo che con lui non sarebbe successo nulla, perché Bearzot sapeva prevenire i problemi con il suo esempio contagioso». Oggi si emoziona ancora? «Quando vedo giocare Messi, poesia pura». Per concludere, con quale aggettivo si definirebbe? «Serio, anche se ormai non si usa più». laLettera di JOSEPH BLATTER (Presidente Fifa) Un campione vero, anche come uomo Caro Dino, Di cuore tanti auguri per il Suo 70° compleanno. Potrei elencare tutte le vittorie che Lei è riuscito a ottenere grazie alla sua bravura, il Suo talento e la Sua caparbietà di affrontare qualsiasi ostacolo - quasi spudoratamente. Sì perché ci vuole un bel coraggio per presentarsi a un Mondiale con più di 40 anni come fece Lei nell'82. E voler vincere la massima delle coppe nel calcio internazionale. Tutti oggi sappiamo che Lei non era spudorato ma, se mai, tutti noi ingenui: non è l'età che conta bensì la qualità. Incredibile come riuscì a salvare quella palla di Oscar, un colpo di testa nell'angolo basso, ai Mondiali in Spagna. In Brasile se lo ricordano ancora oggi. La Sua qualità che personalmente stimo di più però è un'altra: la Sua autenticità. Essere, non sembrare. Gentiluomo dentro e fuori dal campo. Non per convenzioni, ma per convinzione. In un mondo sempre più chiassoso Lei si è sempre fatto sentire con parole dosate, equilibrate, giuste. Non bisogna alzare il volume per essere sentiti. L'importante è il contenuto. A prescindere da tutte le coppe e tutti i trofei che uno può vincere: è proprio questo che distingue il presunto campione da quello vero. Bon anniversaire! Auguri!
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