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Ghost Dog

Tifoso Juventus
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  1. SPY CALCIO di Fulvio Bianchi (Repubblica.it 28-01-2012) Dopo la confessione di Doni ora Palazzi si mette al lavoro (Palazzi in arretrato anche causa recente disputa tra Romolo e Remo, ndt) Doni, Masiello, Marco Rossi: il fronte dell'omertà finalmente si sta rompendo e i calciatori corrotti cominciano a parlare. Cristiano Doni, in un'intervista a La Repubblica, ha confessato quello che non aveva mai detto in passato: "E' vero, ho truccato le partite, parlino anche gli altri corrotti". Ha ricordato che era truccata anche la partita della Pistoiese (dove giocava l'attuale tecnico del Milan Allegri) del 2000 ma che furono assolti: l'Ufficio Indagini di quei tempi, diretto dal generale Italo Pappa, aveva scoperto tutto ma forse mancando le intercettazioni e una legislazione più attenta sulle scommesse Doni, Allegri e c. si salvarono. La procura federale adesso è pronta a premiare i pentiti, grazie al nuovo regolamento voluto da Abete dopo Calciopoli: un solo anno di squalifica, nei casi più lievi (certo se uno ha decine di illeciti, a calcio ha finito di giocare... . ). Il superprocuratore Stefano Palazzi si metterà in movimento la prossima settimana, con un piccolo ritardo sui tempi di marcia (ma non dovuto a lui): andrà a Bari da Laudati (di cui è stato auditore) e giovedì a Cremona, dal procuratore Di Martino con il quale da tempo è in ottimi rapporti di collaborazione. Il lavoro che aspetta la procura della Figc è immane: solo Cremona ha circa 120 calciatori e tesserati vari iscritti nel registro degli indagati, a Bari ci potrebbero essere presto arresti di molti calciatori. Palazzi inizierà gli interrogatori il più presto possibile, magari già verso metà febbraio. Non è detto che interroghi tutti: potrebbe anche utilizzare il materiale probatorio che gli arriverà dalle Procure. Il processo sportivo potrebbe tenersi verso fine aprile, se verranno rispettati i tempi: difficile però prevedere adesso se le condanne saranno scontate in questa o nella prossima stagione. Di sicuro i calciatori, tranne i pentiti, saranno stangati. Ma moltissime società, dalla A alla Lega Pro, rischiano grosso, forti penalizzazioni, in base alla responsabilità oggettiva (che resta un caposaldo della giustizia sportiva). In A dovranno essere ancora valutate le posizioni di molti club come l'Atalanta (già penalizzata di sei punti), il Genoa, il Chievo, la Lazio, eccetera. Bisogna vedere se sono le società sono state tradite dai loro calciatori invischiati nel giro delle scommesse. In B inquietante quello che sta venendo fuori intorno al Bari, con addirittura nove gare sospette fra illeciti consumati e tentati. C'è da dire che il club pugliese negli ultimi anni è andato a picco, dopo che la famiglia Matarrese si è defilata e ha tentato a più riprese di vendere la società: possibile che nessuno si fosse accorto che negli spogliatoi girava strana gente? Triestina, Piacenza, Spal e c. La lotta per sopravvivere "La riforma dei campionati? Se continua così, arriveremo a trenta club. . . ". Parole di un (alto) dirigente della Lega Pro, l'ex serie C che cerca di darsi un volto nuovo e uscire da una crisi terribile. Triestina, Piacenza, Spal e Savona sono ad altissimo rischio, coi libri in tribunale e la speranza che arrivi qualche salvatore. Mario Macalli, n. 1 della Lega Pro, vuole un campionato unico (non più Prima e seconda divisione) con al massimo 60 club, divisi in tre gironi. Trenta in meno del format originario della Lega Pro. Non si può andare avanti a forza di fallimenti, soprattutto di club che scendono dalla B, e di penalizzazioni (che quest'anno, per fortuna, sono meno dello scorso anno). Bisogna trovare un accordo con la Lega di B e quella Dilettanti, per una riforma vera, seria, dei campionati. Ci provò tanti anni fa l'attuale presidente della Figc, Giancarlo Abete, ma fu stoppato dai cosidetti poteri forti. Ora bisogna ritentare. Altrimenti, si fa in fretta a fare la selezione: basta aumentare i criteri di iscrizione ai campionati e in Lega Pro (ma anche la B non sta benissimo) non si iscrive più nessuno, o quasi. Ma è questa la soluzione? Intanto, e non è una novità, si litiga ancora per i soldi da spartirsi dei diritti tv, fra nascita della Fondazione, il Parlamento e il Tnas. Nel frattempo i club sono con l'acqua alla gola, se non peggio. . . Roberto Stracca, gli ultrà e la tessera del tifoso... Due (ottime) iniziative della Lega Pro: la continua valorizzazione dei giovani e il primo trofeo Roberto Stracca che è andato a Giovanni Scampini, classe 1991, del Pisa. Stracca è mancato lo scorso anno, giovanissimo. Un bravo, serio, scrupoloso giornalista del Corriere della Sera, appassionato del suo lavoro. Roberto era anche un tifoso di calcio, esattamente della Roma: andava in curva, in mezzo agli ultrà perché si sentiva uno di loro. Qualcuno ogni tanto, sbagliando, associa gli ultrà ai violenti: non è così. Ci sono violenti in curva come in tribuna vip, o in tribuna stampa. E' un errore (forse voluto) generalizzare e prendersela solo coi tifosi. Un errore che magari a qualche ministro, in passato, ha fatto molto comodo. Roberto era a favore di un calcio vissuto col cuore, dal di dentro. E, ovviamente, era contro la tessera del tifoso che ora speriamo davvero possano mandare in soffitta. . .
  2. Complimenti a Perrone (esperto d'enogastronomia) per il cadeau. Che salame avrà regalato al nostro Platini che mette su un piedistallo l'incorruttibile Blatter?
  3. L’intervista Il presidente Uefa difende la sua strategia politica giudica il calcio europeo e prevede una finale Spagna-Germania Platini «Con me vincono il gioco e il calciatore L'Italia faccia stadi nuovi, basta volerlo» di ROBERTO PERRONE (CorSera 28-01-2012) NYON — Dall'ampia vetrata si abbracciano la campagna svizzera e il lago. «Io sto laggiù» indica Michel Platini che aveva fatto, della residenza vicino al palazzo dell'Uefa (casa e bottega), uno dei punti qualificanti della sua campagna elettorale del 2006-2007. «Ho anche riunito tutti gli uffici, prima dispersi e preso per 50 anni una struttura al di là della strada per convegni e corsi. Per gli arbitri, ad esempio, anche di altri continenti». Pur in versione presidenziale, le Roi d'Europa mantiene intatte le sue passioni. Per strappargli un sorriso da fanciullino basta l'omaggio di un salame. Cinque anni di presidenza. «Già?». Facciamo un bilancio? «I bilanci alla fine. Ho preparato un programma in dieci giorni. C'erano tante cose da fare, poi ne abbiamo scoperte altre. E le stiamo facendo». Riassuma le sue riforme più importanti. «Innanzitutto ho sempre rispettato la mia filosofia: il campo, il gioco; ho fatto venire più campioni e squadre alla Champions League; ho aggiunto più squadre all'Euro; ho riportato le Federazioni nazionali a decidere nell'Uefa; ho messo tutte insieme le grandi famiglie del calcio. Poi il fair play finanziario che comincia a essere operativo. Ah, e i cinque arbitri sul campo. E questa per me è la cosa più bella. Con i gol che ho fatto con la Juve». Ha visto il nuovo lo stadio? «No, non ancora». Molto bello. Secondo lei un club deve ripartire da qua? «Negli anni 50 e 60 gli incassi venivano tutti di lì: il Bernabeu, San Siro. Più grandi erano, più guadagnavano. Poi hanno perso la centralità. Ma ora lo stadio è tornato protagonista, non tanto in termini di posti, ma di ospitalità. Dove gli stadi sono nuovi e accoglienti, come in Germania, i tifosi sono ritornati. E quindi l'Italia ha sbagliato a non ottenere l'Euro 2012». Com'è andata quella volta? «C'era una volontà di tanti di andare verso l'Est. Io avevo votato Italia, quindi ho perso». La situazione in Polonia e Ucraina? «Abbastanza buona. Quello che dovevano fare, l'hanno fatto. È stato difficile, ma stadi, aeroporti e strade ci sono. Forse un pezzo di strada non sarà finito, però gli stadi sono belli. Penso che sarà un bell'Euro per la gente. A me basta che ci siano gioco e belle partite. Noi siamo una compagnia di calcio. Abbiamo le prime tre del Mondiale, quindi lo spettacolo è assicurato». Favorite? «Spagna e Germania. Queste possono vincere, poi ci sono quelle difficili da battere tra cui l'Italia». Torniamo agli stadi. Che consiglio darebbe all'Italia? «Negli stadi vecchi la gente non si sente sicura, né comoda. L'Italia è un grande Paese, non ha bisogno di Europei o Mondiali per rifarli. Basta la volontà politica». Fair play finanziario. Come spiegarlo al popolo che vede lo sceicco che stacca gli assegni? «L'Italia aveva gli sceicchi Moratti e Berlusconi che non vogliono più spendere queste cifre. Il Berlusca e il Moratt mi dicono: Michel, basta. Bruxelles chiede sacrifici e conti in ordine agli Stati. E il calcio? Perdiamo 1 miliardo e 600 milioni di euro. Tocca a me fare qualcosa». Ma gli sceicchi arabi e i petrolieri russi capiranno l'antifona? «Capiscono, capiscono. C'è il consenso di tutti. Lo faremo. Se sono nelle regole li accetteremo, altrimenti li puniremo. Noi non vogliamo uccidere i club, ma aiutarli a non fallire. È una cosa irreversibile. Indietro non si torna». Caso scommesse, partite truccate. Le difficoltà economiche dei club offrono terreno fertile ai corruttori. «È vero, anche se ci sono altri elementi, ma per questo abbiamo cambiato il sistema di controllo. Prima avevamo investigatori dilettanti. Ora abbiamo creato una rete nelle varie federazioni in contatto con le Procure. Ci vogliono professionisti. Io non sono un carabiniere di Agrate Conturbia». Anche con il doppiopetto è sempre uomo di calcio. «Io sono un calciatore e dico che ora il calcio è più bello di prima, con giocatori migliori rispetto al passato. Più bravi in un calcio più duro. Io mi emoziono per loro, di chi vince o perde me ne frego. La Coppa la do sempre al migliore». E il migliore chi è? «Messi è splendido, ma anche Ronaldo. Rooney è fantastico. La squadra ti può aiutare più o meno. E questa, è la bellezza del calcio». Un italiano? «Devo vedere l'Euro. Sono rimasto indietro, a Gattuso, Pirlo, Buffon. L'ultima partita dell'Italia è stata con la Slovacchia». Stendiamo un velo pietoso. «Eh sì, il Milan e Inter, ma gli italiani sono pochi. La Juve non fa le Coppe». Ah, la Juve. C'è ancora Del Piero ma Andrea Agnelli ha ribadito che sarà il suo ultimo anno. «Penso che si siano messi d'accordo, che c'è rispetto tra loro. Per me non può trattare Del Piero come un altro, è la bandiera della Juve. Si saranno parlati». Giocatori simbolo. Da Platini a Baggio a Del Piero. Fine. «Eh, Platini, Baggio, Del Piero lo sono diventati con le vittorie. Difficile con il quarto posto». Due protagonisti discussi del calcio: Mourinho e Balotelli? «Adoro Mourinho. Ho una grande simpatia per questo ragazzo. Mi piace allo stesso modo Guardiola, completamente diverso. Balotelli non lo conosco bene. Però ogni volta che succede qualcosa ci va di mezzo. Ho visto il suo ultimo caso in diretta: per me non l'ha fatto apposta, è caduto male». La tv è più invasiva rispetto ai suoi tempi. «Il problema non è la tv, ma la mentalità. Adesso siamo più cattivi, più polemici, più negativi. Adesso viene esaltato sempre l'aspetto negativo. Io non faccio più battute. Quando prendevo in giro uno della Roma, negli anni 80, finiva tutto lì. Quando ho detto di Totti ‘‘peccato che non è andato in un grande club'' è venuto giù il mondo. In Italia questo l'ho avvertito con chiarezza». Da grande farà il presidente della Fifa? «Non è il tempo di pensarlo. Blatter c'è e fa un buon lavoro. Noi dobbiamo aiutarlo. Ha detto che va via, ma deve farlo a testa alta. La Fifa aveva dei personaggi discutibili. Ma Blatter no, lui non è un corrotto, un gangster. La Fifa e il calcio sono sopra Blatter e Platini». Trent'anni fa arrivava alla Juve. «Ho fatto tutto mezzora prima del termine, il 30 aprile. Sono venuto da St. Etienne alla Sisport, nell'ufficio di Boniperti che a un certo punto ci ha lasciato lì, soli. Penso che sia andato a mangiare un piatto di pasta, perché quando è tornato aveva una macchia qui. Poco dopo mi chiama l'Avvocato. E io non sapevo chi era. Parliamo in inglese. Un gran bel momento, i miei cinque anni alla Juve. Come direbbe Edith Piaf, ‘‘rien de rien, je ne regrette rien''». Neanche un rimpianto? «No, niente. Anche se ora per difendere il calcio, divento impopolare. Lo accetto, ma è strano. È la vita, una storia infinita». Lei, un grande calciatore, in fondo si batte perché i giocatori guadagnino di meno. «Guardiamo l'altro lato. Paghiamo i giocatori. Perché per quello che guadagna tanto ci sono quelli che non vengono pagati. Ho fatto un contratto con i sindacati per il minimo sindacale. A un campione lo stipendio dimezzato non cambia molto. Al club sì, e tanto». A parte il calcio, la sua vita? «La famiglia. Sono nonno. Due nipoti, maschio e femmina». Complimenti e grazie. «Grazie a lei per il salame, me lo mangio quando torno da una breve vacanza. Ah l'Italia. C'è un posto che devo sempre visitare e non ci sono mai riuscito». Quale? «Brescello. Il paese di Don Camillo e Peppone. Sono cresciuto guardando i loro film con i miei genitori. E mi è rimasta questa voglia».
  4. SIGNORE AL POTERE Mi guardi le tette? E io ti vendo Giovani, belle e forti. Sono le donne al comando di club importanti. La più tosta? Chiedetelo a quel giocatore del Birmingham che si lasciò un po’ andare con Karren Brady… di IACOPO IANDIORIO (Sport Week | 28 Gennaio 2012) Passa il tempo e la situazione peggiora. nonostante le promesse di Platini, che ad aprile scorso aveva annunciato: «Presto una donna entrerà nel Comitato esecutivo dell’Uefa», in realtà il gentil sesso continua ad essere poco rappresentato nei posti che contano del pianeta calcio. A iniziare proprio dall’Uefa dove si attende ancora una nomina “rosa”. A livello internazionale, anzi, ci sono state alcune pesanti defezioni negli ultimi 12 mesi. Per esempio in Spagna, dopo 17 anni alla guida del Rayo Vallecano, terza squadra di Madrid, la “presidenta” Teresa Rivero, 76 anni, nello scorso maggio ha mollato per le contestazioni dei tifosi e la crisi economica del club. In Svizzera a metà gennaio la n. 1 del Basilea, che ha appena fatto fuori il Manchester United in Champions, ha ceduto la carica al vice e ha annunciato l’intenzione di vendere il 90% della proprietà: bel problema visto che la signora è la moglie di Andreas Oeri, azionista principale dal 1996 della casa farmaceutica Roche, 5° gruppo svizzero per valore (profitti da una decina di miliardi di euro all’anno), e ogni stagione immetteva 20 milioni di euro nelle casse del club (6 scudetti e 5 coppe svizzere negli ultimi 10 anni). E allora quali signore del calcio restano ancora in ballo? La Zarina di Francia, Margarita Louis-Dreyfus, proprietaria del Marsiglia dall’agosto 2009, dopo la morte del marito, già a capo di una multinazionale da 34 miliardi di euro di fatturato. Con lei al comando sono arrivati trionfi che mancavano da quasi 20 anni, come il titolo di Ligue 1 2009-10 e 2 supercoppe nazionali. Margarita, forgiata da un’infanzia senza genitori, morti in un incidente di treno quando aveva 7 anni, e allevata dal nonno, ingegnere comunista a Leningrado, è avvocato d’affari con la passione dell’opera. A Londra, al West Ham, in testa in serie B, comanda Karren Brady, già a. d. del Birmingham City nel 1993. Altro tipino tosto. Quando a Birmingham le presentarono i giocatori, uno di loro esclamò: «Hai la camicia trasparente, ti sto vedendo le tette». E lei: «Non ti preoccupare, quando ti avrò venduto al Crewe (4ª serie) non le vedrai più». Oggi a 42 anni è columnist del Sun, consulente di enti e aziende, è stata giudice in tv nel reality L’apprendista. Ha iniziato la carriera da venditrice pubblicitaria, poi assunta dal re dell’editoria per soli uomini David Sullivan. Lo convinse a comprare il Birmingham in crisi e da a.d. l’ha trasformato in un club di Premier, venduto nel 2008 per 100 milioni di euro. Sullivan ha poi comprato il West Ham e Karren, vicepresidente, l’ha seguito. In Brasile la n.1 del Flamengo, campione carioca 2011, è Patricia Amorim, 42 anni: il 7 dicembre 2009 è stata la prima donna eletta a capo del club con più tifosi in Brasile (35 milioni circa): era il giorno dopo l’ultimo scudetto nazionale vinto dal club di Rio. Olimpica di nuoto nell’88 a Seul, campionessa sudamericana, è stata eletta tre volte al consiglio comunale di Rio. È stata insegnante di nuoto nel Flamengo, prima di diventare dirigente del club rossonero. Lei ha riportato Ronaldinho in Brasile.
  5. Grande allenatore ma solo part-time Storia di Mou, il magnifico bullo MOURINHO Allenatore part-time, bullo a tempo pieno Josè è un incrocio fra un comico e una pin up. Ed è contento solo quando le spara grosse di GIAMPIERO MUGHINI (Libero 28-01-2012) Lui è un incrocio tra Walter Chiari, tra un attore comico geniale e una pin-up. O forse, per stare di più ai nomi e ai miti dei tempi odierni, incrocio tra Checco Zalone e la bellissima Melissa Satta. Ma lui non lo sa o meglio finge di non saperlo. Lui pensa di essere Mourinho, uno che non si nega e non si negherà mai nulla. Uno cui non basta essere uno dei più più coriacei e rapaci allenatori al mondo, uno che ha vinto a tutte le latitudini calcistiche, uno che ci proverebbe a vincere alla grande persino se avesse una squadretta di boy-scouts o di mezze figure. Lui è Mourinho, uno che più le spara grosse e meglio si sente. Uno che più fa il bullo, più i giornali lo mettono in prima pagina. Uno che aspetta l’arbitro di una bellissima partita in cui il suo Real non ha vinto ma ha fatto un figurone contro la squadra più forte al mondo (il Barcellona), e non ci pensa neppure per un attimo ad andare a stringere la mano ai vincitori, a dire «arrivederci alla prossima sfida», a dire che quando si gioca contro Messi e compagnia l’importante è che sia stata una bella partita. Non ci pensa proprio. Perché il suo vero mestiere non è l’allenatore, quello lo fa a tempo parziale. A tempo pieno lui è un bullo. E perciò, dopo la partita di mercoledì sera (2-2 tra Barcellona e Real, un partita zeppa di mirabilie) è sceso nel garage dove sono riunite le auto di coloro che avevano partecipato professionalmente alla partita, s’è appoggiato a quella dell’arbitro alla maniera di un mafioso siciliano o del Gary Cooper di “Mezzogiorno di fuoco”, e appena lo ha visto arrivare gli ha detto parole che neppure il più grande sceneggiatore cinematografico si sarebbe inventato. Il bulletto gli ha detto così: «Ehi, artista. Ci prendi gusto a foţţere i professionisti». E tanto più che io sono d’accordo con Mourinho, l’arbitro era stato un miŋchioŋe a buttar fuori un giocatore del Real Madrid per doppia ammonizione. PAROLE IN LIBERTÀ Solo che non è questo il punto. Non che l’arbitro avesse sbagliato o meno. Il punto è che d’ora in poi non si parlerà più della partita, delle magnificenze tecniche di giocatori come Özil o Xavi, si parlerà di lui. Di Checco Zalone-Mourinho. Il fatto è che il bulletto non si lascia sfuggire un’occasione per straparlare e stra-agitarsi. Per fingere di dar di matto. Ma ve lo ricordate o no quello che ha fatto e detto in Italia, e a parte il capolavoro del “triplete” innanzi al quale io ancora mi sto togliendo il cappello? (A proposito aspetto ancora da Massimo Moratti quel che gli dissi una volta dopo avere osannato una vittoria della sua squadra: «Caro presidente quand’è che la sentirò osannare una delle tante vittorie della mia Juve?» . Glielo chiesi da avversario cavalleresco ad avversario cavalleresco. Sto ancora aspettando). Ebbene ve lo ricordate quel che Mourinho diceva e raccontava a ogni fine partita del torneo? Vi ricordate gli insulti a Claudio Ranieri cui aveva sprezzantemente attribuito dieci anni in più di quelli che aveva? Non c’era una volta che lui non accusasse l’arbitro e non so chi altri di avere tramato ai danni della sua Inter. Anziché ringraziare il cielo di avere avuto in sorta un paio di campionati in cui non aveva avversari - perché Calciopoli aveva stravolto il paesaggio naturale del football italiano - non una volta che Mourinho riconoscesse regali arbitrali che neppure a Natale: quella volta che Adriano mise la palla dentro in una partita decisiva con un gran colpo da giocatore di pallavolo, o la volta che l’Inter segnò un gol con cinque dei suoi giocatori in fuorigioco. Mai. Mai. Mai. Solo parole in libertà a dire male del suo prossimo calcistico. Perché il grande allenatore ma anche genio dei bulletti conosce bene le regole del circo massmediatico. Se tu ti levi il cappello innanzi al valore degli avversari, è già tanto se ti dedicano una notizia di dieci righe. Se straparli e inveisci e denunci il complotto giudeomassonico ai tuoi danni, allora sì che le paginate che ti riguardano saranno grandi e risonanti. Oggi una pin-up va in prima pagina per tutta una settimana perché ha interpretato una pièce di William Shakespeare o perché ha dichiarato da qualche parte che lei fa l’amore con il moroso otto-dieci volte a settimana? Secondo voi è di maggior rilievo massmediatico che Mourinho ammetta che per buttar giù i giocatori del Barcellona ci vogliono le katiusce che i russi usavano contro i nazi nella Seconda guerra mondiale, o che dica che gli arbitri e gli dèi complottano contro il Real? Lo sapete a puntino che la risposta valida è la seconda che ho detto. SIMPATICO Non fraintendetemi, a me lui sta molto simpatico. Quando mi divertivo a chiacchierare di calcio alla domenica sera, era una fonte inesauribile e irresistibile. Avremmo dovuto dargli una percentuale, come si fa con gli agenti letterari. Purtroppo non l’ho mai avuto di fronte in carne e ossa. Subito gli avrei detto quanto lo stimavo come allenatore e quanto lo ritenevo un bulletto. Le due cose, una inestricabile dall’altra. Solo che non credo lui sapesse chi è Walter Chiari. Sa solo e implacabilmente di essere Mourinho.
  6. ASSEGNANSI PROCURE ECCO CHI LOTTA PER ROMA E NAPOLI Grasso scade all’Antimafia e pensa alla politica. Pignatone nella Capitale di ANTONELLA MASCALI (il Fatto Quotidiano 28-01-2012) Due procure importanti, quella di Roma e quella di Napoli, nelle prossime settimane avranno nuovi capi, nominati dal Consiglio superiore della magistratura. E presto dovrebbe esserci un cambio, voluto dal ministro della Giustizia, Paola Severino, alla direzione del Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), guidato da Franco Ionta. In autunno, invece, se si voterà nell’aprile 2013 dovrebbe aprirsi la partita alla successione di Piero Grasso a capo della Procura nazionale antimafia. Le indiscrezioni tra Palermo e Roma dicono, infatti, che entrerà in politica. D’altronde, lui stesso in un’intervista al Giornale di Sicilia del 5 gennaio l’ha fatto capire: “Non guardo a un’eventuale esperienza politica sotto forma di schieramento con un partito, cosa che è estranea al mio ruolo, alla mia funzione e alla mia cultura. Penserei piuttosto a quella che ho definito una lista civica nazionale”. In effetti, ha rifiutato l’offerta di una parte del Pd di candidarsi a sindaco di Palermo. La nomina più sicura, a oggi, è quella del procuratore di Roma: al Csm c’è una convergenza su Giuseppe Pignatone, attuale capo della Procura di Reggio Calabria. Ci sono pareri favorevoli e trasversali sul magistrato che da 4 anni guida una procura difficilissima come quella di Reggio Calabria. Con l’arrivo da Palermo di Pignatone e del procuratore aggiunto, Michele Prestipino, sono decollate indagini contro la ‘ndrangheta e le sue collusioni anche in stretta collaborazione con la Procura di Milano. IL POSTO di procuratore capo di Roma l’avrebbe tanto voluto l’attuale reggente, il procuratore aggiunto, Giancarlo Capaldo. Di chance ne aveva molte, ma un pranzo quanto meno inopportuno l’ha fatto cadere in disgrazia. Nel dicembre 2010 è stato ospite a casa dell’avvocato Luigi Fischetti, legale del figlio, con a tavola l’allora ministro Giulio Tremonti e il suo braccio destro, il deputato del Pdl, Marco Milanese, indagato a Napoli e in quel periodo già “attenzionato” dalla Procura di Roma che lo avrebbe messo sotto inchiesta nelle settimane successive. Per quel banchetto la Prima commissione del Csm ha aperto un fascicolo. Il nuovo procuratore di Roma, che dovrebbe insediarsi al massimo tra un mese e mezzo, dovrà dare prova di resistenza alle pressioni che nell’ufficio soprannominato “il porto delle nebbie” sono sempre state fortissime. Sono in corso indagini delicatissime sulla corruzione. Dalla mega inchiesta con tanti rivoli di Finmeccanica, a Sogei, Enav, un filone della P 4, un filone di Mediatrade, Rai cinema e Rai spa. Anche il prossimo procuratore di Napoli si ritrova un ufficio al centro di inchieste importanti e che hanno provocato polemiche a non finire. Non solo quelle sulla camorra, sul clan dei casalesi in particolare, che vede indagato, tra gli altri, il deputato del Pdl, Nicola Casentino, ma anche l’inchiesta su Valter Lavitola e la corruzione internazionale. La partita per la direzione di Napoli è ancora aperta. Sono 16 i candidati alla successione di Giandomenico Lepore, procuratore partenopeo fino al 15 dicembre scorso. Fra loro hanno fatto domanda al Csm quattro procuratori aggiunti di Napoli: Francesco Greco, Rosario Cantelmo, Federico Cafiero de Raho e Sandro Pennasilico. C’è anche il procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello. Ci sono poi diversi procuratori che vorrebbero guidare l’ufficio napoletano. Fra loro, Paolo Mancuso, procuratore di Nola. A Napoli, fra l’altro, ha coordinato le inchieste che portarono alla collaborazione dei boss Carmine Alfieri e Pasquale Galasso; Corrado Lembo, procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Giovanni Colangelo, procuratore di Potenza e Francesco De Leo, procuratore di Livorno. In questo momento i favoriti sembrano essere Colangelo, Mancuso e De Leo. La nomina imminente, però, sembra essere quella del capo del Dap. La poltrona di Franco Ionta, ex procuratore aggiunto di Roma e fino a poche settimane fa anche commissario straordinario per il piano carceri, traballa. Nominato dal governo precedente, Ionta è criticato dall’alto e dal basso. Secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano, quando ancora Berlusconi era premier, c’è stata una sollecitazione scritta del Quirinale perché venisse affrontato il problema carceri, ma Ionta, pare che non abbia neppure risposto. E GIOVEDÌ scorso il primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha parlato di “scarsi risultati” del piano carceri. Diversi dirigenti dell’ufficio di Ionta e una larga fetta della polizia penitenziaria lamentano l’assenza di una politica carceraria. Il ministro Severino ha tempo fino a metà febbraio per confermarlo o revocarlo. Le voci di via Arenula danno il capo del Dap in uscita anche se l’operazione non è facile, essendo Ionta un protetto di Gianni Letta. Ma già circolano nomi su chi potrebbe prendere il suo posto: Livia Pomodoro, presidente del Tribunale di Milano, Paolo Mancuso, che concorre, come detto, alla Procura di Napoli e che è già stato vicedirettore del Dap, Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, una vita spesa per avere un sistema penitenziario civile. Anche Maisto è stato un magistrato distaccato al Dap. Nei corridoi del ministero della Giustizia girano, inoltre, i nomi di Giovanni Tamburino, presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma e Angelica Di Giovanni, ex presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli.
  7. COMUNICATO SINDACALE (pag.43, GaSport 28-01-2012) Il comitato di redazione della Ġazzetta dello Sport, facendo seguito a un’assemblea dei suoi giornalisti in cui si è espressa solidarietà al collega Vincenzo Cito, comunica l’esito della consultazione sul rinnovo della fiducia al direttore Andrea Monti. Aventi diritto al voto: 161. Votanti: 133. Sì: 37. No: 91. Schede bianche: 5 ___________________________________________________ L’editore conferma la piena fiducia al Direttore Andrea Monti nella convinzione che redazione e direzione sappiano ritrovare la necessaria intesa alla vigilia delle importanti sfide che attendono la Ġazzetta dello Sport nel 2012. ___ Rcs, rivolta dei giornalisti “Soldi pubblici per pagare sprechi” Stati di crisi e cassa integrazione per i dipendenti Manager coperti d’oro nonostante il grande flop dell’operazione Spagna Ġazzetta dello Sport trasferita da via Solferino in periferia, sfiduciato il direttore Andrea Monti di GIOVANNA LANTINI (il Fatto Quotidiano 28-01-2012) La Spagna non lascia dormire sogni tranquilli a manager e azionisti della Rcs. Con un nuovo, durissimo, comunicato nell’edizione di ieri, i giornalisti e i dipendenti del gruppo editoriale del Corriere della Sera insistono sul flop dell’acquisizione spagnola Recoletos e alzano il tiro su amministratori e azionisti. Arrivano anche le prime sfiducie ai direttori. Proprio mentre vengono chiuse testate come il free press City ricorrendo alla cassa integrazione o ai prepensionamenti, con “un aggravio straordinario per gli enti di previdenza”, secondo i giornalisti di via Solferino “una casta (questa sì) di intoccabili non paga neppure il minimo pegno per le scelte scellerate in termini di politica aziendale, di investimenti (l’acquisizione della Recoletos spagnola è l’esempio più eclatante) che, ben oltre la crisi congiunturale, hanno portato al disastro”. Il primo a fare le spese di una protesta sempre più agguerrita è stato ieri il direttore della Ġazzetta dello Sport, Andrea Monti, che è stato sfiduciato ad ampia maggioranza dai suoi redattori. DOPO IL DRASTICO comunicato di martedì, firmato dai rappresentanti sindacali di Ġazzetta dello Sport, Corsera e poligrafici, ieri sono tornati alla carica i giornalisti del quotidiano diretto da Ferruccio de Bortoli. Questi ultimi hanno scelto la formula della lettera ai lettori per tenere alta l’attenzione sul braccio di ferro in corso con l’azienda che, per salvare il salvabile, ha deciso di puntare sulla cessione dell’immobile di via Solferino trasferendo la Ġazzetta alla periferia di Milano insieme a tutti i poligrafici. Smembrando, quindi, la redazione del Corriere che si troverebbe a dover “comporre un giornale « bionico », le cui parti vengono costruite in luoghi diversi e poi assemblate con escamotage informatici”. Non solo. Nei disegni della dirigenza ci sarebbe anche la separazione del corpo redazionale dello stesso Corsera, con il trasferimento in via Rizzoli anche di alcuni giornalisti della testata. Una scelta che secondo il sindacato chiama in causa direttamente i lettori proprio perché avrebbe un effetto negativo sulla qualità del giornale. Il tutto per costruire l’ennesima pezza che il management vorrebbe piazzare per sistemare i conti con il passato. Ossia, appunto, la disastrosa acquisizione del gruppo editoriale spagnolo Recoletos effettuata all’inizio del 2007 per la ragguardevole cifra di 1, 1 miliardi dall’attuale amministratore delegato di Rcs, Antonello Perricone, affiancato tra gli altri dai consulenti di Mediobanca, primo socio del gruppo. Allora si stimava che l’acquisizione avrebbe portato al gruppo italiano valore economico per 127 milioni. A distanza di cinque anni, invece, Rcs che all’epoca era in sostanziale equilibrio finanziario, si ritrova con un indebitamento di 981, 7 milioni e una partecipazione che, secondo i sindacati, ha un valore contabile “che supera di poco la metà dell’investimento iniziale”. E se la stima dovesse venire certificata in bilancio con una pesante svalutazione, gli stessi soci, già in agitazione per i passaggi di mano di alcune quote di rilievo e le variazioni in corso nei pesi della finanza italiana, potrebbero trovarsi davanti alla necessità di aprire il portafoglio per ricapitalizzare la società, pena perdere la presa sul salotto buono lasciando spazio a chi vorrebbe crescere. Naturale, quindi, che il management le stia studiando tutte per evitare scelte estreme. Anche perché in questi anni è stato lautamente retribuito: complessivamente tra il 2007 e il 2010 amministratori e sindaci sono costati alla Rcs 22, 6 milioni. La fetta più importante è andata a Perricone che nel quadriennio ha incassato 5, 21 milioni, uno dei quali riferibile a un bonus datato proprio 2007, anno in cui ai soci andò un dividendo di oltre 80 milioni. HANNO QUINDI avuto gioco facile i giornalisti del Corriere nel “denunciare il depauperamento qualitativo oltre che economico, l’attenzione continua a interessi esterni all’impresa editoriale a danno del prodotto, del marchio, dei suoi lavoratori e dei lettori”. Una denuncia fatta puntando il dito contro un’azienda che con una mano “negli ultimi due anni ha chiesto (e chiede) soldi pubblici tramite stati di crisi e ristrutturazione subentranti, con l’altra assegna a azionisti e vertici manageriali ricchi dividendi e premi quasi milionari”.
  8. COMUNICATO SINDACALE (pag.43, GaSport 28-01-2012) Il comitato di redazione della Ġazzetta dello Sport, facendo seguito a un’assemblea dei suoi giornalisti in cui si è espressa solidarietà al collega Vincenzo Cito, comunica l’esito della consultazione sul rinnovo della fiducia al direttore Andrea Monti. Aventi diritto al voto: 161. Votanti: 133. Sì: 37. No: 91. Schede bianche: 5 ___________________________________________________ L’editore conferma la piena fiducia al Direttore Andrea Monti nella convinzione che redazione e direzione sappiano ritrovare la necessaria intesa alla vigilia delle importanti sfide che attendono la Ġazzetta dello Sport nel 2012.
  9. ilRegolamento CASO DIAS, UNA PICCOLA PROPOSTA PER EVITARE INGIUSTIZIE E FURBATE di ANDREA SCHIANCHI (GaSport 28-01-2012) Il pugno a Van Bommel, «riprorevole gesto» come lo definisce il giudice sportivo, costa al laziale Dias 3 giornate di squalifica. Ma da scontare in Coppa Italia, manifestazione dalla quale la Lazio è eliminata e, se il difensore brasiliano resterà in Italia, se ne parlerà nella prossima stagione. La domanda è semplice: giusto, di fronte a comportamento violento e antisportivo, che la sanzione sia differita di tanto tempo? Sia chiaro fin da subito che il caso Dias vale come esempio di una situazione che, forse, andrebbe modificata: non c’è alcun intento persecutorio nei confronti del laziale, anche perché il Codice di Giustizia Sportiva è stato correttamente applicato. Si tratta di capire perché una squalifica tanto pesante debba sottostare alla regola della «separazione» delle competizioni e, soprattutto, perché in Italia esiste questa separazione. In Inghilterra, il recente caso di Balotelli ne è la prova, il sistema è differente: se uno viene squalificato, le giornate di stop cominciano dal momento in cui la punizione è ufficializzata dalla County Association e non tiene conto della diversità dellemanifestazioni. Noi, invece, all’inizio degli anni Novanta abbiamo cambiato rotta: separazione delle manifestazioni per le squalifiche per evitare le solite italiche furbate. Che cosa succedeva? Semplice, un giocatore si gestiva le ammonizioni. Esempio: io sono diffidato e tra due giornate ho in programma un big-match. Per non saltarlo e per non correre rischi, siccome devo giocare una gara di Coppa Italia, mi prendo un «giallo» in quella partita, salto la successiva di campionato e sono pulito per la supersfida. Il problema è che, a volte, per evitare le furbate si incappa in qualche altra piccola ingiustizia. Una proposta: basterebbe non ammettere la separazione delle manifestazioni in caso di squalifica derivata da espulsione per rosso diretto o da prova tv per condotta violenta.
  10. L’intervista “Ci fu accordo già nel 2000, nella gara con la Pistoiese di Allegri” Doni: sì, ho truccato le partite confessino anche gli altri corrotti Parla l´ex capitano dell´Atalanta travolto dal calcioscommesse: "Era truccata anche la partita con la Pistoiese di Allegri nel 2000, però venimmo assolti. Ma oggi, se me lo chiedono, posso raccontare" di GIULIANO FOSCHINI & MARCO MENSURATI (la Repubblica 28-01-2012) NOMINA l’Atalanta e si commuove. Tira la testa indietro di scatto, per trattenere le lacrime. È l’orgoglio. Poi torna a sorridere, beve un sorso di caffè, il secondo della mattina, alza la voce, e cerca di spiegarsi. È un uomo a disagio, Cristiano Doni. Perché ha capito che la sua nuova vita non prevede più un pallone tra i piedi 24 ore al giorno. E non c´è niente di peggio per un calciatore. La verità è che ha buttato via tutto. «E la cosa peggiore - dice - è che ancora non ho capito perché l´ho fatto, come è stato possibile. L´unica speranza è che almeno la mia storia serva da lezione agli altri». Partiamo da qui. Qual è la morale della storia di Cristiano Doni? «Non so se ce ne è una. Magari ce ne sono molte. Io spero solo che gli altri calciatori vedano quello che mi è successo e capiscano. Non siano tanto imbecilli e facciano quello che in queste ore sta facendo Masiello. È stato molto coraggioso e, diversamente da me, ha avuto l´intelligenza di denunciare tutto per tempo. Spezzare quell´omertà che sta devastando il calcio». Se lei allora si fosse comportato come Masiello fa oggi, cosa avrebbe denunciato? «Avrei denunciato le mie colpe che sono, ci tengo a dirlo, relative a due soli episodi: Ascoli-Atalanta e Atalanta-Piacenza». La partita del portiere Cassano che le dice dove tirare il rigore. Come andò? «La settimana prima giocavamo contro l´Ascoli e alla vigilia mi dissero che la gara era truccata. Io dissi ok, bene, volevo andare in A, era perfetto. Poi invece in campo mi accorsi che non era vero e infatti pareggiammo (ma mi rendo conto che il risultato, non cambia le cose). La settimana dopo c´era il Piacenza, e mi dissero nuovamente che la partita era truccata. Io non ci credevo, poi invece in campo mi accorsi che era vero. Tanto che Cassano al momento di calciare il rigore mi disse "tira centrale che io mi tuffo"». Lui nega. «Andò esattamente così. Tanto che io vissi anche alcuni momenti di panico, perché non sapevo che anche lui era d´accordo e ogni tanto capita che i portieri avversari cerchino di imbrogliarti… Così quando andai a battere ero davvero incerto se dargli retta o no». A proposito di omertà. Raccontiamo una volta per tutte la verità su Atalanta-Pistoiese del 2000? Giacomo Randazzo, ex dirigente dell´Atalanta, racconta che quella partita fu una combine: un accordo nato per scherzo al ristorante durante una cena (oltre a Doni, erano presenti tra gli altri l´attuale allenatore del Milan Allegri, Siviglia e Zauri) e poi davvero attuato in campo. Lei cosa dice? «Che sì, è così non posso continuare a dire diversamente. È un episodio lontano nel tempo, ma se qualcuno mi vorrà chiedere spiegazioni gliene darò. Ci indagarono poi ci assolsero, molti ancora oggi credono che la mia esultanza "a testa alta" sia nata da quell´episodio. Invece no: era il frutto di uno scherzo con Comandini, un gioco che si faceva da ragazzini quando uno alzava la testa e diceva "ritiro" dopo aver insultato qualcun altro». Le sue responsabilità finiscono qui? O ci sono altri episodi? «Ho commesso due errori, gravi, ma solo questi due errori». Circolano voci diverse, dicono persino che lei avrebbe fatto retrocedere apposta l´Atalanta per favorire il suo "amico" Percassi nell´acquisto della società. «È una bestemmia. Io per la maglia dell´Atalanta ho dato il sangue. E anche gli errori che ho commesso li ho commessi perché volevo riportare l´Atalanta in A. Per me era un´ossessione. Avrei fatto qualsiasi cosa. Anzi, ho fatto qualsiasi cosa. Ho tradito lo sport». Quanti sono i calciatori che "tradiscono lo sport"? «Molti, troppi. In B più che in A perché a parte 3 o 4 club, gli altri pagano poco, anche 20mila euro l´anno. E così i calciatori sono più corruttibili. Però in generale sono molti, sì, è un problema culturale». Suona tanto come una scusa. Può spiegarlo questo "problema culturale"? «Da noi c´è l´abitudine di non infierire sull´avversario, di non mandare in B un collega in pericolo se non c´è un motivo di classifica, di mettersi d´accordo. In Spagna ad esempio non è così. Da noi invece capita che in campo ti chiedano il risultato, è capitato anche a me sia di chiedere sia di avere avuto richieste. E su queste abitudini da quando hanno legalizzato le scommesse "campano" tutti: gli ingenui, gli amici, i balordi, i mafiosi. E il problema assume altre proporzioni. Ma il punto di partenza è un difetto culturale che non riguarda solo i calciatori, ma anche gli altri protagonisti, gli arbitri che vedono tutto e non fanno nulla, il quarto uomo, gli osservatori della Figc, i giornalisti… Perché non è mai successo nulla tutte le volte che un giocatore è stato inseguito negli spogliatoi dagli avversari dopo un risultato "inatteso"?». È un difetto culturale anche non capire che tradire lo sport e tradire l´Atlanta è la stessa cosa. «Lo so. Ma sarei un´ipocrita a dirle che non considero un´attenuante aver sbagliato pensando di favorire la mia squadra». Ecco, infatti, non è un´attenuante. «E io sono pentito di quello che ho fatto. Anche perché sono finito in carcere. E il carcere aiuta molto a capire i propri errori». Un campione in carcere. Che effetto fa? «Orrendo. Sono venuti a prendermi all´alba. A proposito non è vero che sono scappato. Non è vero che pensavo fossero i ladri. Tutte minchiate. Pensavo fosse una semplice perquisizione. Poi invece mi hanno detto che mi portavano in questura a Bergamo in stato di fermo. E di lì sono andato in carcere, a Cremona. Per strada continuavo a pensare a mia figlia a scuola, era sempre stata orgogliosa di suo papà, il Capitano». Di nuovo, tira indietro la testa. Poi riprende: «Quando si sono chiusi i cancelli alle mie spalle ho ripensato a tutti i film che avevo visto sul carcere e ho detto tra me e me che "dal vero" era molto peggio. Il carcere era davvero affollato, come dicono in tv, anche se io ho avuto la fortuna di avere una cella singola. Ho preso alla biblioteca Esco a fare due passi, il libro di Fabio Volo e ho cominciato a leggerlo. Ma mi distraevo. Di notte faceva freddo. E io non dormivo. Non dormivo neanche di giorno. Non dormivo mai. Pensavo alla cazzata che avevo fatto. A come era potuto succedere, a mia figlia, a mia moglie, all´Atalanta e non vedevo l´ora di andare dal giudice a raccontare tutto. E da questo punto di vista devo ammettere che sono stati tutti bravi… Il poliziotto che mi ha arrestato, il giudice Guido Salvini, il pm Roberto di Martino, il mio avvocato Salvatore Pino, tutti mi sono stati vicini, sono stati comprensivi e mi hanno permesso di cominciare un percorso che non so dove mi porterà. Ma che dovevo cominciare. E che spero che comincino per tempo tutti i miei colleghi. Mi piacerebbe davvero se finisse l´omertà nel calcio, se quello che è successo a me fosse un punto di svolta per tutti». Cosa farà Doni da oggi in poi? «Non ne ho idea. Prima volevo fare il dirigente dell´Atalanta. Oggi mi accontenterei di riuscire a vivere in pace nella mia città, Bergamo». ___ Doni un calcio all'omertà «NON FATE COME ME, RACCONTATE TUTTO IL MARCIO CHE C'È» «I miei errori sono iniziati nella partita con la Pistoiese di 12 anni fa» L'ex capitano dell'Atalanta: «Anche quella gara fu combinata. Sono stato stupido, pensavo di farla franca. . . Che schifo le partite di fine stagione» di FRANCESCO CENITI (GaSport 28-01-2012) «La cosa più difficile è stata preparare mia figlia, spiegarle quello che era accaduto al papà...». Poi Cristiano Doni si ferma, scuote la testa e la porta indietro mentre le lacrime scendono sul viso. In oltre due ore d'intervista è l'unico momento in cui non riesce a gestire i ricordi e i pensieri di una vita da idolo deragliata il 19 dicembre, quando il giocatore è stato arrestato dalla Procura di Cremona per il calcioscommesse. A dire il vero, gli occhi si inumidiscono anche quando parla dell'Atalanta. Per il resto è un giudice impietoso: sa che non bastano le scuse per far dimenticare i suoi errori. E allora gioca d'attacco, cosa che gli riusciva benissimo anche in campo. Ecco un Doni inedito: che condanna l'omertà del calcio, che invita i colleghi invischiati in brutte situazioni a prendere esempio da Andrea Masiello, che parla di «mentalità italiana sbagliata» sulle partite farsa di fine stagione, che non si nasconde dietro un dito, ammettendo di aver meritato il carcere non tanto per le due partite taroccate («una e mezza, con l'Ascoli alla fine è stata sfida vera»), ma soprattutto per il tradimento nei confronti dello sport che gli ha regalato soldi e fama. Ecco perché quando allo scadere delle due ore gli chiediamo a conferma di quello che aveva appena sostenuto in modo accorato («Il calcio si può ancora salvare, le nuove generazioni non devono prendere esempio da me. Bisogna sempre dire di no a proposte estranee alle regole delle sport») di chiarire una storia vecchia di 12 anni, Doni non si tira indietro. Parliamo di Atalanta-Pistoiese 1-1 di Coppa Italia. Ci fu un processo sportivo per tanti giocatori, compreso lui, Allegri (attuale tecnico del Milan), Zauri, Siviglia. Molti scommisero personalmente: non era ancora vietato. In primo grado quasi tutti condannati per illecito, ma in appello assoluzione generale. Mancava la pistola fumante di quel tarocco nonostante i sospetti fossero quasi certezze. Voi calciatori avete sempre negato la combine. Ora le domandiamo: avevate concordato quel risultato? Magari solo per dare seguito a una goliardata decisa a cena, come racconta in un libro Giacomo Randazzo, ex segretario della società nerazzurra? (Sorriso amaro e poi un sospiro profondo) «Sì, è così. Non posso continuare a dire diversamente. E se qualcuno vorrà altre spiegazioni, sono pronto a darle». Ma allora perché l'esultanza a testa alta? Non era il suo marchio per ricordare che era uscito pulito da quella accusa. «No, guardi, c'è un equivoco. Il gesto non era riferito ad Atalanta-Pistoiese, altri hanno fatto questa equazione. A me stava bene perché in realtà mi vergognavo della verità...». Forse è arrivato il momento di farlo. «Beh, ha ragione. Allora, tutto nasce con Comandini e altri compagni. Durante gli allenamenti facevamo gli scemi, come tra bimbi. Sa, quando ci s'insulta e uno dice una cosa troppo spinta. Allora l'altro lo blocca, gli mette la mano sotto il mento e gli fa "Adesso ritira quello che hai detto. . . ". Atalanta-Pistoiese non c'entrava, ma è vero che mi è rimasto addosso fino a trasformarsi in un boomerang». Senta, Doni. Lei è finito in carcere anche perché ha accettato di giocare una gara fasulla come Atalanta-Piacenza. Quella del rigore tirato centrale sul suggerimento del portiere Cassano. Come è andata? «Sette giorni prima mi dissero che contro l'Ascoli avremmo vinto per un accordo. Va bene, faccio io. Ma in campo mi accorsi che gli altri stavano giocando sul serio, capisco ora che il risultato è solo un dettaglio. Mi ripetono la stessa cosa per la gara con il Piacenza. Mentre giochiamo realizzo quasi subito che la combine questa volta era reale. Tanto che Cassano mi dice dove calciare il rigore. Lui nega? Problemi suoi. Andò proprio così». Perché ha accettato tutto questo? «Sono stato un imbecille e non esiste nessuna giustificazione. Sapesse quante volte me lo sono chiesto in cella. La retrocessione mi aveva segnato, mi sentivo il primo responsabile. Avrei fatto di tutto per ottenere la A. E infatti ho detto sì quando mi è stato detto che il Piacenza veniva a perdere... Ecco, non mi sono mai venduto una partita. C'è una differenza almeno in questo? Tra chi lo fa per soldi e chi per amore della propria squadra?». No, Doni. Non c'è differenza: entrambi barate e calpestate la regola più importante di ogni sport. Non le sembra? «Ha ragione, c'è da cambiare una mentalità sbagliata. Se adesso c'è un'organizzazione criminale, come leggo, che riesce a penetrare con facilità nel nostro calcio, credo che il motivo parta da questa idea sbagliata di cosa è giusto e cosa è sbagliato...». Ci dica, dopo quello che le è accaduto, che cosa bisogna cambiare? Un consiglio che darebbe a un ragazzo che vuol diventare un giocatore? «Fuori tutto? Ok. In Italia molte cose sbagliate diventano la prassi. Anche nel calcio. Tanto per iniziare solo ora, dopo aver provato l'esperienza del carcere, mi vergogno di quando andavo e più spesso venivano a chiedermi di non impegnarci troppo perché a noi il risultato non serviva. In Spagna, dove ho giocato, non è così: la regolarità di una sfida è sacra. Da noi ti guardano male se fai il contrario. E sono vergognosi gli inseguimenti negli spogliatoi tra calciatori perché una squadra già retrocessa non ha perso in casa di una pericolante. E mi domando: perché nessuno fa nulla? Perché gli arbitri non sospendono una gara se si accorgono che un giocatore fa segnare l'avversario? Perché i tanti ispettori della procura federale non capiscono quello che ogni tifoso presente allo stadio intuisce? Guardi, sono la persona meno indicata per fare la morale agli altri. Ho sbagliato, forse ho pagato anche oltre le mie colpe. Ma è giusto così. Doni non era un angelo, ma nemmeno il diavolo come ho letto. Però il calcio non può continuare in questo modo. Non è credibile». E dunque al ragazzo che cosa direbbe? «Che deve giocare pulito. Sempre. E non dare retta a chi gli chiede di barare. Anche fosse un compagno. Deve denunciarlo, far finta di nulla è grave quasi come alterare una partita. E' una protezione indiretta. Non è facile, ma questa è la strada. Aggiungo: non prendete esempio da me, fate come Andrea Masiello: bisogna avere il coraggio di parlare e raccontare tutto il marcio nel calcio. Si può sbagliare, ma è ancora peggio non alzare la mano e ammetterlo». Lei perché non l'ha fatto? «Ehhh, difficile dare una risposta credibile. Speravo di farla franca? Forse, ma più che altro pensavo che la mia era una cosa minima. Credevo che tutto fosse ricondotto alle scommesse e a qualche accordo sotto banco. Mi sbagliavo. C'è molto di più. Ecco perché non riesco a darmi pace: dovevo capire la gravità delle mie azioni». Lei fino all'arresto ha mentito a tutti. Come ha vissuto quei 6 mesi? «Un inferno. Ripetevo a tutti la mia innocenza, ma dentro ero sconquassato. Mia moglie ha capito qualcosa. La confessione è stata una liberazione». Ci racconta il giorno dell'arresto. «Non pensavo potesse accadere. Sono scappato? Ma no, non è andata così. La polizia mi ha trattato benissimo. L'ispettore mi diceva "Stai tranquillo, racconta quello che sai". All'inizio pensavo a un semplice interrogatorio. Poi...». Il carcere... «Già... Stavo da solo e ripetevo "Ma come hai fatto? Quanto sei stato stupido...". E poi il pensiero di mia figlia: devastante. Non ho dormito per due notti. Anzi, credo mai. E c'era un freddo boia». Che cosa faceva? «Niente, continuavo a pensare all'enorme cazzata commessa. Ah, ho letto un libro di Fabio Volo: "Esco a fare due passi". Sono stati tutti gentili con me. A iniziare dal gip Salvini e il pm Di Martino, finendo al mio avvocato Salvatore Pino». Per i tifosi dell'Atalanta lei era molto più di un idolo. «Lo so ed è la cosa che più mi ferisce in questa storia dopo il male fatto alla mia famiglia. La Dea per me è tutto, era tutto. . . Capisco di averli delusi, traditi. Non chiedo perdono, ma solo che non siano cancellate tutte le cose buone che ho fatto in campo». Pensa di vivere a Bergamo? «Sì, è la mia città. Non sarà facile, ma voglio restare lì. La benemerenza della città? Sono pronto a restituirla». Cosa farà da «grande» dopo quello che è accaduto? «Ehhhh. Volevo fare il dirigente dell'Atalanta, adesso so che è impossibile. So che ho chiuso con il calcio. Non ho idea di quello che farò. La ferita è troppo recente. Certo, il sogno di rimanere aggrappato al mio mondo c'è ancora». Il presidente Percassi ha detto che lei è oramai il passato? «Non lo biasimo...». Lei ha tenuto fuori dalle combine la società. Siamo sicuri che non sapesse nulla? Che non ha provato ad alterare la gara con il Padova? «No, lo escludo. Tuttavia, se la magistratura sta indagando, rispetto il suo lavoro». E se non c'entravano le scommesse? E se fosse stato un risultato che andava bene a entrambe? Quella mentalità sbagliata che lei ora indica come il male da perseguire? «Non credo, almeno io non ne sono a conoscenza». Antonio Conte è andato via da Bergamo usando parole dure, parlando di strane manovre. Come è andata? «Fin quando è stato il mio allenatore ha avuto problemi con tanti giocatori, con me di meno. Poi mi hanno dato molto fastidio le cose che ha detto dopo che è andato via. Accuse prive di fondamento, come quella che circola in giro che avrei fatto retrocedere l'Atalanta per favorire l'avvento di Percassi. Una bestemmia. Tornando a Conte, credo che lui sia un ottimo tecnico, ma deve plasmare un gruppo a sua immagine fin dal ritiro. Cambiarlo in corsa è impossibile». Lei ha avuto come allenatore anche Hector Cuper. Ha letto che i magistrati di Napoli lo accusano di aver preso soldi dalla camorra? «Sì, è stato uno shock. Mi sembra impossibile. Ma è anche vero che se qualcuno mi diceva che sarei finito in carcere...». il Commento di FRANCO ARTURI (GaSport 28-01-2012) FA MALE MA E' UN ALTRO PASSO AVANTI Cristiano Doni ha cominciato a raccogliere pezzi di faccia. La sua. Quella che aveva perso per i motivi che leggete qui di fianco. Un'operazione che immaginiamo dolorosa, ma che rappresenta anche l'unica via d'uscita dignitosa dal buco nero dove si era cacciato. Non c'è, nelle sue parole, alcun tentativo di minimizzare le proprie colpe e questo rende il tentativo di risalita più credibile. Abbiamo sostenuto qualche giorno fa che il calcio ha bisogno di pentiti alla Masiello, ilgiocatore che Doni stesso indica come esempio. Lo confermiamo con maggiore convinzione dopo aver meditato le risposte dell'ex capitano dell'Atalanta. Non vi fidate della definizione? Chiamateli collaboratori di giustizia, dissociati, testimoni credibili: la sostanza non si sposta di un centimetro. Oltre alla portata umana di questa «confessione» in pubblico, colpiscono riferimenti alla cosiddetta «mentalità sbagliata» su cui molti, a partire dai tifosi e dai dirigenti di club, devono fare accurate riflessioni. E' vero: troppo spesso in Italia ci si fa beffe delle leggi dello sport in nome di un cinismo machiavellico che lascia dietro di sé soltanto la progressiva disgregazione dei valori su cui si fonda l'agonismo. E' un costume che deve cominciare a cambiare. Partite che non contano? Non ne esistono, non possono esisterne. Questa è una delle strade da imboccare per rivedere tutto il nostro approccio al calcio, il passatempo preferito degli italiani. Ancora una volta, se le regole del business prevalgono su quelle del fair play e della lealtà, il risultato è quello di un fallimento del business stesso. La verità. Questo dobbiamo chiedere a noi stessi. Aprire quelle porte, anche se dietro ci sono troppi risultati accomodati e altri cumuli di spazzatura. Aprire quelle finestre, per far entrare aria pura. Aprire il cuore: serve sempre. Doni stavolta sta dando una mano a se stesso e a noi. Molto in ritardo, purtroppo, ma domani è un altro giorno. Migliore, anche per lui. DIFENSORE DEL CESENA Bari, pure Marco Rossi dice tutto di FRANCESCO CENITI & ROBERTO PELUCCHI (GaSport 28-01-2012) Dopo Andrea Masiello c’è un altro ex giocatore del Bari che ha deciso di parlare. E’ Marco Rossi, 24 anni, da questa stagione al Cesena. Il difensore, assistito dall’avvocato Roberto Di Maio, ha confermato di essere stato convocato dall’infermiere Iacovelli prima di Palermo-Bari del 7 maggio 2011 assieme a Masiello, Parisi e Bentivoglio. In cambio di 80 mila euro avrebbe dovuto contribuire a taroccare la partita. Rossi ha detto di non avere accettato i soldi, ma ha ammesso di aver visto cose strane attorno al Bari la passata stagione. «Era un ambiente malato», ha detto, denunciando agli inquirenti la presenza di troppi personaggi ambigui attorno alla squadra. Avrebbe detto anche di sapere che alcuni compagni avevano il vizio delle scommesse. Il fattaccio Importanti le parole di Rossi in merito alla rissa avvenuta negli spogliatoi dopo Parma-Bari 1-2 del 3 aprile 2011, che lo vide protagonista insieme con il capitano degli emiliani Morrone. «Mi state accusando di avere fatto il professionista», aveva urlato Rossi. Ieri l’ex barese ha confermato l’episodio: «Soltanto alla fine, quando Morrone mi ha gridato "non erano questi gli accordi", ho capito che probabilmente la partita sarebbe dovuta andare in modo diverso, ma io non ne sapevo nulla». Rossi adesso andrà da Palazzi. Il procuratore federale giovedì sarà in Procura a Cremona per ritirare gli atti, poi andrà a Bari e infine comincerà le audizioni in vista del processo sportivo. ___ L’inchiesta Anche Marco Rossi ammette di GIULIANO FOSCHINI & MARCO MENSURATI (la Repubblica 28-01-2012) UN ALTRO giocatore di serie A è stato ascoltato ieri dalla procura di Bari: è Marco Rossi, ex difensore biancorosso quest’anno al Cesena. Il ragazzo — difeso dall’avvocato Roberto De Maio — ha confermato le dichiarazioni di Andrea Masiello ammettendo la tentata combine di Bari-Palermo («Ma io non ho preso denaro», ha spiegato in sintesi), e raccontato della rissa negli spogliatoi del Tardini a Parma con Morrone che gli urlava «non erano questi gli accordi» («non sapevo di che accordo parlava»). Confermate anche la presenza negli spogliatoi del Bari di «strani personaggi». Secondo gli investigatori si tratta di uomini vicini al clan Parisi.
  11. Intervista letta stamattina. Commosso. Riletta nel pomeriggio. Commosso. Mi spiace per l'intervistatore.
  12. DINO ZOFF NEI MIEI PRIMI 70 ANNI HO PARATO TUTTO. PERSINO BERLUSCONI IL COMPLEANNO DEL PORTIERE-LEGGENDA CHE, NELL’82, VINSE I MONDIALI. UNA STORIA DI SERIETÀ «FRIULANA» ANCHE DA ALLENATORE AZZURRO, SINO ALL’INCIDENTE COL CAVALIERE NEL 2000. RIMPIANTI? NON ESSER RIUSCITO A PULIRE IL CALCIO di MAURIZIO CROSETTI (IL VENERDI DI REPUBBLICA | 27 GENNAIO 2012) ROMA. Questo sembra un compleanno, ma non è mica vero. Perché Dino Zoff è una creatura senza tempo. Il 28 febbraio saranno settant’anni, gli stessi di Muhammad Alì, dieci più di Vasco Rossi, quaranta più del mundial di Spagna che ne festeggia trenta a luglio. «Io la chiamo la fortuna della vecchiaia: hai capito com’è il mondo, e più di tanto non t’incazzi». Ha lo stesso viso di quando stava in porta, la stessa andatura. Zoff guarda il Tevere in un lucente mattino d’inverno, lo fissa come si scruta l’orizzonte di un campo di calcio. Serio, attento. «Forse, ero un po’ vecchio già da giovane». Dino, a settant’anni come si guarda il futuro? «Si pensa a quello dei nipoti, magari la soluzione alla crisi è diventare idraulico, o aggiustatore di sedie. Io, per me, ero motorista e quello avrei fatto nella vita». Era meglio, una volta? Proprio vero? «Ho vissuto un mondo bellissimo, un mestiere fatto per bene. Lo sport migliora le persone. Se ci credi, ci riesci. Poi, certo, arriva Calciopoli». Perché è arrivata? «Più per stupidità che per avidità. Il giocatore può essere facilone, può farsi tirare dentro. Ma se mi avessero anche solo proposto un trucco, li avrei picchiati ». Lei ha giocato 330 partite consecutive: cos’è, la durata? «Oggi non ci riuscirei. Oggi, il centravanti ti fa gol e comincia un ridicolo balletto, una coreografia da varietà. Anche lì, se l’avessero fatto davanti a me, li avrei menati, mi sarei fatto squalificare di sicuro. Sono pagliacciate, io ho sempre tolto invece di aggiungere, ho cercato di semplificare i gesti, le modalità, per arrivare all’osso delle cose». Come invecchia una leggenda dello sport? «Cercando di non macerarsi, visto che a 70 anni si comincia ad aspettare la morte. Sorridendo di più, anche se non sono mai stato musone, quella è una stupidaggine dei giornali. Serio sì, non musone ». Il contrario di questi tempi da circo, e non s’offendano i clown. «Ho visto Rivera ballare in quel programma con la Carlucci, che tristezza. Con le battute scontate, però se sei Rivera non puoi farlo. Viviamo tempi eclatanti e inutili, repliche di brutte commedie». Ormai ci manca solo Zoff al Grande Fratello. «Nel caso, ammazzatemi». Qual è il calcio più bello che ha visto? «Ma il calcio è sempre bello, è il contorno che non va, l’orpello, la pesantezza. Le sceneggiate, i fronzoli: l’Italia ama premiare i furbi, i simulatori, i venditori di fumo, è così che ci siamo rovinati. Ma un proverbio dice che i furbi un bel giorno muoiono per colpa degli stupidi ». Esiste una possibile difesa? «Io lo chiamo “il canone friulano”: lavorare bene ed essere seri. Ho fatto il possibile, ho cercato di dare l’esempio. Non si può cambiare il mondo, solo modificarne una piccola porzione, la nostra, con l’impegno ». Perché la vostra generazione di campioni non è riuscita a cambiare lo sport? Perché, invece di ballare con le stelle, non avete provato a diventare dirigenti? «Perché la politica ha chiuso tutti gli spazi, il vero potere ci ha respinti. E perché in Italia non si vuole il cambiamento: dopo Calciopoli è rimasto tutto uguale». Come si diventa Zoff? «Lottando con i numeri, con i risultati che non bastano mai. Fare, fare, fare. E mai un volo di troppo, non solo tra i pali. Per essere Zoff ho dovuto vincere un mondiale a quarant’anni, eppure nel ’73 ero arrivato secondo nel Pallone d’Oro dopo Cruyff. Ho cercato di tenermi basso, forse troppo, per il pudore di far vedere cose che non ci sono». Quali sono stati i portieri più grandi? «Combi e Sentimenti IV sono lontanissimi e non li posso giudicare. Direi Yashin, Banks, Zoff, Maier, Albertosi, Schmeichel e poi Buffon. Da giovane, Gigi aveva più personalità di quanta ne avessi io alla sua età, ma da vecchio io sono stato quasi imbattibile. Vedremo lui, a quarant’anni». Il portiere può essere creativo? «No, mai. Limita i danni dei creativi veri. Io sono stato un artigiano di qualità, magari il migliore al mondo, però non un artista. Lo erano semmai Pelè, il più grande di sempre, l’essenza del calcio, poi Maradona, forse più geniale ma meno completo, Sivori, Cruyff, Platini, Messi che ora merita il Pallone d’Oro a vita. E Paul Gascoigne». Gazza Gascoigne? In questa incredibile compagnia? «Sapeste che dolore, vederlo buttarsi via. L’arte sprecata è un crimine. L’ho amato e odiato, per questo genio e questa dissipazione». Trent’anni da Madrid ’82: lei e la coppa festeggiate insieme. «È stato enorme, irripetibile. Perché l’Italia segnò tanti gol su azione, velocissimi, perfetti. Riguardatevi la prima rete contro i tedeschi, con tre azzurri sulla linea della palla. Ci trovavamo a meraviglia. Anzi, si trovavano a meraviglia, perché io stavo in porta». La nazionale era stata anche più bella in Argentina, nel ‘78. «Vero, lì c’era pure Bettega, campione enorme. Il suo gol agli argentini, Bettega- Rossi-Bettega, resta una delle migliori azioni nella storia del nostro calcio ». Invece lei non prese quei tiri da lontano. «Se avessi giocato meglio, chissà, forse si poteva anche vincere il mondiale. Ma non ero vecchio, anche se Brera scrisse che era una questione di diottrie. Per mia fortuna, Bearzot vide più lontano. Mi sono sempre sentito figlio di Enzo: era talmente limpido che non voleva neppure che gli osservatori della nazionale volassero con le squadre di club che andavano a visionare, questo per essere più liberi, irreprensibili ». Mancheranno Bearzot e Scirea, alla sua festa. «Gaetano era lo stile, la serenità. Un vuoto grande come il primo giorno. Era sincero e pulito. Ed era più giovane di me, avrebbe ancora dato tanto esempio». Esiste la parata della vita? «Italia-Brasile dell’82, il famoso colpo di testa di Oscar nel finale. Volo e blocco a terra quella palla, sapendo che non esiste altra soluzione. So di averla presa in campo e non oltre la linea, ma è terribile l’istante in cui aspetto di capire se anche l’arbitro ha visto bene, mentre i brasiliani già gridano gol». Cos’è stata la Juve, per lei? «La consacrazione sportiva e la concretezza. Era come lavorare alla Fiat: produrre e ricavare, produrre e ricavare. Si guadagnava sui premi più che sull’ingaggio, e arrivare secondi era fallire. Logica industriale pura. Quando si discuteva il rinnovo del contratto, Boniperti cominciava a giurare sui figli: allora io pensavo che chi giura così, non può fregarti. Il mondo, però, non è degli ingenui». Cos’è la sconfitta? «Rappresenta la vera consapevolezza dell’atleta, il suo momento di crescita, perché si perde molto più di quanto si vinca. La finale di Atene contro l’Amburgo fu tremenda, la chiusura anticipata della mia carriera. Troppo entusiasmo: alla partenza, all’aeroporto di Caselle, ricordo un cartellone enorme del Trap che pubblicizzava un amaro. E lo bevemmo davvero, quell’amaro amarissimo». Ripensa spesso al gol di Magath? «Tutti lo ricordano come un tiro da lontano, invece era un metro dentro l’area. La palla si abbassò in modo strano, con un effetto maledetto. Quella finale di Coppa dei Campioni nell’83 venne perduta dalla più grande Juventus di tutti i tempi». Com’è una giornata da settantenne? «Un po’ di sport la mattina, tennis, nuoto, e il pomeriggio con i nipotini di due anni e mezzo e sette mesi. Sono un nonno operativo». Perché lei passa per musone? «Perché le parole di troppo sono fumo. Perché non mi è mai andato di giudicare, di criticare, di dire bugie pur di dire qualcosa. Perché la banalità uccide, invece il silenzio fortifica». Un giorno Berlusconi la giudicò indegno, alla lettera. E lei lasciò la panchina della nazionale. «Sono sempre stato un uomo scomodo. Ma tanti di quelli che hanno provato a farmi la morale li ho visti in azione, li ho conosciuti da vicino. Poi penso all’onestà feroce di Bearzot e mi consolo». Dino Zoff, le capita mai di sognare una partita di calcio? Di sognare il desiderio di essere ancora un portiere? «No, mai. Anche da giovane i miei sogni notturni erano confusi, indecifrabili e caotici proprio come adesso, però non riguardavano mai il lavoro. Neppure quelli ad occhi aperti, di cui sono uno specialista, e nessuno lo crederebbe. Sognare una carriera nel calcio, le vittorie, sognare la vita che poi ho avuto sarebbe stato impossibile: non c’era la tv che fa sembrare tutto a portata di mano. Le prime partite dentro un televisore le vidi che avevo dodici anni, era il mondiale del ’54». Un sacco di tempo fa. «Il tempo sconfigge tutto».
  13. GRANDI FAMIGLIE MORATTI IN VENDITA Mezzo miliardo di perdite grazie all'Inter di Massimo e alle iniziative tecnologiche di Gian Marco. Ecco cosa c'è dietro l'ipotesi di cedere una quota della Saras di LUCA PIANA (l'Espresso | 2 febbraio 2012) Non c'è solo la rimonta dell'Inter nel campionato di calcio. In queste settimane una questione più delicata per gli affari di famiglia costringe i Moratti a trattenere il fiato. A Milano, nel grattacielo della Saras, la principale delle loro aziende, vengono seguite passo dopo passo le conseguenze dell'embargo deciso dall'Unione europea sulle importazioni di petrolio dall'Iran. Tra i barili di greggio utilizzati per produrre carburante nella loro raffineria di Sarroch, in Sardegna, quasi uno su dieci arriva dal Paese degli ayatollah. E la perdita degli approvvigionamenti rischia di essere un duro colpo perché la Saras e tutte le raffinerie europee già oggi soffrono terribilmente l'aumento dei prezzi, al punto che la lobby dei petrolieri ha pubblicamente chiesto al governo di Mario Monti lo stato di crisi. Al di là delle pressioni sul governo, i Moratti hanno però fatto un passo che rivela una possibile svolta nella loro storia familiare. Già dalla scorsa primavera stanno sondando il mercato per vedere se c'è qualcuno interessato a comprare almeno una quota dell'impianto di Sarroch, inaugurato dal capostipite Angelo nel 1965 e da quel momento fonte di tutte le loro ricchezze. Cedere anche la metà di un bene così cruciale in un momento tanto negativo di mercato, sarebbe un cambiamento epocale, che mostra forse come Gian Marco e Massimo, i due figli ai quali Angelo aveva lasciato la guida dell'azienda in una famiglia dove le donne erano escluse dai posti di vertice, nutrano qualche timore per il futuro industriale del loro gruppo. E magari sentano, restando nel campo delle ipotesi, il colpo delle perdite accusate in alcuni business personali, dall'Inter di Massimo alle iniziative tecnologiche di Gian Marco e della moglie Letizia, ex sindaco di Milano. Perdite stimabili, negli ultimi tre anni, in circa 500 milioni di euro. A dire il vero, la ricerca di un alleato disposto a contribuire agli investimenti necessari per superare il momento buio della raffinazione sembra che si stia rivelando complicata. A quasi un anno dalle prime ammissioni del management con gli analisti, a quanto è dato sapere non si sarebbe ancora arrivati a un nome certo. Rispetto all'ultima dichiarazione di dicembre ("continuano i rapporti, anche informativi, con controparti industriali, che possono riguardare operazioni sia commerciali che strategico-industriali", aveva detto la Saras), fonti vicine alla famiglia ribadiscono a "l'Espresso" che non ci sono novità imminenti sull'arrivo di un partner: "Ammesso che accada, ci vorrà ancora tempo". Per i non addetti ai lavori, immaginare i Moratti in crisi o alle prese con la necessità di ricercare capitali esterni appare quanto meno sorprendente. Il loro è, infatti, uno dei nomi più noti del capitalismo italiano, anche se l'effettiva consistenza del loro patrimonio resta segreta. Gian Marco, 75 anni, è noto in città per essere stato lo sponsor delle milionarie campagne elettorali della moglie. Mentre Massimo, 66 anni, si calcola che in 17 anni di Inter abbia speso per sostenere la squadra circa un miliardo (vedi articolo nella pagina a fianco). Nessuno mette in dubbio la solidità del patrimonio familiare. È vero che Massimo si è fatto più attento e che nemmeno i suoi tifosi lo definirebbero oggi "lo sceicco del pallone italiano", come disse Fedele Confalonieri, grande amico del rivale milanista Silvio Berlusconi. Ed è anche vero che, durante le indagini della magistratura - poi archiviate - sul collocamento in Borsa di Saras nel 2006, un fiasco per gli investitori, spuntarono alcune mail dove un banchiere sussurrava che "uno dei fratelli" fosse indebitato per oltre 500 milioni. Furono però Gian Marco e Massimo, interrogati come persone informate dei fatti, a smentire difficoltà di questo genere. E fra chi li conosce c'è chi dice che i quasi 1.800 milioni di euro incassati sui loro conti personali con il collocamento siano ancora tutti lì, intatti. C'è poi un ulteriore fatto che rende lecito supporre che la famiglia possa contare su risorse più ampie delle partecipazioni rintracciabili negli atti delle loro società e delle loro proprietà immobiliari, disseminate dalla centralissima via Laghetto a Milano alla zona chic di Cortina d'Ampezzo, dall'isola di Saint-Louis sulla Senna parigina al magnifico Central Park di New York. Nella struttura proprietaria della Saras (vedi figura in alto) sono infatti presenti solo i figli maschi di Gian Marco e Massimo. Si dice che Angelo Moratti fosse contrario per principio alla presenza delle figlie nei ruoli aziendali perché temeva che si sarebbe aperta la strada a un'incontrollabile frammentazione della proprietà. Gian Marco e Massimo, chissà se per scelta o se per vocazione delle loro cinque figlie femmine, quanto meno nella Saras hanno continuato a seguire le direttive paterne. E così la nuda proprietà dell'accomandita che ne custodisce la maggioranza fa capo da diversi anni ai quattro figli maschi (la gestione è ancora in mano ai genitori, con Gian Marco presidente e Massimo amministratore delegato). È però immaginabile che, nella suddivisione dei beni accumulati dal nonno e dai genitori, anche le ragazze Moratti abbiano avuto la loro parte, senza darne troppa pubblicità. Perché dunque cercano un socio forte per la Saras? E perché la raffineria è in difficoltà? Dare una risposta plausibile alla prima domanda è difficile, perché riguarda in parte gli affari di famiglia. Affari che, a dispetto del patrimonio finanziario che è possibile attribuire loro, se si guardano le aziende personali negli ultimi anni non sono andati granché bene. Fornire un dato complessivo potrebbe essere fuorviante, perché nessuno dei due rami familiari ha una vera capogruppo che pubblichi un bilancio consolidato. A spanne si può però dire che, sommando le perdite accumulate dal 2008 al 2010 dalla Securfin (lato Gian Marco) e dalle sue partecipate sparse fra Lussemburgo, Stati Uniti, Olanda e Germania, nonché dall'Inter (lato Massimo) e dalle società raccolte sotto il cappello della Cmc, il rosso complessivo sfiora il mezzo miliardo di euro. E se è vero che la passione ultrà del patron nerazzurro è certamente dispendiosa, i dati sembrano smentire la vulgata che attribuisce a Gian Marco un bernoccolo degli affari più aguzzo: la controllata tedesca Syntek Capital, nata per investire nelle nuove tecnologie, ha perso negli ultimi anni 202 milioni, ai quali vanno aggiunti quelli riferibili alla controllante olandese Golden.e, ora annunciata come prossima alla chiusura. La Saras, dunque. In questi anni di tensione sul prezzo del petrolio ma anche di crisi economica in Europa, i raffinatori stanno vivendo un momento buio. Semplificando al massimo, si può dire che comprano il greggio a caro prezzo dai Paesi produttori ma vendono i carburanti a fatica in casa, dove i consumi sono diminuiti. Una volta la benzina prodotta a Sarroch trovava la via degli Stati Uniti. Ora invece sono le raffinerie americane che possono vendere in Europa i loro carburanti, perché per la prima volta il mercato Usa non assorbe tutta la produzione. E pure i cinesi stanno mietendo successi, con grandi recriminazioni da parte degli operatori europei che li accusano di godere di normative ambientali meno severe. Se il presente è duro, il futuro rischia di non essere migliore. Dice Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia: "Nemmeno quest'anno lo scenario è destinato a cambiare. Negli Stati Uniti e in Europa i consumi di benzina e gasolio sono previsti in calo e in Italia, se la recessione sarà dell'entità che si teme, andrà anche peggio che altrove. Per i raffinatori si tratta di un contesto molto complicato: anche gli impianti particolarmente sofisticati come quello di Sarroch non riescono a ottenere margini sufficienti per coprire il costo del greggio e gli oneri per lavorarlo". La cose si vanno complicando, fra l'altro, per alcune raffinerie italiane che hanno impianti fatti per lavorare i greggi dell'Iran, ora sotto embargo. Ma non tutti i mali vengono per nuocere: la Saras, non sapendo dove mandare la benzina, è l'origine di gran parte dei volumi che attualmente vanno alle cosiddette "pompe bianche", quelle al di fuori dei circuiti delle grandi compagnie che le ultime liberalizzazioni vorrebbero più diffuse. In tutta Europa, però, diverse raffinerie stanno chiudendo, mentre i produttori dell'Est hanno messo nel mirino gli impianti migliori. Spiega Tabarelli: "I russi sono interessati a comprare e hanno potenzialità enormi: basti pensare che, per loro, il costo di estrazione del petrolio è di 3-4 dollari al barile, rispetto ai 105 dollari a cui vendono attualmente quello di qualità Ural. Il problema è che sanno quanto sia difficile la situazione delle raffinerie europee. E aspettano il momento giusto per comprare". Un'attesa opportunistica che, però, potrebbe indurre i Moratti a resistere fino a quando il peggio sarà passato. I più svelti a vendere, in Italia, sono stati i Garrone, che nel 2008 hanno ceduto il controllo dell'impianto siciliano di Priolo alla russa Lukoil, che aveva interpellato pure la Saras. In tempi più recenti, invece, contatti ci sono stati certamente con il colosso moscovita Gazprom, ma sono circolati anche i nomi della kazaka KazMunaiGaz e dell'azera Socar. In teoria, per sfruttare il boom dei consumi di carburante previsto nei prossimi anni non solo in Russia ma anche in Asia, America Latina e Medio Oriente, la crisi potrebbe offrire un'occasione d'oro agli imprenditori che avessero le risorse e la capacità di compiere il salto di qualità. I Moratti, forse, i quattrini per provarci li avrebbero anche. Ma trovare il coraggio di farlo davvero è un'altra cosa.
  14. CASA BERLUSCONI GALLIANI in fuorigioco Prima il caso Pato. Poi il j'accuse di Maldini. Al Milan è sfida aperta tra il manager e Barbara Berlusconi di GIANFRANCESCO TURANO (l'Espresso | 2 febbraio 2012) Quando mi diranno di farmi da parte, ringrazio e me ne vado". Il promemoria di Adriano, nel senso di Galliani, è stato confidato a uno stretto collaboratore e ha un corollario: finché sto qui, nel senso del Milan, comando io. Solo un ordine del Supremo può contrastare il potere rossonero del geometra di Monza. Al di sotto di Silvio Berlusconi nessuno ha voce in capitolo, nemmeno la fidanzata di Pato. Per bloccare la cessione dell'attaccante brasiliano al Psg degli sceicchi qatari, Barbara B. ha dovuto fare il giro largo. Ossia, ha saltato la via gerarchica che la vede ultima arrivata nel consiglio di amministrazione del club e si è appellata a papà. Su Pato l'ha avuta vinta, per adesso. Ma quando ha tentato per le vie dirette e ha promesso un posto da dirigente alla bandiera milanista Paolo Maldini, Galliani ha deviato in corner piuttosto agevolmente. Paolino, ex capitano con 25 anni di gloria sportiva, ha pagato vecchie ruggini e la sua autonomia. Lo stesso è accaduto all'attuale direttore sportivo del Psg Leonardo, assunto a fine carriera come assistente di Galliani, poi mandato sulla panchina rossonera ad allenare e infine allontanato per avere osato criticare la proprietà. Certo, con Barbara è un po' più complicato visto che la proprietà è lei. Il match fra la rampolla e Galliani è un classico del familismo imprenditoriale italiano. Da una parte, c'è il dirigente di lungo corso, uno della vecchia guardia fininvestiana con un'anzianità di servizio al Milan di 25 anni e 10 mesi, superiore persino a quella del proprietario, costretto a dimettersi dalla presidenza dopo l'inflessibile legge Frattini sul conflitto di interessi varata nel 2004 dal governo dello stesso Berlusconi. Nell'altra metà campo, c'è l'erede, fulminata dal fascino di San Siro ancor più che da un giovane centravanti brasiliano e determinata a rimpiazzare Rosella Sensi nel ruolo di first lady della serie A. A 67 anni, con una storia di successi e trofei, Galliani è alle prese con gli ultimi impegni del calciomercato invernale. Resta da vedere se riuscirà a cedere Pato prima che Barbara ceda lui. Al momento il vicepresidente esecutivo e consigliere delegato è favorito dal pronostico. Ma se perdesse la partita, non sarebbe la prima. Negli equilibri del Biscione, Galliani ha sempre avuto un ruolo particolare. È uno della prima ora ma non ha fatto la Marcia su Milano 2, come Fedele Confalonieri e Marcello Dell'Utri. Dà del lei a Silvio. Ad eccezione di un momento in cui ha tentato di ottenere una laurea honoris causa dall'allora rettore di Urbino Carlo Bo, ha sopportato il marchio di geometra con cristiana rassegnazione in mezzo a laureati, master in business administration, bibliofili e cultori della Storia. Eppure è stato un perno dello sviluppo su basi nazionali di TeleMilano-Canale 5, garantito dalle antenne della sua Elettronica industriale. Era quello il suo lavoro, non il calcio. Al Milan c'è finito quasi per caso, lui tifoso juventino, perché era vicepresidente del Monza del costruttore Valentino Giambelli. In quegli anni, peraltro, la presenza di Berlusconi nelle vicende della squadra era totalizzante e andava dalla campagna acquisti al modulo di gioco fino alla scelta del dessert. Tutti gli altri erano comprimari. Dopo avere ceduto per intero l'Elettronica industriale a Mediaset nel gennaio 1996, poco prima della quotazione delle tv, per molti anni Galliani ha alternato le conferenze stampa a Milanello e gli impegni nel centro di broadcasting di Cologno Monzese. Oggi lo ricordano in pochi ma l'"antennista" è stato consigliere delegato di Mediaset fino al 1998, quando ha incassato un'estromissione dolorosa, completata nel 2002 con le dimissioni da consigliere di amministrazione della subholding quotata. Mentre il Cavaliere era sempre più impegnato dalla politica, il vicepresidente è diventato sempre più esecutivo e sempre più delegato a controllare il calcio nazionale per conto di Silvio. Non a caso l'uscita da Mediaset nel 2002 coincide con l'elezione di Galliani a presidente della Lega calcio. Le dimissioni arrivano nel 2006, dopo il deferimento per lo scandalo di Calciopoli concluso con una condanna della giustizia sportiva a cinque mesi. Tutto sommato, poca cosa. E anche negli ultimi anni, il peso di Galliani in Lega è stato predominante. Privarsi di lui sarebbe difficile e Berlusconi lo sa. Non solo dietro Adriano c'è il nulla, ma bisognerebbe sborsare una buonuscita consistente. Il tfr di Galliani è un segreto ben custodito, così come il suo stipendio. Né il Milan né la controllante Fininvest sono quotate. Dunque non sono obbligate a indicare con esattezza i compensi dei top manager. L'unica certezza è che il compenso totale ai consiglieri del club (13 in totale) è di 2 milioni di euro. Se anche la maggior parte di questa cifra finisse in tasca a Galliani, significherebbe che il chief executive officer rossonero prende quanto un panchinaro. Poco probabile. Galliani è anche un tesserato e parte del suo compenso, specialmente i bonus variabili legati ai risultati sportivi, è confusa nel calderone da circa 200 milioni di euro annui dei costi per dipendenti. Dopo 26 anni la sua liquidazione è stimata in oltre 10 milioni. A questi andrebbe aggiunta una somma legata alla valorizzazione dell'impresa Milan. Berlusconi ha comprato la società nel febbraio del 1986 sull'orlo del fallimento e a prezzo stracciato. Galliani è arrivato a marzo del 1986, portandosi dietro il direttore sportivo del Monza Ariedo Braida. Dopo un quarto di secolo, la rivista statunitense "Forbes" ha messo il Milan al sesto posto nella classifica mondiale dei club di calcio con una stima di 838 milioni di dollari (645 milioni di euro). Riconoscere il contributo di Galliani nella creazione di questo patrimonio significherebbe dargli un premio paragonabile a quello incassato da Alessandro Profumo all'uscita di Unicredit, se non a quello ottenuto da Cesare Romiti dopo gli anni alla Fiat. Tanto varrebbe pagarlo con una quota del club. Ma chi lo dice a Barbara? Palla ai russi di GIANFRANCESCO TURANO (l'Espresso | 2 febbraio 2012) Sulla presunta cessione di Mediaset, Silvio Berlusconi ha costruito una strategia. Negli anni, le trattative per vendere le tv sono servite a distogliere l'attenzione dal conflitto di interessi. Sulla vendita del Milan, invece, la controllante Fininvest ha sempre stroncato ogni diceria. Di certo, c'è una valutazione d'impresa, affidata nel 2009 al consigliere del club Francesco Barbaro. Ma in quella fase Marina premeva per bloccare l'emorragia finanziaria provocata dalla squadra. Da allora, il Cavaliere ha ripreso a spendere. Quanto ai nuovi soci, le smentite ufficiali hanno stroncato ipotetici negoziati con i fondi libici al tempo del Colonnello e con gli emiri di Dubai in piena crisi dell'Emirato. Adesso tocca ai russi. Il nome che circola è quello di Gazprom. Il colosso dell'energia statalizzato dall'amico Vladimir Putin potrebbe rilevare il 30 per cento del Milan. O no? L'operazione è problematica soprattutto a causa dell'articolo 3, paragrafo 1, comma A del regolamento Uefa. La norma vieta compartecipazioni, anche di minoranza, tra club che giocano la Champions e l'Europa league, pena l'esclusione di uno dei due. E Gazprom controlla lo Zenit San Pietroburgo, allenato da Luciano Spalletti e sostenuto dal pietroburghese Putin. È curioso che anche l'Inter di Massimo Moratti abbia (avrebbe?) un pourparler per cedere il 30 percento delle azioni in territorio russo. Si parla del tycoon daghestano Suleiman Kerimov, proprietario dell'Anzhi. Le milanesi sognano i rubli ma forse è solo un'illusione. Non parlate di fair play di MARCEL VULPIS * (l'Espresso | 2 febbraio 2012) In casa Inter è tempo di mettersi a dieta. Nonostante la diminuzione dei costi per 53 milioni e un ricavo straordinario (grazie all'accordo con la Rai sull'archivio delle immagini tivù) di 13, 3 milioni, la perdita netta registrata nell'esercizio chiuso a giugno 2011 è stata di quasi 87 milioni. Un rosso peggiore dell'anno precedente, che già aveva fatto segnare una perdita di 69 milioni. Quest'anno, peraltro, la società nerazzurra ha registrato un giro d'affari di 268,8 milioni, in netto calo rispetto ai 323,5 della stagione dei successi conseguiti sul campo dall'ex allenatore José Mourinho. L'onda lunga collegata alle vittorie, dunque, non c'è stata. Negli ultimi tre anni, peraltro, la somma delle perdite ha superato i 310 milioni. Troppo anche per il presidente-mecenate Massimo Moratti. È una cifra che si pone infatti al di sopra della soglia di tolleranza di 45 milioni prevista dal progetto di fair play finanziario del presidente dell'Uefa, Michel Platini, in vigore dal 2013. Se i ricavi verranno confermati nella loro entità anche nelle stagioni successive, la scelta della riduzione dei costi è un obbligo imprescindibile. Moratti, invece, ritiene che la società nerazzurra "debba e possa" aumentare i ricavi commerciali per allinearsi ai club migliori e mantenere la squadra in alto. Il patron, però, dal 1995 a oggi ha speso una fortuna: nei 16 bilanci da lui firmati l'Inter ha cumulato perdite nette per 1, 2 miliardi e ha ricevuto apporti dai soci per oltre un miliardo. Un primo tentativo di ridurre in parte i costi è stato realizzato l'estate scorsa con la cessione dell'attaccante Eto'o, che ha fatto risparmiare circa 20 milioni di ingaggio lordo. Un secondo passaggio arriverà dalla prossima estate, quando andranno in scadenza i contratti dei difensori Samuel, Chivu e Cordoba, che guadagnano 3-4 milioni netti a campionato. Per essere in regola, bisognerà però stare attenti. Al 30 giugno scorso, infatti, il costo dei dipendenti, in rapporto al valore della produzione, superava anche se di poco il limite massimo del 70 per cento stabilito dal futuro regolamento Uefa: un caso che con le nuove norme potrà far scattare dei controlli. Mettersi a posto, tuttavia, rischia di essere un problema: mandare a casa troppi campioni non piace ai tifosi e nemmeno agli sponsor, che pagano tantissimo (12, 7 milioni arrivano dalla sola Pirelli) per veder vincere la squadra e crescere in esposizione tivù. * direttore Sporteconomy.it
  15. RELAZIONI INDUSTRIALI Comunicato sindacale Il Comitato di redazione del Corriere della Sera sull'ipotesi di trasferimento dalla storica sede milanese di via Solferino Corriere.it 26 gennaio 2012 (modifica il 27 gennaio 2012) Caro lettore, siamo qui a denunciare il pericolo che tra pochi mesi il Corriere della Sera, in termini di qualità, potrebbe non essere più lo stesso quotidiano che sei abituato a leggere. Perché l’informazione sia completa e corretta, un quotidiano deve lavorare come un corpo vivente, in cui tutti gli organi operano per la salute dell’insieme. I giornalisti contribuiscono raccogliendo notizie, verificandone l’attendibilità, presentandole con obiettività nella miglior forma possibile e curandone l’aggiornamento fino a un attimo prima della stampa. Questo può essere fatto solo attraverso la stretta e continua collaborazione con la componente poligrafica del giornale, la cosiddetta tipografia: cambiamenti in corsa, aggiunte, miglioramenti, inserimenti delle novità o delle immagini o di grafici dell’ultimo momento. Fianco a fianco, fino a notte. Certo, la tecnologia consente di comporre un giornale «bionico», le cui parti vengono costruite in luoghi diversi e poi assemblate con escamotage informatici. Però con perdite di tempi preziosi per l’accuratezza dell’informazione e con la rinuncia tout court a una circolazione sanguigna che fa la differenza tra un corpo vivo e uno meccanico. La Rcs Mediagroup ha annunciato di voler mettere in atto questo tipo di violazione dell’organismo Corriere della Sera: smembrando la redazione dalla tipografia e immaginando persino di scorporare alcune parti di redazione dal suo insieme. Qualcuno resterebbe in via Solferino, altri verrebbero trasferiti a Crescenzago. Il motivo è la volontà di vendere gran parte degli edifici di proprietà nell’area Solferino-San Marco. Per «valorizzarli», dice l’azienda. Per «fare cassa» rapidamente, è la traduzione giornalistica, in modo da porre rimedio ai disastri provocati negli ultimi anni della gestione dissennata e fallimentare che il management sostenuto dagli azionisti ha messo in atto. Siamo qui a denunciare il depauperamento qualitativo oltre che economico, l’attenzione continua a interessi esterni all’impresa editoriale a danno del prodotto, del marchio, dei suoi lavoratori e dei lettori. Mentre con una mano l’azienda negli ultimi due anni ha chiesto (e chiede) soldi pubblici tramite stati di crisi e ristrutturazione subentranti, con l’altra assegna a azionisti e vertici manageriali ricchi dividendi e premi quasi milionari. Mentre vengono chiuse testate del gruppo (come City) ricorrendo alla cassa integrazione, mentre giornalisti e poligrafici di diverse testate del gruppo vengono prepensionati, con la grave perdita di eccellenze professionali e un aggravio straordinario per gli enti di previdenza, una casta (questa sì) di intoccabili non paga neppure il minimo pegno per le scelte scellerate in termini di politica aziendale, di investimenti (l’acquisizione della Recoletos spagnola è l’esempio più eclatante) che, ben oltre la crisi congiunturale, hanno portato al disastro. Per contrastare il declino, e mettendo al primo posto il giornale, la redazione del Corriere da tempo ha accettato sacrifici pesanti. Dietro questa assunzione di responsabilità c'era anche l'impegno di custodire il giornale «completo» in via Solferino. Al contrario, l’attenzione aziendale verso il giornale, e di conseguenza verso i diritti del lettore, è così evanescente che si pensa di fare scempio del corpo Corriere vivente lasciando invece nella storica sede di via Solferino gli uffici dei più alti vertici aziendali e lo staff del marketing. L’immagine di facciata e la pubblicità devono avere il dominio sull’informazione? Il Corriere della Sera e quella che è la sua casa storica da 110 anni rappresentano anche un simbolo per Milano, basta pensare alle scolaresche che quasi ogni giorno vengono a visitare la redazione. Noi faremo tutto ciò che è nelle nostre disponibilità per difenderlo e per tutelare la qualità delle notizie. Chiediamo anche a te, caro lettore, di aiutarci a salvarlo. Il Comitato di redazione del Corriere della Sera
  16. IL COMMENTO Fair play, salvo chi punta sui giovani di ROBERTO RENGA (Il Messaggero 27-01-2012) NON È FACILE ritornare sulla terra, dopo aver visto Barcellona e Real Madrid darsele di santa ragione, in senso buono e meno buono: attori da Oscar, regia hollywoodiana con un occhio agli effetti speciali, musica (sugli spalti), ragazze (a casa), dialoghi innovativi, attori belli, brutti, cattivi, feriti, botte a gogò, Marca e Mundo Deportivo con il coltello al posto della penna, gol memorabili, suspense che sarebbe piaciuta a Hitchcock. Che meraviglia, nonostante Pepe, che dovrebbe passare a uno sport più violento: per il calcio, sinceramente, è sprecato. Ma com’è che Barça e Real sono così forti? Perché incassano e dunque spendono. Mostrano debiti, ma un po’ ci marciano. Hanno una storia e un nome. Chiunque vorrebbe una maglietta bianca o del Barça. Vengono seguite in tutto il mondo, come da noi viene raccontata la formazione di casa. Sono le due vere squadre mondiali e la rivalità cresce, l’attesa pure e Barça e Real rischiano di cancellare o nascondere il resto. Da noi c’è la Coppa Italia, in Spagna il Classico: la differenza ci fa del male. I nuovi ricchi russi e gli sceicchi vogliono seguire la stessa strada, comprando come capita e buttando soldi, cui, non avendoli guadagnati con il sudore della fronte, non danno valore. Ma non possono comprare la cultura, la tradizione, le conoscenze calcistiche. E poi c’è di mezzo Michel Platini. Che c’entra? C’entra sì. Platini è il presidente dell’Uefa e (giustamente) s’è inventato il fair play economico, che in sintesi, vuol dire: spendete i soldi che avete, non quelli che escono dai pozzi di petrolio o dai tubi del gas. Bello, no? Così, autofinanziandosi, si vede chi è effettivamente il più bravo, come nello sport sarebbe giusto. Solo che Platini ha sponsorizzato l’arrivo dello sceicco bianco a Parigi, che è casa sua e adesso non sa come muoversi. Può fermare l’uomo che ha invitato a cena e che s’è già aggiudicato i mondiali del futuro? Mica facile. Come parla, parla male di chi spende e spande, solo che evita accuratamente di fissare il mirino sull’uomo dei sogni parigini. S’è infilato in una storia dalla quale sarà difficile ne possa uscire senza macchiarsi di petrolio, che, come si sa, puzza, ma di danaro. Prima o poi Michel sarà costretto a fermare il fiume nero e dunque si bloccheranno anche il City e il Psg. United e Liverpool hanno tratto più svantaggi che vantaggi dall’arrivo degli sgraditi americani e così che succederà da qui a qualche anno? Resteranno in piedi quelli che hanno investito su strutture e settori giovanili. Come le due grandi di Spagna e di Germania, dove ci insegnano come si dovrebbe fare calcio. E noi? Poveri noi.
  17. Intercettazione choc Il piano di Iorio per agganciare i giudici a Roma Agli atti il tentativo di contattare un magistrato della Cassazione per scavalcare il gip di Napoli di LEANDRO DEL GAUDIO (Il Mattino 27-01-2012) Un’idea ricorrente: avvicinare un magistrato a Roma e scavalcare il giudice di Napoli. Idea mai andata in porto, anche se poi restano decine di telefonate agli atti tra Antonio Iorio e un suo amico giornalista. Si ragiona a voce alta, oggi quelle parole entrano nel processo che vede imputati imprenditori e uomini d’affari. Processo al presunto riciclaggio aggravato dalla finalità camorristica, eccoli i nuovi brogliacci messi a disposizione delle parti. Settima sezione penale, sotto accusa imprenditori, professionisti, ma anche presunti usurai di Pizzofalcone, in una vicenda che vede coinvolto (ipotesi di favoreggiamento) anche l’ex capo della Mobile Vittorio Pisani. Si va dal presunto piano di contattare un giudice a Roma, alla presunta mediazione di Mario Potenza (morto lo scorso 15 gennaio) in Questura, dopo il furto in un ristorante rinconducibile al gruppo Iorio. Inchiesta dei pm Sergio Amato e Enrica Parascandolo, ecco le intercettazioni acquisite dalla Dia del capocentro Maurizio Vallone. Il giudice amico Al telefono Antonio Iorio ragiona sul modo per ottenere il dissequestro di un appartamento di proprietà del figlio Carmine, dal momento che la nuora (che da pochi giorni aveva dato alla luce il secondo bambino), non poteva più vivere nella casa dei suoceri. Se la prende con il gip Maria Vittoria Foschini, decisa a mantenere in vigore il sequestro e disponibile semmai a fittare l’appartamento alla donna, per garantire un introito allo Stato: «Ha chiuso le porte agli avvocati», dice Antonio Iorio. Esasperazione, poi l’idea di contattare un giudice a Roma. È il 17 ottobre scorso, quando Antonio Iorio contatta al telefono l’amico giornalista Pierpaolo Petino (non indagato). Fa il nome di un giudice e poi chiede: «Vedi un po’ se possiamo contattarlo, è un giudice emerito». Poi, il 10 novembre scorso, si torna sul punto. Iorio insiste e chiede a Petino informazioni sulla «ricerca». Anche qui è un continuo parlarsi addosso. Antonio Iorio: «Pierpaolo... ma è difficile proprio avere un contatto con questo». Petino: «Io non ci riesco ad avere una linea diretta, nel senso che ho trovato chi lo conosce, però.. . diciamo una linea diretta preferenziale no... perlomeno non ancora! Sto aspettando un mio amico di Roma che tra l’altro è il nipote di un alto magistrato e. . . ». L’incontro in questura C’è un lungo capitolo agli atti che riguarda invece le conversazioni di Mario Potenza, il contrabbandiere ottantenne morto lo scorso 15 gennaio. L’uomo si vanta di aver incontrato Vittorio Pisani in Questura. Si sarebbe adoperato perché i responsabili di un furto in un ristorante riconducibile al gruppo Iorio si consegnassero. In cambio, a sentire le parole intercettate (al momento prive di riscontri), avrebbe ottenuto che i controlli nella zona di Santa Lucia e dei Quartieri spagnoli si allentassero. «Pisani - si legge - quando fu il fatto di questi qua che rubarono a Marco Iorio allora bumt, bamt? Li maltrattava malamente ogni giorno? Disse: se non mi date i 90 milioni (l’ammontare del bottino in lire, ndr) non vi faccio lavorare più qua sopra. . . salivano scendevano? Seppe che si mise d’accordo e che gli dovevano restituire i soldi? Lui (Pisani, annota la pg) non volle a nessuno... Andai con Renato, sopra da lui, andammo sopra. . . Renato entrò, poi disse: fuori sta il chiacchierone (il soprannome di Potenza, ndr)? Lui mi fece entrare. Disse: alla squadra mobile è chiuso, sta il chiacchierone per mezzo... mi mise come ”apparitore”. Disse: Mario, allora chiudiamo... lo salutai, mi fece avere il passaporto in due ore... Mena, ma io di ho fatto un cofano di favori. . . se loro mi chiedevano dei favori io glieli facevo... un paio di cose me la sono vista malamente». «Cannavaro ingrato» Non manca un riferimento a Fabio Cannavaro, tacciato di ingratitudine dalla madre dei tre imprenditori Iorio. Più di una volta, i legali di Cannavaro hanno ribadito l’estraneità del calciatore in questa storia di riciclaggio e di soldi sporchi, dicendosi pronti a tutelare l’immagine dell’ex difensore della Nazionale in tutte le sedi. Qui, a voce alta, la donna rimprovera a Cannavaro di aver lasciato che il figlio dell’amico, Antonio, si trovasse in difficoltà economiche a Miami, proprio mentre lo stesso Cannavaro trascorreva le vacanze in quella città. È il sei luglio scorso, ecco lo sfogo di Rosanna Strazzullo: «Sta facendo le vacanze, perché non vede il figlio dell’amico come sta? Che tiene i soldi e vede... Antò, ti serve qualcosa di soldi, a zio? O no?». Il marito replica: «E lo dovrebbe chiamare Valeria (moglie di Marco Iorio, ndr) al campione del mondo!». La donna continua: «Eh, al campione del mondo! E dice: campione del mondo, mio marito lavorava e ti mandava il soldi... Tu sei il socio e facevi il campione del mondo e sei miliardario. . . adesso mio figlio ha bisogno... mandaci qualcosa di soldi, no? Mio marito ti ha fatto socio ed ogni mese ti mandava tutto quello che guadagnavi. . . te lo mandava con tutto che tenevi i miliardi». Al telefono c’è spazio anche per un’ipotesi di dossieraggio contro i pm titolari dell’indagine, che viene categoricamente smentita dai legali di Pisani, i penalisti Vanni Cerino e Rino Nugnes.
  18. Quando il calcio perde la memoria Triestina e Spal, fallimenti storici Le squadre di Rocco e Capello rischiano di scomparire di MAURIZIO CROSETTI (la Repubblica 27-01-2012) Chi mai può portare, oggi, un´alabarda sul petto? Chi mai può vantare un nome che è addirittura un acronimo per metà in latino? Questo è la Triestina (alabarde), questo è la Spal (latinorum), ovvero la Società Polisportiva Ars et Labor. La prima la cantò Umberto Saba. La seconda è una punta di compasso nel cuore delle geografie del calcio, solo in apparenza periferiche. Perché Trieste e Ferrara, lassù a destra sulla cartina dell´Italia e quaggiù nel mezzo della pianura, sono state pietre angolari di un edificio che ora si sgretola come un biscotto, con buona pace di storia, gloria e memoria. L´Unione Sportiva Triestina Calcio è fallita l´altro ieri. La Spal ha due giorni di tempo per non fare la stessa fine. Stritolate, entrambe, da una crisi a precipizio e da gestioni finanziarie quantomeno allegre. La Triestina era già fallita nel ´94, la Spal fu sul punto di scomparire nel 2005, e venne salvata solo grazie al lodo Petrucci. Ma sulla sabbia non c´è palazzo che non vacilli. Ed è così che questa crudele spirale parallela, questa caduta in avvitamento sembra una storia gemella, come se alabardati e latinisti si fossero uniti nella sciagura e nella disfatta. Perché non sanguinano solo i libri contabili. Chiunque abbia un po´ a cuore il pallone, non può non essere affezionato al ricordo del paròn Rocco, del quale proprio quest´anno si celebra il centenario della nascita (20 maggio 1912) con varie iniziative e una grande mostra curata da Gigi Garanzini. Il pensiero di Rocco non merita di essere confuso con questo triste presente, del resto tra triste e Trieste c´è ben poca differenza. Rocco, che nella Triestina giocò (e fu il primo, di quelle terre, ad arrivare in nazionale) e poi allenò, sfiorando addirittura lo scudetto nel ´48, l´ultimo vinto dal Grande Torino (il successivo sarebbe stato assegnato alla memoria), prima della sciagura di Superga. Il paròn, burbero benefico, aveva introdotto il "mezzo modulo", una specie di genitore del calcio all´italiana, lui che in quella stagione memorabile usò appena quindici giocatori. Un decennio prima, la Triestina aveva dato addirittura tre elementi all´Italia campione del mondo: Piero Pasinati, Gino Colaussi e Bruno Chizzo, e il resto se lo porta via il tempo. Non i versi di Saba, però, che in "Squadra paesana" scrive: "Anch´io tra i molti vi saluto, rosso-alabardati/sputati dalla terra natìa,/da tutto un popolo amati". La Triestina rimase in A, ininterrottamente, dal ´29 al ´57, sola in testa nel ´42, poi la caduta inesorabile, l´ultima serie B due anni fa, quindi lo schianto in prima divisione-Lega Pro. Infine, il baratro contabile e l´onta del tribunale. «Non vediamo un euro da ottobre», dice, sconsolato, l´allenatore Nanu Galderisi, ex juventino dal fiammante gesto tecnico. Cose perdute, pure quelle, nelle fauci del tempo gran divoratore. Anche la Spal sta oggi nell´ex serie C, dove sembrava avere trovato un metodo infallibile per autofinanziarsi. Il presidente Cesare Butelli s´inventò il parco fotovoltaico, gestito come società sportiva, contratti in apparenza garantiti con le società dell´energia e futuro illuminato come si conviene. Era un´illusione: la lampadina si è fulminata presto. Da luglio, neppure un centesimo di stipendio pagato, e la messa in mora del club è imminente: restano 48 ore per trovare i soldi, cioè nuovi acquirenti finora fantasmatici (niente cordata romana, meno che mai quella lombarda), poi i giocatori saranno liberi di cercarsi una nuova squadra, e la Spal diventerà un guscio vuoto. Una malinconia, per chi nacque allo sport nel 1907, cinque anni prima della Triestina, e ha giocato sedici stagioni in A, mica una settimana, anche se ormai vi manca da più di quarant´anni, e in B da venti. La Spal di Oscar Massei, fuoriclasse argentino che quasi più nessuno ricorda, ma anche di Fabio Capello, Albertino Bigon e del leggendario portiere Bugatti. Generazioni di bambini si sono chiesti cosa mai volesse dire Spal, quel nome persino più strano di Sampdoria, Juventus e Atalanta. Perché sono belle le squadre che non hanno il nome di una città, ma non meno affascinanti le altre che invece una città evocano, come la bella e remota Trieste con la sua "scontrosa grazia", ed è ancora Saba. Colui che salutava le alabarde sul petto, dove oggi sanguina una piccola lacrima di nostalgia.
  19. Il caso Il giocatore che ha denunciato lo scandalo scommesse Farina, dopo i premi arriva la paura «Chi ci proteggerà?» La moglie: «Abbiamo due bimbi...» di ALESSANDRO CAPPONI (CorSera 27-01-2012) GUBBIO—Il lato oscuro del calcio può essere spaventoso. Quel galantuomo di Gigi Simoni spiega ciò che sta accadendo al suo terzino con poche parole: «È una roba che comporta dei problemi, in questa storia non ci sono solamente le medaglie... ». E l’altra faccia dell’onestà, per il calciatore Simone Farina, adesso, è la paura. Bisogna dimenticare l’abbraccio di Blatter e i complimenti di Platini, la serata di gala con Lionel Messi e il pallone d’oro, la «convocazione» premio di Prandelli, gli applausi dei tifosi: Simone Farina è, con la famiglia, nella pancia del piccolo stadio di Gubbio per ricevere il riconoscimento che la Fiorentina, in epoca Della Valle attenta a correttezza e fair play, gli assegna per aver denunciato il marciume di alcuni suoi colleghi. È di Farina il primo «Cartellino viola ». La moglie Scilla ha lineamenti delicati, pochissimo trucco: nell’aspetto e nei concetti, è tutto fuorché una velina. È stata accanto a lui nel denunciare questa brutta storia di corruzione, scommesse truccate, calciatori senza onore: gentaglia che un giorno ha bussato alla loro porta con inmano duecentomila euro. Lei però, ora, ha il tono preoccupato di una madre: «In questi giorni tutti ci dicono bravi, ma dopo cosa succederà? Chi ci proteggerà? Abbiamo due bimbi piccoli, e ci pensiamo a quello che può succedere. Io ci penso, Simone ci pensa...». Anche la Digos di Perugia, ci pensa: gli agenti che vanno al campo ogni sabato sono andati da lui qualche tempo fa e gli hanno fatto memorizzare i loro numeri di telefonino. «Il profilo basso tenuto in questi mesi si spiega così — racconta il vicepresidente del Gubbio, Giancarlo Brugnoni—Simone ha avuto un periodo difficile, ma ora va un po’ meglio». Poco prima dell’inizio della conferenza per la consegna del «Cartellino viola », Simone Farina — romano di Trastevere, 29 anni, biondo con gli occhi blu—prima ancora di capire di avere un cronista di fronte, un poco si racconta: «Ho fatto le giovanili della Roma, poi Catania e Cittadella in C1, Gualdo in C2, poi Celano e il Gubbio fino alla serie B, da cinque anni». È dalle giovanili della Roma, da quel passato di «una vita fa», che è sbucata l’offerta illecita, il tentativo di corruzione: «Un compagno che non vedevo da una vita. Ma io non voglio fare il fenomeno. Ho fatto una cosa normale». Adesso minimizza il coraggio che ha avuto, questo ragazzo gentile. Ha ricevuto offerte dal mondo della moda, dalla tv: rifiutate, tutte. «Voglio solo giocare al calcio». Dice di non aver avuto minacce. E aggiunge una frase che difficilmente si sente da un calciatore: «Io voglio una vita normale». Dice di guadagnare «poco», almeno al confronto con gli stipendi della serie A, una cifra tra i 50 e i 70 mila euro all’anno. Con quei 200 mila, avrebbe dovuto anche corrompere i suoi compagni: in ogni caso, con una partita truccata, avrebbe potuto mettersi in tasca lo stipendio di una stagione. Andrea Abodi, il presidente della Lega serie B, dice che «di certo è un patrimonio della Lega » ma nega di avergli offerto, nei venti minuti di colloquio, un ruolo da dirigente. Vincenzo Guerini, club manager viola, a inizio conferenza dice una frase che racconta, forse, le ultime settimane di Simone Farina: «Solo adesso ci stiamo accorgendo di quanto è grande e pericoloso quello che ha denunciato Simone». Lui stesso, almicrofono, spiega il suo silenzio: «Non parlo per motivi familiari, di prudenza. . . ». ___ Cremona e Bari: svolta su giocatori e partite Le due inchieste puntano dritte alla Serie A: il salto di qualità grazie a Gervasoni, Carobbio e Masiello. Presto nuovi arresti di FRANCESCO CENITI (GaSport 27-01-2012) L'incertezza è solo sui tempi. Perché una nuova ondata di arresti nell'ambito delle inchieste sul calcioscommesse è data per scontata da fonti investigative. Sia a Cremona, sia a Bari. Sulle spine ci sono moltissimi giocatori: gli indagati dovrebbero essere quasi un centinaio. Le rivelazioni di Gervasoni, Carobbio e Masiello hanno dato nuovo impulso alle indagini. E soprattutto chiarito un aspetto che la scorsa estate sembrava scongiurato: la Serie A è stata condizionata dalla bufera scommesse. Qui Cremona C'è una notizia che potrebbe cambiare il corso delle prossime settimane: il procuratore Roberto Di Martino dovrebbe restare a tempo pieno sull'inchiesta Last Bet non dovendo più occuparsi del processo d'appello sulla strage di piazza della Loggia a Brescia. Oggi dovrebbe esserci l'ufficialità. Sarebbe scongiurato, in questo caso, il rallentamento delle indagini. La deposizione di Masiello intanto è servita a puntellare due aspetti fondamentali: il ruolo degli zingari e la veridicità delle rivelazioni fatte da Gervasoni e Carobbio. Tradotto: massima attenzione sulle posizioni dei giocatori chiamati in causa nei verbali, mentre i sospetti sulle gare manipolate dagli slavi diventano prove indiziarie. Ecco che il cerchio si stringe su Lazio-Genoa, Lecce-Lazio e Brescia-Bari per la A, ma coinvolge anche Siena e Novara per sfide di B. Diversi giocatori di queste squadre sono inquisiti e rischiano grosso. Senza dimenticare il «caso Corvia». Tirato in ballo da Paoloni e poi scagionato dallo stesso portiere, ma gli accertamenti tecnici hanno ribaltato ancora la situazione. Sempre nell'attesa di catturare Almir Gegic: il capo degli Zingari dovrebbe avere le chiavi della cassaforte di tutte le combine gestite dalla banda. Qui Bari L'inchiesta gestita dal procuratore Laudati è quasi al traguardo dopo oltre due anni d'indagine. Materiale scottante, con la mafia a gestire le scommesse clandestine e le combine per riciclare fiumi di denaro. In questo contesto si sono inseriti i personaggi di mezzo che avevano il compito di agganciare i calciatori (molti di loro scommettitori proprio nelle agenzie del clan) e corromperli. La criminalità si è servita anche degli zingari per pressare i calciatori, come confermato da Masiello. A proposito dell'ex capitano del Bari: la sua deposizione (secretata) avrebbe messo nei guai diversi ex compagni. Il difensore ha ammesso le combine e i soldi (80 mila euro) consegnati dall'infermiere Iacovelli. Era quello che volevano gli inquirenti. Le conseguenze sportive saranno devastanti: circa 10 gare del Bari sotto inchiesta e più o meno una quindicina i giocatori indagati. Molti a rischio arresto e non tutti per aver giocato nel Bari. Le prove raccolte sono chiare: anche le altre squadre erano coinvolti. Quali? Si possono fare solo delle ipotesi, ma le piste più calde porterebbero a Chievo, Parma, Cesena e Bologna. Staremo a vedere. E soprattutto è iniziato il conto alla rovescia: c'è forse ancora il tempo per raccogliere la confessione di un nuovo pentito (potrebbe essere un difensore ex Bari). Poi tra febbraio e marzo si ritornerà a ballare.
  20. Il pallone di Luciano Diavolo e Signora, sfida continua Un flop la Roma in stile-Barça di LUCIANO MOGGI (Libero 27-01-2012) Abitualmente bistrattata in passato dalle nostre parti, quest’anno la Coppa Italia si fa più bella. Quarti di finale combattuti, grandi protagoniste, Juve su tutte, Roma assai meno, gol capolavoro di Del Piero (chi aveva detto che non ne aveva più?). Ora tutti ad applaudire, miserie di una critica miope. Tra tanti potentati l’eccezione di due outsider, Chievo e Siena, la squadra della città del Palio in semifinale (storica) con il Napoli. Inter frantumata dagli azzurri e dal suo allenatore: tattica maldestra, Ranieri troppo preoccupato di concedere il contropiede agli avversari se n’è stato ad attendere, come la guarnigione in attesa del nemico nel deserto dei tartari. L’Inter ha quasi rinunciato a giocare per tutto il primo tempo in attesa della luce che l’avversario avrebbe potuto offrirgli, ma Mazzarri aveva già spento quella di Maicon sulla fascia, opponendogli Zuniga, e Sneijder era teso come una corda di violino, certamente non in sintonia con la tattica adottata dal suo allenatore. Il rigore ha schiodato il risultato e quando Ranieri ha capito che doveva invertire, era già troppo tardi. Poteva esserci ed anzi c’era un rigore per parte nerazzurra m aCeli non ha visto, s’è lamentata l’Inter, giusto, ma il Napoli ha rimbeccato duro: Sneijder meritava il rosso. Memoria corta Ognuno dimentica i favori ricevuti, tre giorni prima l’Inter aveva battuto la Lazio in campionato con un gol di Pazzini in fuorigioco e un mani da rigore di Lucio ignorato. Napoli splende e canta (e chi se non “o surdato ’nnammurato”), De Laurentiis non si frena, ce l’ha con chi dopo Siena ha criticato la squadra: «Ma che volete?» Il patron azzurro sente ormai profumo di Coppa, si sente un Re Mida. Anche Ranieri sentiva profumo di Coppa (dopo otto vittorie consecutive), ora non più: il Napoli ha fatto di sicuro un’impresa, come dice Mazzarri, ma ha trovato una strada in discesa. La stagione dunque si veste ancora del dualismo Milan-Juve. Anche in Coppa Italia sarà confronto fra le due favorite per lo scudetto, una sorta di finale anticipata. Il Milan pur rimaneggiato ha gestito al meglio la sfida con la Lazio: complimenti a Seedorf per l’eterna classe. Signora invece che ha ridimensionato la Roma. Luis Enrique l’ha vista egualmente bene: avrà visto forse un’altra partita. Capita a chi s’infervora di un progetto e ritiene di vederlo in progresso anche quando ci sono brutte cadute, come questa. La Juve non si nasconde più, brilla con la forza di un ritmo che stronca gli avversari. La Roma pensava di farlo in proprio, imitando il Barça, l’ha visto però interpretato dalla squadra di Conte, ma non se n'è accorta e l’umiliazione è stata grande quando i bianconeri hanno tenuto palla con una fitta serie di passaggi, senza che i giallorossi riuscissero a interrompere la trama. Una squadra, la Roma, senza personalità, forte con le piccole, debole con le grandi. Totti era già uscito, o meglio non era mai entrato; Franco Baldini stava invece in tribuna d’onore; è l’uomo che, assieme al suo amico Auricchio, ha dato il via a Calciopoli, o meglio al ribaltone, come lui stesso l’ha definito in una intercettazione: sarebbe stata una cosa carina impedirgli di sedere tra i vip e magari mandarlo in curva tra gli ultras della Juve. «Orizzontal» Hector Cuper è quello che il 5 maggio 2002, perse con la Lazio all’Olimpico e la Juve sorpassò così l’Inter al fotofinish. Per coprire le sue incapacità, il cosiddetto “hombre vertical” alluse a «strane sensazioni ». Ovviamente sfruttò a suo uso e consumo la vicenda Calciopoli ed arrivò fino al 20 settembre scorso a ripetere la stessa canzone, rilanciata dalla rosea nel settimanale “Extra time”. «Data fatidica, partita inspiegabile, come certe sensazioni». Di inspiegabile c’era stato solo il suo suicidio tattico. Cuper avrebbe fatto meglio a pensare a se stesso. Poco più di un mese dopo si allungano su di lui le prime voci di un giro di partite vendute e del suo pieno coinvolgimento, 200.000 euro in cambio di dritte sui risultati di due partite del campionato spagnolo e argentino. Cuper nega ma offre spiegazioni giudicate «penose». Non so come finirà, ma di sicuro, come hanno osservato altri, l’ hombre vertical è diventato “orizzontal”.
  21. CALCIOPOLI Casoria, arrivano le motivazioni! La prossima settimana il giudice di Napoli depositerà il documento che spiegherà la sentenza dell’8 novembre Intanto la Figc freme per conoscere l’esito dell’intervento della Corte dei Conti ed è in fermento per Scommessopoli di ALVARO MORETTI (Tuttosport 27-01-2012) ROMA. La sortita pubblica dell’avvocato Michele Briamonte , l’uomo delle tavole in casa Juventus, apre ufficialmente l’inverno caldo di Calciopoli. Cauterizzata dal tavolo della pace dello scorso 13 dicembre, la questione dello scudetto 2006 irrisolta da Figc e dal Tnas con l’identica formula dell’incompetenza, resta viva, eccome. L’impugnazione prossima alla Corte d’Appello civile per vizi - come previsto dal regolamento del Tnas - del lodo che respingeva l’ultima istanza juventina in sede sportiva è stata ribadita nel convegno di Milano da Briamonte, così come l’intenzione di far pagare danni a chi danni ha commesso in sede federale - a detta della Juve - nei cinque lunghissimi anni di indagini abortite o partite e proseguite con indicibile lentezza, con strategie processuali. AZIONI&DISTRAZIONI Il messaggio di Briamonte piomba nelle stanze del Palazzo sportivo mentre le attenzioni sono rivolte altrove: in Figc c’è grande preoccupazione per il profilo che sta assumendo Scommessopoli, con la criminalità organizzata che avrebbe condizionato di brutto i calciatori coinvolti; al Coni questi sono i giorni caldi di Roma 2020, in attesa della risposta di Monti sull’appoggio formale alla candidatura olimpica. Con un occhio che va sempre alla Lega ormai spaccata proprio sugli strascichi di condanne penali di alcuni big come Lotito e Preziosi . ATTENTI A? Nel frattempo, però, c’è la Corte dei Conti che ha attenzionato l’operato del Consiglio federale su input dei ricorsi juventini di questa estate (giudici assai temuti e assai imprevedibili, quelli contabili, già attivati su Calciopoli anni fa); e c’è il Coni che intende rivedere dall’alto le linee guida che le federazioni devono seguire su temi delicati ed evidenziati in chiave negativa proprio dall’operato Figc sulla vicenda Calciopoli: si va verso la statuizione di termini cogenti e rapidi per le procure federali nelle indagini (basta una lettura univoca della legge 401 sulla trasmissione degli atti?) ma anche e soprattutto la definizione di quel che pareva logico ma che s’è trasformato in un caso: niente più consigli federali che si dichiarano incompetenti di fronte a temi come scudetti da attribuire o revocare, evitando - per il futuro, ahinoi - comunicati stampa che assegnano senza assegnare ( Rossi docet). MOTIVAZIONI Il caldo - nonostante la tramontana calata tra Roma e Napoli in queste ore - lo porta però l’anticiclone Casoria : per la prossima settimana, con qualche giorno d’anticipo sulla dead line del 6 febbraio prevista, la giudice presidente della nona sezione del tribunale di Napoli, che ha emesso la sentenza shock lo scorso 8 novembre, dovrebbe depositare le motivazioni. Un passaggio chiave per capire la logica di un verdetto che sorprese quasi tutti a novembre, che diventa fondamentale non solo per la richiesta di appello di condannati e pm; un momento decisivo anche perché nel frattempo c’è stata l’eruzione di Della Valle , l’uscita dell’inquirente pentito e anonimo che ha confermato le storture gravissime di chi guidava la pattuglia dell’indagine OffSide; uno snodo per gli annunciati esposti di molti condannati proprio contro chi indagava e testimoniava in aula. COSA ASPETTANO? Non solo: bizzarramente, anche l’Alta Corte presso il Coni ha deciso di attendere le motivazioni della sentenza di Napoli per mettere un punto finale alla questione delle radiazioni di Moggi , Giraudo e Mazzini . Bizzarra scelta, perché tra dicembre e gennaio sono state depositate le richieste memorie aggiuntive, perché i dubbi sull’iter con cui s’è fatta la legge ad personas dovrebbero essere stati sciolti e - soprattutto - perché quanto a Giraudo almeno le motivazioni della sentenza è nota da due anni! Cosa cambia - a livello sportivo - la motivazione della sentenza di un giudizio quando tempo fa la Disciplinare Figc s’azzardò a scrivere che gli atti processuali hanno valenza probatoria nel solo procedimento penale, mentre gli atti d’indagine - quelli sì -che sono prove da considerare come oro colato? In virtù del principio d’autonomia che nello sport amano far diventare la magna charta a targhe alterne. Il 24 marzo c’è Giraudo trafiletto non firmato (Tuttosport 27-01-2012) I legali di Antonio Giraudo, ex amministratore delegato della Juventus dal 1994 al 2006, che è stato condannato a 3 anni nel processo di Napoli dopo aver scelto il rito abbreviato, stanno affinando la posizione in merito al processo d’appello che prenderà il via il prossimo 24 marzo. In realtà ci si deve aspettare una primavera calda visto che dopo la seduta iniziale di fine marzo ne sono state già calendarizzate una nutrita serie ad aprile quando il dibattimento entrerà nel vivo prima di arrivare alla sentenza di secondo grado.
  22. SPY CALCIO di Fulvio Bianchi (Repubblica.it 26-01-2012) Boom Sky e Mediaset Premium Ogni giornata 9 mln di spettatori Nove milioni 124.041 telespettatori e circa 230.000 tifosi allo stadio: ecco cosa "vale" oggi una giornata del campionato di serie A. Sono dati confortanti, di questi tempi: più, chiaramente, per quanto riguarda gli ascolti tv, in netta crescita, che sulle presenze negli stadi, che restano sempre molto lontane dai campionati leader (Premier e Bundesliga). Quest'anno 173. 356. 778 telespettatori complessivi hanno visto le gare di A nel girone di andata, come detto 9.124.041 la media partita. Un incremento del 7, 92% rispetto alla stagione precedente (totale 160.631.311, media gara 8. 454. 280). Le partite, come noto, sono trasmesse in diretta, e in pay, da Sky e da Mediaset Premium. Sky è cresciuta del 4, 22% per quanto riguarda le partite (e dell'8% se consideriamo anche le trasmissioni pre e post gara). Ogni giornata su Sky vale 5.461.773 spettatori. Per quanto riguarda Mediaset Premium, che partiva da cifre più basse, l'incremento è stato del 13, 95%, anche grazie allo switch off. La media giornata è di 3. 662. 268 telespettatori. Considerazioni: il calcio in tv piace sempre di più. E difatti paga sempre di più, quasi un miliardo di euro a stagione (che ora i presidenti dovranno dividersi e ci sarà da divertirsi...) Tv: slitta il braccio di ferro fra Rai e Mediaset Sempre tv, ma stavolta si tratta dei diritti in chiaro (gli highlights) del campionato di serie A: la Lega di serie A avrebbe dovuto aprire le buste con le offerte domani alle ore 12, ma tutto è slittato di una settimana. Il motivo è semplice: non si è tenuto il cda della Rai che avrebbe dovuto decidere che offerta fare (sicuramente al ribasso rispetto ai 25 milioni a stagione chiesti dalla Lega). Si deciderà quindi venerdì prossimo. Anche Mediaset è molto titubante: alcuni (massimi) dirigenti preferirebbero puntare soprattutto sul digitale pay, mentre la concessionaria pubblicitaria (Publitalia) spinge per fare un'offerta, e prendere così un altro prodotto, visti i tempi difficili. Si vedrà. Intanto presto la Lega preparerà il bando della Coppa Italia, bistrattata nelle prime fasi ma che dai quarti fa record tv (vedi Juve-Roma) e buon pubblico negli stadi. La Coppa Italia ora fa gola a Rai, Mediaset e Sky. Di sicuro la Lega prenderà più soldi. La formula funziona, solo che il calendario ingolfato (colpa della A che non vuole scendere a 18 club. . . ) costringe di giocare molte partite in pieno inverno, e di sera, quando ci sono date libere dall'Uefa. L'Inter vuole il commissario in Lega. Intanto Cardinaletti e Carraro... Lega di serie A a rischio commissario? Secondo alcune correnti di pensiero, il rischio ormai è concreto: la "macchina" funziona, grazie al lavoro del dg Marco Brunello e del suo staff, e produce utili. Ma è l'aspetto "politico" che lascia perplessi: Maurizio Beretta si è dimesso lo scorso marzo da presidente ma non è mai stato sostituito. Essendo top manager di UniCredit, ha poco tempo da dedicare alla Confindustria del pallone e poi il sistema di governo, con tutti i poteri all'assemblea e non al consiglio, indubbiamente lo penalizza. Insomma, Beretta ha delle colpe. Ma non tutte le colpe. Ora bisogna uscire da questa situazione di empasse: Zamparini e Cellino se ne sono andati dall'ultima assemblea sbattendo la porta. Ernesto Paolillo, ad dell'Inter, è convinto che ci voglia il commissario e per questo ha rischiato di essere aggredito da Claudio Lotito, che, ovviamente, è lo sponsor n.1 di Beretta. Ma chi potrebbe essere il futuro presidente? Crescono le quotazione di Andrea Cardinaletti, appoggiato (anche) dall'Inter. Cardinaletti è l'ex presidente del Credito Sportivo: e alla Banca dello sport, ora commissariata da Bankitalia, un paio di mesi fa, sembrava destinato Franco Carraro, il cui nome era stato fatto lo scorso anno anche per la Lega di Milano. Insomma, i giochi restano apertissimi. Ma una soluzione andrà trovata.
  23. SPORT UN CALCIO DIVERSO Highlander in panchina In Serie A ci sono già stati undici mister esonerati. Quanto sarebbe durato un Wenger, che ha iniziato la sua quindicesima stagione all’Arsenal come Gasperini? E sarebbe mai esistito un Sir Ferguson, che per i primi tre anni di United non vinse nulla? di FRED PERRI (TEMPI | 1 febbraio 2012) Questo è il ritratto di un uomo, ma in fondo è anche una metafora antropologica, (un bell’attacco, eh?). Parliamo di un uomo (magari anche di due) per educarne molti, se mi seguite con attenzione. Parliamo dell’uomo che mastica furiosamente chewingum ed esulta come un ragazzino: ha 25 anni e li dimostra tutti, nel senso che è nel pieno della sua giovinezza. La sua vita sportiva è cominciata solo 25 anni fa. Quando ne aveva 18, nel 1960, andò con il suo amico Andy Roxburgh (e altre 134.998 persone, a quei tempi si stava in piedi negli stadi) ad Hampden Park, Glasgow, a vedere la finale di Coppa dei Campioni (ah che piacere chiamarla così, è come un piatto di polenta concia a gennaio) tra Real Madrid e Eintracht di Francoforte. Pronosticò una vittoria dei tedeschi. Finì 7-3 per Puskas, Di Stefano e soci. «Eppure io li avevo visti molto bene, dovevano vincere la Coppa». Uno così, secondo il modo di pensare dominante del nostro paese di (autoproclamati) commissari tecnici in servizio permanente effettivo, non sarebbe mai potuto diventare uno dei più grandi allenatori di calcio della storia. Forse anche perché, per lui, l’appellativo è manager, non coach. Stiamo parlando di sir Alex Chapman Ferguson, 70 anni, figlio di Alexander Beaton Ferguson, manovale in un cantiere navale, protestante, e di Elizabeth Hardie, cattolica, che trasmise la religione al figlio. Alex è cresciuto nel sobborgo di Govan, Glasgow; ha avuto problemi con la scuola facendosi bocciare anche alle elementari, ma ha sempre posseduto una grande forza di volontà e così ha studiato di notte, mentre lavorava come apprendista, fino a prendere il diploma. Molti anni sono passati da allora e il ragazzo che faceva a pugni con i libri è diventato uno dei più grandi tecnici del mondo e soprattutto dei più longevi. Malgrado il suo mestiere sia traballante per natura, il suo posto di lavoro non è in discussione dal 1986: il 6 novembre ha festeggiato 25 anni sulla panchina (che poi non è una panchina perché in Premier League le squadre occupano le prime file della tribuna e non per il lungo) del Manchester United. Quando venne ingaggiato dai Red Devils, gli dissero che il suo compito era quello di «prendere a calci nel sedere» gli odiati rossi (Reds) del Liverpool. Era un po’ come se fosse diventato il capo di una gang di periferia con la voglia di mettere paura ai fighetti del centro che ti guardano sempre dall’alto in basso. Sir Alex lo ha fatto, ma la sua passione era la Coppa dei Campioni, fin da quel lontano giorno in cui sbagliò, e di tanto, il pronostico della finale di Hampden Park. Ne ha giocate quattro e ne ha vinte due. Sarebbero state quattro, ma sulla sua strada, dal 2009 in poi, è finito il Barcellona fantascientifico di Guardiola e Messi. Una gita fuori porta Molti non sanno, però, che alla base della grande epopea che ha portato sir Alex nella leggenda e tra i membri, con la qualifica di comandante, dell’Ordine dell’Impero Britannico (Cbe), ci fu proprio una gita a Barcellona. Andarono lui e il leggendario Bobby Charlton per riportare a casa Mark Hughes. Fecero un giro attorno al monumentale Nou Camp, videro le attrezzature, i campi di allenamento, le «facilities», come si dice a Londra, il sistema Barça e Bobby commentò: «Questo è dove dovremmo essere ma non siamo, pensa a diventare il Barcellona». E proprio al Nou Camp, nel 1999, sir Alex ha chiuso il cerchio conquistando la sua prima Champions League, in una finale incredibile con il Bayern Monaco, una partita che era persa all’89esimo e vinta al 91esimo. Quella sera, a Barcellona, e forse anche il giorno delle sue nozze d’argento con lo United, sir Alex non ha pensato al passato, ma solo al presente e al futuro. Sir Alex non fa mai i conti, non tiene aggiornato il curriculum come il suo amico-nemico Mourinho. Anche perché con 37 trofei nella sua bacheca, non è semplice fare i conti. Senza contare gli inizi scozzesi (tutt’altro che trascurabili: 3 campionati, 4 Coppe di Scozia, la Coppa delle Coppe 1982-1983) sir Alex ha trasformato il Manchester United, che i ragazzini che oggi si bevono la Premier non lo sanno, ma trent’anni fa era considerata la periferia di Liverpool, nel club più organizzato, più forte, più famoso, più «vendibile» del mondo, più del Barcellona che non ha ancora la continuità di presenza sui mercati più importanti, specialmente su quello asiatico. Ha gestito i giocatori più diversi, è sopravvissuto all’addio di tanti campioni, da Cantona a Beckham, da Ronaldo a Tevez. Ha lanciato giovani, ha trasmesso il suo elisir di lunga vita a Ryan Giggs, a Paul Scholes. Con sir Alex sono arrivate 12 Premier League, 5 Coppe d’Inghilterra, 5 Coppe di Lega, 2 Champions, 1 Coppa delle Coppe, 2 Coppe Intercontinentali. Sir Alex viene, vede, vince e mastica. Non ha nessuna intenzione di smettere. Ogni tanto preannuncia il ritiro. Se ne doveva andare alla fine del 2001-2002, figuriamoci. L’ultima volta che aveva accennato alla pensione, aveva giurato che il 2011 sarebbe stato l’anno del Grande Addio. Poi, però, quando si avvicina alla scadenza annunciata, cambia idea, ci ripensa, ovviamente con leggerezza, facendo finta di niente. Ha appena rinnovato il suo contratto. «Vado avanti finché la salute me lo consente». In realtà, siccome nel 2011 è stato prima asfaltato in finale di Champions da Guardiola a Wembley, e poi eliminato dal torneo 2011-2012 addirittura dagli svizzeri del Basilea, non avrebbe mai appeso la gomma da masticare al chiodo senza aver almeno riprovato a vincere la Coppa dalle grandi orecchie. Ecco, questo è il punto, la differenza, l’erba del vicino sempre più verde. Perché per resistere su una panchina non bastano i successi, c’è tutto un sistema, una mentalità, una cultura da mettere in moto. Perché non esistono solo i risultati a fare da discriminante. C’è, ad esempio, il fattore umano. Sir Alex non ha un carattere facile. Ha litigato con tanti colleghi, che considera più o meno alla sua altezza, da Arsène Wenger a Rafa Benitez. Ha emesso giudizi sprezzanti su questo è quello. Ha mandato a quel paese più di un giocatore e, perfino con il suo pupillo David Beckham ha avuto dei problemi tanto che, nel 2003, durante una discussione ha scagliato una scarpa nello spogliatoio e lo ha colpito in faccia. Qualche mese dopo il giocatore simbolo del calcio inglese, passava al Real Madrid. Agli arbitri ne ha dette di tutti i colori. Ha preso multe e bacchettate, l’Uefa lo ha punito perché una volta ha affermato che i calendari della Champions erano compilati per favorire le squadre italiane e spagnole. Ha fatto causa a un tale per questioni di cavalli (una delle sue grandi passioni). Ha messo il muso alla Bbc per un documentario «non autorizzato ». Insomma è un tipo bello tosto, sir Alex, eppure ha resistito 25 anni nello stesso posto e non è che appena arrivato, nel 1986, abbia subito raccolto un trionfo sull’altro. La Coppa d’Inghilterra è arrivata nel 1990, la prima Premier League nel 1993. Il riconoscimento alla carriera Ecco ora la domanda suprema. Ma questo splendido personaggio, questo appassionato di cavalli e di buoni vini – se volete farlo felice e assicurarvi la sua simpatia presentatevi con una bottiglia di Sassicaia – sarebbe durato così tanto nel campionato italiano? Lo so, la risposta è facile, da primo turno di quiz televisivo, quando anche i somari sembrano degli Einstein. «In serie A nessuno gli avrebbe fatto concludere sei stagioni senza conquistare un campionato », ha detto Sandro Mazzola nelle celebrazioni del baronetto scozzese sulla rivista ufficiale dell’Uefa. Recentemente Sepp Blatter, un altro immarcescibile – anche lui minaccia di ritirarsi nel 2014, dopo i Mondiali del Brasile, ma c’è da credergli? – gli ha consegnato, all’interno della festa per il Pallone d’Oro, il riconoscimento «presidenziale» alla carriera. Se invece di nascere a Glasgow il 31 dicembre 1941 fosse nato a Viareggio, la patria di un allenatore italiano che stima molto, Marcello Lippi, sarebbe durato pochissimo, non solo in una squadra, ma anche in generale. Sir Alex da noi avrebbe fatto la fine di un Colomba qualsiasi, di un Mangia, di un Ficcadenti, carne da macello nelle mani dei Zamparini, dei Cellino. Meno male che è nato scozzese e lavora in Inghilterra, non ce lo saremmo goduto se fosse nato italiano. Sir Alex Ferguson è un modo di capirci, di comprenderci e, se volessimo, di migliorarci. Perché il nostro calcio non ha successo, non vende come gli altri? Anche nel momento d’oro, anche negli anni da bere della riapertura delle frontiere pallonare, negli Ottanta, abbiamo avuto i migliori calciatori ma non siamo stati capaci di dare continuità al nostro movimento e siamo diventati periferici. È colpa nostra, del nostro modo vorace/volgare di vedere il calcio, della nostra allegria di linciaggi. Viviamo in una bolla dove si consuma tutto in fretta. È così per ogni aspetto della nostra vita sociale, il calcio in testa. Nella stagione 2011-2012 in Serie A sono saltate 11 panchine (per nove squadre: Zamparini e Cellino hanno abbondato, due a testa). In Serie B addirittura 14. In Premier League? Sparate un numero. No, meno. Due, quelle del Sunderland e quella del Qpr. È un modo diverso di vivere il calcio, quello inglese. Lassù sir Alex non è l’unico esempio di longevità, il suo amico-rivale Arsène Wenger ha appena festeggiato i 15 anni di Arsenal, mentre David Moyes ha raggiunto 10 anni sulla panchina dell’Everton. Ma come è possibile una cosa del genere? Con un progetto, con un programma, con la figura dell’allenatore-manager, un po’ dirigente, un po’ tecnico. E soprattutto con esoneri e licenziamenti «mirati», non frutto solo del vizio assurdo dei presidenti di essere padri-padroni, ma basati su analisi a medio termine, almeno. Insomma, ci si domanda seriamente: cambiando, cambieremmo veramente qualcosa? Quasi sempre si arriva allo stesso punto. Non è che non si cambi, ma c’è l’idea che non lo si faccia così come da noi, per un 6-1 a Napoli come ha fatto Preziosi con Malesani. Come l’Udinese Arsenio Wenger, un personaggio intrigante, da meriggio montaliano, parla tre quattro lingue e di sicuro capisce l’italiano (ma come tanti francesi fa l’indiano e finge di non intendere), adesso, dopo 15 anni e un periodo forse eccessivo (per l’Arsenal) senza vittorie (dal 2005), comincia ad avere qualche bordata di critiche e molti tifosi dei Gunners l’hanno fischiato. Ma lui non fa una piega, rivendica la sua origine contadina, che sa di solidità e choucroute e tira dritto. Ex giocatore di basket, ciclista improvvisato, portiere di calcio senza storia, questo alsaziano magro e pallido è il contraltare di sir Alex. Con l’Arsenal fa quello che i Pozzo fanno con l’Udinese. Attira giovani, li cura, li difende se non cominciano come dei treni (da noi oltre a non farli giocare, se sbagliano la prima partita li massacriamo e non si riprendono più), poi li rivende. Ha incassato 60 milioni di sterline dalle cessioni di Fabregas e Nasri e, di fronte al malumore popolare, ha risposto affidando la guida della squadra a Van Persie. L’olandesino, che sembra uscito dalla pubblicità di Pattini d’argento, gli ha segnato 17 gol in campionato. L’Arsenal, dopo un avvio stentato, si è ripreso e viaggia, tra alti e bassi, a portata di Champions League. A proposito, Arsenio, a differenza di sir Alex, è ancora in lizza nella Coppa che conta. In Italia, con quattro punti in quattro gare, avrebbe fatto la fine di Gasperini. La metafora vi è chiara, compagni e amici?
  24. Fair play finanziario per il futuro del calcio Nel corso del media day indetto a Nyon, la UEFA ha ribadito che le misure di fair play finanziario sono indispensabili per il futuro del calcio europeo e ha apprezzato la prontezza dei club europei nel partecipare a questo processo. di UEFA News Giovedì, 26 gennaio 2012, 14.00CET La UEFA ha ribadito che le misure di fair play finanziario sono indispensabili per il futuro del calcio europeo e, in particolare, ha apprezzato la prontezza dei club europei nel partecipare a questo processo, studiato per dare stabilità e benessere duraturi a uno sport che rimane l'attrazione numero uno per il pubblico. Mercoledì a Nyon, l'organo di governo del calcio europeo e i rappresentanti dei club hanno unito le forze per esaminare approfonditamente le procedure di fair play finanziario in vigore e per presentare il quarto Rapporto comparativo sulle licenze UEFA per club per l'anno finanziario 2010, con i risultati di oltre 650 club di massima divisione nelle 53 federazioni affiliate alla UEFA. La giornata promozionale ha consentito di illustrare l'attuale panorama del fair play finanziario e di rispondere a domande su varie tematiche, come le norme e l'implementazione, il sostegno dei portatori di interesse del calcio e le questioni legali su fair play finanziario e Unione Europea. Gli obiettivi, definiti in specifici Regolamenti sul fair play finanziario e le licenze UEFA per club, consistono nell'introdurre più disciplina nella gestione finanziaria e nello smussare gli eccessi e gli azzardi che hanno messo in difficoltà tante società negli ultimi tempi. Attraverso queste misure, i club sono obbligati a sanare i bilanci o a chiuderli in parità – ovvero a non spendere più di quanto guadagnino – e ad agire responsabilmente, per tutelare la fattibilità e la sostenibilità a lungo termine. Per vigilare e verificare che i club aderiscano alle misure del fair play è stato istrituito il Panel di controllo finanziario per club. Queste misure vengono implementate in un ciclo triennale e la valutazione di bilancio 2013/14 interesserà gli anni finanziari che si chiudono nel 2012 e 2013. Attualmente è invece in corso la valutazione di tutti i trasferimenti e gli stipendi ai dipendenti dall'estate 2011. Il segretario generale UEFA ,Gianni Infantino, ha sottolineato la necessità di questi passaggi. "Il fair play finanziario è necessario per il calcio a livello di club - ha commentato a UEFA.com dopo l'incontro con i giornalisti -. Il fair play finanziario è indispensabile per i tifosi, per il pubblico in generale, ma anche per le società e per chi le possiede". "Al giorno d'oggi, nei club tutto cambia: i giocatori, gli allenatori, i proprietari, i dirigenti e gli allenatori. Ma i tifosi, e il loro legame con la squadra, non cambiano - ha aggiunto -. È proprio questo aspetto che dobbiamo proteggere. Quando esaminiamo i dati finanziari, dobbiamo preoccuparci delle tendenze e contrastarle, per creare un ambiente sicuro e salutare, affinché il calcio europeo per club continui a crescere e a prosperare". Infantino ha apprezzato il sostegno e il contributo prestati dai club del continente: "Dimostra anche che quando abbiamo studiato le regole del fair play finanziario, le abbiamo studiate in modo responsabile, insieme ai club - ha commentato -. Queste regole non vogliono soffocare nessuno, né tagliare la testa alle società; sono in vigore per aiutare i club, ma anche i tifosi, per creare un ambiente sano e positivo. Il fatto che queste regole approvate all'unanimità ha dimostrato che le società sono mature e responsabili". Jean-Michel Aulas, presidente dell'Olympique Lyonnais e membro del consiglio direttivo dell'Associazione Club Europei (ECA), ha comunicato un messaggio positivo al vertice di Nyon: "La UEFA e il presidente Michel Platini hanno fatto una scelta coraggiosa, decidendo di interrompere una spirale che non fa bene all'economia del calcio - ha commentato -. Tutti i club e la ECA concordano con queste modalità. È un cammino lungo, ma anche un progetto indispensabile per il calcio". Ernesto Paolillo, membro del consiglio direttivo della ECA e direttore generale dell'FC Internazionale Milano, ha sottolineato che è il momento di risolvere i problemi di costo: "Siamo convinti di aver bisogno di queste regole - ha dichiarato -. È importante che la UEFA e i club partecipino alla ristrutturazione dell'industria del calcio. Se osserviamo il debito totale accumulato dalle società, possiamo vedere i problemi che tutte loro stanno affrontando. È il momento giusto per partire, e siamo pronti". Presentando il rapporto comparativo ai giornalisti, Infantino ha reso noto che il continuo aumento dei costi è un problema radicale. "Le entrate totali nette dei club professionistici sono aumentate da 12 miliardi di euro [nel 2009] a 12,8 miliardi [nel 2010]. In quale altro settore si è assistito a una tale crescita? Questo dimostra che, dal punto di vista della popolarità, il calcio gode di ottima salute. Le entrate continuano a crescere in un periodo di recessione dell'economia mondiale". "Il problema - ha proseguito -, è che anche i costi sono aumentati da 13, 3 miliardi di euro [nel 2009] a €14,4 miliardi di euro [nel 2010]. Circa il 56% delle squadre di massima divisione ha dichiarato perdite nette. Si tratta dell'ultima opportunità. La tendenza deve essere invertita molto velocemente se vogliamo salvaguardare il calcio europeo. Ogni anno aumentano le entrate, ma anche le perdite, quindi dobbiamo agire con sollecitudine". "C'è una differenza fondamentale se osserviamo le finanze dei club e le paragoniamo alla situazione economica europea complessiva - ha aggiunto Infantino -. Negli ultimi anni, le entrate sono aumentate anno dopo anno. Questo dimostra che, complessivamente, il calcio europeo è in una situazione finanziaria positiva. Dobbiamo solo controllare i costi, motivo per cui introduciamo il fair play finanziario". "Se non avessimo intrapreso questa sfida insieme ai club, qualche anno fa - ha concluso -, saremmo molto preoccupati per il futuro del calcio europeo. Ma abbiamo agito, e poiché le notevoli entrate dimostrano che la gente è interessata al calcio, abbiamo la sensazione di essere sul binario giusto".
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