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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -
Ghost Dog ha risposto al topic di CRAZEOLOGY in Calciopoli (Farsopoli)
SPY CALCIO di Fulvio Bianchi (Repubblica.it 19-02-2012) Presidenti, lite da un miliardo Beretta, 10 club contro e va via La Lega di serie A è nel caos più totale: hanno ragione Giovanni Petrucci e Giancarlo Abete a lanciare l'allarme. Il 2 marzo è prevista un'assemblea che più calda non si può. Sotto esame la posizione del presidente Maurizio Beretta, che non conta niente (sue parole... ) ma non vuole lasciare la carica pur essendosi dimesso, si fa per dire, il marzo dello scorso anno. Una situazione grottesca. Beretta "teme" che se lui va via la Lega possa essere commissariata, e agita questo spauracchio davanti ai presidenti. Ma non è assolutamente detto: Simonelli, che è il capo dei revisori, può traghettarla sino a giugno, come ha fatto in passato, sperando che i presidenti trovino poi un accordo sul nome del successore di Beretta. E' chiaro che se poi non lo trovano, e continuano a litigare, debba per forza di cose arrivare un commissario. Ma il vero snodo non è Beretta, di cui interessa ben poco ai presidenti, ma il "malloppo" da dividere. Sì perché ci sono in ballo soldi veri: un miliardo di euro a stagione, dal 2012 al 2015. Sono i soldi dei diritti tv. La legge Melandri dice solo che la parte prevalente debba essere divisa in parti uguali. Lo scontro è su tutto il resto e se in passato per il 25% del bacino d'utenza finì addirittura a botte (vedi De Laurentiis-Cellino), ecco che ora le premesse non sono per nulla allegre. I grossi club (Juve, Milan, ecc. ) sono preoccupati perché rischiano di finire in minoranza. In una Lega così litigiosa, e senza guida forte, non si riesci a capire come possano trovare un accordo in tempi ragionevoli. Ricordiamo inoltre che per un anno la Lega di A non si è fatta vedere dalle parti del consiglio federale, il governo del calcio. E Giancarlo Abete è stato sin troppo buono: da regolamento avrebbe dovuto far decadere i due consiglieri (Lotito e Cellino) della Lega di Milano. Inoltre la cosidetta Confindustria del pallone mai si è fatta vedere nemmeno nelle tante riunioni delle commissioni statuto (presieduta da Carlo Tavecchio) e riforma campionati (Mario Macalli), contribuendo così a paralizzare il sistema-calcio. Le ricorda queste cose Beretta? Inoltre, tra quelli che lui elenca come grandi meriti della sua gestione, molti sono invece frutto degli anni di Tonino Matarrese, che almeno sapeva tenere a bada i presidenti. Ma Beretta non molla: è anche comprensibile visto che l'assegno della Lega (circa 30.000 euro) si somma ogni mese a quello ancora più consistente di Unicredit. In questo caso è dura lasciare una poltrona d'oro e si fa finta che non ci sia alcun conflitto d'interessi (che invece c'è, eccome). Otto club hanno chiesto l'assemblea del 2 marzo per sfiduciare il presidente. Sono Inter, Palermo, Cagliari, Bologna, Novara, Lecce, Siena e Cesena. Pro Beretta ci sono Lazio, Milan, Juve, Genoa, Parma e Catania. Le altre società sono ancora incerte. Se i club che vogliono le dimissioni del presidente dovessero arrivare a dieci, a questo punto sarebbe costretto davvero ad arrendersi. Certo, poi bisognerà arrivare a quota 14 per eleggerle il successore, e qui saranno dolori seri. Un'ultima considerazione: Beretta sostiene che Claudio Lotito è un "personaggio che ha una forte spinta innovativa". Anche qui Beretta, soprannominato nell'ambiente "dimmi Claudio...", ha la memoria corta: Lotito è stato sicuramente un innovatore ma ultimamente ha preso l'abitudine di non voler rispettare le regole e di pagare in ritardo gli affitti (dell'Olimpico). La Lega presto, Beretta e non Beretta, dovrà pensare anche a sostituire il patron laziale in consiglio federale, sempre che i presidenti ritengano importante avere una rappresentanza nel governo del calcio. -
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Capello pro, Capello contro Botta e risposta a quattro mani sull’ormai ex coach dell’Inghilterra: Viva Capello, abbasso Capello Giuste o no le dimissioni di Fabio Capello da commissario tecnico dell’Inghilterra? Qualcuno è contento, qualcuno meno. Qualcuno ama Don Fabio, qualcuno lo detesta. Un collaboratore e un redattore di Studio duellano dalle opposte fazioni, dando vita a un divertissement domenicale, il giorno per antonomasia del pallone italico. di ANDREA DI GENNARO & DAVIDE COPPO (Studio 19-02-2012) Premessa alla faziosità di questo articolo: sono anglomane impenitente e juventino, ormai moderatamente. Detto questo passiamo in rassegna quanto vedo di poco onorevole e ancor meno elegante, nella recente vicenda Inghilterra-Capello; in cui la prima ha dato ancora una volta prova del suo proverbiale understatement, il secondo non ha perso l’occasione per ribadire la propria capacità di non farsi amare ovunque approdi. Una dote, non c’è che dire. In Inghilterra infatti tifosi, federazione, giornali e i calciatori stessi, di Capello non ne potevano più da un pezzo, nessuno ha mai nascosto la delusione per un allenatore che era arrivato con l’idea di riportare i Lions ai fasti del ’66 e invece ha collezionato solo magre figure. Magre sono anche le recriminazioni per gli errori arbitrali costati l’eliminazione dal mondiale sudafricano. All’Irlanda di Trapattoni successe di peggio per mano della Francia. C’è voluto un coraggio, questo sì da Lions, per scrivere che l’eredità di Capello sulla panchina inglese sarà pesante per chiunque ne prenderà il posto. Eppure così parlò il Corriere della sera, 10 febbraio 2012. Ciononostante nemmeno i tabloid hanno calcato troppo la mano davanti alla dipartita (fuga?) di Capello a seguito del «negro di ɱerda» rifilato da John Terry ad Anton Ferdinand e della conseguente revoca della fascia di capitano. Il Daily Mirror s’è tolto lo sfizio di titolare “A Fab Day For England”, per poi chiosare la vicenda così: «Nessuno avrà rimpianti per come questa faccenda è andata a finire». Mister Capello invece ha deciso di lasciare la panchina della nazionale dando persino dell’ipocrita all’Inghilterra tutta, rea di processi sommari a suo dire. Gatta ci cova…Mister Capello era arrivato a Londra forte dei successi sulle piazze di Milano (andata e ritorno), Roma, Torino e Madrid (a/r). Il suo stesso atteggiamento scorbutico passava per una mourinhata. Cioè: sono forte, vinco ovunque vada e quindi non sono tenuto alla simpatia. Per carità, la simpatia proprio no. Tanto che a Roma lo scuoierebbero vivo; alla Juve non è arrivato per volere di Gianni Agnelli e Giampiero Boniperti; il Real non lo riprenderebbe mai (ha preferito l’antipatico originale, che poi forse è simpatico) e al Milan potrebbe tornare più in quanto berlusconiano di ferro che per reali convinzioni o amore reciproco. Insomma un curriculum personale che non ha niente da invidiare a quello sportivo. Anzi. E ora che anche i giocatori e i dirigenti di Sua Maestà, davanti alla molto probabile ipotesi di un campionato europeo poco esaltante, cominciavano a lasciar intendere che la (love?) story sarebbe finita, Capello che fa? Se ne va, accusa e cerca il pretesto per uscire di scena per ragioni morali e non per demeriti sportivi come la storia di questi quattro anni a Londra avrebbero decretato. E decreterà. La differenza: a Londra scoppiano dalla gioia ma rilasciano dichiarazioni moderate e concilianti, Capello si erge a novello Robespierre. È credibile? Oppure è una ragione in più per essere anglomani. E impenitenti? A Fab Day For England…and for me. Andrea Di Gennaro * La mia difesa a spada tratta di Fabio Capello si basa su plurimi motivi, molti assolutamente lontani da un qualsiasi tipo di ragionamento maturo e compassato e proprio per questo estremamente validi e insindacabili. Patriottismo, bastian-contrarismo, testardaggine. Poi c’è il garantismo e ci sono i valori sportivi e il calcio di una volta e il buonsenso. I valori sportivi mi rendono, superfluo pure dirlo, ostile a qualsiasi tipo di “discriminazione razziale o territoriale” (per dirla come lo speaker di San Siro), ivi incluso il gergo forse utilizzato da John Terry nei confronti di Anton Ferdinand. Ma, mischiati con l’amore per il calcio di una volta, rendono anche insopportabile l’idea di portare in tribunale un giocatore per averne insultato un altro. Non si tratta di omicidio, rapina a mano armata, truffa, furto con scasso: cosa può fare un tribunale, in mancanza di indizi materiali e prove fisiche? Non era più semplice, per la bacchettona FA, multare l’ormai ex capitano e tanti saluti? Se poi le scuse non sarebbero arrivate allora beh, vorrà dire che Terry avrà una mano in meno da stringere dopo quella di Bridge. In Premier League di questo passo non si stringerà la mano più nessuno (anche i bambini ormai hanno preso l’abitudine), ma a chi interessano i cerimoniali d’altronde? Poi c’è il garantismo, invocato da Capello stesso. Volete fare il processo? Fatelo, ma la fascia di capitano rimarrà a J. T. fino alla decisione dell’albocrinito giudice. Il buonsenso mi porta poi a trovare assurda la decisione della federazione di passare sopra l’autorità del manager per un capriccio da signorine. In “fuckin’ black cunt” (e non “negro di ɱerda”) il termine black è aggettivo. L’insulto razziale, insomma, dove starebbe? Non significa questo sminuire l’importanza della lotta al razzismo, ma l’Inghilterra è un paese abbastanza civile per passare sopra a questi bisticci, valutare all’unanimità o quasi che Terry si è comportato comunque da cretino fatto e finito e tante grazie. Non nascerà una sezione del KKK intitolata a John Terry. E invece no, a loro (gli inglesi) proprio di avere un allenatore straniero non andava giù. Dopo aver massacrato Eriksson hanno voluto buttar giù dalla torre anche Capello, quello che li ha portati all’Europeo come si porta qualcuno a fare una passeggiata, quello che stava per mettere la Germania sotto di tre goal in Sud Africa se l’arbitro avesse fatto il suo lavoro per bene (e no, non sono minuzie). D’altronde se la Regina non vede un trofeo dal ’66 un qualche motivo ci sarà, sarà mica sempre colpa del mister. Che ci provi Redknapp, allora, a vincere una competizione con un parco punte formato da Bothroyd e Heskey, con un Lampard leone a Stamford Bridge e pecora se portato in un Wembley qualsiasi, con a difendere i pali una statuetta da Subbuteo senza nemmeno il manico verde per poterla muovere. E in ultimo c’è il patriottismo, quello che mi fa dire, al cospetto del mondo estasiato dal giovanotto di Setubal, che il Mourinho italiano c’è, si chiama Don Fabio, ed è pure più bravo. La storia lo dice, gli inglesi lo ignorano. Buona fortuna allora, non ci saranno sempre dei maradona di turno a farvi recriminare per un secolo passato in sordina. Davide Coppo -
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Il pallone di Luciano Il 2012 è anno bisesto va indigesto a Moratti e alla Roma di Baldini di LUCIANO MOGGI (Libero 19-02-2012) Comincia male il 2012, anno bisestile, indicato da tutti come portatore di guai in serie: c’è il presidente Monti che predica austerità agli italiani per risollevare l’economia in recessione; Celentano che durante Sanremo, al posto di cantare, critica Famiglia cristiana e Avvenire; un Capitano che abbandona la propria nave in pericolo; un altro presidente, Moratti, che, prendendone esempio, abbandona S. Siro. La speranza di tutti è che l’ira funesta del 2012 si plachi. “Good Bye e Amen” era il titolo di un film d’azione degli anni settanta, niente di più espressivo rispetto al crollo dell’ex grande armata di Mourinho, mai così rimpianto ed evocato nella notte d’ira del popolo nerazzurro. “Good bye e Amen” ai sogni di rimonta, sebbene costituissero solo uno straccio rispetto ai tempi del triplete, “good bye e amen” anche a Ranieri, che potrebbe chiudere subito o di qui a fine annata. Il patron ha alzato i tacchi a San Siro alla fine del primo tempo, presago di paura, più che della consapevolezza dei propri errori, su quel punto le colpe sono sempre degli altri. Nella tormenta è finito allora Paolillo, manate e calci all’auto, gli saranno sembrati lontani i tempi di quando banchiere, non ancora dirigente dell’ Inter, ma su incarico della stessa, cercava un posto per l’arbitro Nucini, il cavallo di ţroia di Calciopoli, così inventato per costruire uno scartiloffio a danno della Juve. I tempi sono brutti per l’Inter: ognuno raccoglie il frutto del suo lavoro, e se questo lavoro è fatto male, i risultati sono grami. D’altra parte l’ondata emozionale di Calciopoli si è ormai dissolta e l’Inter è tornata all’antico, a dimostrazione che Calciopoli è stata una farsa. E adesso a questa squadra conservata male e tenuta peggio, fa paura il Marsiglia per il mercoledì di Champions, il pesce puzza dalla testa, e le responsabilità sono evidenti. Davanti all’Inter si è riportato il Napoli, squadra viva e vibrante che con Lavezzi, Cavani e Hamsik incontenibili vede il terzo posto e affronta con più calma la sfida di Champions col Chelsea. Fiorentina piccola piccola e incapace di capire quello che stava accadendo, la viola è una squadra pensata male e corretta peggio. Aveva ragione chi pensava a una stagione non oltre la salvezza, ed era stato bacchettato. I Della Valle lo sanno, occorre una robusta rifondazione. Sulla strada del Milan, che ha strabattuto l’Arsenal c’è oggi il “piccolo” Cesena. Solito rimando alla vicenda biblica di Davide contro Golia, ma qui sembra dura pensare che il miracolo (dal punto di vista... della Juve) possa compiersi, sebbene i rossoneri siano privi di Ibra, Mexes, Seedorf, Boateng e Pato. Il Milan non ha da convincere nessuno. Vuole solo vincere per mantenersi in testa. Le possibilità ci sono, ma non si può mai dire, ed è questo il pensiero della Juve e del Cesena. Juve però che ieri sera ha sofferto, ma è tornata a vincere dimostrando di avere un grande carattere nonostante gli attaccanti continuino a non segnare. Tra Lazio e l’Udinese continua il saliscendi per il terzo posto, con l’Europa League a rendere tutto più complicato. I capitolini di scena a Palermo si affidano a Klose, rosanero con Miccoli incerto. Friulani in casa con il Cagliari. La Roma è alle prese col solito progetto che sembra convincere il solo Baldini e il suo “ventriloquo” Luis Enrique. Appuntamento col Parma, che si è appena sfidato sul campo (poco) e a parole (molto) con la Juve. Il Genoa tenta di rianimarsi a Marassi contro il Chievo. Il Lecce con il Siena e il Novara con l’Atalanta lottano per la sopravvivenza. -
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Debiti e proteste I Glasgow Rangers sull’orlo del baratro Il club più titolato di Scozia rischia il crack. Cameron in soccorso 50mila persone ad Ibrox per la sconfitta contro il Kilmarnock di GABRIEL BERTINETTO (l'Unità 19-02-2012) Il sole brillerà ancora sull'Ibrox Stadium», ha scritto un tifoso romantico sul blog dei Rangers. Aggrappato a speranze di ipotetici futuri splendori. Con il cuore gravato dalla certezza di un presente senza luce. I Rangers, la squadra di calcio più vittoriosa di Scozia (54 campionati, dodici in più degli acerrimi rivali del Celtic) rischiano di scomparire nel colossale buco scavato dall'allegra gestione finanziaria del signor Craig White e di Sir David Murray prima di lui. Spento il computer, Marcus Beasley, così si firma il fan sul sito dei Rangers, è corso all'Ibrox Stadium, zeppo di folla per un match che entrerà nella storia come il primo disputato dai Blues dopo che la società è stata posta in amministrazione controllata. Tutto esaurito. Cinquantamila sostenitori uniti nell'incitare i loro idoli sportivi, e nel gridare la loro rabbia incredula verso i responsabili del tracollo. Sugli spalti striscioni con una richiesta perentoria: «Aspettiamo delle risposte». I cinquantamila dell'Ibrox, e non solo loro, vogliono capire dove siano finiti i 24 milioni di sterline che il club ha già incassato dalla società Ticketus sulla vendita dei biglietti per le partite della prossima stagione. Scomparsi dai bilanci, o meglio “invisibili” per usare l'eufemismo di un inquirente. E che dire dei 9 milioni di tasse mai pagate, che vanno ad aggiungersi a 49 milioni già oggetto di una lunga contesa giudiziaria fra i Rangers e il fisco? Sono queste le ferite che bruciano, assai più della sconfitta per 0-1 subita ieri nella furibonda rissa casalinga con il Kilmarnock, o dei dieci punti di penalizzazione che sono già stati affibbiati ai Rangers. Perché in forse è la sopravvivenza dei “Gers”, alias “Teddy Bears” alias “Blues”, una squadra di origini antichissime, fondata nel 1872 dai mitici fratelli Peter e Moses McNeil. In forse è l’eterna sfida con i concittadini del Celtic in uno scenario calcistico nazionale, dove ai rimanenti team è riservato un ruolo di semplici comprimari. La redazione sportiva della tv Cnn ha stilato una classifica mondiale della passione sportiva, mettendo al primo posto proprio il derby di Glasgow (seguito da quello fra Roma e Lazio). Anche perché la scelta di campo ricalca l’affiliazione religiosa, con il 74% dei sostenitori bianco-verdi di famiglia cattolica e il 65% dei blu tradizionalmente protestanti. Con annessa ostentazione di simboli a sfondo politico importati dalla vicina Irlanda. Tutti scozzesi, quelli del Celtic e quelli del Rangers, ma ai primi piace sventolare il tricolore dei nazionalisti irlandesi, e gli altri ovviamente rispondono esibendo la bandiera dell’Ulster. Sean Connery, il più famoso fan dei Rangers, confessò di essere stato da bimbo un ammiratore del Celtic. Non avrebbe potuto sconvolgere di più i concittadini neanche annunciando un cambio di sesso. Talmente legate l’una all'altra, le due società, nella comune occupazione di ogni spazio sportivo ed emotivo, che nel loro insieme vengono definite Old Firm. La Vecchia Ditta del calcio scozzese. E come può una ditta rimanere in vita se ne tagliano via metà? Sull'inscindibile intreccio di fede calcistica, militanza politica, identità religiosa e culturale, Theresa Breslin ha scritto un romanzo, “La città divisa”. A dispetto del titolo, il tema centrale è l'unità dell'universo sociale e mentale di Glasgow. Se muoiono i Rangers, il Celtic e i suoi appassionati non avranno più il nemico in cui rispecchiarsi. Sparirà un pezzo importante di Scozia. Nell’auspicare un miracolo che eviti la catastrofe si sono trovati d’accordo persino il premier britannico David Cameron e il capo del governo scozzese Alex Salmong. Che per il resto litigano su tutto da quando il nazionalista Salmond ha indetto un referendum per l’indipendenza dal Regno Unito. -
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laRiflessione di SEBASTIANO VERNAZZA (GaSport 19-02-2012) Messaggio pulito Raccogliamolo Attenzione, maneggiare con cura. La storia del piccolo Filippo e del suo striscione si presta ai gorgheggi dei professionisti della retorica, alle lusinghe dei lupi travestiti da agnelli. Usare il bambino per dare una verniciata di buonismo al calcio cinico e baro. Per favore, non brandite Filippo per assolvere il mondo del pallone dai suoi peccati. Chiunque frequenti uno stadio lo sa: lì dentro i bambini ne vedono e ne sentono di ogni tipo, e ricevono dagli adulti i peggiori esempi. Ogni tanto capita che subiscano violenze. Di recente a Udine un 42enne e un 52enne hanno rubato la sciarpa a uno juventino di 13 anni: coraggiosi, certi predoni delle curve. Ieri sera, a Torino, tifosi della Juve hanno esposto questa scritta: «Filippo o cambi scuola o cambi squadra». Ogni occasione è buona per sfottere, mai per riflettere. Filippo sta facendo il giro dei media. Siti, televisioni, giornali. Ieri Telelombardia, oggi Inter Channel. Noi stessi, intesi come Ġazzetta, gli dedichiamo una pagina. Non siamo «vergini marie» né lavoriamo per l'osservatorio sui minori. Anzi, contribuiamo allo show. Fatto il mea culpa, lasciateci dire che si perderebbe una grande occasione se si riducesse lo striscione del piccolo Filippo a qualcosa di simpatico, mediatico, e avanti il prossimo caso umano, tra uno spot e l'altro. Le parole dello striscione di Filippo - depurate dal can can che hanno creato - ci parlano, ci riguardano, ci toccano. Ci ricordano quello che eravamo prima di entrare nei tritacarne delle nostre vite. Avevamo sguardi puliti e dicevamo cose pulite. «Altrimenti a scuola mi prendono in giro», ha scritto Filippo. Educato, garbato. Oggi l'espressione «prendere in giro» suona desueta, polverosa. Oggi, anche alle elementari, va forte un'altra frase: «Non prendermi per il. . . ». Filippo, col suo striscione, ci ha dimostrato che un altro calcio e un altro linguaggio restano possibili. Speriamo di non guastare né il messaggio né (soprattutto) il bambino. ___ il commento di CRISTIANO GATTI (Il Giornale 19-02-2012) Crollano gli antipatici, rinasce l’interismo Già l'anno scorso avevano cominciato a rifarsi la bocca, ma è adesso che davvero possono liberare l'esultanza: la doppia sconfitta in casa con Novara e Bologna, in un'altra vita sei punti sicuri prima ancora di cominciare, è davvero quanto sognavano da anni gli italiani no-Inter, cioè quasi tutti. È proprio così che la volevano, umiliata e nuda, vilipesa e disonorata. Finalmente, i conti tornano: la vanitosa società degli onesti e dei romantici, che magari telefonano come gli altri agli arbitri e come gli altri spendono cifre spaventose per comprare giocatori, salvo pretendere di uscirne comunque diversi e migliori, quasi un mondo incantato nella galassia depravata del calcio italiano, ecco, proprio questo bluff ideologico torna definitivamente là dove tutti quanti l'aspettavano da tanto tempo, in mezzo alla polvere, sommersa dai fischi e dagli insulti. La mattanza dell'altra sera magari non sconvolge la classifica di serie A, perché ormai quello che succede all'Inter è del tutto ininfluente nei giochi veri, ma certamente stravolge la speciale classifica di serie A come Antipatia. Da anni, con le sue vittorie facili e ripetute, la squadra di Moratti si era insediata in vetta, inamovibile. Scalzata la Juve, finita con la caduta in B sul fondoclassifica dei compatiti, sorpassato il Milan, sempre in zona Champions, però meno vincente e meno prepotente di una volta, ancora lontana la Roma, che tutti riescono a odiare davvero solo quando vince lo scudetto e blocca la capitale per sei mesi, il più avvelenato sentimento di rivalsa era tutto concentrato sull'Inter. La sua infallibilità sul campo era già garanzia di primato, perché da sempre il più forte finisce per scatenare invidie e livori. In aggiunta, il morattismo ci aveva messo il tocco di classe della pretesa superiorità morale, della diversità poetica, debitamente sostenuta dai trombettieri del Cui, Club ultrà intellettuali, presidente Roberto Vecchioni, vicepresidente Michele Serra, segretario Beppe Severgnini. Uno più uno fa due: imbattibilità più superbia fa quel plebiscito di astio sportivo che ha accompagnato l'Inter nella sua ultima epopea, ribollendo ai suoi piedi, appena sotto il podio, aspettando il momento buono. Il momento è arrivato. Ed evidentemente, adesso che tutto s'è compiuto, si preannunciano rivolgimenti. Mentre è chiara la lenta, ma continua risalita della Juve (quel Conte che sbrocca contro gli arbitri ha dato indubbiamente una decisa spinta all'insù), mentre il Milan accetta il duello puntando molto su questo Ibra che si fa largo a schiaffi, l'Inter rincula precipitosamente di molte posizioni. Non è ancora il momento di considerare chiuso il discorso antipatia, perché ancora troppo fresco è il ricordo del suo dominio assoluto e ancora troppo libidinosa la soddisfazione delle popolazioni no-Inter. Ma avanti di questo passo, tenendo questa media, il risultato è inevitabile: quanto prima, la creatura di Moratti sfumerà silenziosamente sullo sfondo, dove i grandi rancori popolari non arrivano più, nel limbo dell'indifferenza, tra Cagliari e Atalanta. Paghi del trionfo, i no-Inter rivolgeranno le loro pulsioni verso altri obiettivi più succulenti. Questa è la vita, e non c'è niente che possa cambiarla. Così, umiliazione dopo umiliazione, alla fine gli interisti si ritroveranno un giorno esattamente là dove sono partiti, sotto il guscio di Calimero. Riprenderanno a piangersi addosso, a sentirsi accerchiati, a denunciare complotti, a maledire i poteri forti. A irridere le proprie sconfitte, a deridere i propri campioni. I primi segnali sono già scritti nel cartello del piccolo Filippo: «Potete vincere? Altrimenti a scuola mi prendono in giro. Grazie». Nel dolore indicibile della sconfitta, se non altro, l'interismo proverà presto l'inconfondibile piacere di sentirsi finalmente a casa. -
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L'INTERVISTA Beretta «Se mollo ora la Lega rischia il commissario» «Petrucci ci critica? Si è fatto un gran lavoro, e su Lotito rispettate le regole» di MARCO IARIA (GaSport 19-02-2012) Il capo del Coni che, per l'ennesima volta, lo attacca, otto club che gli chiedono di farsi da parte, le polemiche appena archiviate sul calcio-spezzatino e il maltempo, una Serie A litigiosa e quasi impotente di fronte al gap con la concorrenza europea. È una poltrona che scotta quella di Maurizio Beretta, presidente della Lega. Il 2 marzo l'assemblea chiesta dai «ribelli» discuterà sul suo mandato: sarà trascorso un anno da quando Beretta diventò responsabile della comunicazione di UniCredit e annunciò l'intenzione di dimettersi. Presidente, ratificherà le sue dimissioni? «La situazione è da tempo sotto gli occhi di tutti, io sono molto sereno. Sarei contento di lasciare la Lega anche domattina passando il testimone a un nuovo presidente. Credo che lo sforzo maggiore debba essere fatto per costruire un consenso attorno al mio successore. Se non c'è una soluzione, le alternative sono due: o proseguo per i pochi mesi che restano alla fine del mandato, oppure lascio la Lega in un vuoto gestionale con tutti i rischi connessi, commissariamento compreso. Mi sembra giusto che su queste opzioni decida l'assemblea». Ci sono diversi club che le chiedono comunque di mollare. «Ma a quel punto farei un torto alla maggioranza». Inter, Palermo, Cagliari, Siena, Bologna, Lecce, Novara e Cesena, nella loro lettera, sollevano la questione del doppio incarico. «Premetto che sono stato io per primo a porre la questione rimettendomi all'assemblea, che è in grado di prendere tutte le decisioni. Mi sento di dire, comunque, che la Lega nel suo complesso ha lavorato molto bene anche in questi mesi, nei quali sono stati conseguiti risultati molto importanti». Le crea disagio il fatto che sia contemporaneamente presidente della Lega e funzionario di una banca, UniCredit, molto vicina al calcio? «Non c'è nulla della mia attività in banca che abbia a che fare con le vicende della Lega». Nell'intervista di venerdì alla Ġazzetta, Gianni Petrucci ha detto che la situazione della Lega di A è diventata insopportabile. «Tutti dovremmo sforzarci di capire che la legge Melandri è stata una rivoluzione copernicana e ha cambiato il dna della Lega di A. Non siamo più solo un'associazione sportiva ma anche un soggetto dalle enormi responsabilità economiche, visto che gestiamo la vendita collettiva dei diritti tv: un miliardo di euro all'anno, il 70% delle risorse del calcio italiano. Considerata la posta in gioco, in assemblea gli irrigidimenti sono fisiologici». Però anche in Premier e Bundesliga la vendita è collettiva e non ci risulta che anche lì si sia finiti in tribunale per i bacini d'utenza... I competitor hanno più a cuore il bene collettivo. «In quelle realtà c'è una prassi consolidata da anni, noi siamo solo alla seconda stagione. E poi i proventi televisivi pesano per il 30-40%, in Italia invece sono fondamentali, vista l'annosa questione degli stadi e del merchandising». Non è proprio dalla mancata diversificazione dei ricavi che si evince la miopia dei club italiani? Negli ultimi 12 anni la A ha ricevuto 8 miliardi dalle tv ma ne ha spesi 12 in stipendi. «Bisognava reggere la competizione internazionale senza avere introiti extra-tv adeguati: un circolo vizioso. Per questo stiamo combattendo da anni per una normativa che consenta alle società di avere stadi di proprietà e di proteggere meglio i loro marchi». La Lega ha fatto tutto il possibile nella sua attività di «lobbying» per il varo della legge sugli stadi? Forse sarebbe servita un po' di accortezza sulla questione dei vincoli. «È stato fatto il massimo. Quanto ai vincoli nessuno li ha mai messi in discussione, stiamo solo discutendo di come esaminarli dentro procedure certe. Il ministro Gnudi sta affrontando seriamente la questione: si rende conto delle potenzialità della legge non solo per il calcio». Per molti il punto di debolezza della Lega rispetto ai modelli europei di riferimento sta nella governance. Oggi tutto passa dall'assemblea e manca una visione prospettica. «È un tema fondamentale. Il presidente di Lega non ha poteri, stanno tutti nelle mani dell'assemblea. Ma è utopistico pensare di cambiare qualcosa se prima non si trova un accordo sulla divisione degli introiti tv del triennio 2012-15. Comunque, abbiamo fatto lo stesso molte cose». Quali? «La separazione dalla Serie B; la prima applicazione della Melandri; il rinnovo della sponsorizzazione con Nike mentre quello con Tim è in dirittura d'arrivo; la firma di un contratto collettivo fortemente innovativo; la vendita dei diritti tv 2012-15 con un ulteriore incremento delle entrate a dispetto della crisi; la piattaforma per il nuovo accordo promo-pubblicitario con l'Aic. La Lega ha fatto uno straordinario lavoro e sta funzionando nel pieno dei suoi poteri: in questa stagione abbiamo tenuto 10 assemblee con 38 delibere». E sulle scommesse? «Abbiamo definito con le leghe europee un codice di comportamento. Chiediamo di inasprire le sanzioni e vietare quelle tipologie di gioco online difficili da controllare». Petrucci ha posto l'altolà sulla responsabilità oggettiva. «Non cerchiamo scorciatoie ma sia chiaro che la Lega e le sue società sono la vera parte lesa in vicende come il calcioscommesse. La responsabilità oggettiva non deve essere un totem». C'è chi le contesta l'eccessivo feeling con Lotito mettendo in dubbio il suo ruolo super-partes. «Lui è un personaggio che ha una forte spinta innovativa. Detto questo, io ho sempre attuato le delibere dell'assemblea seguendo le indicazioni della maggioranza». Petrucci dice che non rispettate le regole avendo fatto partecipare Lotito a un'assemblea nonostante il nuovo codice etico del Coni. «Le norme le abbiamo sempre applicate. Abbiamo ricevuto comunicazione del provvedimento nei confronti di Lotito solo tre giorni dopo l'assemblea del 10. In quell'occasione vi ha partecipato come consigliere federale, senza diritto di voto, tant'è che la Lazio ha delegato un'altra società». Quindi il 2 marzo Lotito non ci sarà? «Applicheremo le regole. Ma, quanto alla sospensione dagli incarichi sociali, cosa che riguarda anche altri dirigenti, continuiamo a ritenere ingiusta la norma perché l'assemblea decide su questioni economiche vitali per i club. Bisognerebbe aspettare i tre gradi di giudizio». Il Coni si è lamentato per essere rimasto escluso dalla trattativa sulla mutualità. «Le altre leghe e la Figc si sono impegnate a garantire eventuali richieste che dovessero venire, ad esempio, dal Coni. La Melandri ci indica di destinare il 10% alla mutualità, per la A il tetto non cambia». -
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Comunicato a sostegno delle parole di Antonio Conte di ANTONIO CORSA (uccellinodidelpiero.com 18-02-2012) Come già fatto dalla Juventus F. C. Spa, anche Uccellinodidelpiero.com si schiera a sostegno delle parole di Antonio Conte e si unisce, sottoscrivendolo, al comunicato firmato dai rappresentanti dei principali siti web bianconeri, dei clubs, dei tifosi e dagli ultras. Nella conferenza stampa successiva a Parma-Juventus, il nostro allenatore Antonio Conte ha esternato ai giornalisti presenti in conferenza stampa il suo disappunto per una situazione che rischia alla lunga di condizionare il campionato dei bianconeri e, di conseguenza, l’enorme lavoro quotidiano che c’è dietro. Secondo il mister, gli arbitri non sono sereni quando arbitrano la Juventus, poiché hanno notato – ed è in realtà evidente – come se si sbaglia contro la Juventus comunque va bene, mentre in caso contrario si viene sottoposti a gogna mediatica e a punizioni esemplari dai “vertici arbitrali”. Unendoci a quanto già fatto con nota ufficiale dalla Società, anche noi tifosi bianconeri, (popolo del web, tifosi e ultras) sottoscriviamo dalla prima all’ultima parola quanto espresso in maniera chiara ed inequivocabile (nonostante i tentativi di strumentalizzazioni varie) in quel di Parma. Riteniamo, probabilmente in contrasto con quanto pensa una fetta rilevante di giornalisti e dirigenti federali, che la nostra dignità non sia calpestabile e che, al contrario, siamo proprio noi tifosi la benzina che fa muovere l’intero motore del gioco del calcio. Siamo noi che lo alimentiamo con i nostri soldi, con la nostra passione e con i nostri sacrifici, e non può più starci bene questa situazione che in realtà va avanti dal 2006 in poi. Già l’ex presidente Cobolli Gigli (quello che chiede più gol e meno polemiche) e Didier Deschamps, nel purgatorio della B, iniziarono a denunciare una situazione insostenibile e resa palese dai numeri (3 soli rigori fischiati in 42 partite: nessuno peggio di noi, nonostante i 94 punti e gli 83 gol messi a segno), proseguita poi col ritorno in A con Claudio Ranieri, ( lo stesso tecnico che vuole dare lezioni di stile), nell’ottobre del 2007, denunciò come «nel dubbio ci penalizzano. Forse stiamo pagando noi lo scandalo di calciopoli. Non vogliamo aiuti, ma essere trattati come tutti gli altri». Fu un campionato, il primo in A, talmente compromesso da errori arbitrali a nostro sfavore da spingere Cobolli Gigli (sempre quello che chiede piu’ gol e meno polemiche) e Jean-Claude Blanc a scrivere una lettera aperta di protesta a FIGC ed AIA nella quale si denunciava come «alcune decisioni dei direttori di gara stanno confermando un dubbio sollevato da più parti: e cioè, che nei confronti della Juventus non vi sia un atteggiamento sereno e adeguato alla serietà con la quale la Società e la squadra affrontano i propri impegni. [. . ] La Juventus non può continuare a pagare colpe per le quali ha già scontato una pena estremamente severa e dalla quale si sta risollevando anche grazie alla passione dei propri tifosi, che legittimamente chiedono rispetto». Sospetti che sono tornati fortissimi, guarda caso, dopo che da Napoli uscivano fuori le intercettazioni “irrilevanti” e dove la Juventus cominciava con forza a rivendicare – grazie alla presidenza Andrea Agnelli – la vittoria di 29 Scudetti, regolarmente vinti sul campo. Si arrivò allo sfogo di mister Delneri il 2 febbraio 2011, quando davanti alle telecamere Mediaset disse che «Vogliamo rispetto, vogliamo che ci venga dato quello che ci va dato. Perchè Calciopoli è finita. Cinque anni fa. Se c’era, poi». Un attacco diretto «perchè a stare zitti non si ottiene nulla», cui fecero seguito le parole dell’amministratore delegato Marotta: «Non sono qui ad accampare delle scuse ma voglio esprimere una critica molto decisa nei confronti della classe arbitrale e dell’atteggiamento verso la Juventus. Non vorrei che le nostre valutazioni su Calciopoli siano intervenute in questo tipo di comportamenti. Non vorrei che quella che prima si definiva sudditanza ora diventi arroganza, che superi l’oggettività degli episodi in questione». Condanniamo in maniera netta e ferma le istituzioni che dal 2006 ad oggi non sono state in grado di garantire – forse perché controparti in tribunale contro la Juventus? – quella necessaria e fondamentale serenità nei giudizi e trasparenza nelle scelte che è alla base della credibilità dell’intero gioco del calcio. Vogliamo sapere perché dal 2006 ad oggi siamo la squadra – tra quelle sempre presenti da allora in A più Napoli e Genoa che salirono assieme a noi dalla B – che si è vista fischiare meno rigori di tutti (26) e con un saldo di +1 assolutamente statisticamente irrituale per una “big” (basta controllare qualche statistica). Vogliamo sapere perché se Doveri assegna un rigore alla Juventus all’88° di una partita già sull’1-0, viene assalito dai media, si sollevano sospetti di combine sui rigori e l’arbitro viene fermato per quattro turni, senza essere difeso da nessuno, ma anzi venendo dato in pasto a chi altro non aspettava per aprire bocca. Vogliamo sapere perché uguale trattamento non viene riservato a chi sbaglia, anche molto più clamorosamente, a favore di altre squadre (che casualmente sono divise da pochi punti in classifica da noi). Vogliamo sapere perché se un arbitro sbaglia danneggiando la Juventus, la sua prestazione viene giudicata “positiva” e nessuno si sogna minimamente di riservargli lo stesso trattamento ricevuto da Doveri. Siamo 14 milioni, con tutto quello che ciò rappresenta, (e qualche media, visto i cali d’ascolto e delle vendite se ne è già accorto) e pretendiamo – visto che come detto siamo la benzina di questo calcio – che si chiariscano questi sospetti che riteniamo ormai inaccettabili, perché durano da troppo tempo e non si riferiscono ad una singola parita, ma ormai a sei lunghi anni. Antonio Conte ha detto di non riuscire a spiegare a noi e ai suoi giocatori il perché tutto questo accada. Chiediamo a chi di dovere di farlo per lui, in maniera chiara e non superficiale, perché siamo stanchi di essere trattati come se nulla fosse. Nel 2006, chi ha messo in piedi la farsa di calciopoli, lo ha inteso fare – parole sue – per “ripulire il calcio da ogni sospetto”. Oggi, nel 2012, ci pare che si sia solamente ottenuto l’effetto contrario, in quanto i sospetti sono solo raddoppiati da parte di tutti i protagonisti del sistema calcio, senza in realta’ dare una vera idea di trasparenza. E gli scandali che riempiono i giornali, ne solo l’esempio. In compenso si e’ ottenuto l’effetto di penalizzare la Juventus e noi tifosi, che continuiamo a pagare e ad essere trattati senza rispetto. Non e’ che forse il vero obbiettivo fosse solo quest’ultimo? Noi pretendiamo rispetto e pretendiamo delle risposte da chi rappresenta il sistema calcio, e abbiamo il diritto di averle. Da oggi non ci fermeremo fino a quando queste risposte non ci verranno date. Con civiltà ma con fermezza, noi diciamo basta. Non siamo più disposti ad accettare questa disparità di trattamento evidente a tutti gli uomini e le donne che abbiano un minimo di onestà intellettuale (merce rara ormai) e attueremo ogni forma di protesta percorribile che la legge ci concede. -
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News Il fido di Unicredit tolto al Palermo scatena la guerra tra Zamparini e Beretta È guerra aperta tra Maurizio Zamparini e Maurizio Beretta. Il presidente del Palermo ha infatti notato uno strano tempismo tra la lettera con cui, assieme ad altri club, ha chiesto le dimissioni del manager Unicredit dai vertici della Lega Calcio e lo stop a un fido da 2,5 milioni di euro, già deliberato da Piazza Cordusio, a favore della squadra rosanero. Tuttavia, il potere decisionale sui finanziamenti non rientra nelle mansioni di Beretta. Se la tesi di Zamparini è piuttosto difficile da dimostrare, sorge però un dubbio: non è opportuno che, visto l’imminente rinnovo del board, Beretta si impegni a fondo a favore della banca, e lasci perdere la lobby del pallone? di ANTONIO VANUZZO (LINKIESTA 18-02-2012) Maurizio contro Maurizio. L’uno è Zamparini, presidente del Palermo e capofila degli otto club ribelli che qualche giorno fa con una missiva hanno chiesto le dimissioni all’altro, Beretta, dal 2009 al vertice della Lega Calcio, oggi Lega di serie A. «Abbiamo bisogno di un presidente a tempo pieno» ha motivato l’imprenditore friulano, riferendosi all’altra carica ricoperta da Beretta, che dallo scorso marzo è responsabile della comunicazione di Unicredit. Ieri mattina, tramite una nota apparsa sul sito della squadra siciliana, Zamparini ha voluto evidenziare un tempismo sospetto tra le critiche mosse a livello di lega e un fido concesso a suo tempo dall’istituto guidato da Federico Ghizzoni al team che – sognano in città – potrebbe essere allenato addirittura da Fabio Capello. Sul comunicato si legge: Il presidente Maurizio Zamparini e i tifosi del Palermo ringraziano la Banca Unicredit per la grande fiducia dimostrata togliendo il fido di due milioni e mezzo a suo tempo concesso. Quanto sopra risulta strano per una banca fortemente interessata ad un’altra squadra di serie A. Tanto strano anche in virtù del fatto che il nostro presidente Beretta, di cui abbiamo chiesto le dimissioni, è un alto funzionario della Banca Unicredit. L’accusa di Zamparini è, dunque, di un palese conflitto di interessi. «Unicredit ha preso una decisione strana ma stanno già ritornando sui loro passi. Hanno detto che ci avrebbero tolto un fido che risale a due anni e mezzo fa, peraltro noi non l’abbiamo mai utilizzato» ha spiegato a Linkiesta il fondatore del Mercatone Zeta, che sottolinea: «Il Palermo è una società sana e ha zero euro di esposizione nei confronti delle banche». A onor del vero, stando all’ultimo bilancio disponibile (al 30 giugno 2011), il club rosanero evidenziava un utile di 7,7 milioni di euro, immobilizzazioni immateriali a quota 55,8 milioni ma un passivo di 107,8 milioni, dei quali 19 nei confronti delle banche. Debiti che però non tengono conto della plusvalenza di 36,8 milioni di euro incassata dalla cessione di Pastore al Paris Saint Germain di Ancelotti, successiva alla chiusura del bilancio. Su Beretta il vulcanico imprenditore è tranchant: «Cosa farà sono affari suoi, io ribadisco che ci serve un presidente a tempo pieno, la Serie A ne ha estremo bisogno». E che, possibilmente, non abbia un ruolo apicale in una banca che ha gestito il passaggio della Roma alla cordata di Thomas Di Benedetto (operazione che tra l’altro è costata ben 60 milioni di euro). Da Piazza Cordusio non è arrivato alcun commento ufficiale alle accuse di Zamparini. Tuttavia, fonti interne osservano che la firma finale sui fidi di una certa entità non rientra nelle mansioni di Beretta, ma è autorizzata dal direttore centrale del credito sulla base – in questo caso – delle valutazioni sul merito creditizio della società effettuate dalla direzione territoriale siciliana della banca. Null’altro di una boutade, quindi: pochi mesi fa Zamparini ha fondato il combattivo “Movimento per la gente”, nato allo scopo di difendere i cittadini disarmati di fronte alla tagliola della burocrazia e alla scure di Equitalia. Se è oggettivamente molto difficile, per il presidente del Palermo, dimostrare carte alla mano che sia stato Beretta a influenzare la revoca del famigerato fido, dall’altro c’è da chiedersi in quale veste l’ex direttore delle relazioni istituzionali di Fiat abbia negoziato sponsorizzazioni e accordi nel corso di quest’anno. La resa dei conti andrà in scena il prossimo 2 marzo, data in cui è convocata l’assemblea della Lega Calcio. Un’assise che si preannuncia infuocata a dir poco. Comunque, al di là delle accuse di Zamparini, quella di Beretta è un’impasse da cui conviene uscire presto. Il 14 marzo dell’anno scorso viene nominato responsabile “Identity and communications” della banca, ruolo che include le deleghe sul budget per le sponsorizzazioni, come quella ufficiale alla Uefa Champions League. Pare che all’epoca Beretta avesse rimesso il mandato nelle mani dell’assemblea che riunisce i club di Serie A, mantenendo solo il disbrigo delle questioni di ordinaria amministrazione, in attesa di un nuovo presidente. Una situazione temporanea che doveva risolversi in pochissimi mesi, ma è passato un anno e Beretta mantiene ancora il doppio incarico: a capo della lobby del pallone e responsabile delle relazioni esterne del più grande gruppo bancario italiano, peraltro esposto verso diverse società calcistiche, oltre che principale sponsor della Coppa Campioni. Chi conosce bene l’ex direttore generale di Confindustria è convinto che il diretto interessato non vedrebbe l’ora di andarsene, per poter concentrare tutte le sue energie nella cura dell’immagine di Unicredit, istituto reduce da un complesso aumento di capitale da 7,5 miliardi di euro e prossimo al rinnovo del consiglio d’amministrazione. Passaggi piuttosto impegnativi e faticosi, ben poco compatibili con un doppio lavoro. Pare inoltre che Beretta abbia deciso di rinunciare agli emolumenti che ha percepito in quest’ultimo anno di transizione ai vertici della Serie A, che ammontano a 600mila euro l’anno. Dalla Lega non confermano né smentiscono l’indiscrezione. Sommando i due stipendi, si stima che il compenso annuale dell’ex direttore di Rai Uno si aggiri intorno agli 1, 5 milioni di euro. -
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IL CASO Un calcio alle Falkland Campionato argentino col nome di una nave della guerra del 1982. di GABRIELE PERRONE (Lettera43.it 17-02-2012) A distanza di 30 anni, la guerra delle Falkland è più attuale che mai. E adesso il conflitto tra Argentina e Inghilterra si è trasferito anche nel mondo del calcio. Lo dimostra il fatto che la Federazione calcistica argentina (Afa) ha deciso di cambiare il nome del torneo di Clausura del campionato di Primera Division in quello del «Crucero General Belgrano», cioè la nave argentina affondata da un sottomarino inglese nella guerra del 1982. L'incrociatore Generale Belgrano venne colpito da due siluri che provocarono oltre 300 morti e ancora oggi non è stato chiarito se si sia trattato di un'azione legittima (versione inglese) o di un crimine di guerra (versione argentina), perché la nave non si trovava nella zona considerata adeguata per le operazioni. FIFA: È UNA PROVOCAZIONE INACCETTABILE. Ora che il campionato nazionale è destinato a portare il nome della nave, con evidente significato politico, è scesa in campo anche la Fifa. Il massimo organo del calcio mondiale ha scritto all'Afa ritenendo l'atto come una provocazione inaccettabile, perché «negli statuti della Federazione internazionale è chiaramente proibita la discriminazione di altri Paesi per ragioni politiche. Sono altrettanto proibite le affermazioni politiche sulle divise e sull'attrezzatura delle squadre». Alta tensione in vista delle Olimpiadi di Londra Già lo scorso anno alcuni politici argentini hanno chiesto ai giocatori di indossare, alle prossime Olimpiadi di Londra, uno stemma sulla maglia con la mappa delle isole e la scritta «Las Islas Malvinas son Argentinas». Il presidente dell'Afa, Julio Grondona è anche vicepresidente della stessa Fifa e quindi potrebbe nascere una polemica interna proprio a ridosso dei giochi nella capitale inglese. Lo stesso Grondona, in occasione della candidatura del Regno Unito a ospitare i Mondiali del 2018 (poi assegnati alla Russia) si era detto disposto a sostenerla solo in cambio della restituzione delle Falkland-Malvinas. UNA GUERRA BREVE MA ANCHE INFINITA. Recentemente il governo argentino ha reagito con indignazione alla notizia del dispiegamento del principe inglese William alle Falkland, in un'operazione che per Londra è stata solo di routine ma ha avuto un significato simbolico rilevante. La guerra, scoppiata nel 1982 per il possesso dei territori dell'Atlantico meridionale, si concluse presto con la vittoria inglese. Ma in realtà non è ancora finita. -
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L’inchiesta Doni su Padova-Atalanta: «Accordo? Provo a vedere se qualcuno mi dice qualcosa...» Scommesse, indagato Pellissier l'attaccante «avvicinabile» Il capitano del Chievo citato almeno in due deposizioni di CLAUDIO DEL FRATE & ARIANNA RAVELLI (CorSera 18-02-2012) Il capitano del Chievo Sergio Pellissier è ufficialmente tra gli indagati nell'inchiesta sul calcioscommesse di Cremona. Il dettaglio emerge dalla mole dei nuovi atti depositati dagli inquirenti: il 23 gennaio scorso il pm Roberto Di Martino ha infatti chiesto una proroga di sei mesi delle indagini nei confronti del giocatore, termine che sarebbe scaduto di lì a pochi giorni. I reati ipotizzati dal magistrato sono associazione per delinquere e truffa, gli stessi per cui è sotto indagine la maggior parte dei personaggi coinvolti nell'affaire. Pellissier è sempre stato uno degli elementi in chiaroscuro dell'inchiesta: viene più volte citato da altri coindagati che lo definiscono elemento «avvicinabile» per pilotare i risultati del Chievo, ma non era mai stato indicato con certezza come indagato. Di più: l'attaccante non era stato nemmeno deferito dal procuratore della Federcalcio Stefano Palazzi in occasione del processo sportivo della scorsa estate e dunque era uscito senza ammaccature del primo tourbillon disciplinare. Quella depositata da Di Martino lo scorso 23 gennaio è una richiesta di proroga delle indagini: segno che il calciatore era già da sei mesi sotto l'attenzione degli inquirenti. Il documento non specifica a quali episodi facciano riferimento i sospetti sul calciatore, che però è citato nelle deposizioni di almeno due coindagati, il calciatore Carlo Gervasoni e lo scommettitore Massimo Erodiani. Un altro volto conosciuto dell'inchiesta, Beppe Signori, si difende invece per quanto riguarda i suoi contatti con l'Ungheria; agli atti c'è un brogliaccio che elenca tutte le chiamate che gli indagati ricevono dal paese magiaro (uno di quelli in cui si era radicato lo scandalo) e tra i destinatari di queste telefonate c'è anche Signori. Ieri il suo avvocato Alfonso De Amicis ha specificato che si tratta solo di conversazioni con dirigenti del Sofron, il club nel quale il giocatore aveva chiuso la sua carriera. Dai nuovi verbali emergono altri dettagli curiosi su Cristiano Doni. Di Atalanta-Piacenza (3-0), del rigore tirato centralmente si sa tutto, era un po' meno chiaro lo svolgimento dei fatti di Padova-Atalanta. I «mercati» si aspettano un pari tra le due squadre, tanto è vero che le quote nelle agenzie di scommesse crollano. Benfenati — che monitora gli andamenti delle puntate come un investitore di Piazza Affari — se ne accorge subito e chiama l'amico Cristiano: «Non è che vi siete messi d'accordo?». La risposta, com'è riferita da Doni nell'interrogatorio, è divertente: «Guarda se vuoi quando sono là, il giorno della partita, faccio la ricognizione del campo (...). Provo a vedere se c'è qualcuno che mi dice qualcosa». Il giocatore dell'Atalanta racconta poi al Gip Salvini di non avere nessuna percezione che le combine fossero un reato penale. Non solo: «finire in galera» era diventata una battuta ricorrente ai Bagni di Cervia. «È stato il tormentone dell'estate. Quelli che non erano coinvolti ci prendevano in giro, era diventata proprio una battuta. Mai mi sarei immaginato di finirci davvero». -
Due Chicche Sull'Assessore Narducci
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L'intervista Nitto Palma: «Così impedirò ai pm di tornare dopo aver fatto politica» L'ex Guardasigilli: Nicastro e Narducci? Non rientreranno al loro posto di GIANLUCA ABATE (Corriere del Mezzogiorno - Napoli 18-02-2012) ROMA — «Io una cosa non l'ho capita». Quale? «Perché se parla il Capo dello Stato Giorgio Napolitano davanti al plenum del Csm sono tutti lì a plaudire alle sue parole?». Forse perché è stato un bell'intervento. «Certo. Molto serio e corretto da un punto di vista istituzionale». E allora perché si meraviglia? «Perché quelle cose, cinque mesi fa, le ho dette io davanti al plenum. E m'hanno accusato di voler mettere il bavaglio alla magistratura, limitare i diritti elettorali, interferire con le scelte dell'organo di autogoverno». Francesco Nitto Palma — romano, classe '50, senatore, ex pm antimafia, ex sottosegretario all'Interno, ex Guardasigilli, oggi commissario regionale del Pdl campano alle prese con il caso del falso tesseramento che agita il partito anche a Sud (da Salerno a Bari) — quell'intervento del Presidente della Repubblica di martedì scorso al Csm se l'è riletto una decina di volte. E ora annuncia: «È necessario intervenire sulle iniziative disciplinari e regolamentare l'ingresso in politica di pm e giudici, impedendogli il rientro nelle fila della magistratura. Martedì presenterò una proposta di legge». Senatore, non è che l'affondo sulla giustizia è un diversivo per distogliere l'attenzione da ciò che accade con il tesseramento nel Pdl campano? «Guardi che io quelle frasi le ho pronunciate davanti al plenum del Csm il 3 ottobre 2011. Ed ero ministro della Giustizia, non certo coordinatore del Pdl della Campania». Sono passati più di quattro mesi, perché se ne ricorda solo adesso? «Perché qualsiasi cosa dica un esponente del centrodestra sulla magistratura viene criminalizzata a prescindere. E ora, grazie all'intervento del Presidente della Repubblica, ne abbiamo la prova. Visto che le sue parole sono state accettate da tutti, possiamo mettere mano alla correzione del sistema». Cos'ha che non va? «Tanto per iniziare, nei rapporti tra magistratura e politica c'è un dato che crea non pochi problemi». Quale? «L'ingresso dei magistrati in politica a livello nazionale o negli esecutivi locali, dove assumono incarichi di governo presso Regioni, Province e Comuni». Esercitano un diritto costituzionalmente garantito, no? «No. È accaduto, invece, che i magistrati abbiano fatto indagini su questioni di pubblica amministrazione rivolte verso una sola parte politica, e poi li abbiamo visti diventare assessori regionali o comunali in un governo locale retto dalla parte politica opposta». Casi particolari? «Ce ne sono tantissimi in tutt'Italia. E si sono verificati anche al Sud». Si riferisce alle vicende dell'assessore regionale pugliese Lorenzo Nicastro e di quello al Comune di Napoli Giuseppe Narducci? «Non commento casi singoli. Dico, in generale, che trovo strano che uno finisca a fare l'assessore chiamato dal principale competitor del politico che ha indagato. Così come trovo strano in generale che si faccia l'assessore nella stessa città dove fino al giorno prima si conducevano indagini». Storie vecchie, ormai è cosa fatta. «Si può sempre iniziare a regolamentare il rientro». Cioè? «Non possiamo far finta di niente e poi farli tornare in magistratura». Che fa, li manda a casa? «All'Avvocatura dello Stato. O, se proprio si vuole trovare una mediazione limitata a quei magistrati che hanno incarichi in enti locali, li si allontana di almeno due regioni. Queste sono situazioni che gettano discredito sulla magistratura». Il collegio dei probiviri dell'Anm, proprio sul caso Narducci, afferma il contrario. «Sono contento, ma di quello che fa un'associazione sindacale dominata da logiche correntizie non mi interesso. Narducci, Nicastro e tutti gli altri creano un problema di immagine di terzietà, punto. E poi l'Anm è governata dalle correnti di sinistra, Md e Area: pensa che se ci fossi andato io il risultato sarebbe stato lo stesso?». Dice che si è puniti o meno a seconda dell'appartenenza? «Dico che in quell'occasione ci fu un duplice procedimento. Uno per Narducci, un altro per Arcibaldo Miller, accusato di una certa vicinanza con i politici, di aver trattato una candidatura, di aver partecipato a una cena. Narducci è stato prosciolto, Miller s'è dovuto dimettere dall'Anm se no lo fregavano». A proposito di Miller. I magistrati in politica non ce li ha portati solo la sinistra. Oltre a lui cito a memoria qualcuno chiamato nel centrodestra: Papa, Caliendo, Bobbio... «I magistrati che entrano in politica sono un problema, dovunque essi entrino». ...E Francesco Nitto Palma. Non suona un po' strano che parli proprio lei? «Sono le ragioni per cui mi sono dimesso dalla magistratura il 16 ottobre 2011. E con 38 anni di anzianità, non 40, subendo così un danno sotto il profilo pensionistico». Vuol passare per benefattore? «Vorrei che passi il concetto. Io so di essere imparziale, ma se dopo la mia esperienza politica nel centrodestra fossi tornato in magistratura e mi avessero mandato a fare il pm a Napoli, qualcuno avrebbe creduto alla mia imparzialità se avessi iniziato a indagare sul sindaco Luigi de Magistris?». S'è dimesso anche lui dalla magistratura, non gli può certo rimproverare nulla. «Mi fa piacere per lui, ma io mi sono dimesso senza che nei miei confronti fosse pendente alcun procedimento disciplinare». Quello dei procedimenti disciplinari è un altro dei temi toccati dal Capo dello Stato. Vanno regolamentati? «È uno dei punti che avevo sottolineato. Il Csm non può attivare in continuazione procedure per i trasferimenti d'ufficio. Mi hanno criticato, ora per fortuna Napolitano ha detto esattamente la stessa cosa: l'ordinamento giudiziario prevede questo strumento solo per i cosiddetti fatti non colpevoli». Ce li spiega fuor di giuridichese? «Sono quelli che determinano un'incompatibilità ambientale per cause non ascrivibili al magistrato. Come se un giudice avesse il coniuge che gli fa le corna con tutti». E i «fatti colpevoli»? «Quelli rientrano nell'ambito dei procedimenti disciplinari, e le ipotesi di illecito devono essere espressamente indicate. Solo che è impossibile prevedere tutto ciò che un magistrato può fare, perciò avevamo inserito una norma che, al di fuori dei casi indicati, configurava come illecito qualsiasi condotta lesiva del prestigio della magistratura. Poi è arrivato Clemente Mastella». Che c'entra lui? «Ha eliminato questa norma. E anche quella che regolava le esternazioni. Quando l'ho detto al Csm, mi hanno accusato di voler mettere il bavaglio ai magistrati. Ora che l'ha detto Napolitano va bene». È sufficiente eliminare una norma per far saltare tutto il banco? «Certo, perché così si crea confusione. Il caso del procuratore di Bari Antonio Laudati e dell'ex pm Giuseppe Scelsi è emblematico. La Procura di Lecce ha aperto un fascicolo, il Pg della Cassazione e il ministro della Giustizia hanno avviato accertamenti, il Csm ha aperto una pratica per il trasferimento d'ufficio». Com'è finita? «È finita che il Csm ha archiviato la pratica dicendo che non c'era nulla di rilevante, ma il Pg della Cassazione ha deciso di esercitare l'azione disciplinare. E chi giudicherà? La sezione disciplinare del Csm. Composta da consiglieri che, in parte, sono proprio quelli che hanno già detto che non c'era nulla». Pensa che lo «assolveranno»? «Penso che si dovrebbero astenere. E penso che noi dobbiamo fare in modo che pasticci di questo tipo non si verifichino mai più». -
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Ad esempio, archiviamo qui anche il seguente articolo -
E' molto probabile uno sciopero generale degli avvocati dal 21 al 24 marzo prossimi
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Giornalisti "tifosi": serve un esame di coscienza di SEBASTIANO VERNAZZA dalla rubrica "NON CI POSSO CREDERE!" (SportWeek 18-02-2012) Alla conferenza stampa di Contador i giornalisti spagnoli hanno applaudito il ciclista squalificato. Scena vergognosa, che dà un’ulteriore picconata alla credibilità della categoria. Non possiamo però permetterci di fare troppo i moralisti. Anche noi - intesi come operatori italiani dell’informazione - abbiamo discreti scheletri. Su radio e tv della nostra Penisola imperversa la figura del giornalista-tifoso: urla, invettive, la negazione dell’evidenza come linea editoriale. E poi Calciopoli, lo scandalo degli scandali. Una parte di cronisti e/o opinionisti si è schierata, ha deciso che Luciano Moggi e gli altri sono innocenti a prescindere dalle sentenze, fin qui tutte di colpevolezza. C’è chi lo fa per interesse di bottega, per soddisfare una fetta di mercato (per lo più juventini avvelenati). C’è chi si comporta così in nome di vecchie amicizie e consuetudini: tu dai una notizia vera a me e io scrivo che il terzino Scarso de Scarsis interessa al Manchester United (è falso, ma ti faccio un favore, le quotazioni di Scarso de Scarsis salgono un pochino). Per interi campionati, nell’età dell’oro del moggismo, si è andati avanti così, tra pacche sulle spalle e ammiccamenti. «Nessuno capisce di calcio come Lucianone», la frase buttata lì a troncare le obiezioni. È il momento che il giornalismo sportivo italiano faccia i conti con se stesso, senza nascondersi dietro Contador. -
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LA POLEMICA DOPO L’INTERVISTA DEL PRESIDENTE DEL CONI Spaccatura tra i club Netta divisione in Lega: da Beretta ai soldi tv L’attacco di Petrucci è arrivato a segno, ma la poltrona del presidente è solo l’antipasto: la battaglia è sui diritti tv 2012-15 di MARCO IARIA (GaSport 18-02-2012) Mentre la Federazione è pronta ad attivarsi e a raccogliere il monito di Petrucci, come potete leggere nella pagina a fianco, in Lega la miccia è rimasta corta. Sarà perché il capo del Coni già in passato aveva messo nel mirino Beretta e tutta la Serie A, sarà perché qualsiasi tentativo di moral suasion teso a propiziare un'innovazione del sistema si scontra con la cruda realtà: la Lega gestisce un miliardo di ricavi tv all'anno, per questo i club si guardano in cagnesco e litigano su tutto. Le società «riformiste» hanno salutato con favore l'intervista di Petrucci alla Ġazzetta. Ma sono le prime a rendersi conto che la strada è in salita. Vorrei ma non posso Roma, Napoli, Udinese, ultimamente Fiorentina, ma anche Milan e Juventus, si battono perché si discuti, prioritariamente, di una nuova governance, restituendo potere al consiglio ed evitando i continui, estenuanti e spesso infruttuosi passaggi in assemblea. In vista della riunione-chiave del 2 marzo, chiesta dagli 8 club «ribelli» per la formalizzazione delle dimissioni di Beretta e le elezioni di un sostituto, le diplomazie sono al lavoro per condurre il dibattito verso la struttura della Lega stessa. Ma restano ancora una minoranza. Siccome, però, la vera posta in gioco non è la poltrona di Beretta ma i soldi delle tv, ecco che l'assemblea del 2 non sarà altro che un gustoso antipasto di ciò che vedremo presto in onda dalle parti di via Rosellini: una battaglia, ancor più feroce della precedente, sulla spartizione dei proventi del triennio 2012-15. Perché se allora si era finiti in tribunale semplicemente perché non ci si metteva d'accordo su come calcolare i bacini d'utenza (il 25% della torta), immaginatevi cosa potrà succedere quando, nei prossimi mesi, bisognerà trovare un accordo sull'intero sistema di ripartizione. Sì perché la Legge Melandri assegna adesso ampia autonomia alla Lega sul peso da dare a tutte le voci (quindi anche alla quota da dividere in parti uguali e a quella legata ai risultati). Schieramenti Proprio per questo l'alleanza tra Juventus e Milan, nonostante le beghe arbitrali, resta saldissima. Entrambi i club si opporranno alla destituzione di Beretta soprattutto perché temono che cedendo adesso alle medio-piccole (a parte l'Inter, le firmatarie della lettera sono Palermo, Cagliari, Bologna, Cesena, Siena, Novara e Lecce) finiranno col dare partita vinta su ciò che conta di più: i quattrini. Il ragionamento di Agnelli e Galliani è il seguente: prima si parla della spartizione del 2012-15, poi si elegge un nuovo presidente. La domanda, a questo punto, è: perché tra le big non c'è l'Inter? Le motivazioni di Moratti sono diverse. Non a caso, in una delle ultime assemblee Claudio Lotito ha tentato di aggredire l'a. d. nerazzurro Paolillo: è dovuto intervenire Galliani per dividerli. Proprio il patron della Lazio, lunedì, ha ricevuto una lettera dalla Federcalcio (inviata per conoscenza a Beretta) con cui è stato informato che, alla luce delle nuove norme del Coni, è immediatamente sospeso dalla carica di consigliere federale, oltre che da quella di dirigente di club: se il 2 marzo andrà in assemblea, scoppierà l'incidente istituzionale. Toto-presidente Beretta, dal canto suo, non rassegnerà le dimissioni se non ci sarà una maggioranza (leggi 14 voti) a chiederglielo. E questa il 2 marzo difficilmente ci sarà. I ribelli sono 8 e possono arrivare a 10, massimo 12 voti. L'alternativa Cardinaletti non pare raccogliere grandi consensi. Ieri il presidente della Lega è stato tirato dentro una polemica per il suo incarico in UniCredit. Il Palermo si è lamentato del fatto che la banca gli abbia tolto un fido di 2,5 milioni: «Risulta strano per una banca fortemente interessata ad un'altra squadra di A. Tanto strano anche in virtù del fatto che Beretta, di cui abbiamo chiesto le dimissioni, è un alto funzionario di UniCredit». Replica stizzita della banca: «I fidi vengono erogati da alti dirigenti che seguono le aziende. Beretta è una persona perbene che nulla ha a che fare con attività che vengono gestite direttamente da uffici preposti. Il suo nome è stato tirato in ballo in modo opportuno (sic!, ndt)». L’OPPOSITORE CELLINO (CAGLIARI) «Il commissario è l’ultima carta Svolta interna» «Via Beretta e la Lega di A può risollevarsi da sola. Va ridata forza al Consiglio» di CARLO LAUDISA (GaSport 18-02-2012) L'affondo di Gianni Petrucci va addirittura oltre il pasdaran Massimo Cellino, il contestatore per eccellenza di Maurizio Beretta. Come prende, allora il presidente del Cagliari, nonché consigliere federale, l'auspicio del timoniere del Coni di commissariare la Lega? «Io la prendo come una provocazione per indurre la Lega di Serie A a una svolta, a questo punto necessaria». Quindi è favorevole all'ipotesi di Abete commissario ad acta? «Io ho stima per Giancarlo Abete. Ricordo di aver collaborato con lui la scorsa estate per provare a evitare lo sciopero dei calciatori. Quindi non ho remore verso la persona, ha l'equilibrio per recitare bene anche questa parte». Allora è d'accordo? «In Lega si gioca una partita importante. Se Beretta non avverte l'esigenza di dimettersi è un suo problema, ma credo che la prossima assemblea finalmente lo indurrà a prendere atto della volontà dei club. Anche se non avrà 14 voti contro. Ricordi il suo conflitto d'interessi». Ma se ciò non accade? «Allora saremmo costretti a prendere atto degli ammonimenti di Petrucci. Ma spero proprio di no. Il calcio non può stare sotto schiaffo. Anche il mandato di Petrucci è in scadenza. Non può essere lui a darci la linea, rendiamocene conto. Usciamo da soli da quest'imbarazzo». Lei vede Cardinaletti al posto di Beretta? «Mi può star bene. Ma non faccio questione di nomi. Occorre ridare importanza al consiglio di Lega e mettere mano alle riforme». laPuntura di ROBERTO PELUCCHI (GaSport 18-02-2012) Zamparini sfiducia Beretta e UniCredit toglie al Palermo un fido di due milioni e mezzo di euro. Potrebbe essere un caso, ma se non lo fosse la storia sarebbe istruttiva. Dimostrerebbe che il potere tollera un solo fido, quello che fa «bau bau». Palazzo di Vetro di RUGGIERO PALOMBO (GaSport 18-02-2012) «Riforme subito» Abete, sì a Petrucci ma il tempo è poco Alla fine sarà il Coni a metterci mano, come ha fatto con la giustizia sportiva «Sono d’accordo con Petrucci. Avanti al più presto con le riforme, a cominciare da quelle che riguardano tutte le governance». Non dice di più Giancarlo Abete, all’indomani dell’intervista che il presidente del Coni ha rilasciato alla Ġazzetta dello Sport. Nella quale, chiuso con amarezza il capitolo Roma 2020, l’attenzione è tutta spostata sul calcio da cambiare e in particolare sulla situazione della Lega di serie A diventata secondo Petrucci, per svariati motivi, «insopportabile». Non dice di più, Abete, ma ha colto benissimo il sottile e significativo cambiamento di indirizzo. Petrucci smette di sparare su Beretta e Lotito, lo stava facendo dall’autunno scorso, e invita il presidente della Federcalcio a darsi da fare. Invito piuttosto esplicito a ricambiare una solidarietà e una vicinanza che dal luglio 2010, subito dopo il tonfo azzurro del Mondiale, Petrucci non gli ha mai fatto venire meno. Abete incassa il garbato richiamo e rilancia. La dichiarazione ufficiale è assai laconica eppure piena di contenuti: il riferimento a «tutte le governance» riguarda Lega di A, con quel Regolamento ipergarantista che tiene tutto in stallo, ma anche Federazione, coi suoi famigerati diritti di veto cui è stata sottratta solo l’elezione del presidente federale. C’è molto lavoro da fare, o almeno da tentare di fare. Per arrivare nei tempi giusti a consegnare il risultato, o il non risultato, all’attenzione del Coni. Non riuscire a eleggere un nuovo presidente di Lega di A nemmeno dopo la scadenza del mandato di Beretta (30 giugno) o non riuscire attraverso l’infinito e fin qui inutile tavolo delle riforme (è aperto da luglio 2010) a riscrivere il peso in Consiglio federale delle Leghe, ora che sono diventate quattro, equivarrebbe a rimettersi a un nuovo e definitivo intervento dall’alto. Un po’ come è avvenuto recentemente per codice etico, giustizia sportiva e incompetenze in ordine sparso. Sulle altre questioni: Abete è scandalizzato quanto Petrucci della sottovalutazione che la Lega di A, al contrario di B e Pro, mostra di avere del caso scommesse, destinato a riservare qualche brutta sorpresa a più di un club. Quanto alla mutualità sui diritti tv e al Coni «ignorato», Abete al di là della forma vede la sostanza di un bicchiere mezzo pieno, l’accordo tra Leghe fino al 30 giugno c’è e a vedersela con quanto dovuto al Coni in un modo o nell’altro ci penserà lui. Su Lotito e le sue «invasioni» da consigliere federale e presidente di club sospeso, invece, Abete ributta la palla in campo Coni. E’ il Garante del Codice di Comportamento Sportivo del Coni professor Paolo Salvatore che deve occuparsene, e segnalare il caso agli organi di giustizia della Figc, che in materia di codice etico a quanto pare non potrebbero muoversi autonomamente. Lotito, comunque, non riceverà l’invito per il Consiglio federale del 28 febbraio. Le miglior intenzioni, come sempre, animano presente e futuro di Abete. Quel che l’aspetta alla fine della stagione è però da far tremare le vene dei polsi. Scade tutto, tutto va rinnovato, cariche, accordi, contratti collettivi, mutualità, organi di giustizia e chi più ne ha più ne metta. Tutto durante o subito dopo gli Europei e il processo sulle scommesse. Auguri presidente. Ne ha davvero bisogno. -
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LETTERE PortoFranco a cura di FRANCO ARTURI (GaSport 17-02-2012) Per la Juve, contro la Juve Ora mi sono stufato. La Juve sta subendo ancora lo strapotere dei poteri forti che non concedono un rigore nemmeno se sparano ai giocatori bianconeri nell'area avversaria. Neanche ad una squadra dilettantistica riservano lo stesso trattamento negativo. Fino a quanto si dovrà continuare a vedere questi scandali? Le colpe da espiare si sono espiate sino all'ultimo centesimo. Dante Derose Dopo la prima partita di campionato stravinta dalla Juve proprio sul Parma, Conte si lamentò per un rigore non concesso a Matri. Ritenni la polemica del tutto fuori luogo. Ma Conte è cresciuto nella Juve e conosce i giochi di potere che hanno coinvolto il club dove ora allena. Ricorda, giustamente, i torti subiti, e ci sono sia chiaro, ma omette i favori avuti; ci dice che la Juve sta ancora subendo calciopoli dimenticando quanti club sono stati vittima di quel sistema. I vertici del club bianconero hanno sempre ricordato che solo il campo è veritiero, quindi Conte si adegui: è la loro storia che lo insegna. Mario Gallone (Milano) Il rito nazionale del complotto e del «dagli all’arbitro» è come il gioco del domino, che ha un potere ipnotico e può durare all’infinito, attaccando una tessera dietro l’altra, una confutazione dopo un’accusa, un sospetto dopo un rigore. Il vostro ping pong ha infiniti punti di attacco come le valenze in chimica: non finisce qui, naturalmente. Ci sono le varianti e i danni collaterali, per esempio, cioè le terze, quarte e quinte squadre coinvolte. La prossima puntata la sentiremo quando la Juve avrà un regalo arbitrale. Perché succederà, naturalmente. Allora, chi lo sentiranno Galliani e l’avversario di turno dei bianconeri? Azzardo una sceneggiatura di quel momento. Blocco anti-Juve: «Ecco che cosa si ottiene a forza di lamenti, saranno contenti adesso». Juve: «Siamo ancora in credito dopo tutti i torti che abbiamo subito». E’ come le favole che si raccontano ai bimbi, che le vogliono sentire sempre uguali e s’incantano ad ascoltarle nonostante conoscano ogni parola e tutti i dettagli. Tanto rassicuranti perchè uguali a se stesse. Noi tifosi (ma anche tanti addetti ai lavori che preferiscono questi argomenti a quelli propriamente tecnici) assomigliamo molto a quei fanciulli innocenti: la colpa è sempre degli altri, la percezione dell’io e della realtà è ancora in costruzione. Fra duemila anni saremo cresciuti. -
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Rybolovlev, il russo che ha comprato una squadra di calcio per sfuggire alla ex moglie La carriera del nuovo presidente del Monaco di Marco Simone di FRANCESCO CAREMANI (IL FOGLIO.it 17-02-2012) Si può comprare una squadra di calcio per non pagare gli alimenti all’ex moglie? Pare di sì. Dmitry Rybolovlev è il nuovo proprietario dell’AS Monaco, squadra dell’omonimo Principato retrocessa in Ligue 2 e oggi penultima, a distanza siderale dalla capolista Reims. Una situazione che non fa onore a Marco Simone, già milanista e grande ex dei biancorossi monegaschi, anche se il suo ingaggio come allenatore (alla sua primissima esperienza) ha fatto storcere il naso alla critica francese. I risultati, purtroppo, le danno ragione. Rybolovlev ha comprato i due terzi del club, diventandone presidente, mentre Evgeny Smolentsev, ex Direttore sportivo dello Spartak Mosca, è Direttore esecutivo, il braccio operativo di Dmitry che ha subito confermato Simone. In Francia sono in molti a chiedersi cosa ci fa un miliardario russo con u na squadra che rischia di retrocedere nel National, soprattutto confrontandolo con quello che gli emiri del Qatar stanno facendo col PSG, altra storia, altro seguito, altro mercato, soprattutto in chiave merchandising. Sono molto lontani gli anni Settanta, quando il Monaco retrocesse, riconquistò subito la Ligue 1 e poi vinse il titolo. Rybolovlev ha promesso che metterà nelle casse della società 100 milioni di euro in 4 anni, davvero una bella cifra, soprattutto se confrontata con quanto il Monaco ha speso nelle campagne acquisti degli ultimi 6 anni: 87.850.000, con un saldo attivo di 21. 225. 000 euro. La moglie l’ha accusato d’infedeltà per delle orge che Dmitry avrebbe fatto nel suo yacht con delle modelle, chiedendo 6 miliardi di dollari per danni e interessi. Rybolovlev ha disseminato la sua fortuna tra Cipro, Svizzera, Isole Vergini e Singapore, i suoi conti bancari sono blindati, non sarà facile risalire al totale e quantificare gli alimenti, anche perché non esiste un contratto prematrimoniale. Tristezze che, però, secondo France Football avrebbero indotto il magnate russo a investire nel Monaco, anche se a parte le cifre già citate non c’è ancora un programma societario e sportivo. Studente di medicina, lavora per suo padre prima d’investire in Borsa, fondare una compagnia d’investimenti, poi una banca, Credit FD, facendo infine fortuna (quella vera) con la caduta del regime comunista, quando acquista a un prezzo stracciato una società che produce fertilizzanti a base di potassio, estratto dalle miniere degli Urali. Quasi contestualmente viene accusato di essere il mandante dell’omicidio del proprietario di un’azienda chimica della zona e finisce in carcere per dieci mesi, uscendone solo perché un testimone chiave si ritira. Decide così di lasciare la Russia, terra difficile per i nuovi ricchi, stabilendo la sua residenza tra Stati Uniti, Principato di Monaco e Svizzera, guarda caso. Nel 2004 apre a Ginevra una società di trading che fa il botto al London Stock Exchange; Forbes calcola la sua ricchezza in 9,5 miliardi di dollari. E' a questo punto che Dmitry inizia a finanziare la Fondazione (controllata direttamente dal presidente Medvedev) che sostiene gli sport olimpici russi, insieme con Abramovich, Bogdanov e Potanine. Mentre Putin vuole riprendere il controllo totale di tutte le materie prime della Russia. Rybolovlev capisce che non può opporsi al potere politico (a rischio della vita), così decide di vendere le azioni del gruppo Uralkali a Suleiman Kerimov, patron dell’Anzhi FC, e ad altri due uomini d’affari legati al Cremlino per 5,3 miliardi di dollari. Il Monaco vanta 7 campionati, 5 coppe di Francia, una di Lega e 4 supercoppe. Fucina di talenti come Henry e Trezeguet, oggi si deve accontentare di Ludovic Giuly, ex Lione e Barcellona. Frédéric Bolotny, esperto di economia sportiva, dubita delle buone intenzioni del magnate russo, anche se realisticamente afferma: "Il Monaco non ha altra scelta se vuole tornare un club di primo piano". L’attuale valore di mercato della rosa monegasca è poco superiore a 35 milioni di euro e se si salverà dall’incubo National potrà programmare un ritorno in grande stile in Ligue 1. Ex moglie permettendo. -
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Quando il saggio indica la luna, lo sciocco guarda il dito di ANTONIO CORSA (uccellinodidelpiero.com 17-02-2012) «Gli arbitri hanno paura a fischiare in favore della Juventus». Questa è stata la frase, che ha fatto il giro del mondo, con la quale Antonio Conte ha denunciato, dopo Parma-Juventus, una situazione ormai divenuta insostenibile. «Inizio ad avvertire un’aria che non riesco a spiegare ai miei calciatori, non riesco a spiegare ai miei tifosi, non riesco a spiegare alla mia società. Ed è un’aria pesante, che non mi piace». Il motivo? «E’ il segreto di Pulcinella». E ancora: «Quello che chiedo è che, come ha detto Braschi, si tratti la Juventus come tutte le altre, e non che tanto se si sbaglia contro la Juventus va bene lo stesso, mentre se si sbaglia a favore il giorno dopo ti ammazzano!». Una denuncia forte, durissima, ma – a tornare indietro nel tempo – non l’unica, dal 2006 ad oggi. Durante il purgatorio della Serie B, stagione 2006/07, l’allenatore Deschamps ribadì più volte come gli arbitraggi fossero quasi sempre prevenuti e complessivamente assai ostili alla Juventus. Una statistica su tutte: nonostante un campionato dominato a suon di record con 94 punti e 83 reti segnate, a nostro favore furono fischiati soltanto 3 rigori in 42 partite, come Crotone e Verona (mentre Arezzo, Mantova e Albinoleffe erano in doppia cifra, per capirci). Peggio di noi nessuno, tanto che, il 18 aprile 2007, dopo l’ennesimo rigore non fischiato alla Juventus (contro il Rimini), i rapporti tra la dirigenza bianconera e gli arbitri erano già ai minimi termini e si prospettava un futuro non facile: «In Serie A ci andremo senza dover chiedere nulla a nessuno, e di sicuro senza l’aiuto arbitrale. Ma se sarà il caso ci faremo sentire perché così è davvero troppo», diceva un furioso Cobolli Gigli a fine gara. Un pregiudizio così palese e diffuso che Claudio Ranieri, neo allenatore bianconero, confessò il 29 ottobre 2007, dopo i due regali di Bergonzi al Napoli, come «già dal ritiro di Pinzolo avevo detto ai giocatori che gli arbitri, per paura, avrebbero potuto prendere decisioni contro la Juventus». Con la precisazione che «non ci sentiamo al centro di un complotto, ma nel dubbio ci penalizzano. Forse stiamo pagando noi lo scandalo di calciopoli. Non vogliamo aiuti, ma essere trattati come tutti gli altri». Stessi concetti, i suoi, ribaditi quattro mesi dopo, il 24 febbraio 2008, quando la società, tramite sito ufficiale, pubblicava una lettera aperta firmata a quattro mani dal presidente Cobolli Gigli e dall’amministratore delegato Jean-Claude Blanc ed indirizzata ai vertici di FIGC ed AIA. Anche in questo caso, senza giri di parole, si denunciava come «alcune decisioni dei direttori di gara stanno confermando un dubbio sollevato da più parti: e cioè, che nei confronti della Juventus non vi sia un atteggiamento sereno e adeguato alla serietà con la quale la Società e la squadra affrontano i propri impegni». E ancora: «La Juventus non può continuare a pagare colpe per le quali ha già scontato una pena estremamente severa e dalla quale si sta risollevando anche grazie alla passione dei propri tifosi, che legittimamente chiedono rispetto». La sera prima, l’arbitro Dondarini, incredibilmente mandato ad arbitrare la Juventus nonostante imputato (e poi condannato) nel processo penale in corso a Napoli, aveva commesso l’ennesimo errore contro la Juventus, in un contestatissimo Reggina-Juventus. Di sfoghi simili ce ne sono stati tanti, dall’infausta estate del 2006 in poi. L’ultimo, prima di quello di Conte, è avvenuto soltanto un anno fa, il 2 febbraio 2011. Dopo un mani clamoroso non fischiato da Morganti in Palermo-Juventus, l’allenatore Del Neri in televisione ribadiva: «Vogliamo rispetto, vogliamo che ci venga dato quello che ci va dato. Perchè Calciopoli è finita. Cinque anni fa. Se c’era, poi». Un attacco diretto «perchè a stare zitti non si ottiene nulla», cui fecero seguito le parole dell’amministratore delegato Marotta: «Non sono qui ad accampare delle scuse ma voglio esprimere una critica molto decisa nei confronti della classe arbitrale e dell’atteggiamento verso la Juventus. Non vorrei che le nostre valutazioni su Calciopoli siano intervenute in questo tipo di comportamenti. Non vorrei che quella che prima si definiva sudditanza ora diventi arroganza, che superi l’oggettività degli episodi in questione». Capirete, perciò, che rileggere le dichiarazioni di Antonio Conte e limitarle al rigore o meno non fischiato, o tirare in ballo i falli di mano di Cagliari o il presunto rigore (“tuffo”) di Giovinco, come fatto da diversi giornalisti, è dare una lettura assolutamente superficiale e inadeguata al “problema”, che non è un rigore in più o in meno, ma è l’incapacità da parte dei vertici di FIGC e AIA di garantire serenità ed equità di trattamento verso chi già tale disparità l’ha denunciata, finanche nei tribunali. Non è questione di 2 punti in più o in meno, ma di statistiche che si commentano da sole. Da calciopoli in poi, se si prendono in considerazione le squadre sempre presenti in A più le tre big (Juventus, Napoli e Genoa) che salirono quell’anno dalla B, i numeri dicono che i bianconeri si sono visti assegnare 26 rigori a favore e 25 contro. Tutte le altre dodici società hanno un saldo migliore e hanno usufruito di un numero maggiore di rigori: Lazio e Fiorentina (29), Cagliari (32), Catania (33), Palermo (34), Udinese (35), Inter (38), Napoli (39), Genoa (42), Roma (51) e Milan (52). Meno di tutte Juventus, Lazio e Fiorentina. Sarà un caso (l’ennesimo) pure questo? Sarà il modo di giocare delle tre squadre? Sarà sfortuna? O è quella paura che da sei anni viene denunciata dalla Juventus? E’ questo il dubbio che ci si vuole togliere, perchè i sospetti vanno avanti da allora, e nessuno è ancora riuscito a chiarirli del tutto, se è vero che finora Braschi, così come Collina prima di lui, si è limitato semplicemente ad un banale «la Juventus va trattata come tutte le altre». Se Conte parla della pressione che un arbitro riceve non solo dai media (lì segno della croce e amen, li abbiamo contro da ben prima di calciopoli...), ma anche (e cito) «dai vertici arbitrali», non si può rispondere con un «I commenti non ci possono sfiorare» (con la prestazione di Mazzoleni guidicata positiva). Specie dopo che il povero Doveri, per aver assegnato l’unico (!) rigore (all’88° e sull’1-0 per noi) finora fischiato alla Juventus, è stato fermato 4 turni (e di fatto la sua carriera, che pareva molto promettente, è da allora definitivamente compromessa, e basta vedere quanto poco sia stato utilizzato da allora, in A). Un trattamento, il suo, che non è stato riservato a chi, invece, ha sbagliato contro la Juventus (anzi, appunto, la prestazione è giudicata incredibilmente “positiva”). Il signor Braschi, tra una battuta e l’altra, farebbe meglio a spiegare (è il suo compito) proprio agli arbitri, prima che a noi e alla Juventus, perché accadono questa disparità, tra l’altro pure così alla luce del sole (rispondetevi: aveste un fischietto in bocca, cosa fareste, viste le conseguenze?). Non si può, infine, rispondere allo sfogo di Conte con la serie di banalità e battute da asilo nido che si sono susseguite in queste ore. Cito le più belle (manca solo Gigi Simoni, ma uscirà presto pure lui). Ranieri: “Con loro hanno paura? Con noi sono terrorizzati” (che pare tanto una gara a chi ce l’ha più lungo: appunto, roba da ragazzi). Lo Monaco: “Conte vuole aizzare i tifosi” (come se avessimo mai bruciato cassonetti, spaccato vetrine, minacciato di entrare in FIGC e paralizzare Roma, noi). Zeman (ovviamente): «L’unico rigore chiaro era quello in favore del Parma per il fallo su Giovinco» (ormai è la caricatura di se stesso). Seguito da un «Rispetto al passato oggi a certe squadre non danno 20 rigori a stagione come allora» (sţronzata smentita dai numeri). Zamparini: “Se la Juve si lamenta degli arbitri noi cosa dovremmo fare?” (e vabbè, basta dire che quest’anno a dirigere Juventus-Palermo 3-0 ci hanno mandato Bergonzi...). Proprio quest’ultima domanda riassume un po’ tutto: paradossalmente, la Juventus rubava prima di calciopoli e ruba pure dopo. Nonostante i fatti e i numeri. Nonostante sia uscita penalizzata nelle ultime due gare. Nonostante sia lei a lamentarsi, e non il contrario. Così non è una cosa seria. Così è come il saggio che indica la luna, e lo sciocco che guarda il dito. Peccato che, come direbbe il prof. Kantor, di sciocchi è notoriamente pieno il mondo. -
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Andrea, è ora di drizzar le gambe ai cani di EMILIO CAMBIAGHI (JUVENTINOVERO.COM 17-02-2012) Non fatevi ingannare, il problema non sono gli arbitri. Gli arbitri sono solo una delle escrescenze finali del gioco delle parti perennemente in scena oltre le quinte del rettangolo verde. Tutti, tifosi compresi, sono ingranaggi volenti o nolenti di un intricato sistema meta-calcistico che trova nei novanta minuti di gioco l’ultima manifestazione fenomenica. Il campo non è un compartimento stagno, non è un locus amoenus schermato da ogni condizionamento. Al contrario, è lo specchio fedele di quanto si prepara, matura e sedimenta in tutte quelle sedi, dai campi di allenamento ai saloni dirigenziali, dagli studi televisivi a quelli di palazzo che, ricorrendo alla metafora dell’iceberg, rappresentano il 90% di sommerso su di un 10% di visibile. Negarlo sarebbe come proclamarsi dottore senza un decennio di studi, sostenere l’effetto sconfessando la causa. Fuori dai denti: il problema è mediatico, dannatamente mediatico. Torino, non solo sportivamente, paga il dazio di una realtà stretta tra il martello milanese e l’incudine romana. La Mole è il simbolo freddo di un potentato che non è tale, di un regno senza sudditi, di una civiltà laterale e geneticamente poco smaliziata, granitica quanto poco modaiola. Torino è il Lesotho dentro il Sudafrica, è i Baschi in Spagna. Torino è quello che si soffia il naso al concerto, è il vicino del primo piano che con fastidio incontri ogni volta che devi salire al secondo, è il parente noioso che non puoi evitare di invitare a Natale. Se volete è la metà oscura, senza la quale, però, l’opposto non esisterebbe. E’ Selene, la Luna, sorella di Elio, il Sole. Ed è in questo scenario che si devono muovere la Juventus e i suoi sostenitori, sballottati tra il desiderio di appartenere ad un sistema riconosciuto e quello, opposto, di farsi élite autosufficiente. La Juve è una scheggia impazzita, il boccone ingoiato contro voglia e mai digerito. E’ il cerchio rosso in mezzo a quelli bianchi: in breve, il bersaglio perfetto per i media moderni. E i media contano, eccome. Sono quelli che trasformano una ciarla sulle griglie in misfatto peggiore di ben più seri intrallazzi (il dossier di Paparesta, ora opinionista a Mediaset…, il trapianto di Rodomonti in Svizzera, il Puglisi ultrà milanista, il Copelli - e tutti gli altri - intimi di Meani) o in peccato più grave di un incontro al ristorante in giorno di chiusura, del potere di spostare le giornate di campionato e dei tentati taroccamenti di sorteggio (“non lo dovete fare” disse quel tale a Mazzei). Sono gli stessi che hanno elevato un solitario ex capostazione ad entità di potenza superiore a capi di governo, banchieri e industriali. Gli stessi del rigore su Ronaldo dimenticando West, quelli del gò di Turone ma non di Mijatovic, quelli che dicono “sì, ma col Cagliari” ma che glissano sul resto (rigore non dato a Matri col Parma, a Marchisio contro l’Inter, i due di Catania, uno con la Fiorentina, i due in Coppa Italia, il mani di Vergassola, Vucinic a Lecce, gli scempi di Parma). Il tutto nel ponziopilatismo più completo su altre faccende (rigori pro-Milan a Bergamo, Genova, Bologna, mani di Seedorf, simulazione di Boateng, gol di Thiago Motta annullato e quant’altro). Se poi volete i numeri, allora sbizzarritevi. Questo il saldo rigori post-2006 (pro-contro): Inter 38-28 Juve 26-25 Milan 52-18 Roma 51-29 I dati parlano da soli, ma nessun opinionista si è mai sentito in dovere di indignarsi, né di annunciarlo a tutta pagina. Chi comanda i media comanda il gregge e in Italia il bene telegiornalistico sportivo ha tutto l’aspetto di un fondo d’investimento comune, una sorta di libretto di risparmio condiviso e redditizio cui tutti - tranne uno - possono attingere. La Juventus in questo contesto, infatti, è un asset irrinunciabile: da una parte le si concedono titoletti ad effimero consumo, dall’altra la si sventra per servirla all’affamato di turno. La Juve è la cattiva contro la quale sognare riscatto, il Golia che ogni Davide può ambire a distruggere, è l’animus pugnandi dei fenomeni di provincia, dei Doni, dei Cossu, degli Zampagna e dei Lucarelli. E’ l’illusione di fare qualcosa contro il potere, l’inganno del libero arbitrio per chi del vero potere, quello che orienta il gregge, nemmeno avverte l’esistenza. Per tornare agli arbitri, ecco cosa li influenza davvero. Ricordate Pieri a Pairetto? (intercettazione del 13.12.2004) “Figurati se davo un rigore alla Juve, mi fucilavano!”. Si riferiva proprio ai mezzi di informazione. Provate a digitare queste parole su Google, non troverete nessun articolo di Ġazzetta, Corriere o Repubblica, ma solo blog e siti amatoriali a farne menzione. Ci sarebbe da farne un libro, non un articolo, perché il processo di costruzione del mostro è opera quasi artistica, meritevole di studio. Fatevi queste domande: Avete mai visto uno speciale televisivo su Marsiglia-Milan del ’91? Chi si ricorda della meschina furberia in Atalanta-Milan di Coppa Italia 1990? E del gol (pallone mezzo metro dentro) non dato al Bologna contro il Milan nella stessa giornata della monetina di Alemao? L’hanno mai fatta una puntata de “La tribù del calcio” sulla nebbia di Belgrado? Avete mai inteso sospetti televisivi sullo scudetto del 1988? E un approfondimento in prima serata sui bilanci farlocchi o sulla vendita del marchio? Una puntata di “Sfide” sugli ultimi scudetti interisti (quelli delle 53 partite senza rigori contro) o su quelli dell’epoca di Herrera (lì arrivarono a 99!)? Un’analisi giornalistica sui favori nerazzurri nella Champions 2010? Una puntata di “Report” sulle romane salvate dal fallimento? Avete mai assistito a dibattiti sul caso Lentini e sui fondi neri del Milan (i tre olandesi patteggiarono pene pecuniarie, Galliani se la cavò grazie alla prescrizione, in seguito a una modifica legislativa promossa dal suo presidente)? Avete mai visto qualcuno correre in Grecia ad intervistare Georgatos (presunte sostanze illecite negli spogliatoi interisti)? Avete mai assistito a una telefonata all’espertone per chiarire i misteriosi rifiuti milanisti (ancora più misteriose le spiegazioni) di sottoporsi ai controlli del sangue? Sono domande. Mica per accusare, mica per puntare il dito, sia chiaro. Ma solo – uso parole loro – per fare giornalismo, per informare il cittadino, per chiarire, approfondire, per dovere di cronaca, per il bene dello sport. E anche per l’etica, s’intende. E perché, alla fine, bisogna chiedersi che cosa in realtà abbiamo visto. Vi aiuto a ricordare. Avete visto la flebo di Cannavaro (all’epoca al Parma…), avete visto gli opinionisti del Processo del Lunedì, le moviole chilometriche della domenica sera, le pagliacciate delle tv locali, i salotti televisivi otto contro uno, l’acciaio scadente del nuovo stadio, il doping, le prostitute del Viva Lain. Ma ne avete viste anche di più curiose, talmente singolari che forse non le ricordate: all’epoca della Juve di Capello le classifiche, oggi inspiegabilmente sparite, del rapporto falli-ammonizioni, in cui inevitabilmente i bianconeri erano avvantaggiati. Nel periodo del Capello milanista, invece, la classifica era quella senza errori arbitrali in cui il Milan, già primo, era ancora più primo, il Foggia (casualmente rossonero) diventava secondo e la Juve precipitava dal sesto posto in giù. Avete anche visto Montero mazzulatore e la santificazione di Gattuso e Materazzi. Avete visto Vialli, Padovano e Iuliano sbattuti in prima pagina per faccende inesistenti o ancora tutte da chiarire (ma non avete mai sentito parlare di Paolo Maldini rinviato a giudizio per un’ipotesi di corruzione, o dei cinque mesi di condanna a Franco Baresi per truffa, o della figlia segreta e mai riconosciuta di Arrigo Sacchi). Avete visto titoli come “Ecco come truccavamo i sorteggi”, “Ecco le 29 partite falsate”, “Juve non così”, “Processateli”, “Juve, così non si può”, “Terrorizzati da Moggi”. Avete visto interviste assortite a chiunque gravitasse in orbita antibianconera (Zeman, Gazzoni Frascara, Travaglio, Boniek, devo andare avanti?) e persino all’ex presidente Cobolli, usanza questa diventata ormai ciclica (ma chi ha mai intervistato Pellegrini, Fraizzoli, Giussy Farina, Goveani e Tilli Romero?). Avete visto di tutto. E anche peggio. Adesso vi spiegate perché gli avversari contro la Juventus giocano tutti alla morte. Adesso capite in quale direzione fanno soffiare il vento dell’indignazione. Ora comprendete qual è la differenza tra il preparare le partite sul velluto oppure in mezzo alle polemiche e ai sospetti. I calciatori non sono macchine. Vivono nel nostro stesso ambiente, percepiscono il nostro stesso ambiente, un habitat frusto e ripetitivo dove le convinzioni sono poche, ma inattaccabili: lo spettacolo lo fanno il Milan, forse la Roma e sicuramente la simpatica di turno (provate a riempirvi la bocca declamando “Il Parma – o Chievo, o Udinese - gioca attualmente il miglior calcio in Italia”). La Juve… beh la Juve ruba e basta. Non deve protestare. Se gioca bene è un caso, perché è una squadra muscolare e operaia (quindi dopata, alluderebbero alcuni). Non è questione di singole stagioni o di singoli episodi, è un dogma radicato, preciso come il tg delle venti, rassicurante come un ovetto di cioccolato. Dove vogliamo arrivare quindi? Per noi lettori, telespettatori e fruitori, da nessuna parte, se non proseguire nella strada già intrapresa (informarsi, non de-formarsi dietro a tv e giornali). A muoversi deve essere la Juventus, la società, l’establishment. L’obiettivo, infatti, non è quello di convincere gli altri o di sostenere verbalmente un’antitesi a fronte di una tesi dominante. Il risultato non si ottiene con ulteriori polemiche e fomentando dibattiti che, nel migliore dei casi, vanno a rinforzare lo status quo attuale. E’ necessario agire, nel vero senso del termine. Il calcio, come la vita, è un palcoscenico sul quale bisogna recitare. Una parte la si ha per forza, anche se non la si desidera. Il vero controllo, il potere reale è scegliere quale maschera vestire e saperla ben rappresentare. E’ il momento di dire basta con lo stile Juve (che è solo uno dei tanti ammortizzatori ad uso e consumo dei soliti) e con l’accondiscendenza verso il mondo dell’opinionismo sportivo. Basta ai massacri gratuiti, ai processi settimanali, allo svisceramento maniacale di ogni cosa juventina e alla sua immancabile delegittimazione. Ma non deve essere un rifiuto da basso stomaco, quanto piuttosto un proposito da interiorizzare e recitare in silenzio: una presa di posizione definitiva, non un formula di facciata. Lo sforzo è duro, tuttavia non impossibile. Un esempio: costa tanto dedicare due o tre persone che giorno per giorno vaglino e setaccino il panorama cartaceo e televisivo? E’ necessario monitorare ogni cosa e non lasciar passare niente. Si usino le querele (certe bocche si tappano solo con quelle), la diplomazia, la carota e il bastone. Si ingaggino esperti di comunicazione, si costruisca un marchio granitico, un business di valore assoluto e si facciano volare le sedie dove veramente conta. Si mandi in televisione solo chi è autorizzato dalla società e li si istruisca su cosa dire e quando (personalmente lascerei i salotti vuoti. Che i deliranti delirino, ma non in nostra presenza. Sogno una televisione juventina, gratuita, professionale ma gobba fino al midollo, che annulli ogni desiderio di abbeverarsi presso altre fonti). Ma che rimanga tutto nelle segrete stanze: senza uno spiffero, si agisca e basta. L’occasione è fondamentale e il momento, anche se può non sembrare, è propizio. Le basi ci sono tutte: dalla solidità in campo a quella societaria, dalla rinnovata competenza tecnica alla passione sportiva. Non si faccia lo stesso errore già commesso in passato, un errore che ci costò carissimo e che spianò la strada verso Calciopoli: trascurare la comunicazione, non preoccuparsi dell’immagine di sé che si percepisce all’esterno. Senza un controllo su questo fronte può succedere di tutto. Questo è il passo definitivo per essere veramente grandi, purché lo si consideri, finalmente, come un obiettivo primario e irrinunciabile. Auguri Juve, preparati a drizzar le gambe ai cani. -
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Il Coni, l'etica e le "invasioni di campo" (giuridiche): varato il nuovo Codice di Comportamento Sportivo di EDOARDO REVELLO dal blog "SPORT & LEGGE" 17-02-2012 Riprendiamo oggi quanto lasciato in sospeso nel precedente post del 5 dicembre, quando avevamo commentato la decisione da parte della Corte di Giustizia della Figc di rinviare il proprio parere interpretativo in merito all’ormai noto articolo 22bis delle Noif. A due mesi da quel “posticipo”, possiamo oggi tirare le fila della vicenda, essendosi susseguiti nel frattempo numerosi sviluppi interessanti. Procedendo in ordine cronologico, la Giunta Nazionale del Coni, in data 20 dicembre, aveva emanato una direttiva chiara e precisa che sanciva l’immediata sospensione “dalla carica di dirigente sportivo di un organismo [...] del Coni o di una Federazione sportiva nazionale” per coloro che avessero riportato “condanne, ancorché con sentenza non definitiva, per reati di particolare gravità sociale che presentano connessione con l’attività sportiva“. Il nostro Comitato Olimpico, aveva così deciso di sposare una “linea dura”, ritenendo automatica tale sospensione cautelare anche a seguito di una sentenza di primo grado. Dal canto suo, la Corte di Giustizia Federale aveva successivamente reso il proprio parere interpretativo (Comunicato Ufficiale n.128 del 9 Gennaio 2012) osservando come le disposizioni in questione (ovvero quell’articolato gioco di rinvii tra Statuto Figc, Noif e Statuto Lega Serie A già analizzato) non consentissero “di individuare un’ipotesi di sospensione dalla carica di consigliere federale nell’eventualità di condanna con sentenza penale non definitiva di primo grado, non prevedendo in particolare né le conseguenze da essa derivanti né la procedura a tal fine utilizzabile“. Sulla base di tale pronuncia, il Presidente della Lazio Lotito avrebbe pertanto potuto legittimamente conservare la propria carica di consigliere federale, rimanendo sospeso soltanto in qualità di dirigente della società biancoceleste. Il contrasto tra la summenzionata direttiva del Coni ed il parere della Corte Federale, già netto ed inequivocabile prima facie, diveniva ancor più stridente scorrendo la seconda osservazione resa dal massimo organo di giustizia della Figc. I giudici avevano, infatti, ritenuto che la delibera del Coni non incidesse sul quadro normativo in questione, poiché l’atto non poteva che “riguardare il futuro e ciò per un duplice ordine di considerazioni: a) perché è comunque norma sopravvenuta e in quanto tale non applicabile a vicende anteriori; b) perché non è auto-esecutiva, richiedendo un adeguamento normativo degli Statuti Federali e delle Leghe“. Il Coni ha, tuttavia, ribadito la propria linea di fermezza e di tutela della moralità nella governance degli enti sportivi, generando una certa conflittualità all’interno delle Istituzioni sportive. In primo luogo, sono state registrate le dimissioni del Presidente della Corte di Giustizia Federale, a cui è seguito un ulteriore momento di tensione in occasione dell’elezione di consiglieri interni alla Lega Calcio Serie A, sulla base di una interpretazione diametralmente opposta dell’art. 29 dello Statuto Figc. In sede di Lega si riteneva, infatti, che tale norma dovesse applicarsi soltanto alle elezioni dei consiglieri federali e non anche per le cariche interne della Lega, quali la vicepresidenza. Tanto più trattandosi, come sempre sottolineato dai Presidenti dei club, di un’indebita preclusione all’esercizio di attività di natura meramente associativa da parte di “imprenditori” che hanno in gioco affari multimilionari. In questo contesto, il Coni non è arretrato nella sua posizione, ma ha bensì ribadito la necessità di varare norme etiche più rigide per i dirigenti sportivi: di conseguenza, lo scorso 2 febbraio il Consiglio Nazionale del Coni ha definitivamente approvato la nuova normativa, sulla base di quanto già previsto dalla direttiva del 20 dicembre scorso. La parte relativa all’onorabilità degli organismi sportivi è stata inserita nel nuovo articolo 11 del Codice di Comportamento Sportivo, a cui tutte le Federazioni dovranno adeguarsi. In sintesi, vengono ripresi i concetti già previsti dall’art. 22bis Noif, ma con alcune sostanziali novità: in primis, la sospensione cautelare, a seguito di condanna non definitiva, opererà automaticamente nei confronti dei consiglieri federali e dei rappresentanti delle Leghe “fino alla successiva sentenza assolutoria o alla conclusione del procedimento penale o alla scadenza o revoca delle misure di prevenzione o di sicurezza personale“. Inoltre, ed è questa un’ulteriore novità, vengono esclusi da tale sospensione i dirigenti di società, ragion per cui il patron biancoceleste sarà sì sospeso dalla carica federale, ma potrà partecipare alle assemblee di lega in qualità di presidente della Lazio. Alla luce di quanto fin qui detto, ne emerge un quadro generale quanto mai complesso e ricco di continui colpi di scena…Tra pareri consultivi, dimissioni ed elezioni mancate, il Coni ha voluto ribadire la necessità di individuare e predisporre tutti gli strumenti necessari a tutela dell’etica nello sport. La questione morale, da anni punto di forza della presidenza Petrucci, è stata quindi rimessa al centro del dibattito politico sportivo. In un momento storico contrassegnato dall’ormai celebre doping legale, ben vengano riforme di questo genere, tenuto conto di quanto l’intero movimento abbia bisogno di ritrovare rapidamente certezza di comportamenti etici e trasparenti, soprattutto da parte dei propri vertici! -
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PER POSTA di MICHELE SERRA (IL VENERDI DI REPUBBLICA 17 FEBBRAIO 2012) MOGGI, CALCIOPOLI E L’ETICA SPORTIVA UGUALE PER TUTTI Egregio Serra, le scrivo in merito a una sua Amaca sull’etica sportiva. Essendo io un tifoso della Juve vorrei meglio capire il significato delle regole della giustizia sportiva quando queste vengono disattese, come nel caso di Calciopoli. Vengo subito ai fatti: Tronchetti Provera, ex vicepresidente dell’Inter, certamente d’accordo con l’amico presidente, dispone attraverso la controllata Telecom di intercettare numerose telefonate ai due designatori degli arbitri. La compiacente Procura della Repubblica di Napoli sceglie solo quelle di Luciano Moggi trascurando quelle di Massimo Moratti e di Giacinto Facchetti e di altri e le invia all’ex consigliere di amministrazione dell'Inter Guido Rossi, nominato nel frattempo commissario straordinario della federazione gioco calcio. Questi, dopo un affrettato esame con alcuni probiviri, decide di togliere due scudetti alla Juve e di assegnarne uno all’Inter. In quei giorni Enrico Mentana, che ascolto tutte le sere e che è come lei tifoso eccellente dell’Inter, mentre conduceva una puntata di Matrix chiese all’ospite di turno, Bergamo, se Moggi fosse un abituale frequentatore della sua casa. Come risposta Bergamo disse che Moggi frequentava la sua casa come altri dirigenti di altre società. Mentana allora chiese a Bergamo di fare un nome. La risposta fu: Giacinto Facchetti. Mi piacerebbe un suo commento al riguardo. Umberto Pasotti | email Caro Pasotti, la sua lettera è chiara e civile (a differenza di altre) e spero, rispondendole, di riuscire a spiegare in modo tombale – come si dice – il mio pensiero in proposito. Non c’è dubbio che il processo sportivo su Calciopoli fu condotto in modo affannoso e sommario. Questo non significa che la vicenda sulla quale si indagava fosse inconsistente. Luciano Moggi esercitò per anni, sul sistema-calcio, una forte egemonia politica (uso un eufemismo), che influiva fortemente sulla designazione degli arbitri e sulla loro condotta, e anche su una parte significativa del giornalismo sportivo. Altri dirigenti di club (sbagliando) tentarono di contrastare questo andazzo cercando di «farsi ascoltare» in alto loco, e di porre un argine allo strapotere di Moggi. Ma di quel sistema erano le vittime e non gli artefici. Accostare Facchetti (o Della Valle) a Moggi è un torto umano e un falso storico che nemmeno il tifo, che acceca, può consentire. Massimo Moratti avrebbe dovuto rifiutare lo scudetto a tavolino (lo scrissi, il giorno dopo, sulla prima pagina di Repubblica: come vede, essere interista non mi acceca del tutto...). Oggi il clima sarebbe meno avvelenato. Ma quando sento uomini come Capello dire che Moggi «era il migliore», senza aggiungere un dubbio sull’etica di quel signore, mi ribello. E non perché io sia interista, mi creda. Ma perché mi illudo che esista un’etica sportiva uguale per tutti. -
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Razzismo nel calcio: per gli inglesi è affare di Stato. E da noi? di GIUSEPPE CERETTI (Il Sole 24 ORE.com 17-02-2012) Prima il caso dell'ex capitano della nazionale inglese John Terry al quale hanno tolto d'imperio la fascia; ora l'attaccante dei Reds Suarez che si rifiuta di stringere la mano al giocatore dello United Evra dopo averlo in passato ripetutamente insultato, tanto da meritare ben otto giornate di squalifica. E sugli spalti il ritorno di cori beceri. In Italia gli episodi sono stati commentati per lo più all'insegna del motto riveduto e corretto: "L'erba del vicino è sempre più gialla". Quegli inglesi spocchiosi sono bravi a dare lezioni, ma quando si tratta di dirimere faccende di casa preferiscono nascondere la polvere sotto il tappeto. Insomma l'Albione non è più perfida, ma superba sì. È vero che il comportamento delle dirigenza d'Oltremanica presta il fianco a qualche critica, come la decisione di pronunciarsi sull'affare Terry dopo gli Europei della prossima estate, ma è segno concreto di alta sensibilità aver deciso di convocare entro il mese un vertice a Downing Street sul rigurgito della violenza razziale nel calcio. Saranno chiamati giocatori, allenatori, dirigenti per capire come e perché si siano riaccese nuove tensioni in uno dei Paesi più multietnici dell'intero Continente. In Italia pare che il problema non sussista, forse perché siamo più sensibili ai suggerimenti del capo della Fifa Blatter, che giudica il razzismo una fesseria da risolvere semmai nel chiuso di uno spogliatoio. O perché la sensibilità ha un confine ben delimitato dalla fama del personaggio. Se è preso di mira Balotelli si scatena l'inferno, ma se si insulta un giocatore delle serie minori tutto passa sotto silenzio. Davvero non abbiamo nulla da rimproverarci? Il sociologo Mauro Valeri, responsabile dell'Osservatorio sul razzismo e studioso del fenomeno, intervistato dal Corriere della Sera, indica una media di 50 episodi per ogni stagione calcistica, cifra molto più alta di quella verificata in altri campionati. «Quest'anno ne abbiamo già registrati 28, un numero elevato perché riguarda quasi esclusivamente i cori. Le ammende per questi episodi ormai vengono rubricate dai giornali nelle notizie brevi, anche se le società hanno dovuto pagare già 100mila euro per la responsabilità oggettiva». Da noi si sborsano i quattrini e si sta zitti, non si solleva nemmeno il tappeto perché si finge che non ci sia polvere. Proviamo solo per un istante a vestire dei panni italiani la vicenda tra Evra e Suarez. Che cosa sarebbe accaduto? Le otto giornate di squalifica avrebbero generato un putiferio, individuando nella decisione una congiura ai danni della squadra di appartenenza del giocatore accusato. Se poi un allenatore italiano importante, anche se non esiste nel nostro Paese un'icona come il baronetto sir Alex Ferguson, avesse affermato a proposito di Suarez: «Il Liverpool non dovrebbe farlo giocare mai più», si sarebbe scatenato l'inferno. Ma come si permette? Pensi al suo spogliatoio e agli affari suoi. E via decine di dibattiti televisivi. L'indifferenza di fronte al dileggio razzista è una piaga che già in passato ha generato frutti atroci, la cui lezione purtroppo si cancella con facilità dalla memoria. «Mi è capitato- afferma il sociologo Valeri- di partecipare a un incontro europeo indetto dalla Uefa contro il razzismo. C'erano calciatori testimonial di ogni Paese. Non c'era però nessun calciatore italiano». Un'ovvia domanda ai lettori che si qui ci hanno seguito: dateci il nome e cognome di un calciatore italiano che sia stato protagonista o abbia offerto la propria immagine per uno spot contro il razzismo. P.S. Leggiamo che la sequenza di Suarez, l'attaccante dei Reds del Liverpool che si è rifiutato di stringere la mano a Evra, il francese di colore del Manchester United, ha trovato imitatori. Nel pre partita tra Aston Villa e Manchester City le telecamere hanno catturato un ragazzino dell'Aston che ignora la mano tesa del piccolo collega con la maglietta dei Citizens. Commentatori e media inglesi hanno colto l'episodio come pretesto per sdrammatizzare la vicenda Evra-Suarez e si sono dichiarati divertiti della scenetta. Ci piacerebbe chiedere ai maestri dello humor: Che cosa c'è di divertente? Buon campionato a tutti. -
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Zamparini sfiducia Beretta: e Unicredit toglie il fido al Palermo. Monti spazzi via questo sistema di XAVIER JACOBELLI dal blog Mister X (Quotidiano.net 17-02-2012) Dal sito del Palermo Calcio: "Il presidente Maurizio Zamparini e i tifosi del Palermo ringraziano la Banca Unicredit per la grande fiducia dimostrata togliendo il fido di due milioni e mezzo a suo tempo concesso. Quanto sopra risulta strano per una banca fortemente interessata ad un'altra squadra di serie A. Tanto strano anche in virtu del fatto che il nostro presidente Beretta, di cui abbiamo chiesto le dimissioni, è un alto funzionario della Banca Unicredit. Per i tifosi che volessero esprimere il loro disappunto: fax: 02.88.62.83.02 e mail : AG00200-FPMI@unicredit.eu ------------------------- Il 25 agosto 2009, Maurizio Beretta è stato eletto presidente della Lega Calcio. Dal 1º luglio 2010 ha assunto la guida della Lega di Serie A. Dal 14 marzo 2011, Maurizio Beretta è il responsabile della struttura Identity and Communications di UniCredit, azionista di minoranza della Roma. Aveva annunciato che avrebbe lasciato la presidenza della Lega Serie A. non appena si fosse trovato un sostituto. E' passato ancora un anno e Beretta è ancora lì. Nel frattempo, la Lega di serie A si è già consegnata alla storia del calcio italiano per la disgraziata gestione del calendario 2011-2012; per non avere dato un contributo minimo alla soluzione del problema degli stadi, autentica vergogna nazionale;per avere asservito mani e piedi il calcio italiano alle tv, svuotando gli stadi sempre più deserti, sempre più infrequentabili; per le continue, furibonde liti fra presidenti in materia di ripartizione dei diritti tv; per avere subito la farsa del presunto sciopero dei calciatori, presunto in quanto la prima giornata è stata recuperata il 21 dicembre, naturalmente in notturna. Potremmo andare avanti per ore. Poi succede che, finalmente, otto club di A (Bologna, Cagliari, Cesena, Inter, Lecce, Novara, Palermo) si decidono e all'ordine del giorno della prossima assemblea pongono la questione delle dimissioni di Beretta. Curiosamente, qualche giorno dopo la mossa del Palermo e delle altre sette ribelli, Unicredit sospende il fido al club rosanero, come denuncia Zamparini. Di certo è una coincidenza casuale: alzi la mano chi si permette di cogliere un nesso fra le due vicende e chi lo coglie è un malpensante o un parente di Zamparini. Noi che non siamo né in malpensanti né parenti di Zamparini, esprimiamo la più grande solidarietà e una smisurata simpatia al presidente e ai tifosi del Palermo. Non è un evento casuale, invece, ma un enorme, gigantesco caso l'implosione della classe dirigente del calcio e dello sport italiano che deve essere mandata a casa il più presto possibile. A cominciare dal presidente del Coni, testè legnato da Monti con la sacrosanta bocciatura della candidatura di Roma 2020, proseguendo con il presidente della Federcalcio, in attesa che la Lega volti pagina. Se il governo italiano riesce a far pagare l'Ici persino al Vaticano, è tempo che si concentri anche sulla gestione dello sport e commissari Coni e Federazione. Un altro sistema deve essere possibile in questo bellissimo Paese, grande potenza dello sport mondiale che ha bisogno di uomini nuovi, di manager preparati e competenti, di liberarsi dei burocrati che lo opprimono. -
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IL COMMENTO Juve-Milan, la battaglia è fuori dal campo di ROBERTO RENGA (Il Messaggero 17-02-2012) ROMA – Prima alza la voce Marotta, direttore generale abituato alle pause riflessive, poi concede il bis Antonio Conte, l’allenatore: chiaro, alla Juve sta succedendo qualcosa di grosso. Già, ma che cosa ha in testa la Juventus? Come mai si lamenta, come se non si fosse mai scottata in passato con gli arbitri? Danno forse i numeri Marotta e Conte? No, è evidente. Tutta la Juve, non solo dirigente e tecnico, ritiene di trovarsi prigioniera, mani legate e palla di piombo al piede. Ci pensa e ripensa e quindi esplode, non potendo fare altro. I giorni dell’ira, visti dalla Torino in bianconero: 1) la Juve era lanciatissima, leggera e bella, quando arriva la neve a rovinarle la vita. Saltano due partite che, in quel momento, avrebbe potuto facilmente vincere. Le altre, soprattutto il Milan, giocano. La Juventus voleva che si sospendesse il campionato: bocce ferme per tutti, ma la Lega ha scelto un’altra strada. E chi c’è in Lega? Uomini del Milan, malignano a Torino. 2) Nel frattempo il Milan vince, nel modo che si sa (da squadra di personalità) a Udine, complicando le cose bianconere. 3) la Juve scopre che contro il Catania giocherà sabato, mentre il Milan si esibirà il giorno dopo, ampliando il proprio recupero. Monta la rabbia: chi fa i calendari in Lega, si chiedono i bianconeri? E da che parte sta Beretta, il presidente intermittente? 4) In sostanza: la Juve si sente debole, fragile e presa in giro da chi, evidentemente, sa gestire bene il potere. 5) La Juventus sa bene di avere solo due giocatori abituati a vincere: Buffon e Pirlo. Tutti gli altri non sanno da dove si comincia. La società teme che possano subire la pressione, con la quale i milanisti rendono addirittura di più. 6) A questo punto salgono sul palcoscenico gli arbitri che negano rigori evidenti in due partite consecutive. Quattro punti in meno, dicono alla Juve. Si dimentica di qualche favore ottenuto in un passato recente? Se ne dimentica, così va la vita. Si dimentica di ciò che è successo negli anni (tanti anni) passati? Sì, ma questo è un suo diritto, almeno per quanto riguarda Calciopoli, che poi, lette le motivazioni della Casoria, qualche dubbio l’ha lasciato: ha pagato, non può continuare a farlo per tutta la vita. Che è poi il senso della furiosa orazione contiana. Ci sono conclusioni da tirare. La Juve teme, per un motivo (arbitri) o l’altro (Lega) di perdere la stagione. Che succederà, allora? Brutti presagi. Ricordiamo che una volta Juventus e Milan filavano d’amore e d’accordo e che la prima lite avvenne al ritorno bianconero da una partita all’estero, quando quella Juve, che non è questa Juve, scoprì di dover giocare il sabato, mentre il Milan avrebbe fatto la sua partita la domenica. Pari pari a oggi, se ci fate caso. -
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Sport & business. Studio Deloitte: nel 2011 per Real e Barcellona ricavi a 930 milioni, più del doppio di Inter e Milan Nel calcio soffriamo lo «spread» spagnolo di MARCO BELLINAZZO (Il Sole 24 ORE 17-02-2012) Il decennio smarrito del calcio italiano. Potrebbe intitolarsi così l'analisi sulle classifiche europee dei ricavi negli ultimi 10 anni. Al di là delle intuizioni del management di alcune società (come la Juventus che ha costruito uno stadio di proprietà e il Milan che ha potenziato le politiche di marketing), la serie A si è avvitata nelle sue beghe interne e si ha la sensazione che abbia definitivamente perso il passo di Premier, Bundesliga e Liga spagnola. Seduta sulla montagna dei diritti tv "casalinghi" (circa un miliardo all'anno), la Lega ha trascorso gli ultimi 24 mesi a litigare su questioni come i bacini d'utenza, il contratto collettivo dei calciatori e la successione di Maurizio Beretta alla presidenza (se ne ridiscuterà nell'assemblea del 2 marzo). Abbandonando, nel frattempo, la legge sugli stadi in Parlamento (forse verrà approvata entro giugno, come auspicato qualche giorno fa dal neo ministro dello Sport, Piero Gnudi). Il vero problema è che con il fair play finanziario le spese saranno sempre più ancorate alle entrate. Non saranno più ammessi interventi di mecenati, sceicchi e oligarchi. Per cui gli attuali rapporti di forza rischiano di cristallizzarsi. Ma com'è cambiato, appunto, lo scenario nel calcio del Vecchio Continente? Nel 2000 il primato del fatturato spettava al Manchester United con 185 milioni, seguivano Real Madrid (164), Bayern Monaco (145) e Milan (142). Cinque anni dopo passa in testa il Real con 258 milioni, il Manchester United scende al secondo posto con 246 e il Milan è terzo con 234. La cavalcata dei big stranieri è stata inarrestabile, soprattutto, nell'ultimo triennio. Il Real ha macinato introiti arrivando nel 2011 a 479 milioni. Il Barcellona è salito a quota 451. I Red Devils si sono issati a 367 e il Bayern a 312. Arsenal e Chelsea hanno raggiunto i 250 milioni, mentre Liverpool e Schalke 04 hanno doppiato la boa dei 200. Milan e Inter sono oggi al settimo e all'ottavo posto con 235 e 211 milioni. Un fatturato che, salvi gli alti e i bassi stagionali, realizzavano già cinque, sei anni fa. Com'è cresciuto questo "spread"? Hanno inciso una serie di scelte gestionali, di governance errate e di occasioni storiche – come l'organizzazione degli Europei – sprecate. Prendiamo il Milan, la squadra numero uno in Italia per ricavi, seconda solo al Barcellona per rendimento in campo. Tra il 2011 e il 2010 c'è stato un decremento del fatturato del 3, 7% dovuta alla contrazione dei ricavi tv (33 milioni) a causa dell'entrata in vigore della legge Melandri il 1° luglio 2010 che li ha resi di nuovo collettivi. Riduzione che ha annullato le buone performance dell'area commerciale e della biglietteria passate la prima da 63 a 92 milioni, e la seconda da 31 a 35 milioni. Real Madrid e Barcellona che hanno spiccato il volo, oltre a poter contare sul bonus dell'azionariato diffuso, possono beneficiare invece di introiti record da diritti tv che in Spagna sono ancora venduti individualmente. E, in effetti, il resto della Liga non se la passa così bene. I rossoneri con 235 milioni di ricavi, poi, come evidenziato nell'ultimo Deloitte Football Money League, sono di poco alle spalle di Arsenal (251) e Chelsea (249), pur avendo uno stadio di proprietà. I team d'Oltremanica, d'altro canto, hanno saputo vendere all'estero il loro prodotto e pur ottenendo dalle tv quanto gli italiani – circa un miliardo – ne ricavano circa un terzo all'estero. Questo significa meno match trasmessi in patria e stadi pieni. La colpa della dirigenza dei club italiani, perciò, è stata quella di non avere avuto una visione d'insieme sulla trasformazione dei modelli di business del calcio. Come ce l'ha avuta, per esempio, la Bundesliga che con trend di crescita del 25% nell'ultimo quinquennio e rispettando un rapporto ricavi/ingaggi al 51% è salita al secondo posto tra le leghe Ue con 1,9 miliardi di fatturato, superando Liga (1,5 miliardi) e serie A (1,5) e mettendo nel mirino la Premier (leader con un giro di affari di 2,5 miliardi). L'unica consolazione è la "maledizione" da oscar del fatturato. Nel primo lustro del 2000 quando dominava la graduatoria dei ricavi il Manchester United non ha mai raggiunto una finale di Champions. E lo stesso è accaduto negli ultimi sette anni, al Real Madrid. È anche vero, però, che solo una volta nel 2004 la coppa dalle Grandi Orecchie è stata vinta da una squadra esclusa dal circolo dei ricchi: il Porto di un certo José Mourinho.