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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -
Ghost Dog ha risposto al topic di CRAZEOLOGY in Calciopoli (Farsopoli)
CESARE PRANDELLI Un calcio oltre GLI SCANDALI Pazzesco dare spazio agli scommettitori. E ora servono serietà e normalità per ripartire. Parla l'allenatore della Nazionale colloquio con CESARE PRANDELLI di MARCO BUCCIANTINI (l'Espresso n. 1 | 4 gennaio 2012) [lo stesso colloquio, più dettagliato, a questo link] Il maggior timore è la pubblicità di tutto quello che ormai gli accade. Non avrebbe mai pensato "di dover parlare tanto, spiegare tutto". Nella Bassa Bresciana le parole sono un risparmio da tenere custodito in privato. "La popolarità ancora m'imbarazza e mi piace che sia così. Ma è giusto interpretare un ruolo, è senso di responsabilità. Prima, nei club, mi preoccupavo di farmi capire da una città, da una tifoseria. Adesso sento il dovere di essere compreso da Palermo a Milano. Ci provo e non sempre credo di riuscirci". Nel suo spoglio ufficio nella sede della Federcalcio è in gessato blu. Dice che bisogna attraversare la vita cercando di amare. "Di vederlo, l'amore. Di toccarlo, perché l'amore va abbracciato". Così Prandelli un giorno di ogni settimana raduna la sua famiglia a Orzinuovi, dove i Prandelli prima di lui hanno vissuto, lavorato, amato. Il figlio grande - Nicolò - arriva da Parma, e la figlia minore, Carolina, viene con il fidanzato. Con Nicolò e la moglie Veronica c'è anche Manuela, nata 5 mesi fa, "e io ho fatto un patto con i genitori: lasciatemela viziare quanto mi pare, sono un costretto a viverle lontano". La piccola Manuela, che si chiama come la madre di Nicolò, morta di cancro 4 anni fa, non è l'unica persona nuova nella famiglia. C'è anche Novella Benini, la compagna di Cesare. Che però porta ancora la fede. "Questo anello è mio, è nostro: della storia d'amore fra me e Manuela. Che non svanisce, non può". Lei è diventato un uomo condiviso in un Paese di tifoserie e rivalità. "Penso che la gente apprezzi la mia normalità. La misura, la serietà, anche. È un complimento che ricevo spesso, credo ci sia sostanza". La sua normalità in un mondo del calcio che appare sempre più anormale, se non sputtanato, nell'indagine sulle scommesse. "Le scommesse mi mettono addosso tristezza. Una partita finisce condizionata da appetiti criminali che partono dall'altra parte del mondo e arrivano dentro gli spogliatoi. È pazzesco non avere difese, lasciar passare questo buio". Parte del marcio è affiorata grazie al comportamento "normale" di un calciatore che ha detto no ai soldi per vendere una partita. "Per questo ho chiamato il giocatore del Gubbio, Simone Farina, a Coverciano. Merita di respirare l'aria della Nazionale. Sono importanti la normalità e la serietà: è una buona storia per ricominciare". Il calcio non è un'isola ma specchio della crisi del Paese? "Il comportamento di una comunità, di uno Stato, lo fanno le persone. La loro etica e la loro morale. Questi sono i dirigenti che abbiamo. Io parlo di calcio, perché l'ho vissuto. Serve l'esempio, la capacità di negarsi davanti ai comportamenti scivolosi. Quando giocavo e poi allenavo all'Atalanta non si organizzavano scommesse. Il direttore era Giacomo Randazzo. Ti guardava negli occhi, capivi che era un "No, non si può fare". Avevamo timore a chiedergli un biglietto per gli amici. Il contegno di una classe dirigente è fondamentale". L'Italia è in buone mani? "Lo spero. È un momento decisivo. Ho una stima e un'ammirazione smisurata per Napolitano. Questo governo trasmette serietà perché incarna la volontà del capo dello Stato. Mi piace che abbia preso in mano la situazione, mi fido di quelle mani. E per una volta dobbiamo essere disponibili, prima ancora che polemici. Ma questo è un Paese che vive di commenti, non di fatti". Difficile chiedere disponibilità a un pensionato, o a un professore precario. Lei si è sbilanciato: il mondo del calcio non si tiri indietro. "Chi ha di più, deve pagare di più. A Firenze dicono: "Bisogna frugarsi". Quando affermai che eravamo privilegiati, e che ci toccava una parte maggiore, nello spogliatoio erano d'accordo. Sono ragazzi più sensibili di quello che vogliamo facilmente credere. Però non siamo noi lo scandalo. Quando facevo il calciatore guadagnavo molto, e comparivo sempre ai primi posti della classifica dei redditi della provincia di Brescia. Ma molti erano più ricchi di me. Avevano fabbriche, proprietà sconfinate, ovunque, ma in classifica non li vedevo. Nei momenti di crisi l'evasione fiscale è ancora più inaccettabile, e in giro ce n'è tanta, a tutti i livelli. Dai grandi guadagni nascosti all'estero ai piccoli lavori mai fatturati. Scarseggia il senso civico". Oltre Napolitano, quali politici apprezza? "Mi piace Renzi, il sindaco della città dove vivo. Ha idee, e la passione e la determinazione per perseguirle. Sa ascoltare le persone e considerarle nelle decisioni, questa è una qualità che non tutti i politici hanno. Come ogni amministratore, sarà possibile misurarlo con i fatti". Napolitano ha 86 anni, Renzi 36: nel mezzo? "La situazione dell'Italia è sotto gli occhi di tutti". Cosa le piace ancora del calcio? "Il campo. Il prato. Le porte, in fondo: bisogna arrivare là, fare gol. È tutto qui. Quando smetterò di allenare, mi mancherà il campo. Il resto, no". Rispetto ai suoi tempi cosa è cambiato? "Era diverso. Finivamo la partita e i giornalisti bazzicavano lo spogliatoio. Costruivamo rapporti veri. Calciatori, dirigenti, giornalisti, tifosi: i "mondi" intorno al calcio s'incontravano, si confondevano. Poi questo spaccato pieno di soldi si è popolato di molte persone nuove, e ogni ruolo voleva il suo boccone di torta. Il calcio è diventato un veicolo dove ognuno è salito per fare i propri interessi". C'è molta Juventus nel suo bagaglio. La squadra in cui lei vinse tutto è tornata grande. "La squadra è forte. Il progetto è vero, condiviso. L'allenatore è stato scelto e assecondato dalla società per la sua identità precisa di gioco. Molto agonismo, molto attacco. E poi hanno lo stadio nuovo. Queste sono opere virtuose per una società di calcio, valgono punti in classifica. Per essere competitivi lo stadio di proprietà fa la differenza. Me ne sono accorto in Inghilterra". In Inghilterra cosa c'è di più rispetto al calcio italiano? "La loro cultura dello sport, per dirla bene. Non siamo lontani, ma quel poco da fare è un passo avanti, deciso. Il presidente del Coni Gianni Petrucci ha messo intorno a un tavolo i proprietari della maggiori società di calcio, e la Federazione, per trovare una civile riconciliazione per una vicenda, Calciopoli, che non è ancora cenere...". Perseguitati dal passato. "Eppure l'iniziativa è giusta, importante, anche se il risultato massimo dovesse essere una civile "lontananza". Calciopoli non può trovare un finale concordato. Però quel tavolo può essere l'inizio per guardare avanti. Agli stadi, anzitutto: comodi, coperti, senza barriere. Bisogna avere ambizione e coraggio, il risultato sarà bellissimo: là in Inghilterra la partita era un pezzo di una giornata di festa. Due ore da passare insieme dentro una giornata libera. In Italia la partita diventa "troppo". È caricata di tensione. Non è più uno spettacolo ma una resa dei conti". -
Topic "C O M P L O T T O D I F A M I G L I A"
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Nel mistero la scelta di Lapo come presidente Il Mauto cambia nome ora si chiama Agnelli di MARINA PAGLIERI (la Repubblica - Torino 30-12-2011) Il Mauto si chiama da ieri «Museo nazionale dell´Automobile Avvocato Giovanni Agnelli». L´assemblea dei soci che si è riunita nella sede dell´assessorato alla Cultura del Comune - con Braccialarghe nel ruolo di vicepresidente - ha approvato infatti il rinnovato statuto, che prevede, in apposito articolo, il nuovo nome. Al precedente dedicatario, Carlo Biscaretti di Ruffia, restano le targhe sul Centro congressi e l´area didattica e un busto nell´atrio. I soci, tra i presenti Virginia Tiraboschi per la Regione, Filippo Pralormo per la Fiat, Piergiorgio Re per l´Aci, hanno approvato il bilancio preventivo per il 2012 e si sono dati appuntamento per fine gennaio, quando verrà nominato il consiglio di amministrazione. Si saprà allora anche chi sarà il presidente, o meglio se sarà confermata la candidatura già avanzata di Lapo Elkann. Il quale era già stato visto in quel ruolo quando, a marzo, aveva accolto da «padrone di casa» il presidente Napolitano, all´avvio delle celebrazioni dei 150 anni e dell´inaugurazione del Mauto. Ora sulla nomina c´è il massimo riserbo. Dagli uffici di corso Unità d´Italia fanno sapere che i contatti con il secondogenito di Margherita Agnelli si sono allentati, in quanto questi vive per lo più all´estero, tra Londra e New York. Il fatto però che il museo sia ora ufficialmente dedicato al nonno fa pensare alla presidenza del nipote come assai probabile. A fine gennaio sarà anche nominato il direttore: l´ipotesi più concreta parrebbe la riconferma di Rodolfo Gaffino Rossi. -
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Mi pare che... Persino Bocca aveva capito che Calciopoli è una farsa di LUCIANO MOGGI (Libero 30-12-2011) Ci mancava il pentito delle intercettazioni a chiarire quanto noi diciamo da tempo. Se uno che sembra aver fatto parte del pool investigativo ammette l’insussistenza di prove a carico di chicchessia, se a dimostrazione di questo ci porta a conoscenza del litigio avvenuto tra il comandante Arcangioli che voleva archiviare e il maggiore Auricchio che invece voleva andare avanti, non si può non capire quale e quanta fosse la volontà di quest’ultimo di colpire in unica direzione. Ricordate quando il maggiore ebbe a dire all’assistente Coppola che l’Inter non interessava alla (sua) giustizia mentre il Coppola voleva denunziare la società nerazzurra per le pressioni che erano state fatte su di lui per alleggerire la squalifica di Cordoba? Non poteva mancare a questo nobile tavolo il Pm Narducci: ricordate il «piaccia o non piaccia non ci sono telefonate dell’Inter» oppure quando è andato a Roma in dolce compagnia di Moratti ed Auricchio a presentare il suo libro che ha la prefazione di Zanetti? In questo processo c’è stato di tutto e di più a cominciare dalle intercettazioni taroccate o addirittura occultate. Non poteva ovviamente mancare chi, come Crosetti di Repubblica, scrive: «Calciopoli mise in luce un apparato delinquenziale parallelo, capace di controllare le designazioni arbitrali e falsare l’esito sportivo dei campionati», infischiandosi di quanto stabilito dalla Costituzione che recita come una persona debba essere ritenuta innocente fino a prova contraria e fino a quando la sentenza non sia passata in giudicato nei tre gradi di giudizio: lui invece emette la sua di sentenza appena dopo il primo grado. La chiarezza di Abete Non poteva non intervenire intanto sul Calcioscommesse il presidente federale Abete, con la solita chiarezza e autorevolezza «È bene cercare di essere attenti a salvaguardare l’immagine e il prestigio di persone che l’hanno guadagnato nel corso degli anni, evitando che, chiacchiere in libertà possano assurgere alla dimensione di una notizia ». Questo è Abete. . Sentite allora JU29RO in proposito «Ecco, se quest’ultimo, semplicisssimo, principio fosse stato applicato a Calciopoli, il castello di sabbia si sarebbe disvelato per quello che era; e se anche allora ci si fosse preoccupati di salvaguardare un prestigio e un’immagine guadagnati nel corso di oltre un secolo, distinguendo chiacchiere da notizie, la Grande Ingiustizia non sarebbe stata perpetrata. E la Figc non si troverebbe adesso a dover rispondere ad una richiesta di danni, reali e non chiacchiere, per 444 milioni di euro». Serve buonsenso Muore Giorgio Bocca, un grande scrittore, grande uomo che ha fatto del buonsenso una ragione di vita. Sentite cosa ha detto su Calciopoli: «C’era una squadra, la Juve, che per la sua organizzazione, i suoi campioni, la sua storia, era accreditata come la più forte e a nessuno sembrava truccata la sua conquista dello scudetto. Aveva avuto favori arbitrali? Non più e non meno di altre squadre. La prova che questo primato sportivo esisteva ed era meritato veniva poi confermata dai campionati Mondiali di calcio, in cui la finale per il primo e secondo posto era stata in pratica questione di una decina di giocatori juventini. Ed è appunto con questi giocatori che il nostro calcio è stato riportato ad una impresa non solo sportiva, ma etica, superando con volontà e attaccamento alla maglia, la superiorità atletica e tecnica di Francia, Brasile, Argentina e Germania. Non siamo esperti di istruttorie sportive, ma quella che si concluse con severità inaudita ci pare tra le più sbrigative e criticabili che si conoscano: intercettazioni telefoniche scarse, 40 quelle di Moggi su migliaia, grandissima fretta di concludere, un’aria di pregiudizio, di condanna già scritta in partenza, la voglia dei giudici di far passare per congiura di pochi malfattori un sistema di prepotenze, dei più grandi sui più piccoli, che è ormai la regola generale di questo come di altri sport. In quel tempo poi le trasmissioni televisive erano addirittura raggelanti: hanno partecipato a questi dibattiti i più noti, i più influenti giornalisti sportivi che per mesi, per anni, erano andati avanti ad allusioni, a strizzate d’occhi per far capire al pubblico che loro sapevano. Difendevano il loro lavoro? Tacevano per il bene del calcio? E allora perché non lo difendono oggi che è assalito da un branco di iene, che minaccia di far cadere in pezzi l’intera organizzazione calcistica opponendosi alle vendette trasversali, alle gelosie, alle manovre dei club e dei loro burocrati? ». Questo era Bocca. -
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IL CALCIO ALLA SBARRA L’ex arbitro, dopo aver letto la nostra intervista ad un investigatore, ha fatto un esposto-denuncia in Procura «Voglio la verità su Calciopoli» Pieri: Anche il vostro giornale ha scoperto delle anomalie sull’inchiesta, ora serve chiarezza di EDMONDO PINNA (CorSport 30-12-2011) ROMA - L'ex arbitro internazionale, Tiziano Pieri, condannato a due anni e quattro mesi con rito abbreviato nel processo di Calciopoli, ha presentato ieri un esposto-denuncia alla Procura della Repubblica di Roma. Lo ha fatto sulla scorta dell'intervista che il Corriere dello Sport-Stadio ha pubblicato, lo scorso 23 dicembre all'investigatore dell'operazione Off side . Intervista che è stata allegata e riportata nelle dodici pagine dell'esposto. Lo ha fatto, anche, con le intercettazioni “inedite" che lo riguardano e che sono state scovate dall'esperto informatico Nicola Penta, lo stesso che ha fatto parte del pool legale di Luciano Moggi. Insomma, «ci sono delle anomalie inspiegabili, lo avete messo in evidenza anche voi. E' giunto il momento che qualcuno accerti la verità. I miei figli hanno il diritto di sapere che suo padre non è un delinquente» si lascia sfuggire Pieri ieri mattina, proprio mentre uno dei sui legali, Claudio Palazzoni (l'altro è Luigi Sena), stava depositando l'esposto-denuncia presso il Tribunale di Lucca. L'ARTICOLO - Troppe telefonate sparite, troppe situazione con non combaciano e che sono state taciute, perse nei meandri di un'indagine complessa. Ecco perché Tiziano Pieri ha presentato la sua denuncia, sulla scorta di quanto già fatto anche da Dondarini (altro ex arbitro coinvolto in Calciopoli). Nell'esposto viene sottolineato che, visto che il Pubblico Ministero «avrebbe l'obbligo di portare elementi a discarico della persona sottoposta ad indagini» , le omissioni dell'inchiesta «assumono un che di singolare (a tacer d'altro) a fronte delle clamorose notizie emerse sui maggiori quotidiani Nazionali il 23-12-2011. Ciò è dato di leggere su un articolo pubblicato dal Corriere dello Sport, denominato “Clamorosa confessione - Calciopoli choc", avente ad oggetto le rivelazioni di uno degli investigatori appartenenti al R.O.N.O.» . E nell'esposto viene riportato per intero il nostro articolo. «Appare evidente - è scritto nell'esposto-denuncia di Pieri - l'intento manipolativo dell'attività investigativa che ha taciuto elementi assolutamente favorevoli al Pieri e, relativamente alla pluralità dei soggetti coinvolti nell'intero procedimento penale, ha “distorto" la realtà dei fatti, incidendo conseguentemente ed in negativo sulla realtà processuale» . LE TELEFONATE - Ma ci sono anche le telefonate scomparse, quelle che lo stesso Pieri definisce «inedite» , ma solo perché nessuno le aveva mai inserite nell'inchiesta o trascritte. Le ha scovate l'esperto informatico Nicola Penta, lo stesso che aveva incrociato i dati e scovato le intercettazioni portate al processo “ordinario" di Napoli, quello che ha condannato Moggi in primo grado a 5 anni e 4 mesi. Nell'esposto-denuncia c'è anche un dischetto con diciassette file contenente le telefonate definite «fondamentali ed incontrovertibili» e che «attestano e comprovano, al di fuori di ogni dato obiettivo, il reale svolgimento dei fatti» . In particolare, annotano i legali di Pieri, «emblematica è la conversazione telefonica che il Pieri ebbe il giorno 13.12.2004 (il lunedì successivo alla partita) con il Designatore Pairetto all'esito della gara tra Bologna e Juventus» . Che è una delle due partite che hanno portato alla condanna a due anni e quattro mesi per l'ex arbitro internazionale (Pieri dice a Pairetto che guardandosi in tv, e tornando indietro, non fischierebbe la punizione su Nedved che scatenò le polemiche). L'altra è Juventus-Chievo, per la quale - ed è paradossale - Luciano Moggi è stato assolto in primo grado. ___ CALCIOPOLI Telefonate scomparse Pieri deposita l’esposto art.non firmato (Tuttosport 30-12-2011) ROMA. L’anno va a concludersi ma non si concludono le azioni gudiziarie. Le scorie del 2006, infatti, continuano a fare effetto. Un esposto-denuncia è stato depositato da Tiziano Pieri alla Procura della Repubblica di Roma sul metodo delle indagini nel processo di Calciopoli. Lo annuncia all’Ansa l’ex arbitro, condannato nel 2009 a due anni e quattro mesi di reclusione dal tribunale di Napoli. «Sono migliaia le telefonate scomparse e ritrovate - commenta Pieri -, ritenute frettolosamente irrilevanti dagli inquirenti, ma sicuramente determinanti per la ovvia potenziale decisività di ricaduta rispetto all’esito del processo». MOTIVAZIONI Tutto annunciato qualche giorno fa. E prontamente eseguito. «Per le multiple anomalie del tutto inspiegabili» l’ex arbitro internazionale (che fu anche condannato a un anno e sei mesi di inibizione dalla Disciplinare della Figc ed è stato dismesso dagli organi tecnici dell’Aia nel luglio del 2008) chiede «che l’Autorità Giudiziaria competente accerti quali furono i metodi utilizzati che condussero al paradossale stato di cose, verificando le eventuali condotte penalmente rilevanti relative all’attività di indagine espletata nel procedimento di cui sopra». CHIUSURA L’esposto ha questo finale: «Ciò non toglie - conclude Pieri nella sua dichiarazione resa all’Ansa - il mio sentimento di profonda fiducia nell’operato della Magistratura e per questo motivo mi batterò in tutte le sedi di Giustizia perché sia riconosciuta nel merito la mia totale estraneità ai fatti». -
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E' proprio l'edizione del settimanale: in questo caso copre un arco di tempo di due settimane. -
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Ginevra, 21:44 CALCIO, SION DEPOSITA DENUNCIA PENALE CONTRO LA FIFA della redazione (Repubblica Sport NEWS 29-12-2011) Il Sion, escluso dall'Europa League per non aver rispettato il divieto di acquistare giocatori, ha depositato una denuncia penale a Zurigo contro la Fifa che a sua volta minaccia di sospendere la federcalcio svizzera (Asf) dal 14 gennaio, se quest'ultima non sanzionerà il club in questione. Il Sion fa sapere dalle pagine del suo sito internet d'aver depositato una denuncia penale al tribunale di Zurigo contro i membri della Fifa in seguito alle minacce dell'organo che governa il calcio mondiale di escludere l'Asf e i suoi club, se il Sion non sarà sanzionato entro il 13 gennaio 2012. Per il club svizzero la Fifa esercita "un ricatto inaccettabile" volendo obbligare l'Asf ad agire contro i suoi stessi regolamenti e contro il diritto svizzero. Il comitato esecutivo della Fifa riunitosi a metà dicembre a Tokyo, ha ordinato all'Asf di fare applicare da qui al 13 gennaio 2012 le decisioni relative al non rispetto da parte del Sion del divieto di operare sul mercato, pena la sospensione della federazione stessa. L'altro ieri il Sion ha scritto all'Asf per chiedere di "ricorrere contro la decisione della Fifa" considerando che "questo ultimatum non rispetta nè gli statuti nè i regolamenti Fifa, nè la legge svizzera". Il 17 dicembre l'Asf aveva annunciato la sua intenzione di contestare davanti al Tribunale arbitrale dello sport (Tas) la minaccia di sospensione da parte della Fifa se non avesse sanzionato il Sion. E si è riunita a porte chiuse, il 22 dicembre, con i rappresentanti della Fifa. La Fifa aveva intimato l'ordine all'Asf d'agire contro il Sion dopo la decisione del Tas di dare ragione all'UEFA per aver escluso il Sion dalla Europa League. -
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Te Deum laudamus «AUGURI ANCHE A CHI MI HA FATTO DEL MALE» «Perché neanche le ingiustizie mi fanno paura se Tu sei con me». di LUCIANO MOGGI (Tempi | 11 GENNAIO 2012) Se fossimo alla fine del 2005 ringrazierei per: 7 scudetti, 1 Coppa Italia, 4 Supercoppe italiane, 1 Champions League, 1 Coppa intercontinentale, 1 Supercoppa Uefa ed 1 Coppa Intertoto vinti negli ultimi anni con la Juventus. Ma siamo nel 2011 e, ahimé, ho sei anni di più. Non posso lamentarmi della condizione fisica: mi mantengo ancora bene e lo spirito battagliero è sempre lo stesso. Purtroppo non posso far finta che non sia accaduto niente da quell’11 maggio 2006, giorno in cui mi dimisi da direttore generale della Juventus. Da quel momento la mia vita è cambiata, non è più la stessa e ogni mio sforzo è volto alla difesa della mia dignità contro i continui tentativi di mettermi al centro di una “cupola” che nei fatti non è mai esistita. Siamo ancora nel mezzo della battaglia, attendo il processo d’appello nella speranza che la corte prenda piena conoscenza dei fatti. Ma non è questo il punto. La legge seguirà il suo percorso, la difesa farà il suo lavoro; nel contempo sono cosciente che la giustizia umana è parziale e quindi limitata come lo è il soggetto che la esercita: l’uomo. C’è un unico punto che nessuno può toccare, un valore che è contemporaneamente dentro e al di sopra del contesto umano, un qualcosa che vale per me come per tutti coloro che calpestano il suolo di questo pianeta: nessuno può permettersi di togliermi la dignità, il mio vissuto, il mio essere padre e marito, nessuno può cancellare ciò che di buono ho fatto nella vita. È un dato inesauribile e inalienabile dell’esperienza, non è cancellabile da nessuno, forse perché, per me che sono credente, l’origine di questo dato è divina. Ci ha fatto «a Sua immagine e somiglianza», mi hanno insegnato da piccolo. In questo turbine di fatti, paradossalmente ciò che mi fa sobbalzare in modo più prepotente è tutto il positivo che ho ricevuto. 31 dicembre 2011. Rendo grazie per: la forza che Dio mi ha dato per superare i momenti critici a protezione della mia famiglia, dei miei figli e le loro famiglie, degli amici che mi sono sempre stati vicini anche nei momenti più bui. Ho pregato tanto per tutti. Una sacra canzone che cantavo fin da bambino mi ha accompagnato sempre lungo tutti questi anni: «Io non ho paura se Tu sei con me». Sono state proprio le parole di questo inno religioso che mi hanno dato la forza di reagire, certo che Dio non mi ha abbandonato né mai mi abbandonerà. Buon anno a tutti, anche a quelli che mi hanno fatto del male. E Signore, se ti avanza del tempo, apri il fascicolo Moggi depositato nella procura di Napoli e dacci un’occhiata. -
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IL PREZZO DELLA VITTORIA di EMILIO RONCORONI (la Voce 29-12-2011) Le squadre di calcio sono imprese e perciò dovrebbero ispirarsi ai generali principi di sana gestione economica. Ma osservando un campione di società di calcio, i principi generali che guidano le scelte economiche sembrano altri. Se misuriamo il costo di ciascun punto in classifica negli ultimi campionati, scopriamo che per vincere lo scudetto Inter ha speso cinque milioni, mentre alla Roma il secondo posto è costato solo due milioni. Come i modelli di business influenzano le performance economiche. Le squadre di calcio sono imprese e, in quanto tali, dovrebbero seguire condotte ispirate ai generali principi di sana gestione economica, con controllo sulle dinamiche dei costi e crescita dei ricavi. Ma analizzando un campione di società di calcio italiano, i principi generali che guidano le scelte economiche sembrano altri. I BILANCI DI SEI SQUADRE Sono state analizzate sei società, quattro appartenenti al gruppo dei grandi club e due a quello dei medi: Inter, Milan, Juventus, Roma, Udinese e Atalanta. (1) I bilanci analizzati hanno riguardato il triennio 2008–2010, con chiusura dell’esercizio al 30 giugno in corrispondenza con il termine della stagione calcistica, salvo per Milan che ha adottato come data di chiusura il 31 dicembre. I grandi club hanno accumulato nel triennio perdite di dimensione assai variabile: Inter 371 milioni di euro, Milan 150, Juventus 25, Roma solo 5 milioni di euro, mentre Udinese e Atalanta sono riuscite a ottenere, come somma algebrica, un risultato positivo. Udinese di quasi 8 milioni e Atalanta di soli 250mila euro. Forti perdite d’esercizio hanno richiesto ripianamenti e talvolta contestuali nuovi versamenti per ricostituire il capitale sociale. Gli azionisti di Inter hanno versato nel triennio nuove risorse finanziarie per 196 milioni, mentre l’azionista Fininvest ha versato nelle casse del Milan 161 milioni. Le altre squadre invece avevano creato riserve in grado di coprire le perdite future. Per Roma provengono da una cessione realizzata nel 2007 riguardante il ramo d’azienda dedicato alle attività di marketing e merchandising, per un importo di 125 milioni, che è confluito in una speciale riserva di patrimonio per 123 milioni (al netto delle passività di tale ramo). Nel caso di Juventus il patrimonio netto della società è stato rafforzato in sede di aumento di capitale con sovrapprezzo, dando luogo a una riserva utile a coprire le perdite future. Udinese, grazie ai risultati sovente positivi, dispone di un patrimonio netto robusto (38 milioni al 30 giugno 2010) e inoltre ha distribuito un dividendo di 4 milioni nel 2008 a fronte di un utile di esercizio di 7,7 milioni di euro. Atalanta ha riaggiustato il patrimonio con un nuovo aumento di 17 milioni effettuato nel 2010, un esercizio contraddistinto da perdite per oltre 6 milioni di euro, dalla retrocessione in serie B e dal cambio di proprietà effettuato nel gennaio 2010. UN CONFRONTO FRA COSTI E RICAVI Il business delle squadre di calcio si articola sostanzialmente su due macro aree: la prima e più importante è quella sportiva alimentata da diverse tipologie di ricavi (biglietti, diritti televisivi, eccetera) e che genera costi operativi formati soprattutto da quelli del personale; la seconda è rappresentata da eventi straordinari, ancorché ripetuti, ed è formata dalla cessione dei diritti di alcuni calciatori. È importante separare le due attività in quanto la prima si fonda sul core business mentre la seconda ha parecchi elementi di variabilità, a partire dai valori attribuibili in sede di cessione ai diversi calciatori. Nei bilanci di parecchie società i ricavi d’esercizio comprendono anche le plusvalenze da cessione, generando un artificioso incremento dei ricavi. Per evidenziare l’importanza delle due aree sono stati calcolati il margine operativo lordo (Mol) e il reddito operativo, per poi confrontarli con le plusvalenze da cessione dei diritti. I dati riportati nella tabella sono medie semplici dei valori triennali delle diverse grandezze economiche analizzate. La lettura dei dati riportati nella tabella 1 suggerisce alcune valutazioni: - la gestione operativa comprensiva degli ammortamenti è costantemente in perdita; - le plusvalenze sono sempre determinanti e in alcuni casi, come Udinese, garantiscono un reddito positivo; - le perdite operative sono indotte da alti costi del personale. Secondo il fair play finanziario, ovvero l’insieme di regole contabili il cui rispetto aprirebbe l’accesso ai campionati internazionali, una delle voci da rispettare riguarda il rapporto costo personale su fatturato che non dovrebbe superare il 70 per cento. Il costo del personale è composto quasi esclusivamente dal costo del lavoro dei tesserati (calciatori e tecnici) il cui numero è in aumento, soprattutto per quanto concerne i tecnici. Nel 2010 il numero dei calciatori si collocava tra un minimo di 35 di Atalanta a un massimo di 58 di Milan, seguito da Inter con 55. L’occupazione totale dei tesserati varia da 57 (Udinese) a 139 per le due squadre milanesi. MODELLI DI BUSINESS E PERFORMANCE ECONOMICHE Udinese ha un modello di business incentrato sulla valorizzazione di calciatori acquistati a prezzi contenuti e rivenduti a quotazione alte. Ed è riscontrato da un importo delle plusvalenze non lontano da quelle registrate da grandi club come Milan e Inter. Il “modello Udinese” richiede uno staff tecnico con una presenza capillare in diverse parti del mondo calcistico per individuare i futuri campioni. Per garantirsi questa presenza Udinese ha speso, nel 2010, 13 milioni di euro, più di Milan e Inter, che vi hanno dedicato circa 9 milioni a testa. Tre delle quattro squadre appartenenti ai grandi club hanno assunto modelli di business più tradizionali con forti investimenti per costruire squadre con talenti. Juventus ha perseguito almeno fino al campionato 2009–2010 una strategia di controllo dei costi dei calciatori con incidenze sui ricavi abbastanza in linea con Atalanta e Udinese. SI VINCE SOLO SE SI SPENDE TANTO? Nella tabella 2 si è voluto creare un indice rozzo che misuri il rapporto tra costi e risultati sportivi. Il primo fattore sono i costi operativi, che indicano il complesso di risorse messe a disposizione della singola squadra; il secondo, espresso dal punteggio nella classifica finale di ciascun campionato, misura le performance sportive. Il rapporto costi operativi per punto di classifica (espresso in migliaia di euro) sintetizza i due contributi. È interessante porre a confronto i due campionati (2007–2008 e 2009–2010) dove in entrambi Inter ha vinto lo scudetto e Roma è arrivata seconda a pochi punti (3 nel primo e 2 nel secondo), tuttavia per vincere il campionato 2009–2010 Inter ha speso circa 5 milioni di euro per ogni punto di classifica, mentre Roma solo 2 milioni. (1) Delle quattro grandi squadre due (Juventus e Roma) sono società quotate alla borsa di Milano. Per i confronti adottati in questa sede la quotazione è neutra in quanto i criteri contabili sono i medesimi sia per le imprese quotate sia per quelle non quotate. Udinese è stata inserita nel campione perché ha un modello di business proprio, le cui caratteristiche saranno precisate nel proseguo dell’articolo, mentre Atalanta è entrata nel gruppo per due ragioni: da un lato quale rappresentante delle altre società calcistiche con storie sportive altalenanti e dall’altro perché dotata di un vivaio che rappresenta un fattore distintivo. -
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Il destino di Enke di JUAN VILLORO* (Internazionale 930 | 30 dicembre 2011) Il 10 novembre 2009 Robert Enke, il portiere della nazionale tedesca, è sceso in campo per l’ultima volta. Ha detto a sua moglie che andava ad allenarsi, è salito sulla sua Mercedes 4x4 e si è diretto verso un piccolo paese con un nome che forse gli sarà sembrato significativo: Himmelreich, regno del cielo. Lì vicino c’è un campo dove passa la ferrovia. Il portiere ha lasciato il portafoglio e le chiavi sul sedile della macchina, e non si è neanche preso la briga di chiudere lo sportello. Ha camminato sotto la pioggia, come aveva fatto molte altre volte per difendere la porta del Carl Zeiss Jena, del Borussia Mönchengladbach, del Benica, del Barcellona, del Fenerbahçe, del Tenerife o dell’Hannover 96. A duecento metri, cioè a circa due campi da calcio di distanza, era seppellita sua figlia Lara, morta all’età di due anni. Un portiere esemplare, Albert Camus, lasciò i campi polverosi dell’Algeria per dedicarsi alla letteratura. Abituato a essere fucilato ai rigori, scrisse un saggio acceso contro la pena di morte. La sua prima lezione morale la imparò giocando a calcio. Anni dopo avrebbe scritto: “Non c’è che un problema filosofico realmente serio: il suicidio”. Morire a rate è la specialità del portiere. Eppure in pochi passano dalla morte simbolica di un gol all’annientamento della loro stessa vita. Enke si è spinto oltre la maggior parte dei suoi colleghi. La sua morte, di per sé dolorosa, si trascina un altro enigma: era all’apice della carriera e avrebbe potuto difendere la porta del suo paese ai Mondiali del Sudafrica. Di solito il numero 1 della Germania esercita una leadership inflessibile. Sepp Maier, Toni Schumacher, Oliver Kahn e Jens Lehmann si piazzavano tra i pali con la sicurezza dei custodi veterani. I portieri tedeschi invecchiano come se la pensione non esistesse e gli anni dessero più energie. Enke aveva 32 anni, attraversava un buon momento sportivo, ma gli mancava un tratto fondamentale dei grandi portieri tedeschi: era un uomo della retroguardia che non amava la notorietà, parlava poco di se stesso e serbava segreti di cui quasi nessuno era a conoscenza. Forse il successo ha contribuito alla sua tensione nervosa. Il ruolo da titolare in nazionale sembrava essere a portata di mano e avrebbe comportato nuove sfide. Nella strana roulette interna che Enke s’imponeva sarebbe stato meglio un fallimento. Odiava la pressione, ma dall’età di 8 anni, quando entrò nei pulcini del Carl Zeiss Jena, pensava solo a intercettare palloni. I bambini vogliono fare quasi sempre gli attaccanti. Solo i grassi, quelli molto alti, i lenti o gli strani si rassegnano a ricoprire il ruolo che li obbliga a lanciarsi per terra e a sporcare i vestiti nel cortile della scuola. Il numero 1 è l’ultimo della squadra. È l’ultima risorsa. Solo dove si dà molto valore alla resistenza il portiere diventa un beniamino. In Germania anche gli intellettuali hanno le loro ferite. Max Weber sfoggiava con orgoglio la cicatrice che gli aveva lasciato un duello con un componente di una (con)fraternita studentesca nemica. Il bambino che sceglie di fare il portiere ha le ginocchia sbucciate e si sporca con il fango del sacrificio. Nel paese dove Sepp Maier fabbricava guanti bianchi per affrontare un destino oscuro, Enke scelse di fare il portiere. Il calcio professionistico può invadere un organismo e prenderne possesso. Per chi cresce in quest’ambiente, la realtà è fatta di tragitti in pullman tra una partita e l’altra. Nella sua mente ci sono solo il prato, il pallone e i passaggi veloci. C’è un aspetto decisivo a cui si dà poco peso: il modo in cui una persona si svuota di tutto il resto per diventare un calciatore al 100 per cento. Il paradosso è che i giocatori più completi sono quelli che conservano altre passioni, che siano le tagliatelle della mamma, i numeri privati delle top model o l’amore per il rock o la samba. Enke era un fondamentalista del calcio, un puritano che non pensava a nient’altro e che preferiva vestirsi di nero come i portieri di un tempo, che ogni domenica emulavano i sacerdoti. Difendere il destino della Germania ai Mondiali del 2010 poteva portarlo alla gloria. Senza quell’opportunità decisiva, Enke sarebbe stato più sereno. I suoi veri problemi professionali risalivano a un po’ di tempo prima. Enke debuttò con il Carl Zeiss Jena nel 1995, ma rimase nella squadra solo una stagione. Dopo vari anni passati nel Borussia Mönchengladbach riuscì a fare il salto in una grande squadra europea, la squadra portoghese del Benfica. I tifosi lo amavano, ma la squadra attraversava un periodo difficile. In un anno si erano alternati tre allenatori e allora Enke decise di accettare un posto più allettante, senza sapere che sarebbe stato il peggiore della sua vita. “Nessun ruolo nel calcio ti mette alla prova come essere il portiere del Barcellona”, disse in seguito. Nella sofferta era del dispotico Louis van Gaal, Enke è stato il fragile difensore della porta del Barcellona. Gli danno ancora la colpa dell’eliminazione dalla Coppa del Re contro una squadra di terza divisione. Il Barcellona ti consacra o ti annienta. Al Barcellona Maradona si è dato alla cocaina e Ronaldinho ha trionfato e ha provato a superare la pressione del successo con la variante brasiliana della psicoanalisi: le discoteche. E al Barcellona Enke ha sofferto i suoi momenti di depressione più forte. Con rassegnazione, l’emigrato tedesco ha accettato di difendere la porta del Fenerbahçe, in Turchia, e da lì è passato a una piccola isola europea: è stato portiere del Tenerife, in seconda divisione. Quando nella sua biograia abbozzata si profilava un fallimento, ha avuto l’opportunità di tornare in Germania con l’Hannover 96. L’esperienza è la grande alleata dei portieri e Robert Enke ha dimostrato di meritare una seconda opportunità. La rivista Kicker l’ha nominato miglior portiere tedesco. Alcuni giocatori non sono fatti per uscire dal proprio paese, ma se ne rendono conto solo quando si ritrovano sotto i piedi un campo da calcio straniero. Enke aveva bisogno della terra tedesca. Tornato nel suo ambiente, ha recuperato la regolarità e la forza. A quel punto la vita privata lo ha messo davanti a delle sfide terribili: sua figlia di due anni, Lara, è morta per un’insufficienza cardiaca. Lui e la moglie hanno adottato un’altra bambina, Leila. Il portiere si sentiva più sicuro di sé, ma la sua paranoia ha trovato un’altra via di fuga: temeva che si scoprisse la sua depressione e aveva paura di perdere la custodia della figlia. Ovviamente era una fantasia di autodistruzione. Il numero 1 soffriva spesso di depressione, anche se il sostegno non gli mancava. Sua moglie era diventata un misto tra un’infermiera e una consulente sentimentale, e suo padre, Dirk Enke, fa lo psicoterapeuta. Il dottor Enke ha cercato di sminuire l’importanza che il figlio dava al calcio. Gli mandava dei messaggi per chiedergli come stava, ripetendogli che il benessere personale è più importante dei trionfi sportivi. Ma ormai era tardi per la pedagogia: Robert Enke aveva ricevuto la sua vera educazione in campo. Il calcio di alto livello richiede prestazioni estreme. In quell’ambiente, quando qualcuno si sente male, si dice che non potrà giocare perché è stato colpito da un “virus”. Non c’è spazio per i problemi personali: solo i deboli ne hanno. Forse la Germania ha inventato l’aspirina come un paradosso per ricordare che niente è più importante della sopportazione del dolore. Nella mia scuola tedesca avevo un maestro che dal dentista si faceva curare senza anestesia. Ce lo raccontava come se fosse un trionfo morale. A sette partite dal ritiro Toni Schumacher, ex portiere della nazionale tedesca con un’aria da moschettiere, diventato tristemente famoso per aver privato di alcuni denti il francese Battiston ai Mondiali di Spagna, concesse un’intervista ad André Müller per il settimanale Die Zeit. Il risultato fu una confessione degna di un monologo teatrale. In quel momento il portiere giocava in Turchia ed era stato espulso dalla nazionale per le sue dichiarazioni sulla corruzione e sull’uso di droghe nella Bundesliga. Nel suo ultimo lamento da portiere disse: “La gente crede che io sia freddo perché sopporto il dolore. Una volta ho chiesto a mia moglie di spegnermi una sigaretta sul braccio e ho sofferto come avrebbe fatto chiunque. Ho ancora la cicatrice. Volevo dimostrare che è possibile sopportare quello che si vuole. Non sono un pezzo di ghiaccio. Sono vulnerabile come chiunque altro. Sono solo brutale con me stesso. Non sono un genio come Beckenbauer. Non ho ereditato niente. Siamo nel purgatorio. Quando non sentirò più dolore, sarò morto”. L’area piccola della Germania è un purgatorio all’aria aperta. Nel 1897 Émile Durkheim pubblicò la sua monumentale ricerca sociologica Il suicidio. In quell’opera associò la tendenza di alcune persone a volersi togliere la vita all’anomia sofferta da tutta la società. Il malessere collettivo influisce in modo diffuso, ma decisivo, nella ripetizione delle tragedie dei singoli. In altre parole: le cause del suicidio sono sempre individuali, ma alla fine dell’anno la quota stabilita dalla società è inevitabilmente raggiunta. Quale paese manifesta le tendenze suicide più forti? “Di tutti i popoli germanici ce n’è uno particolarmente incline al suicidio: i tedeschi”, sostiene Durkheim. Sarebbe semplicistico pensare a Enke come l’espressione di una tendenza nazionale, ma senza dubbio ha vissuto in un ambiente estremamente esigente dove non c’era spazio per le scuse. Non ha rispettato un codice di onore samurai riconoscibile dai suoi pari. Nella cerimonia di addio che si è tenuta nello stadio dell’Hannover 96, la sofferenza ha investito tutto il calcio tedesco e probabilmente è diventata uno stimolo per futuri trionfi. Trasformare il calvario in un successo è stata una specialità tedesca ai Mondiali. Portento di dedizione e disciplina, la nazione che ha conquistato tre volte la coppa del mondo ed è stata quattro volte vicecampione, è composta per lo più da nevrotici che non si parlano negli spogliatoi, ma in campo diventano alleati indistruttibili. “Il portiere della nazionale è un simbolo di forza fisica”, ha scritto Der Spiegel su Enke. “Dev’essere irreprensibile. Controllato. Sicuro di sé. Non c’è ruolo più difficile nel calcio, ed Enke l’aveva ottenuto”. Gli amici e i familiari che gli erano più vicini conoscevano la severità con cui si giudicava e la sua fragilità. “Non si godeva niente”, ha detto il padre, il terapeuta Enke. Non è possibile curare l’anima di un portiere. Non basta sapere di star bene: la sconfitta decisiva può arrivare la domenica successiva. Quando l’ultimo uomo della squadra perde la concentrazione, il suo destino è segnato. Moacir Barbosa fu il primo portiere nero della nazionale brasiliana ed ebbe una carriera di tutto rispetto, ma molti lo ricorderanno per l’errore nella finale al Maracanã, nel 1950, che impedì al Brasile di vincere i mondiali. La responsabilità del portiere è assoluta. Ci sono attaccanti che hanno bisogno di dieci opportunità per fare centro ed escono orgogliosi dal campo. Invece l’uomo dei guanti non può distrarsi. Il suo ruolo è definito sulla base dei possibili sbagli. “Vorrei essere una macchina”, ha detto una volta Schumacher. “Mi odio quando commetto degli errori. Come potrei combattere se non m’importasse niente del risultato? La nostra è un’enorme fabbrica. Quando non funzioni, sei rimpiazzato dal primo che aspetta in fila. Forse solo la morte cura la depressione”. Era un presagio dell’esigente destino che, quasi vent’anni dopo, è toccato in sorte a uno dei suoi successori. Il portiere è il giocatore che ha più tempo per riflettere. Non per niente è una persona molto preoccupata. Alcuni portieri cercano di tenere a bada i nervi con la superstizione (sputano sulla linea di porta, sistemano una mascotte portafortuna accanto alla rete, pregano in ginocchio, indossano i guanti logori regalati da una fidanzata che non hanno voluto sposare ma gli ha portato bene). Altri cercano di vincere la preoccupazione con la superbia, considerando che un gol contro non vale nulla. Ma è raro che non abbiano un’anima tormentata. Schumacher trasformava questa tensione in drammaturgia: “A volte mi concentro con l’odio e provoco il pubblico. Non gioco solo contro gli altri undici uomini. Sono più forte quando sono circondato dai nemici. Quando la mėrda mi ricopre so che posso comunque resistere. Un atleta non diventa creativo con l’amore, ma con l’odio”. Enke non ha mai avuto la lucidità di trasformare in forza le emozioni negative, ma aveva ereditato la porta di Schumacher e le sue reti tese dalla furia. Nel calcio ogni ruolo corrisponde a un profilo psicologico. Il portiere è un uomo minacciato. In nessun altro mestiere la paranoia torna così utile. Il numero 1 è un professionista del sospetto e della sfiducia: in qualsiasi momento la palla può avanzare contro di lui. Il grande paradosso di quest’atleta, che vive in continua tensione, è che deve tranquillizzare gli altri. Nel libro Una vida entre tres palos y tres líneas Andoni Zubizarreta ha scritto: “Quando mi domandano qual è la virtù più importante del portiere, rispondo senza esitare che è quella di dare fiducia agli altri giocatori”. La squadra deve lanciarsi in avanti senza pensare a chi le copre le spalle. “È chiaro che per non trasmettere dubbi è fondamentale non averne”, aggiunge Zubizarreta. “Il portiere non può essere insicuro”. Il portiere, inquilino dello sconcerto, vive per mascherare il suo stato d’animo. È il parafulmini, il fusibile che salta per impedire danni più gravi. Peter Handke ha raccontato la trama di un’esistenza con un titolo che allude all’uomo fucilato: Prima del calcio di rigore. Il romanzo non parla del calcio, ma delle vicissitudini di un uomo che è stato in porta. La situazione limite del portiere è il rigore. In questo senso la paura del rigore di cui parla Handke è vera. Ma la vera angoscia dell’ultimo uomo non è quella. Il tiro da undici metri di distanza è una fucilazione che offre scarse probabilità di sopravvivenza. Il portiere che impedisce un gol fa un miracolo. Schumacher è d’accordo: “Da un rigore posso solo uscire vincente. È chi tira ad avere paura. Ogni rigore è un gol al cento per cento. Matematicamente il portiere non ha nessuna possibilità. Se il pallone entra in rete non ho niente da rimproverarmi. Se lo paro, sono il re”. Alcuni portieri sono stati meravigliosamente irresponsabili, buffoni in grado di trasformare il pericolo in uno strano piacere. L’argentino Hugo Orlando Gatti e il colombiano René Higuita hanno trasformato la loro imprudenza in divertimento. A entrambi piaceva uscire dall’area e affrontare gli avversari in un confronto solitario. Gatti non era mai così felice come quando faceva “il Cristo” davanti a un attaccante che cercava di schivarlo. Higuita ebbe il coraggio di rinviare la palla sulla linea di porta usando i suoi piedi come il pungiglione di uno scorpione. Quella piroetta della fantasia non avvenne in allenamento ma a Wembley, il santuario del calcio. I portieri tedeschi non sono così. Sono uomini che si concedono di essere eccentrici solo quando sono completamente pazzi, ma analizzano il campo come la Critica della ragion pura. Questo non li porta alla sobrietà, ma al sacrificio. Il romanticismo tedesco non consiste in una dichiarazione d’amore ma nell’avvelenarsi con l’arsenico per amore. Ancora Schumacher: “Quando mi lancio ai piedi di chi corre nella mia direzione non penso che potrebbe darmi un calcio in un occhio. Ho giocato con le dita rotte, il naso rotto, le costole rotte e le reni a pezzi. Ho i legamenti strappati. Mi hanno tolto i menischi. Ho un’artrosi terribile. Vado a dormire pieno di dolori e mi sveglio pieno di dolori”. È una lamentela? Ovviamente no. Con la stessa felicità con cui Heinrich von Kleist condivise il patto suicida con la sua amata e si fece saltare il cervello dopo averle sparato al cuore, Schumacher spiega che ne è valsa la pena: “Per arrivare in cima bisogna essere fanatici. La tortura forse serve a distrarmi. Per non preoccuparmi vado in palestra e tiro pugni contro un sacco di sabbia fino a quando non mi sanguinano le mani”. Robert Enke aveva una strana sete di serenità. Non voleva essere un artista del dolore come l’inimitabile Schumacher. Ma come spiega lucidamente suo padre, Enke “non è stato abbastanza forte per accettare le sue debolezze”. Ha preferito nascondersi e negare la sua sofferenza, come uno studente che ha paura di essere punito. Durante i suoi anni a Cambridge, Vladimir Nabokov si conquistò una certa fama come portiere. Oltre al piacere d’intercettare la palla, approfittava del prestigio da don Giovanni che il ruolo da portiere garantisce tra i latini e gli slavi. In alcuni paesi il numero 1 è un simbolo dell’estetica sul campo e ha più fortuna in amore dei centrocampisti o degli attaccanti. Lev Jašin, il Ragno nero, era l’emblema perfetto del portiere russo: elegante, con una sicurezza quasi mistica, insondabile come un agente segreto o un pope della chiesa ortodossa. I suoi equivalenti latini potrebbero essere Dino Zoff o Gianluigi Buffon, atleti che si muovono poco ma esercitano una vigilanza efficace da boss mafiosi, controllando il duro lavoro degli altri e limitandosi a proteggere quel varco fondamentale. All’archetipo latino appartiene anche il portiere che appare splendido quando subisce un gol. Il portoghese Vítor Baía ha perfezionato l’arte della caduta carismatica. Il portiere tedesco è un comandante in capo della difesa. “Grido senza mai fermarmi”, ha detto Schumacher. “Gridare è il mio modo per dare il cento per cento in una partita. Devo mantenermi in tensione. All’inizio me lo imponevo. Pensavo: ‘Devo gridare, devo fare qualcosa per non addormentarmi’. Ora mi è entrato nel sangue. Per farlo ti puoi allenare come ti alleni per un tiro difficile”. Il controllato Sepp Maier aveva l’abitudine di fissarsi le mani durante le chiacchiere negli spogliatoi, come se volesse perfezionare i guanti che vendeva in tutto il mondo. Ma nei rari momenti in cui alzava gli occhi era l’unico in grado di opporsi al leader Franz Beckenbauer. La tendenza all’isolamento dei portieri ha reso Jens Lehmann un eremita. Il portiere tedesco vive in un paesino e ogni giorno, per andare ad allenarsi, prendeva l’elicottero. Era più facile che si facesse male per una turbolenza in volo che per un fallo subìto in campo. Oliver Kahn apriva la bocca solo per parlare bene di se stesso e usava le orecchie solo per ascoltare musica hard rock. Toni Schumacher è stato “l’eroe della ritirata”, la definizione che Hans Magnus Enzensberger dà dei leader che esitano e disfano tutto quello che hanno fatto: nel suo libro Anpfiff (fischio d’inizio), Schumacher ha denunciato una serie di problemi del calcio ed è stato espulso dalla nazionale. Non ci sono persone comuni nella porta della Germania. Eppure questi strani personaggi condividono un credo: non possono sbagliare. Sono stati allenati per una resistenza che non ammette scuse. “Se mi ricoverassi in una clinica psichiatrica dovrei abbandonare il calcio”, disse Enke pochi giorni prima di togliersi la vita. La tristezza non può dire il suo nome in uno stadio. In La gabbia della malinconia Roger Bartra spiega che per secoli la malinconia è stata considerata un dolore ebraico, “un male di frontiera, di popoli sfollati, di migranti, associata alla vita fragile di persone che hanno subìto conversioni forzate e hanno affrontato la minaccia di grandi riforme e cambiamenti dei loro princìpi guida religiosi e morali”. In termini calcistici, il portiere è l’uomo alla frontiera, condannato a una situazione ai limiti, che non deve abbandonare l’area. È quel personaggio strano che usa le mani. Se il dio del calcio è il pallone, il portiere è l’apostata che cerca di fermarlo. Il quadro più famoso dell’arte tedesca è il ritratto segreto di un portiere sconfitto. In Melencolia I Dürer disegna un angelo che medita sotto l’influsso nefasto di Saturno. Dopo un gol, ogni portiere è un angelo della melanconia. Seduto sul prato, con le mani sulle ginocchia o la testa appoggiata sui pugni chiusi, il cerbero vinto rappresenta la fine dei tempi, l’irragionevolezza, il puro niente. Cosa fanno i tedeschi davanti alla depressione? “Le donne cercano aiuto, gli uomini muoiono”, risponde Georg Fiedler, che dirige il Centro terapeutico per le tendenze suicide della clinica universitaria di Eppendorf, ad Amburgo. Secondo lui Enke è l’esempio di una chiara tendenza sociale. Anche se la diagnosi di depressione è due volte più alta per le donne, il tasso di suicidi è tre volte più alto negli uomini. La prova più difficile che Enke affrontò fu la morte della figlia Lara. Il portiere dormiva accanto a lei in ospedale. Dopo l’allenamento era così stanco che mentre le infermiere lottavano per mantenere in vita la bambina lui continuò a dormire. Enke non si perdonò mai che la figlia fosse morta mentre lui dormiva. Non avrebbe potuto fare niente, ma da portiere era nato per la responsabilità e la colpa. Sei giorni dopo, Enke ha difeso la porta della sua squadra. “La Germania ha ammirato quel Robert Enke”, ha scritto Der Spiegel. “Ha ammirato la sua calma. La chiarezza delle sue parole e ancora di più la chiarezza dei suoi atti. Era infallibile”. L’obbligo di agire senza sbagliare è stato la croce e la delizia del bizzarro Enke. Non poteva abbandonare quella cosa che esercitava una tirannia su di lui. Indubbiamente questo ha a che vedere con una disciplina che privilegia il raggiungimento dei risultati sul piacere di ottenerli, e che è incapace di offrire una formazione integrale, al di là dei doveri in campo. Il mondo del calcio sembra essere troppo importante e potente per lasciare spazio ai destini individuali. Il giovane Werther si uccise per una delusione d’amore così come il poeta Kleist si uccise per il compimento del suo amore. Enke ha offerto un’altra morte esemplare nella tormentata Germania. Se ogni portiere è un suicida timido che affronta i colpi di mitraglia lanciandosi in aria, lui ha fatto un passo in più. Il 10 novembre 2009 Robert Enke ha camminato nell’erba alta, sotto un cielo cupo. Nella sua classificazione dei suicidi Durkheim dimenticò di annoverare quelli che si lanciavano sotto un treno. È stata la fine riservata ad Anna Karenina e al portiere tedesco. Alle sei e diciassette minuti del pomeriggio l’espresso 4427, che copriva il tragitto Hannover-Brema, è passato puntuale come sempre. Il tormentato Enke si è lanciato davanti alla locomotiva con la certezza di chi, per la prima volta, non avrebbe dovuto fermare niente. *JUAN VILLORO è uno scrittore messicano nato nel 1956. Ha diretto il supplemento letterario del quotidiano La Jornada. Collabora con il quotidiano Reforma. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Il libro selvaggio (Salani 2010). Quest’articolo è uscito sul mensile peruviano Etiqueta Negra con il titolo Enke. El último hombre muere primero. La traduzione dallo spagnolo è di Sara Bani. -
U F F I C I A L E : Amauri Va A Firenze
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Finalmente si accorgono che Amauri è una m***a a prescindere da tutto il resto. -
U F F I C I A L E : Amauri Va A Firenze
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Il personaggio Amauri, ascesa e declino dell´uomo "che dice no" Ultimo rifiuto: Genoa. Ora ci provano i viola di TIMOTHY ORMEZZANO (la Repubblica - Torino 29-12-2011) Dopo la mezza dozzina di offerte respinte in estate, Amauri ha declinato anche la proposta del Genoa (1,8 milioni di euro a stagione) che si è consolato con Gilardino. Irrorato dalla Juventus da quasi 4 milioni all´anno, il "signor no" pretende un triennale da 2,4 milioni. Alla faccia della crisi economica e della crisi di un bomber da sei mesi ai margini del calcio che conta. Evaporato il sogno Milan, il Parma ieri ha chiuso la porta al figliol prodigo: «Abbiamo un bellissimo ricordo di Amauri – così il ds Leonardi -, ma non ci sono più le condizioni per portarlo qui». La Fiorentina ci sta facendo un pensiero, anche se non può garantirgli tutti quei soldi. Costretto a posticipare il colpo Borriello per non appesantire ulteriormente il monte ingaggi del club, l´ad Marotta aspetta e spera. Rewind. La telenovela in bianconero di Amauri comincia nel 2008, quando la Juve scuce 22,8 milioni al Palermo e incassa dal brasiliano 32 presenze e 12 gol. Un buon inizio, peccato che l´anno successivo il primo gol dell´attaccante arrivi otto mesi dopo l´ultimo squillo. Amauri chiude con 30 presenze e appena 5 reti. La sua emozione più grande alla Curia Maxima di Torino, quando ottiene l´attesa cittadinanza italiana. E´ il 12 aprile 2010, il giorno del compleanno di Lippi, l´uomo che ha innalzato Amauri a possibile salvatore della patria ai Mondiali in Sudafrica. Sarà però il ct Prandelli a indispettire i leghisti convocando l´oriundo per un´amichevole contro la Costa d´Avorio. Lo vede giocare, lo sostituisce al 59´ con Borriello (sì, proprio Borriello) e lo lascia a casa per sempre. Anno nuovo, solito Amauri: pochi gol e molti infortuni. Pronti via e segna due reti ai non irresistibili irlandesi dello Shamrock. A ottobre si infortuna, a gennaio 2011 viene scaricato in prestito al Parma. Gli bastano due partite per interrompere con una spettacolare rovesciata un silenzio che durava da quasi un anno (358 giorni). In Emilia il "Drogba bianco" si riscopre goleador: 11 presenze e 7 reti. L´estate scorsa va in ritiro con la Juve a Bardonecchia, tra gli "Ama vattene" dei suoi (ex) tifosi. «Quei cori mi hanno fatto male». Conte incarica il club di cedere l´attaccante. «Mi cerca il Flamengo? Che gioia», ma è simulazione. Finisce in castigo, fuorirosa, costretto ad allenarsi con la Primavera. «Conto i giorni, a gennaio me ne andrò per forza», le sue ultime parole famose. Appurato il quando, resta da capire il dove. Durante i suoi tre anni all´ombra della Mole, nei mesi sabbatici tra un gol e l´altro, Amauri sfoga la frustrazione litigando con un paio di carabinieri intenti a multare la sua Ferrari in divieto di sosta, viene ingiustamente accusato di rubare pannolini in una farmacia di Vinovo e di sottrarre la donna a un compagno di squadra. Chissà come l´ha presa sua moglie Cynthia, bacchettata in una boutique del centro da una commessa insolente: «Forse dovrebbe andare all´outlet». Nel cesto dei saldi c´è pure suo marito. -
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TRA I GIOCATORI PESCE E MILLESI Premiopoli, ecco i deferimenti Ci sono anche Catania e Ascoli di SIMONE DI STEFANO (Tuttosport 29-12-2011) ROMA. Sembrava quasi esser diventata l’inchiesta di Pulcinella, una specie di Odissea senza fine. Con due proroghe, altrettante dimissioni sospette e faldoni spariti all’improvviso dagli uffici della Procura federale la scorsa estate. Ieri, dopo mille peripezie, il procuratore federale Stefano Palazzi ha emesso i deferimenti di “Premiopoli”, l’indagine incentrata sull’attività di «intermediazione e consulenza svolta da Fabrizio Ferrari in favore di società dilettantistiche e professionistiche, in ordine al pagamento di premi di preparazione ed alla carriera», un sistema che però veniva spesso raggirato con false autocertificazioni. Per questo (e altri per non essersi presentati a deporre in procura) sono stati deferiti alla Disciplinare cinque giocatori, sette presidenti e dieci club. Palazzi ha deferito tutti per violazione dell’articolo 1 (lealtà e probità sportiva), oltre a Ferrari cinque calciatori tra cui Simone Pesce, al tempo dei fatti tesserato per l’Ascoli e ora al Novara; e Francesco Millesi, ai tempi del Catania e ora all’Avellino; per responsabilità oggettiva, tra gli altri, il Frosinone, l’Ascoli, la Paganese e il Catania. In una nota separata inoltre, Palazzi comunica che «è stata sottoposta al presidente federale, per quanto di sua eventuale competenza ai sensi degli art. 10 e 36 Noif, la posizione di una persona che, all’epoca dei fatti, era collaboratore della Federazione». Si tratterebbe di Amerigo Pichi, ex professore di matematica in ottimi rapporti personali con Abete e considerato l’uomo chiave di questa storia, quello che in Figc avevano soprannominato «semaforo» in quanto era lui a decidere se accogliere o meno le richieste, e che nell’agosto 2010 si dimisse all’improvviso dopo alcune deposizioni sul suo conto. -
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I MAGISTRATI E L’ICEBERG CALCIOPOLI È LONTANA di MAURIZIO CROSETTI (la Repubblica 29-12-2011) Guardare gli iceberg dal di sotto è uno dei compiti, anzi dei doveri della magistratura. Ed è giusto, giustissimo indagare in modo prudente ma fermo sul nuovo versante delle scommesse: perché tutti vogliamo sapere quanto ghiaccio ci sia sotto la superficie dell’immane vergogna, un ghiaccio capace purtroppo di gelare passioni e illusioni. Però è altrettanto giusto sapere, meglio presto che tardi, se una parte di quel ghiaccio non sia soltanto un riflesso nell’acqua, insomma una specie di illusione ottica. Perché, a cominciare dal battesimo scelto dagli inquirenti, “Calciopoli bis”, i toni di questa vicenda appaiono un po’ eccessivi, forse sovradimensionati. Infatti Calciopoli, la prima e ineguagliabile (diffidare dalle imitazioni), mise in luce un apparato delinquenziale parallelo, capace di controllare le designazioni arbitrali e falsare l’esito sportivo dei campionati. Al momento, questa viscida evoluzione della specie rimane semmai un bieco sottobosco di millantatori, truccatori da strapazzo e mezze tacche. Personaggi da commedia all’italiana si muovono come in un film di terz’ordine, parlano come mangiano, cioè male e impiastricciandosi tutti col sugo. Se da un lato l’inchiesta mostrerebbe scenari internazionali e un modello deviante globalizzato, dall’altro siamo rimasti ai rubagalline, a quelli che assicurano di conoscere Tizio e Caio senza averli magari mai visti. Per dirla tutta, una massa di sfigati, però pericolosi. I protagonisti delle intercettazioni, a parte il fantozziano Doni i cui gesti si commentano da soli, fanno rabbia e mettono tristezza. Raffigurano il calciatore che non è mai stato nessuno. Non accettano la fine di una carriera in fondo mai davvero esistita, trovano gloria malata e luce tardiva, sinistra, giocando la partita del malaffare. Quanti altri rappresentano? Quanto marciume esiste, a parte quello ascoltato nei telefonini? (E c’è ancora qualcuno, in questo bizzarro Paese, che se la prende con le intercettazioni). E’ una faccenda tutta da svelare, e saranno grossi problemi anche per la giustizia sportiva che promette tempi rapidi man mano che arrivano le carte, ma per forza di cose sarà giustizia sommaria a processo penale in corso: un film già visto, di nuovo. Infine, si deve capire se nel ghiaccio sotto l’iceberg ci sono anche i campioni, i nomi grossi tirati in ballo e già smentiti da legali e magistrati. Il calcio marcio ci ha abituati a tutto, però attenzione alle sentenze prima del tempo, alle false testimonianze e ai bugiardi. Perché con la giustizia non si scherza, ma con le persone ancora meno. -
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Dopo quest'ulteriore perla di affiliati con la Gazza io non ho più parole. Solo Moggi e Giraudo restano marci a prescindere per i candidi. -
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Un Teppista che si fa leggere di MATTEO MARANI dal blog "IL CORSIVO" (Guerin Sportivo.it 28-12-2011) Nino Ciccarelli, storico capo dei Viking interisti, non è un nome qualsiasi nell’universo delle curve. È un cattivo, un duro, un capo, uno che si è fatto dodici anni di galera, tra risse nei parcheggi e successive rapine a mano armata. La decisione di raccontare la sua vita, le sue imprese di ras, a un giornalista della Ģazzetta dello Sport, Giorgio Specchia, fondatore dello stesso gruppo della Nord e amico da sempre, ha permesso di svelare uno spaccato interessante. Ecco: dico interessante. Così ho trovato “Il teppista” (Indiscreto editore), che mi sono letto di un fiato nel pomeriggio di Santo Stefano. So che a Milano, tra i ragazzi della metropoli, il libro sta avendo un grande successo. E non potrebbe essere altrimenti, perché è un testo generazionale, che racconta – partendo dal calcio – i ragazzi nati negli Anni 60. La droga, la politica, le catture ai primini al liceo, la Milano dei paninari e dei punk. Per età, ho vissuto anch’io quella stagione, più nella seconda parte degli Anni 80 che non nella prima. E ricordo, in un’altra curva, con altri colori e con diverso orientamento, personaggi assurdi, stravaganti, violenti. C’era di tutto. L’Occhiolino di cui scrive Ciccarelli, pardon Specchia, drop-out che vive alla Stazione di Milano, è appartenuto a tantissime curve. E così i Lamieroni, che altrove si chiamavano carro-bestiame. I treni, le notti in viaggio per andare a vedere la propria squadra perdere, Ascoli dove si finiva sempre sotto la sassaiola dei tifosi di casa e che nell’89 vide la tragedia di Nazzareno Filippini. È stato un tempo, un’esperienza comune per molti. Nelle curve c’era di tutto. Forse più di oggi, anche se non ci metto piede da troppi tempo per fare dichiarazioni. Disperati e universitari, tossici e futuri architetti. Un collage sociale che i giornali non hanno mai capito, nemmeno le generazioni più giovani. E su questo la penso esattamente come Specchia, pardon Ciccarelli. Luoghi comuni, ghettizzazione, semplificazioni che finiscono sempre per fare il gioco dei violenti, di chi vuole estremizzare lo scontro con il resto del mondo. Nino Ciccarelli confessa anche di giocatori interisti trovati nei privèe strafatti e strabevuti, con mignotte al loro fianco. Brasiliani che festeggiano fino all’alba, prima di una partita di campionato, con tanto di trans. Se lo avesse scritto un qualunque altro personaggio, per esempio un giornalista, si sarebbe beccato la reazione stizzita della società. Magari una querela. Invece tutti tacciono. Non possono certo accusare Ciccarelli di avercela con l’Inter. -
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karel, va bene tutto ma non mi toccare(-te) il "canaro" Scanzi, cinofilo ed affettuoso papà di due femmine nere di labrador. -
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Meno male che la settimana scorsa non ho postato l'intervista allo stesso Petrini de l'Unità. Petrini non è querelato anche perché gli si darebbe troppa importanza. Ma nel caso della famigerata combine con il Bologna e delle dettagliate informazioni sulle somministrazioni mediche dell'epoca non credo che le spari grosse. -
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Bilancio Il presidente aspetta che i club trovino l'accordo sul nuovo presidente per lasciare la Lega di A Beretta fra dimissioni e rivoluzione di FABIO MONTI (CorSera 28-12-2011) MILANO — Con grande sorpresa da parte dei vertici dello sport italiano, il presidente della Lega di serie A, Maurizio Beretta, in un'intervista a Sky Sport 24, ha spiegato che «il bilancio per il calcio di A è positivo. Crescono in modo significativo gli spettatori che guardano il calcio in tv: siamo oltre i 9 milioni a giornata e questo è un risultato straordinario. Inoltre non diminuiscono le presenze negli stadi, con una media di 230/240 mila spettatori per turno». Secondo l'Osservatorio del calcio italiano, la media-spettatori presenti allo stadio (23.675) risulta essere la peggiore degli ultimi quattro anni, nonostante l'incremento di presenze per la Juve (66, 7%). Il calo generale rispetto a un anno fa è del 4, 9%: 24. 901 spettatori di media nel 2010-2011; 25. 570 nel 2009-2010 (7, 4%); 25. 779 nel 2008-2009 (-8, 1%). L'argomento-stadi, che faceva parte del suo cartello elettorale 2009, è stato ignorato, mentre Beretta ha parlato dell'accordo-ponte con i calciatori firmato il 5 settembre (scade il 30 giugno 2012), che ha permesso di compiere «passi avanti per la sostenibilità del sistema calcio nel medio termine». Ha sottolineato come siano stati «valorizzati i diritti tv in particolare a livello internazionale»; sulla A a 18 squadre, ha commentato: «La posizione della Lega sarà quella che verrà portata in discussione quando la maggioranza dell'assemblea lo chiederà. Con le regole in vigore nessuno è in grado di decidere per sé; sono processi che hanno un percorso decisionale complesso. Ma sarebbe utile ragionare anche sulle rose». Il presidente ha toccato la questione della responsabilità oggettiva: «Noi ci siamo espressi tante volte in favore della revisione, perché è evidente che può esistere il tentativo di condizionare i club in alcune decisioni». Ma Beretta è il primo a sapere che la responsabilità oggettiva rappresenta la pietra angolare sulla quale poggia tutto l'ordinamento sportivo, non soltanto calcistico e italiano. Per i ricatti ci sono i tribunali. Beretta ha ribadito di essere pronto a lasciare la guida della Lega di A (è il responsabile delle relazioni esterne di Unicredit): «Ma è importante che le società trovino quanto prima un accordo su un successore che le soddisfi e che possa trovare un largo consenso. Aspetto un segnale per convocare un'assemblea elettiva». Una storia che si trascina da sei mesi. -
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L’INTERVISTA Carlo Petrini “Soldi, truffe e doping è il calcio di sempre” di MALCOM PAGANI & ANDREA SCANZI (il Fatto Quotidiano 28-12-2011) Gli è rimasto qualche desiderio. “Mi piacerebbe bere un caffettino”. Ottiene una brodaglia nerastra allungata con l’acqua. Un fondo in cui leggere e diluire passato e presente. Il campo adesso è un divano, la mobilità un’illusione e l’orizzonte un muro di nebbia. “Ho tumori al cervello, al rene e al polmone. Ho un glaucoma, sono cieco, mi hanno operato decine di volte e dovrei essere già morto da anni. Nel 2005 i medici mi diedero tre mesi di vita. È stato il calcio. Ne sono certo. Con le sue anfetamine in endovena da assumere prima della partita e i ritrovati sperimentali che ci facevano colare dalle labbra una bava verde e stare in piedi, ipereccitati, per tre giorni. Ci sentivamo onnipotenti. Stiamo cadendo come mosche”. Ieri, abbattuto dalla leucemia se n’è andato anche Sergio Buso. Saltava da portiere nella Serie A degli anni 70. Quella raccontata da Carlo Petrini, centravanti di Genoa, Milan, Roma, Bologna e di altre stazioni passeggere: “Da mercenario che pensava solo a drogarsi, scopare, incassare assegni e alterare risultati”. Vinse, perse, barò. Scrisse libri su doping e calcioscommesse. Fece nomi e cognomi. Rimase solo. Il Carlo Petrini di ieri non c’è più. Il corpo che un tempo gli serviva per conquistare amori di contrabbando e tribune esigenti tra San Siro e il Paradiso, è un quotidiano inferno che gli presenta conti con gli interessi e cambiali da scontare. A 63 anni, con il vento che scuote Lucca e non lo accarezza più, non c’è Natale o epifania possibile. A metà conversazione, mentre lamenta l’abbandono di chi un tempo gli fu amico: “Ciccio Cordova, Morini, non mi chiama più nessuno”, un segno. Squilla il telefono. La voce di Franco Baldini (San Prezzemolo - ndt). Il dirigente della Roma. Il nemico di Luciano Moggi. Petrini gli parla: “Ho fatto molta chemio. Sto cercando di superare il male. Io spero, Franco. Spero ancora”. Poi lacrima. In silenzio. Rumore di rimpianto. E di irreversibile. Petrini, come si racconterebbe a chi non la conosce? Un presuntuoso. Un ċoglione. Uno che credeva di essere un semidio e morirà come un disgraziato. Ero bello, forte, ricco, invidiato. Avevo tutto e ora non ho niente. Perché? I miei errori iniziarono a metà dei ’60, al Genoa. Siringhe. Sostanze. La chiamavano la bumba. Avevo 20 anni. Non smisi più. Il nostro allenatore, Giorgio Giorgio Ghezzi, ex portiere dell’Inter, ci faceva fare strane punture prima della gara. Un liquido rossastro. Se vincevamo, si continuava. Altrimenti, nuovo preparato. Cosa c’era dentro? Mai saputo. L’anno dopo, disputammo a Bergamo lo spareggio per non retrocedere in C. Il tecnico Campatelli scelse cinque di noi come cavie. Stesso intruglio per tutti. Eravamo indemoniati. La punta, Petroni, sembrava Pelé. Vincemmo 2-0 e, in premio, ebbi il trasferimento al Milan. Perché non vi ribellavate? Venivamo da famiglie poverissime. Mio padre era morto a 40 anni, di Tetano. Rifiutare le punture, le pastiglie di Micoren o le terapie selvagge ai raggi X, significava essere eliminati. Fuori dal circo. Indietro, in cantina, senza ragazze o macchine di lusso. Nei nostri miserabili tinelli, con la puzza di aringa che mia madre metteva in tavola un giorno sì e l’altro anche. Quindi continuò ad assumere sostanze proibite? Ovunque andassi. A Roma il massaggiatore ce lo diceva ridendo: ‘A ragà, forza, fa parte der contratto’. A Milano, dove mi allenava Rocco, feci invece i raggi Roengten per guarire da uno strappo muscolare. Non so se Nereo sapesse. Con me aveva un rapporto particolare: ‘Testa de casso, se avessi il cervello saresti un campiòn’. Di radiazioni Roengten, secondo la famiglia, morì anche Bruno Beatrice. Fu mio compagno a Cesena, Bruno. Se ne andò a 39 anni, a causa di una rara forma di leucemia, tra agonie e sofferenze atroci. Come tanti, troppi altri. Si muore di pallone? Hanno sperimentato su di noi. Non ci curavano, ci uccidevano. Vorrei sapere con quali ausili gli eroi contemporanei disputano 70 incontri l’anno. Lei insinua. Affermo, ma non ho le prove. Nonostante l’impegno di Guariniello, hanno nascosto tutto. Ai nostri tempi le punture le faceva chiunque e un minuto dopo, sentivi un mostro che ti sollevava e ti faceva volare . Chi ha nascosto tutto? Allenatori, calciatori, presidenti. Il sistema che ancora foraggia con le elemosine quelli capaci di non tradire. Gente che ogni mattina si alza con la paura e che continua a tacere anche se oggi, grazie agli ‘aiutini’ farmacologici o è una lapide con un’incisione o recita da vegetale. Di chi parla Petrini? Di quel piccolo uomo di Sandro Mazzola, che ha smesso di parlare al fratello Ferruccio. Di Picchio De Sisti, che nega l’evidenza nonostante la malattia. O del commovente Stefano Borgonovo. Uno che sta molto male, aggredito dalla Sla e che continua a sostenere che il pallone non c’entri nulla. Se non mi facesse piangere, verrebbe da ridere. E invece? Sono triste. Vedendo come sei e come potresti essere, persino peggio di ora, ti vengono mille domande senza risposte. Parliamo di gente che non ha respirato amianto o fumi in miniera. Ha inseguito una sfera e muore nell’indifferenza in una guerra non dichiarata. Non sono un dottore, ma non può non esserci una relazione tra le mie malattie e quelle di altri calciatori. Prova rancore? A volte li sogno. Con i loro sorrisi falsi. Le loro bugie. Vorrei cancellarli. Non ci riesco. Lei fu tra i protagonisti del primo calcioscommesse, quello della primavera 1980. E oggi succede la stessa cosa. Partite combinate, risultati compromessi, soldi gestiti dalla camorra, dalla mafia, dalla ‘ndrangheta. La ‘ndrangheta forse uccise Bergamini. Lei ci scrisse un libro. Che è servito per riaprire l’inchiesta, dopo più di 20 anni. Bergamini era l’ingenuo, il ragazzo pulito, smarrito in una vicenda più grande di lui. La scoprì, provò a uscirne e lo fecero fuori. Dentro la sua squadra, il Cosenza, c’era chi organizzava traffici di droga. Bergamini era l’anello debole e fu suicidato. Nel suo libro lei ha intervistato anche il compagno di stanza di Bergamini, Michele Padovano, appena condannato per traffico di stupefacenti. Il padre del calciatore Mark Iuliano lo ha chiamato in causa. La sua condanna non mi stupisce. A fine intervista, Padovano si alzò di scatto, mi mandò a fare in ċulo e provò a distruggere la registrazione. Sono sicuro che lui sappia tutto della morte di Denis. Tutto. Bergamini ne subiva l’ascendente. Del padre di Iuliano non so cosa dire, su Mark si raccontavano tante cose, non solo sulla sua presunta tossicodipendenza. Si raccontava che mandasse baci alla panchina rivolti a Montero, un’ipotetica‘ p rova ’ della sua omosessualità. Dica la verità. Lei ce l’ha con la Juve, fin dal 1980. Al contrario. La salvai. Nell’80 giocavo con il Bologna. Bettega chiamò a casa di Savoldi e ci propose l’accordo. Tutto lo spogliatoio del Bologna, tranne Sali e Castronaro, scommise 50 milioni sul pareggio. Prima della partita, nel sottopassaggio, chiesi a Trapattoni e Causio di rispettare i patti: ‘Stai tranquillo, Pedro, calmati’, mi risposero. Tutta la Juve sapeva? Certo. Rivedetevi le immagini, sono su Youtube . Finì 1-1. Errore del nostro portiere, Zinetti e autogol di Brio. Bettega ce lo diceva, durante la partita: ‘State calmi, vi faccio pareggiare io’. La gente ci fischiava e tirava le palle di neve. Una farsa. Quando lo scandalo esplose, Boniperti e Chiusano mi dissero di scovare Cruciani e convincerlo a non testimoniare contro la Juve: se li avessi aiutati, loro avrebbero aiutato me. Fui di parola, incontrai Cruciani al cancello 5 di San Siro, ero mascherato. Una scena surreale. Lui accettò e la Juve si salvò dalla retrocessione. Ma alla fine pagai soltanto io. Le è rimasta la possibilità di raccontare. Neanche quella. Ho dato fastidio a gente potente. Mi hanno minacciato di morte e poi coperto con gli insulti. Per i Savoldi e i Dossena ero un bugiardo, per Rivera un pornografo. Se l’era presa perché lo descrivevo per quello che era, una fighetta. I miserabili sono loro. Mi impedirono di andare persino a parlare nelle scuole. Zitto dovevo stare, ma non ci sono riusciti. E la scrittura? Mi è rimasta solo quella. Il nuovo libro, Lucianone da Monticiano, è ancora su Moggi. Il mio compaesano. Uno che pur squalificato continua a ricattare e a fare il mercato di mezza Serie A. Ma non sarà l’ultimo. Perché? Mi dedicherò a ricordare mio figlio Diego. Morì a 19 anni di tumore, mentre chiedeva di vedermi e io ero in Francia, in fuga dai creditori. Non me lo sono mai perdonato. Gli farò un regalo. Proverò a sentirmi vivo. Sono distrutto e sofferente, ma non mollo. Vivere, ancora, mi piace. Ci sarà tempo? Non è detto. Penso sempre al giorno in cui ci sarà giustizia. Aspetto ma non viene mai. -
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I due pentiti di ROBERTO BECCANTINI dal blog "Beck is back" 27-12-2011 Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, scriveva Bertolt Brecht. Povera Italia, allora. Le feste natalizie ce ne hanno portati addirittura due, di eroi. Il primo, con nome e cognome; il secondo, senza. Un giocatore di calcio e un ex carabiniere. Simone Farina è un difensore del Gubbio, passato agli onori della cronaca per aver rifiutato e denunciato la proposta indecente di 200. 000 euro – da spartirsi con altri tre compagni di squadra – per truccare la partita di Coppa Italia Cesena-Gubbio. Il gesto, straordinario, ha spinto il ct Cesare Prandelli a invitarlo al raduno della Nazionale in vista dell’amichevole del 27 febbraio 2012 con gli Stati Uniti. Al netto dell’enfasi: dall’interno del sistema, Farina ha sfidato ufficialmente il potere malavitoso che controlla il giro immane, e infame, delle scommesse. L’ex carabiniere, uno degli «intercettanti» all’epoca di Calciopoli, ha svelato, nel corso di un’intervista, che l’inchiesta del procuratore Giuseppe Narducci e del tenente colonnello Attilio Auricchio «fu gravemente manipolata»: piste preferenziali, telefonate «da leccarsi i baffi» (non tutti, però), schede svizzere spente, Inter ignorata, audio pro-Della Valle sparito. Eccetera eccetera. Un «già sentito» inquietante. Al netto dell’enfasi: il carattere parzialmente anonimo delle accuse, pesantissime, impone verifiche rigorose. Come dimostra il Watergate di nixoniana memoria, le gole profonde non sempre sono discariche di menzogne. Auricchio ha già smentito con sdegno, ma lo sdegno non basta. Nessun dubbio che Calciopoli 2 abbia allargato il fronte di Calciopoli 1. Ciò doverosamente precisato, sono d’accordo con l’avvocato Maurilio Prioreschi: in attesa che un Guariniello curioso apra un fascicolo, il signor «Innominato» corra dai magistrati e racconti le sua verità (già illustrate ai giornalisti). Come ha fatto Simone Farina. -
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Vecchia<>Signora da congiungere... Ho notato che nel forum Giù le mani riportavano un articolo (quello di Moncalvo) tagliando la parte elogiativa su ju29ro... Ma sono tanti i casi di veti incrociati adocchiati. -
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Prima o poi qualche collega mi spiegherà cosa è successo perché ancora oggi tra i maggiori siti di informazione juventina continuano ad esserci screzi ed antipatie , come quella di non poter scrivere semplicemente Uecchia Signora qui o non riportare (rectius, tagliare) juventinovero su altri siti in ordine a citazioni d'articoli di giornale. Deluso! -
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Calcio e criminalità Il questore: La concentrazione temporale balza agli occhi. Voci di una «vendetta» della camorra dopo la decisione di vendere online i biglietti Gli otto sgarbi ai calciatori E Napoli teme il complotto Orologi e auto rubate. Il pm: qualcosa di strano di GOFFREDO BUCCINI (CorSera 27-12-2011) NAPOLI — La statuetta del Matador ancora resiste nella tramontana gelata di San Gregorio Armeno: forse appena mezzo sughero indietro rispetto alla gloria d'un anno fa, un'inezia tra pecorelle e pastori dei mastri artigiani. Del resto quando Edi Cavani, accompagnato da Morgan De Sanctis, è apparso in carne e ossa nella basilica di piazza del Plebiscito, precettato da quel geniale napoletano che è Crescenzio Sepe per dare attrattiva pop alla chiusura dell'anno giubilare, sotto le sacre arcate sono rimbombati boati da curva, come sempre. «Questi ragazzi sono testimoni di speranza», ha detto il cardinale indicando il centravanti e il portierone della squadra di calcio forse più amata del mondo. «Certo, l'affetto magari è anche eccessivo, il calore può. . . stancare», medita un altro napoletano che conosce il peso delle parole, Luigi Merolla, questore d'una città dove Bassolino s'illuse di regolare il flusso del bene e del male spingendo i suoi cittadini a fermarsi coi semafori rossi e da dove de Magistris immagina di esportare mondezza via piroscafo manco fosse pizza Margherita. Cavani come Hamsik, Lavezzi come Aronica, insomma i «testimoni di speranza», a loro volta coltivano una speranza segreta: cavarsela. Perché, al di là delle icone e dei presepi, del sacro e del profano che sempre nella patria di San Gennaro e di Sepe la plebe mescola, forse qualcosa s'è rotto: «Troppo calore, forse», ammette ancora Merolla, prudentissimo. Chiamalo calore. Otto sgarbi, tra furti e rapine, otto ceffoni in faccia agli intoccabili in maglia azzurra in poco più d'un mese e mezzo: rubati orologi da ventimila euro, auto anche da poco prezzo (ad Aronica persino una Panda e una Cinquecento a noleggio!), quattrini, gioielli. . . non hanno risparmiato né Martina Hamsik, moglie di Marek, né la splendida Yanina, fidanzata di Pocho Lavezzi e ragazza senza mezze misure («città de mierda», ha chiosato su Twitter, salvo pentirsene, dopo aver dovuto mollare il Rolex a due guaglioni svelti di mano), e neppure Barbara, dolce consorte del quasi sconosciuto stopper Fideleff. Al procuratore di Cavani hanno minacciato la compagna incinta con una pistola sul ventre. Prendersela con le famiglie.. . Roba che, fosse successa ai tempi di Maradona, i Giuliano sarebbero scesi in armi da Forcella, don Loigino in testa, a vendicare le vittime. Invece, qua, tutti zitti. «È cosa 'e niente», direbbe Eduardo. Cosa da niente, robetta, sembra far intendere la società guidata da Aurelio De Laurentiis, che — al netto di una battutaccia: «Chi gira per Napoli col Rolex non è ancora abbastanza napoletano» — si blinda dietro un silenzio inquietante. Qualche manager per parlare pretenderebbe la rilettura preventiva dell'articolo. Tutti minimizzano, tranne Mazzarri che sui giornali descrive un'opera di «destabilizzazione», salvo poi addebitarla ai giornali stessi. Cosa 'e niente. Ma si mormora che proprio Mazzarri sia pronto ad andarsene. Cavani pure. Magari anche gli altri gioielli di una squadra che ha ridato orgoglio alla città dopo la B e il fallimento. Nei bar di piazza dei Martiri, tra gli scaffali della Feltrinelli, ai tavolini del Gambrinus, sui blog, monta la teoria del complotto. In molte versioni. Si dice che De Laurentiis stia resistendo a un vero tentativo di estorsione. Che abbia rotto una pax consolidata vendendo online i biglietti delle partite e ledendo così gli interessi dei bagarini. Che perfino l'abbandono del campo di Soccavo abbia fatto girare le scatole a qualche padrino che ha perso l'indotto. Uno studioso degli ultra, Rosario Dello Iacovo, manager dei 99 Posse, ammette che «il filotto di aggressioni insospettisce: qualcuno potrebbe stare bussando a quattrini. Ma va anche tenuto d'occhio il nuovo scandalo delle scommesse, lì s'è solo sollevato il lembo del lenzuolo». Dello Iacovo è uno convinto che la camorra sia «una forma atipica di welfare» ed è un frequentatore abituale delle curve A e B e di piazza Bellini, base di partenza del tifo estremista. Ma anche un intellettuale indiscusso come Biagio De Giovanni è preoccupato: «Il Napoli è un grande mito che unifica. Il merito di De Laurentiis è stato riportarlo tra noi. A questi segni di vitalità la camorra torna a interessarsi. E così sembra prendere di mira i giocatori del Napoli, per entrare in tutti gli interstizi di un mito rinascente, gioco, scommesse, biglietti». Non tutti la vedono così: «Totale fesseria, questa del complotto», giura Claudio Botti, penalista famoso e artefice a suo tempo del Te Diegum in onore di Maradona: «Sono tutti episodi non collegati. Se la camorra vuole mandarti un messaggio, te lo manda molto più esplicito di così». Insomma, se non è proprio cosa 'e niente, è roba da prendere con le molle. Così ha fatto dall'inizio il questore Merolla: «Lei può rassicurare l'opinione pubblica», ci dice. Ma poi aggiunge: «Per ora». Rispetto ai primi tempi di totale diniego, resta la cautela eppure si nota un cambiamento: «Ci sono episodi sottoposti a un'attenzione particolare, ma di qualità diversa». Tutti in poche settimane, però. «Certo, la concentrazione temporale balza agli occhi anche a noi, perciò guardiamo questi fatti con un certo interesse». Il furto dei Rolex rappresenta un filo sottile che attraversa tutta questa storia. I carabinieri del colonnello Minicucci hanno mappato i 78 colpi simili da inizio anno, la rapina dell'orologio di lusso è un marchio della piccola mala napoletana. «Ma una stranezza c'è: che adesso non si restituisca all'eroe il maltolto», ammette Giovanni Melillo, il procuratore aggiunto che coordina le indagini sulle otto aggressioni subite dai giocatori e dalle loro famiglie. Quando derubarono Maradona i guaglioni fecero a gara per riparare alla sgarro. «Il contesto è complesso. Allo stadio, in curva, vige la legge di camorra», spiega il procuratore, per il resto abbottonato come sempre. Ciò che Melillo non dice è che certe sere, a fotografare le tribune dei vip, «verrebbe fuori un gigantesco 416 bis per quanti pregiudicati ci trovi», come sussurra qualche vecchio sbirro. Su certe frequentazioni le indagini sono aperte: agli atti anche i rapporti tra alcuni calciatori del Napoli e i bravi guaglioni (il Viminale identificò tre mesi fa i membri di 15 clan in curva). E se Maradona si fece avviluppare dai Giuliano e dalla loro vasca a conchiglia, Lavezzi ha dovuto spiegare ai pm il suo aggrapparsi a personaggi come l'imprenditore in odore di riciclaggio Marco Iorio (socio di Fabio Cannavaro nel ristorante «Regina Margherita») o Antonio Lo Russo, rampollo di capoclan («pensavo fosse solo un capo ultrà»). Infortunato, per la partita col Genoa era in tribuna vip: gli si sono assiepati i fedeli attorno, spalle al campo e ai gol della squadra, per lunghi minuti, scandendo Po-cho! Po-cho! Forse per chiedergli perdono. Forse perché, in una città dove tutto è cosa 'e niente, l'unica cosa seria sono loro: questi ragazzini milionari che giocano a un gioco di cui non sempre sanno bene le regole. === Il caso Gran parte dei presidenti vorrebbe una riduzione del numero dei club, ma fino al 2015 il format è bloccato dal contratto tv Troppe venti squadre di A, ma la Lega non lo sa di FABIO MONTI (CorSera 27-12-2011) MILANO — Il problema è vecchio di almeno cinque anni, ma questa, semmai, è un'aggravante. La serie A a 20 squadre, nata nel 2004-2005, come conseguenza del caso Catania, non piace quasi a nessuno, ma nessuno si muove per avviare un cambiamento del format. C'è un consistente nucleo di presidenti, da Moratti a De Laurentiis ad Andrea Agnelli, che lo ha spiegato anche nell'intervista di tre giorni fa, che considera le 38 giornate del campionato un elemento dannoso per tutto il movimento di vertice. Il presidente del Coni, Gianni Petrucci, non perde occasione per sottolineare la necessità di una riforma globale del pallone, a fronte di una Lega come quella di serie A che parla sempre e soltanto di soldi. E della questione si è parlato anche al famoso tavolo della pace il 14 dicembre a Roma. Sul piano sportivo, un campionato a 20 squadre impone: 1. rose troppo ampie; 2. aumento delle spese rispetto ai ricavi; 3. minor partecipazione della gente negli stadi; 4. calendario congestionato con ripetuti turni infrasettimanali (in notturna); 5. un consistente numero di partite inutili, soprattutto a fine stagione (con la tentazione di illeciti sportivi o comunque di taciti accordi) ; 6. compressione degli spazi per coppe europee e nazionali; 7. Coppa Italia con calendario super spalmato e seguita con attenzione dal pubblico soltanto a partire dalle semifinali; 8. allenamenti azzerati per mesi, con elevato rischio di infortuni. La questione dovrebbe riguardare anche la serie B, con il presidente della Lega, Abodi, che ha già manifestato la propria disponibilità a tornare alle 20 squadre del 2002-2003. La Lega Pro (ex serie C), quest'anno ha tagliato 13 club (mancati ripescaggi), per problemi economico-finanziari e conta di scendere a 60 società (tre gironi da 20) nel giro di tre anni. Del resto, le continue penalizzazioni in classifica proprio per il ritardato pagamento degli stipendi (e affini) rischiano di falsare il verdetto sportivo del campionato. Il deficit di serie A, B e Lega pro nella stagione 2009-2010 era stato di 345, 5 milioni di euro. La Lega di serie A non sembra aver preso nemmeno in considerazione la possibilità di tornare alle 18 squadre, preoccupata soltanto di ottimizzare i ricavi dalla vendita dei diritti tv, destinati a sfiorare il miliardo di euro grazie al nuovo contratto di cessione (triennale). Il discorso è rinviato al 2015, con notevoli danni per i club. Sulla modifica dei format, il presidente della Figc, Abete (che aveva prospettato una rivoluzione del settore pro con una serie A a 18, due gironi di B e tre di C), ha le mani legate, perché, secondo lo Statuto, per muoversi serve l'autorizzazione della Lega interessata. Resta da capire qual è la posizione del sindacato. È vero che la riduzione degli organici comporterebbe una perdita di posti di lavoro in serie A e in B (molti riservati a giocatori provenienti da federazioni estere), ma è anche vero che un mese di attività in meno rappresenterebbe un modo per salvaguardare meglio la salute dei calciatori, consentendo loro di allenarsi di più e meglio. E che una riforma vera darebbe maggiori certezze economiche anche ai calciatori. È venuto il momento che chi guida la Lega di serie A affronti per primo l'argomento. Nell'interesse del calcio e non delle corporazioni. -
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CALCIOPOLI Un processo costruito sul falso Serve un’indagine sull’indagine Telefonate scomparse, misteri irrisolti: le rivelazioni dell’investigatore pentito al «Corriere dello Sport» obbligano a riscrivere la storia dello scandalo dell’estate ’06 di GIGI MONCALVO (Libero 27-12-2011) La clamorosa intervista di Edmondo Pinna, pubblicata sul “Corriere dello Sport” di venerdì - sicuramente la prima di una serie di prossime puntate - apre nuovi scenari sul retrobottega delle indagini, condotte in una sola direzione, riguardanti “Farsopoli”. Pinna ha intervistato uno dei “magnifici dodici” del gruppo di investigazione. Finalmente, per gli amanti della verità, arriva una importante conferma di come tali indagini sono state fatte. È un racconto da brividi poiché, se questi sono i metodi di investigazione, chissà quanti innocenti sono in galera o sono stati condannati, quanti malfattori gongolano, e quanti colpevoli di reati ben più gravi, importanti e dannosi di quelli di “Farsopoli”, l’hanno fatta franca. Primo dato. In via dei Selci a Roma, sede del Nucleo Investigativo dei Carabinieri, una delle strutture che in genere conduce le indagini più delicate di tutta Italia, lavorano 60 investigatori. Per lunghissimo tempo, nell’arco di qualche anno, dodici di questi uomini - un quinto dell’intero organico -, cioè ufficiali, sottufficiali e agenti di polizia giudiziaria sono stati destinati a occuparsi di “Farsopoli”. Nel paese certo c’erano indagini ben più importanti da svolgere. Ad esempio, nel 2006, quella sullo “strano” spoglio delle schede che a tarda notte aveva capovolto, per poche migliaia di voti, il risultato delle elezioni politiche consegnando a Romano Prodi il governo della nazione. Ma evidentemente il “capo” politico dei carabinieri, cioè il ministro della Difesa Arturo Parisi, molto amico di Prodi, portò una ventata di “aria nuova” agli alti comandi di viale Romania. Un’aria che scese giù per li rami fino ad arrivare ai gradi inferiori. Il problema più rilevante, dunque, è questo: chi ha fatto in modo, e dato ordine, che quell’inchiesta diventasse prioritaria e assorbisse così tante energie di uomini e mezzi? Tale scelta ovviamente non va attribuita ai carabinieri, ma - oltre al superiore livello politico - anche ai magistrati di Napoli che avevano ordinato un certo tipo di inchiesta agli uomini in divisa. I magnifici 12 C’è un secondo aspetto. La “filiera” al vertice dei “magnifici 12 investigatori della squadra Off-side” era composta, in ordine gerarchico decrescente, dal tenente colonnello Giovanni Arcangioli, il maggiore Attilio Auricchio, e infine il maresciallo capo Michele Di Laroni, braccio destro di Auricchio. Furono questi ultimi due a dare all’inchiesta in nome in codice “Off-side”. Un giornalista della “giornalaccio rosa”, Maurizio Galdi, inviato in pianta stabile al processo di Napoli, scrisse: «Off-side perché il desiderio è di mettere in fuorigioco l’intero sistema calcio. Sono gli unici a sapere ciò che sta succedendo, per due anni vivranno nell’ombra, mimetizzandosi». Tanta enfasi e tali tinte eroiche su Auricchio e Di Laroni forse erano dovute al fatto che il maresciallo fece addirittura ricorso contro una multa presa dal giornalista. Dato che si scoprì che il reporter era, fin dall’inizio delle indagini, un collaboratore dei carabinieri. E quindi non si trovava nelle migliori condizioni di obiettività per scrivere su quel tema. Anche se, di certo, riceveva soffiate unidirezionali per dar corpo a un certo tipo di teorema accusatorio. Ma su di lui, né l’Ordine dei Giornalisti, né la direzione del suo giornale, ha mosso un dito... Copertura dall’alto Dall’intervista dell’investigatore “indignato”, e col voltastomaco, protagonista del racconto al “Corriere dello Sport”, emergono altri dati preoccupanti: quando viene avviata un’inchiesta, che ha una forte “copertura dall’alto”, poi accade che a prendere il sopravvento siano due o tre elementi della squadra investigativa che condizionano il lavoro di tutti e, valendosi del loro grado, ne possono combinare di tutti i colori raccogliendo materiale che poi determina processi falsati. Bastano un paio di inquirenti in mala fede e si arriva a tutto tranne che alla la ricerca della verità, badando solo a compiacere la direttiva arrivata, oppure a procurare vantaggi a coloro cui fa gioco quell’indagine. C’è ad esempio, la notizia di incrinature al vertice: il responsabile delle indagini, Arcangioli, ha firmato solo la prima informativa dei carabinieri e non la seconda, quella sul Milan. Dimostrando che non condivideva il lavoro di Auricchio e Di Laroni e non si voleva assumere la responsabilità delle loro “conclusioni”. Ma allora perché è rimasto al suo posto? Arcangioli arrivò “ai ferri corti” con Auricchio: considerava giustamente inopportuno andare avanti con un’indagine che non portava risultati, che appariva debole e senza riscontri, nonostante impegnasse una buona parte dell’organico della caserma. Com’è possibile che, nonostante l’aperta dissociazione del suo superiore, Auricchio poté continuare le indagini “a modo suo”? Su quali “protezioni”poteva contare? Andiamo avanti. «Tutte le sere si facevano le riunioni a fine servizio. Attorno ad un tavolo», e ognuno parlava dei risultati dello spicchio di indagini o intercettazioni a lui affidate, dice l’investigatore intervistato. «Le telefonate dell’Inter? Che ci stavano si sapeva...». Si faceva il punto, ma alla fine erano «Auricchio e Di Laroni che decidevano cosa mettere o non mettere nell’informativa». A loro completa discrezione. . . Ogni telefonata intercettata veniva inserita nel brogliaccio e, per capirne la rilevanza prima di trascriverla o meno, si indicavano tre “baffetti rossi” col pennarello accanto ad essa, se era considerata importante. Come mai molte di queste telefonate con i baffetti rossi non sono finite nell’inchiesta? «Evidentemente non ci dovevano andare (….). So soltanto che quello che veniva fatto, veniva fatto per costruire. Poi io ti porto il materiale, t’ho portato il mattone ma se tu non ce lo metti, ’sto mattone..». E Auricchio e Di Laroni hanno evitato di mettere molti mattoni... Ecco spiegato perché certe intercettazioni non sono finite nell’inchiesta, anche se le telefonate «c’erano perché ci sono le registrazioni ». Ma di spiegazione ce n’è un’altra, inquietante: «La cosa un po’ anomala è il server delle intercettazioni. È in Procura, a Roma, a Piazzale Clodio. Quando c’era qualche problema, e capitava spesso, telefonavamo a chi era in Procura: “Guarda, la “Postazione 15” qui non funziona, che è successo?”. “Vabbé adesso controllo....”. Dopo un po’ richiamavano da Piazzale Clodio: “Ti ho ridato la linea, vedi un po’”. Andavi a controllare, magari avevi finito alla telefonata 250 e ti ritrovavi alla telefonata 280. E le altre 30? “Me le so perse.. . ” ». Chi contattava il responsabile del server a Piazzale Clodio? «Non ci parlavamo solo noi, c’era anche il responsabile della sala. Ci parlava Auricchio, ci parlava Di Laroni... ». E ancora: è tecnicamente possibile non intercettare un’utenza sotto controllo per un determinato periodo di tempo? «Tranquillamente. Tu stacchi il server e la cosa si perde». Questo fa pensare che c’erano altre orecchie in ascolto, magari in un palazzo di Milano. E quando sentivano certe cose, o si accorgevano dei numeri di appartenenza di chi stava chiamando o rispondendo, staccavano il server e impedivano anche ai carabinieri di registrare... Orecchie tese Insomma, intercettazioni selezionate e pre-selezionate. Sia alla fonte, in origine, straccando il server. Sia dopo, evitando di farle trascrivere. Con una ulteriore appendice molto italiana o napoletana, a detta dell’intervistato: cenette a Napoli, da “Zi’Teresa”, con Auricchio e Arcangioli con uno dei pm dell’inchiesta. L’investigatore non fa il nome dell’ex pm Beatrice, che già si era smarcato dichiarando che fino al 2009, prima di passare ad altro incarico, non conosceva quelle telefonate ritrovate dalla difesa di Moggi. Sugli “altri personaggi” delle cenette, il “Corriere dello Sport” ci darà certo ragguagli. Così come il bravissimo Pinna (mi raccomando, occhio a non parlare al telefono...) ci dirà quanti caffè presero insieme Auricchio e Baldini, per esempio, perché i numeri che hanno dato nelle loro risposte in aula non combacia. A questo punto - come da anni afferma ju29ro (juventino vero. com), la punta di diamante dell’informazione su “Farsopoli”, «solo una “indagine sull’indagine” potrà cercare di dare le risposte a molte domande su tanti fatti poco chiari e chiariti, anche perché chi dovrebbe fare informazione cercando la verità e facendo indagine si è invece accontentato di chiedere ad Auricchio, dopo la sentenza, se avesse “stappato lo champagne?”. Buchi rosa e buchi neri, ma da oggi un po’ meno neri». -
27 12 2011 Calciopoli, specchio di un Paese ANTI-ITALIANI CERCANSI DISPERATAMENTE Nel giorno dell’inumazione di Giorgio Bocca, che fortunatamente “spacca” anche da morto (grande, grandissimo giornalista, certo, ma razzista anti-Sud o semplicemente e splendidamente anti-italiano? La seconda, credo...), citiamolo anche per lo sport e il calcio. Non si dice che la miglior cosa è ricordarlo con le sue parole? E allora, su, coraggio. Anche perché contrariamente alla maggior parte degli intellettuali e giornalisti nostrani con la puzza al naso, Bocca aveva scritto di sport da ragazzo, l’aveva praticato, conosceva il sudore e i suoi decaloghi. E quando andava logografo di Olimpia, non faceva sconti: qualcuno ricorda Tokyo ’64 e il suo lancinante pezzo sull’imperatore Hirohito? Per non parlare dell’epopea della montagna, ben dentro la gola più profonda, rocciosa e innevata di Giorgio, montanaro autentico. O della sua natura torinista, preziosa per fargli rimarcare l’Italia della ricostruzione nel secondo dopoguerra: “Quel Grande Torino non era solo una squadra di calcio, era la voglia di Torino di vivere, di tornare bella e forte; i giocatori del Torino non erano solo dei professionisti o dei divi, erano degli amici”. AI TEMPI giornalistici di Italia-Camerun, 1984, dell’inchiesta mia e di Chiodi sul Mondiale truccato – e vinto dall’Italia –, Bocca scrisse con sufficienza su di essa che bisognava “scarpinare” lasciando intendere che potesse essere una bufala. Avevamo “scarpinato” in Africa e in Europa, la prendemmo male. Lavoravo con lui a Repubblica, ci scrivemmo. Quando scoppiò lo scandalo di Calciopoli, nel 2006, lui scrisse sull’Espresso che il giornalismo sportivo si sarebbe dovuto scusare con me, con oltre vent’anni di ritardo. Aveva buona memoria. . . E dello scandalo nato all’ombra di Moggi scrisse sempre sull’Espresso, senza farsi confondere dagli ipocriti clamori mediatici: “Non siamo degli esperti di istruttorie sportive, ma questa che si è conclusa con severità inaudita ci pare fra le più sbrigative e criticabili che si conoscano: intercettazioni telefoniche scarse, 40 quelle di Moggi su migliaia, grandissima fretta di concludere, un'aria di pregiudizio, di condanna già scritta in partenza, soprattutto la voglia dei giudici di far passare per congiura di pochi malfattori un sistema di prepotenze e malversazioni, dei più grandi sui più piccoli, dei più forti sui più deboli, che ormai è la regola generale di questo sport, la regola che bisogna vincere a ogni costo perché solo la vittoria moltiplica i buoni affari e il potere . . . ”. Nel frattempo alla vigilia di Natale anche l’investigatore “pentito” del “gruppo Auricchio” che sui giornali anonimamente racconta come è stata “montata ad arte” tutta l’inchiesta con relativa selezione delle intercettazioni. Eh, Giorgio sapeva distinguere anche in questo campo, correggere, correggersi. FACEVA da pontiere in tutto, e quindi non gli era estraneo neppure questo mondo rotondolatrico che addormenta e insieme infiamma le folle. Gli sarebbe piaciuto certamente il tal Simone Farina del Gubbio, l’esterno basso che non si era fatto corrompere dagli scommettitori truffaldini, che ha denunciato tutto e che ora Prandelli ha convocato “moralmente” e anche un po’ logisticamente in Nazionale. C’è chi obietta che così si rende eccezionale l’onestà dell’omonimo di “Betulla” sia sul piano del comportamento che del riconoscimento, invece che “normalizzare” entrambi circoscrivendo i mascalzoni. Anche qui è una faccenda alla Bocca, da “anti-italiano”, con il timore che sia una battaglia per ora almeno persa, una specie di Farina contro tutti, in un habitat che regala scommesse a ogni piè sospinto, come dimostra l’inchiesta della Procura di Cremona, in attesa di quella di Napoli e di altre che presumibilmente seguiranno, e un’immagine deturpata dal trucco e dall’imbroglio. Quanto tempo ci vorrà perché vengano fuori puntate stratosferiche di giocatori di A e magari della Nazionale di cui tutti mormorano da un pezzo? E i club? Ci vuole un genio per immaginare che dietro questa montagna non ci sia solo il topolino del giocatore (nei due sensi) o della centrale di “bet” ma anche società che hanno trovato il modo di ripianare i deficit in un momento di crisi nera? Preparatevi, come in altre circostanze calcistiche e para-calcistiche, agli “ooh” di meraviglia e ipocrisia degli addetti ai lavori se le indagini dovessero condurre in tali direzioni. La verità temo sia – alla Bocca... – che non frega quasi niente a quasi nessuno, in un paese che recita la pièce della sua sopravvivenza, ma non dà segnali concreti di risveglio. Cercansi “anti-italiani” disperatamente, il tempo scarseggia.