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andrea

Tifoso Juventus
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  1. Inter in silenzio stampa 🤡🤡🤡🤡🤡
  2. Si prospetta una bella giornata di M***A
  3. https://x.com/livescore/status/1923801047027360027?t=O-gOu6xGJCI2RSLiDzuXzQ&s=19
  4. andrea

    Formula 1 2025

    La soluzione https://x.com/RidTheRock/status/1923765600595177731?t=g8uyMR0PvYEns0XW-OELKw&s=19
  5. Pagare per giocare? «Si sa da anni» Il servizio tv delle Iene su Salvatore Bagni non sorprende gli esperti piacentini: «La colpa è dell’ambizione dei genitori» Redazione Online 15 maggio 2025 Ha scatenato un putiferio il servizio della trasmissione di Italia 1 “Le Iene” con protagonista Salvatore Bagni. Stando alle riprese, pare proprio che l’ex calciatore, oggi consulente di molte società sportive, avesse promesso di poter piazzare un giocatore mai visto in una squadra professionistica, dietro il pagamento di 30mila euro per sé e 20mila per la società o un suo dirigente. A Piacenza, tra gli addetti ai lavori, c’è indignazione, ma non sorpresa. Addirittura a Daniele Moretti, ex gloria del Piacenza in Serie A e attuale responsabile dell’Academy di Quarto che porta il suo nome, scappa un sorriso amaro: « Non ce lo dovevano certo dire Le Iene - commenta - purtroppo sono cose che succedono da sempre, naturalmente in quelle realtà che lavorano in un certo modo. I dirigenti che accettano soldi sbagliano, ma la vera colpa di quei genitori che cercano scorciatoie che non vanno bene per portare i figli qualche anno in una Primavera o in una realtà di un certo livello. Chiuse quelle stagioni, dovrebbero però acquistare delle intere società per farli arrivare in alto o restare almeno in Serie C…». Pulmini e sponsor Pratiche squallide, che proprio nei settori giovanile sembrano trovare terreno fertile. E non c’è bisogno di una busta contenente denaro (quello delle Iene peraltro era chiaramente finto...), anzi. Il papà di un ragazzo tuttora in attività, passato da una Primavera professionistica (non piacentina), svela altri metodi a quanto pare in voga da anni per aiutare la carriera del proprio “campione”: «Alla fine di una stagione - dice chiedendo di restare anonimo per non coinvolgere il figlio - abbiamo scoperto che per le trasferte della squadra erano stati utilizzati pulmini pagati di tasca proprio da un genitore. È stato inevitabile fare il collegamento con il fatto che questo ragazzo fosse quasi sempre titolare nonostante le prestazioni non propriamente esaltanti». Ma anche nel calcio provinciale, non mancano gli esempi negativi: « Non nascondiamoci dietro un dito - aggiunge - ci sono genitori che con la propria ditta fanno da sponsor alla società in cui gioca il figlio. Niente di male, anzi, in molti casi sono soldi che servono per garantire il proseguimento dell’attività. Ma purtroppo a volte c’è dietro dell’altro e la meritocrazia passa in secondo piano. Credo sia frustrante per tutti, in primis per i giovani coinvolti».
  6. «Per giocare basta pagare»: Bagni nella trappola delle Iene L’ex calciatore promette di portare un ragazzo alla Vis Pesaro e si fa dare 30 mila euro. Ma viene smascherato Di Monica Scozzafava · 15 mag 2025 Imbarazzo e anche un fortissimo disagio. Salvatore Bagni non è riuscito a dissimulare la vergogna, davanti alle telecamere delle Iene che lo hanno appena smascherato (ha preso 30 mila euro per assicurare l’ingresso in una squadra di C a un ragazzino) dice cose all’apparenza senza senso, resta incredulo verso se stesso: si è fidato e gli è andata male. Si infila in auto, bermuda blu e camicia azzurra, e prende letteralmente il largo. Il giorno dopo è quello degli avvocati, del telefono spento o che squilla a vuoto. Ore di riflessione, valutazioni, alla ricerca di una strategia che possa avere una credibilità. Il filmato mandato in onda martedì sera sulle reti Mediaset è squalificante, il «guerriero» promette una spiegazione, appena l’eco mediatico si sarà spento. Guerriero era il suo soprannome quando giocava a calcio (Bagni ha vinto uno scudetto col Napoli, ha giocato con Maradona e conta 300 partite in serie A) un modo di essere che ha mantenuto negli anni. Un combattente per necessità, anche a seguito di vicende personali terribili: ha perso suo figlio Raffaele in un incidente stradale, aveva appena 3 anni. Cosa ha fatto Bagni? L’inchiesta delle Iene è chiara: l’ex mediano gestisce con il figlio Gianluca un’agenzia. Scopre e vende giocatori in tutto il mondo. Viaggiano tanto, sempre pronti a far le valigie e partire. L’inviato delle Iene Luca Sgarbi si è finto il fratello di un ragazzo che ha il sogno di sfondare nel mondo del calcio. Contatta Bagni, chiede come fare a valorizzarlo. Lui, schietto, spiega: «Vediamo calciatori in tutto il mondo, se siamo noi a cercarli li paghiamo. Ma se invece sono i ragazzi a contattarci ci devono pagare». Chiede quale sia il livello di questo ragazzino, incontra nella sua villa di Cesenatico il fantomatico fratello e gli garantisce la squadra. Sarebbe la Vis Pesaro, serie C. C’è un prezzo: 30 mila euro, più 20 mila al direttore sportivo che poi «è mio amico e lo farà giocare titolare». Affare fatto, l’appuntamento successivo è nel parcheggio del centro sportivo della squadra, l’inviato delle Iene prima gli consegna i soldi e poi lo smaschera. La scena è desolante, nulla di quel che accade rende giustizia alla storia professionale — calcistica e non — di Bagni che finge indifferenza, è evidentemente imbarazzato e va via. Il servizio nella puntata di martedì delle Iene ha scatenato un terremoto («per giocare basta pagare», le parole di Bagni sono inequivocabili), la Vis Pesaro ha tutelato la sua immagine con la sospensione del d.s. Michele Menga. Bagni ha interrotto le comunicazioni, lo spettacolo offerto in tv non è edificante per il calcio e per la sua credibilità. I filmati finiranno sotto la lente della Procura.
  7. Di G.B. Oli­vero · 14 mag 2025 Non basta cor­rere, biso­gna saperlo fare. Ed è impor­tante capire i tempi, le situa­zioni, gli ambienti, il peso e la spe­ci­fi­cità delle maglie. Ste­phan Licht­stei­ner è par­tito da Adli­gen­swil, 5.000 abi­tanti vicino a Lucerna, ed è diven­tato lo stra­niero più scu­det­tato della Serie A. «Ho vinto sette cam­pio­nati e molti tro­fei, ma ho anche perso tanto: due finali di Cham­pions con la Juve, una di Europa Lea­gue con l’Arse­nal. Lo sport è così. Da gio­vane col­ti­vavo i miei sogni, ma mi alle­navo dura­mente per rea­liz­zarli men­tre pren­devo il diploma assi­cu­ran­domi un even­tuale impiego in banca, se con il cal­cio non fosse andata bene». Invece è andata molto bene, su e giù per la fascia, difen­dendo e attac­cando, in quat­tro dei cin­que cam­pio­nati più impor­tanti (alla col­le­zione manca solo la Liga), con tanti momenti a cui ripen­sare anche se Licht non è tipo da stare seduto sul divano a farsi coc­co­lare dai ricordi: «Ho alle­nato nel set­tore gio­va­nile e adesso sono sulla pan­china del Wett­swil-Bon­stet­ten, quarta divi­sione. Voglio matu­rare con calma, devo capire se sono capace di fare que­sto lavoro». ▶ Quando ha capito di essere un bravo giocatore? «Quando alla Lazio Delio Rossi e Reja mi hanno aiu­tato a miglio­rare la fase difen­siva. Mi aveva scelto Wal­ter Saba­tini, fu una bella espe­rienza. Nel 2009 vin­cemmo la Coppa Ita­lia ai rigori con­tro la Samp­do­ria. Parità dopo i primi cin­que tiri. Io cal­ciai il sesto: me la sen­tivo, mi piace la pres­sione posi­tiva. E segnai». ▶Arrivò alla Juve nell’estate del 2011, il momento della svolta. Quanto erano massacranti gli allenamenti con Conte? «Molto. Però non è quella la cosa che più mi resta nella mente. Conte ti man­dava in campo sapendo tutto: cosa avreb­bero fatto gli avver­sari, cosa sarebbe suc­cesso, come rea­gire a ogni situa­zione tat­tica. Ave­vamo sem­pre qual­cosa in più. Gio­care con la Juve è com­ple­ta­mente diverso e Conte te lo faceva capire. Ci diceva sem­pre che per restare nella sto­ria biso­gna vin­cere. Il primo anno all’ini­zio cre­deva solo lui di poter fare qual­cosa di grande. Noi ci fidammo di Anto­nio, gli andammo die­tro, riu­scimmo a reg­gere lo stress men­tale e negli ultimi due mesi era­vamo con­vin­tis­simi di far­cela». ▶ Il suo nome resterà per sempre nella storia dello Stadium, grazie a quel primo gol al Parma che mostrò la speciale connessione con Pirlo. «Vero, ma io pre­fe­ri­sco restare nella sto­ria per i sette scu­detti. Quel gol, comun­que, fu impor­tante per­ché nelle ami­che­voli estive qual­cosa non fun­zio­nava e vin­cere al debutto ci diede fidu­cia. Con Andrea c’era que­sto fee­ling spe­ciale: se scat­tavo con i tempi giu­sti, la palla arri­vava. Era una cosa natu­rale, non la pro­va­vamo nem­meno tanto in alle­na­mento. E non c’era biso­gno che gliela chia­massi, per­ché Andrea aveva occhi dap­per­tutto». ▶ Quale scudetto si è goduto di più? «Sem­brerà banale, ma sono dav­vero tutti uguali. Certe volte è sem­brato che per noi fosse facile, ma non lo è mai per­ché men­tal­mente senti di dover vin­cere per forza. Nel 2015-16 la rimonta fu incre­di­bile: dopo il gol di Cua­drado nel derby cominciò una serie lun­ghis­sima di vit­to­rie con­se­cu­tive. Non fu mica una cosa nor­male. L’ultimo scu­detto, cioè quello del 2017-18, è stato il più sof­ferto: noi siamo stati bravi, ma non per­fetti e il Napoli ci stava addosso. Me lo sono goduto, anche se sapevo che sarei andato via». ▶ Tre momenti meno felici. La finale di Berlino? «Era­vamo vici­nis­simi, dopo il pareg­gio di Morata pote­vamo pas­sare in van­tag­gio. Il piz­zico di for­tuna che a volte ave­vamo in cam­pio­nato non l’abbiamo mai avuto in Europa. Ma non biso­gna cer­care alibi, piut­to­sto capire con­tro chi abbiamo perso le finali: il Bar­cel­lona di Messi, Sua­rez e Ney­mar, il Real Madrid di Ronaldo. Con tutto il rispetto per altre squa­dre, non è la stessa cosa». ▶ Il problema al cuore? «Non ho avuto paura. Mi hanno spie­gato la situa­zione, ero in ottime mani e non ho mai temuto di dover smet­tere». ▶ Le due esclusioni dalla lista Champions? «Scelte tec­ni­che di Alle­gri, ma in entrambi i casi a gen­naio sono rien­trato. C’ero rima­sto male, ma nella vita le cose nega­tive suc­ce­dono. Biso­gna rea­gire». ▶Ha mai visto Buffon arrabbiato come al Bernabeu dopo quel famoso rigore? «No, mai. Ma il ram­ma­rico dob­biamo averlo per lo 0-3 dell’andata: era­vamo forti, non doveva suc­ce­dere. Poi, certo, resta quella deci­sione sba­gliata dell’arbi­tro, ma fa parte del cal­cio. Non era giu­sto, però si deve accet­tare». ▶ Perché disse no all’Inter? «Per serietà: amo la Juve e quindi non potevo gio­care nell’Inter. Adesso sof­fro da tifoso, ma pre­sto tor­ne­remo a vin­cere». ▶ Il “4 e a casa” a Lamela durante Juve-Roma? «Non sapevo del gesto simile fatto da Totti anni prima. Lamela con­ti­nuava a par­lare e a insul­tare, era­vamo 4-0 per noi, gli ho fatto pre­sente che era meglio smet­terla...». ▶ Cosa le resta dentro degli anni alla Juve? «La men­ta­lità: devi dare il mas­simo, vinci, ti godi il momento e rico­minci subito a dare il mas­simo inse­guendo un’altra vit­to­ria. Ci sono gio­ca­tori fatti per la Juve e altri, pur bravi, che non sono fatti per la Juve. Nel primo gruppo ci sono quelli che rie­scono a gestire lo stress, che hanno la luci­dità di andare oltre il momento o il risul­tato, che sanno lan­ciare i mes­saggi giu­sti ai com­pa­gni, che capi­scono cosa signi­fica dav­vero indos­sare quella maglia, che impa­rano da chi c’era prima di loro e poi inse­gnano a chi arriva».
  8. https://m-tuttosport-com.cdn.ampproject.org/v/s/m.tuttosport.com/amp/news/calcio/serie-a/juventus/2025/05/14-140670349/juve_ecco_van_aarle_il_difensore_si_annuncia_che_sogno_non_vedo_l_ora?amp_gsa=1&amp_js_v=a9&usqp=mq331AQGsAEggAID#amp_tf=Da %1%24s&aoh=17472591543621&csi=0&referrer=https%3A%2F%2Fwww.google.com&ampshare=https%3A%2F%2Fwww.tuttosport.com%2Fnews%2Fcalcio%2Fserie-a%2Fjuventus%2F2025%2F05%2F14-140670349%2Fjuve_ecco_van_aarle_il_difensore_si_annuncia_che_sogno_non_vedo_l_ora
  9. andrea

    Formula 1 2025

    https://x.com/robertofunoat/status/1922659570540798211?t=yUpKPGwzNKmHTeFTPX94EQ&s=19
  10. Porta pure sfiga https://x.com/Fabio_Wallys/status/1922623265756856578?t=y-AX8TVN4XU7J2BSPUVgEA&s=19
  11. https://x.com/LaVozdelCalcio/status/1922385947158602206?t=GOZcvsEsEwePnPSQK749Og&s=19
  12. https://x.com/SandroSca/status/1922382629745181052?t=_dJECUyeoN1RYXgNBhkoHg&s=19
  13. andrea

    Nicola Amoruso

    L’ex bomber: «Agnelli volle conoscermi dopo Villar Perosa Non mi chiese di calcio, ma della mia Cerignola La salvezza alla Reggina da -15? Grazie all’amicizia tra noi» Di Fran­ce­sco Vel­luzzi · 13 mag 2025 Samp­do­ria, Padova, Juven­tus, Peru­gia, Napoli, Como, Modena, Mes­sina, Reg­gina, Torino, Siena, Parma e Ata­lanta. L’uomo con la vali­gia, Nicola Amo­ruso da Ceri­gnola, si è fer­mato a Milano: «La città più inter­na­zio­nale d’Ita­lia». Ma l’uomo con la vali­gia, che non ha mai indos­sato la maglia della Nazio­nale mag­giore, pur vin­cendo un Euro­peo Under 21 nel 1996, detiene due record di cui va fiero: ha segnato con 12 delle 13 squa­dre di A («a Siena no, non mi presi con Giam­paolo») in cui ha gio­cato e que­sto pri­mato lo con­di­vide con Marco Bor­riello («che è più bello di me»). In Serie A ha segnato 113 gol. Nes­suno come lui tra quelli che non hanno mai vestito l’azzurro. Oggi Nicola è un impren­di­tore che tra i primi ha cre­duto nel feno­meno padel, inve­ste nell’immo­bi­liare, è marito di Enrica, avvo­cato, e padre di Giu­lia e Maria Ludo­vica che stu­diano con ottimi risul­tati. «Sa qual è il mio vero cruc­cio? Che non mi sono lau­reato. Ho fatto lo scien­ti­fico, mi ero iscritto a Scienze Poli­ti­che, ho mol­lato». ▶ Amoruso, siete cinque figli, quattro maschi: due, Luca e Fabio, hanno giocato a calcio come lei, un altro, Flavio, era tennista di talento. Azienda di famiglia, mamma dottoressa in biologia e un papà che vi ha insegnato tanto. «Sì, papà Vin­cenzo, juven­tino, a 82 anni è ancora il primo ad arri­vare in azienda, dove oggi lavo­rano Luca e Fabio. Pro­du­cono farina. Per papà le vacanze non sono mai esi­stite. Noi gio­ca­vamo sotto casa da bam­bini, non ci ha osta­co­lati, ma abbiamo tutti il diploma. Da pic­colo mi por­tava ad Avel­lino a vedere la Juve di Pla­tini». ▶ Poi lei alla Juve ci è arrivato da grande centravanti. Ma prima ha sudato. A 14 anni era già alla Sampdoria. «In con­vitto. Cin­que anni bel­lis­simi, i migliori della Samp di Man­cini e Vialli. Sven Goran Eriks­son mi fece esor­dire in A». ▶ Poi cominciarono i prestiti e nel 1996 bussò alla sua porta la Juve. «Prima decisi di tor­nare a casa andando ad Andria. Poi salii a Padova. A Natale del ‘95 sapevo di avere die­tro tre club: Inter, Milan e Juve. Mio nonno a tavola sen­tenziò: alla Signora non si può dire di no. Io avevo deciso, ero juven­tino. Arri­vammo io, Vieri, Iuliano e Mon­tero. Siamo rima­sti cari amici. Ti cono­sci da ragazzo e ti crei i rap­porti. È la cosa più bella che mi resta del cal­cio: l’ami­ci­zia e l’aver viag­giato». ▶Cosa è stata la Juve? «Una grande espe­rienza. Un ricordo resterà per sem­pre: face­vamo la solita ami­che­vole a Vil­lar Perosa. Alla fine Bet­tega mi chiama e mi dice: “C’è la mac­china che ti aspetta”. Salgo e mi por­tano a casa dell’Avvo­cato: Gianni Agnelli. Voleva cono­scermi. Ero timi­dis­simo. Non mi chiese una cosa di cal­cio, sapeva che ero di Ceri­gnola. Aveva diverse curio­sità. Quando veniva a tro­varci ci met­te­vamo tutti in cer­chio e, sapendo che cal­ciavo bene i rigori, a me faceva domande su come si tira­vano». ▶Il gol in bianconero che le resta impresso? «Ajax-Juven­tus, semi­fi­nale di Cham­pions. Vin­cemmo, gol mio e di Bobo». ▶Il più forte con cui ha giocato? «Troppo facile. Zidane. Grande uomo, umile, pro­fes­sio­nale, leg­geva le situa­zioni prima degli altri. Alto, ma veloce, bari­cen­tro basso. Con Iuliano inven­tammo que­sta: palla su e ci pensa Zizou». ▶Ma le esperienze del cuore sono Reggina e Perugia. La famosa salvezza di Reggio nel 2007 conquistata con Walter Mazzarri partendo dal -15. «Spen­sie­ra­tezza e rischio. Era­vamo amici, uniti, bravo Maz­zarri, uno che meri­tava di più. Capimmo quanto sa essere impre­ve­di­bile il cal­cio. Feci 17 gol (Rolando Bian­chi 18), ma l’Ita­lia non chiamò. Lo meri­tavo. A Peru­gia ho avuto la for­tuna di essere alle­nato da Car­letto Maz­zone. Uno che manca al cal­cio. Aveva uma­na­mente qual­cosa in più. Il pre­si­dente Luciano Gaucci voleva venire in spo­glia­toio a impar­tire lezioni tec­ni­che e urlare. Lui lo respin­geva. Si spin­to­na­vano. Maz­zone tor­nava con l’auti­sta a casa ad Ascoli da dimis­sio­na­rio ogni volta, ma il mar­tedì era rego­lar­mente al campo. Face­vano pace». ▶ A Napoli è stato bello perché ha conosciuto Enrica, la donna della sua vita. «Ero in affitto da lei a Posil­lipo. Dopo tre mesi ci met­temmo insieme, dopo sei mesi era incinta. Ma l’affitto me lo ha fatto pagare per tutto l’anno. E ancora glielo rin­fac­cio. Oggi mi aiuta nell’ammi­ni­stra­zione. Mi ha seguito e ha fatto tanti tra­slo­chi». ▶Perché lei cambiava sempre squadra? «Per far fare i tra­slo­chi a Enrica... Sem­pre situa­zioni di mer­cato. Però ho gua­da­gnato bene». ▶E non ha mai buttato i soldi. «Die­tro devi avere qual­cuno. Io ho avuto papà, intel­li­gente nella gestione». ▶Oggi molti calciatori scommettono. «Mai fatto. Una sola volta andammo al Casinò. Diedi i soldi a Pippo Inza­ghi che era for­tu­nato. Vinse. Vin­cemmo». ▶Ora gioca benissimo a padel, è socio con Vieri nell’Italy Padel tour e con Alessandro Budel nel club di Tolcinasco. «Il padel ha riac­ceso in noi cal­cia­tori la fiamma della sana com­pe­ti­zione. Io ho capito da Deme­trio Alber­tini, il primo a cre­derci, che c’erano poten­zia­lità. Mi insul­ta­vano. Budel è bravo e gli dico che diven­terà un grande diri­gente di cal­cio. Noi gio­ca­tori siamo stati trai­nanti per il feno­meno padel. E la cosa più bella è che ci ritro­viamo. Da amici».
  14. "Ce la fate ad andare in Champions?" "Ma veramente ti sei fatto inculare da quel co*****e di Gravina?"
  15. andrea

    Luciano Spalletti

    «Sarò felice di smettere Vorrei rivedere Vialli» Di Walter Veltroni · 12 mag 2025 Mister Luciano Spalletti, la storia di un uomo tenace che dai campetti in terra è arrivato ad allenare la Nazionale. «La dedizione per il lavoro, il peso per l’incarico, la gavetta fatta e il sogno di riabbracciare Vialli». E poi Totti. Luciano Spalletti ha pubblicato con Rizzoli un libro, scritto con Giancarlo Dotto, dal titolo «Il paradiso esiste... ma quanta fatica». È un racconto sincero, senza omissioni e senza cattiverie, della storia di un uomo che è salito fino al gradino più alto della sua professione, allenare la Nazionale, partendo dal basso. «L’ho fatto per lasciare ai miei figli il resoconto della vita che ho vissuto. Per me non è stato facile. Sono un pignolo, un perfezionista, credo di sapere il valore delle parole. Poi mi sono convinto che chi vive una vita da raccontare, ha il dovere di farlo. L’ho fatto evitando acidità e cattiverie, che pure nella mia carriera ho conosciuto e vissuto». Spalletti ha conosciuto la gavetta, ha imparato nella polvere dei campi dei piccoli paesi. Si è fatto le ossa, senza scorciatoie. Non è mai stato un campione da serie A o da Champions. Al massimo ha giocato in serie C1. Era bravo, tosto, intelligente, come giocatore. E così è rimasto e per queste doti è diventato un allenatore importante. È un uomo facile? No, ma non bisogna esserlo. Lo ritrovo nel suo ufficio alla Figc, vicino a Villa Borghese. L’ultima volta l’avevo incontrato nella sua campagna di Montaione. Comincio chiedendogli se corrisponde al vero l’impressione che mi sono fatto di lui, di un uomo timido e solitario. «Sì, con la mia solitudine convivo benissimo. Anzi, la solitudine mi fa compagnia. Quando scappo a Montaione mia moglie mi dice “Ma che fai lì da solo?” Io sto benissimo, con la mia terra, i miei operai, le bestie che curo. Quando sono lì, nel silenzio, con i miei pensieri, mi sento nel mio luogo ideale. Anche se dal punto di vista degli affetti il mio paradiso è la mia famiglia, mia moglie e i miei figli ai quali la mia attività ha tolto tempo, spazio, occasioni. E io lo avverto come una colpa, della quale però non ho colpa». Quanti gradini hai salito per arrivare al paradiso azzurro? «È stata una salita lunga, per arrivare fino alla Nazionale. Quando parti da laggiù, dai campi di terra battuta, non dalle squadre blasonate, senza avere la struttura, senza conoscenze di un mondo che vedevi lontano, gli scalini sono sempre alti e scoscesi. Ogni volta che ne sali uno non sai cosa troverai, tutto è sconosciuto». Mi ricordi i tuoi inizi? «Sono partito dai bambini dell’Avane, una zona di case popolari in periferia di Empoli. Poi mi notò la Fiorentina ma lì ci fu la prima delusione, quando mi dissero che non rientravo nei loro programmi. Ricordo quando facevo il raccattapalle e dovevo consegnare il pallone a Merlo o Chiarugi. Dopo il verdetto dei viola avevo deciso che avrei giocato solo tra gli Amatori, ma poi un mio zio mi convinse a riprovare. Insomma ho indossato le magliette di Volterrana, Castelfiorentino, Cuoiopelli, Entella Chiavari, Viareggio, Empoli. Dove ho finito la mia onesta carriera. Sai che mi sono reso conto che da giocatore o da allenatore sono entrato negli spogliatoi di tutte le categorie, dai pulcini alla Nazionale? Mi manca solo la prima categoria, magari un domani...». La tua è una famiglia che ha faticato... «Mio padre lavorava in vetreria e poi ha fatto il guardiacaccia, il magazziniere, ne ha cambiati molti, di mestieri. Mia madre lavorava nelle confezioni, quelle aziende, come la Modiva, che facevano capi d’abbigliamento. In casa c’erano loro, i due nonni, e poi io e mio fratello Marcello». Che per te è stato molto importante... «Lui giocava bene, lui era il calciatore e mi ha insegnato molto. In primo luogo ad avere carattere. Lo ha fatto fino alla fine dei suoi giorni. Se mi attaccavano, lui diceva che andava benissimo, che ero il più forte. Per me è stato come un innaffiatore della fiducia in me stesso. Io di casini ne ho fatti. Sono sempre stato un naif in questo mondo che, nelle sue logiche, non conoscevo. Non ho mai avuto, in vita mia, un procuratore e questo mi ha sempre dato una grande libertà. Nessuno mi ha messo una mano sulla testa. Soltanto la mia famiglia. E Marcello, più di ogni altro. Prima di andarsene, minato dalla sofferenza, mi ha fatto delle raccomandazioni, alle quali sarò fedele». Un caso raro, senza procuratore. Non dico che tu sia disattento, nessuno lo è, all’aspetto economico, ma hai sempre dato l’impressione di amare il tuo lavoro più dei biglietti di carta valuta. «Ci sto attento, sia in entrata che in uscita. Non vengo da cascate di diamanti ma dalla fatica dei calli sulle mani. So che i soldi sono importanti. Ma certe volte mi sembra incredibile che mi paghino per fare ciò che più mi appassiona e mi diverte. Come se da bambino mi avessero pagato per giocare a figurine. Al Napoli, per esempio, sono andato, come racconto nel libro, con l’idea di accettare quella sfida, più che di guadagnare soldi. E il Presidente ne è stato immediatamente consapevole...». Fermiamoci su Napoli, forse il momento più bello della tua carriera. Almeno fin qui... «Ho girato moltissime società, moltissime città, ma non ho mai visto, in molti anni, un popolo che sappia essere così felice e così malinconico come quello napoletano. Io per questo sarò sempre grato al presidente De Laurentiis per avermi fatto fare quella esperienza. Poi è finita male e mi dispiace. Ho sofferto perché dopo lo scudetto il presidente non ha telefonato a nessuno di noi, non ci ha fatto gioire su un pullman scoperto insieme a quel meraviglioso popolo. Io amo Napoli e il Napoli. E ora spero che la città possa essere ancora molte volte felice. L’altra sera in Champions League ho visto l’inter che è totalmente all’altezza delle più grandi squadre d’Europa. I nerazzurri, guidati dalla sapienza tattica di Simone Inzaghi, hanno raggiunto per due volte la finale di questo prestigioso torneo». A Napoli all’inizio ti rubarono la Panda per invitarti ad andare via poi ti hanno amato alla follia... Amore che dura nel tempo... «La passione che le persone mettono per la propria squadra spesso deborda, si fa emotiva, risente, come in fondo è giusto, dei risultati, assapora più la bellezza di una vittoria oggi piuttosto che di un progetto per il domani. Ma forse è giusto così. Quando vedo le curve piene, le bandiere che sventolano, i ragazzi che coltivano una passione pura e non contaminata da altro, penso che quel potenziale potrebbe essere indirizzato anche per altri fini, per esempio di tipo sociale. E poi vorrei che alle centinaia di migliaia di sportivi che vanno negli stadi fosse data la possibilità di vedere le partite in strutture moderne, civili. E penso che se cadessero i vincoli burocratici questi investimenti potrebbero generare lavoro e ricchezza diffusa». Lo scudetto è stato il giorno più bello della tua vita professionale? «In quei giorni ho provato la terribile felicità che si sente quando si regala felicità ad altri, qualcosa che ti fa vibrare in sintonia con persone che non conosci. Ma l’altro momento più bello sarà quando smetterò e non sentirò più sulle spalle questo peso, un peso scelto, ma che spesso mi toglie il fiato». Nel libro ricordi spesso di essere orgoglioso di avere i calli nelle mani. «Quei calli vengono dal lavoro, dalla fatica. Conoscere la terra ti insegna che tu puoi progettare e fare tutto quello che è giusto per i tuoi campi, ma se poi arriva una gelata ogni sforzo può essere stato inutile. Così è nel calcio. Un episodio, un solo momento, può fare drasticamente giustizia di tante idee giuste, di tanto impegno e abnegazione. L’essenziale è non restare schiacciati dalle difficoltà. È saper cadere e sapersi rialzare. Tutto dipende da noi: possiamo decidere di affrontare le difficoltà con determinazione o lasciarci sopraffare dalla tristezza». Nel libro torni sul rapporto con Francesco Totti... «Io gli voglio bene. Lui è il calcio, per me. Istinto, classe, intelligenza pura. Quando lo allenavo, mi rassicurava pensare che il mio futuro dipendesse proprio da quei piedi lì. E mi piacerebbe, ora che tra noi tutto è chiarito, che pensassimo a qualche esperienza professionale, anche fuori dal calcio, da fare insieme». Ci dobbiamo aspettare un remake di «In viaggio con papà» con te e lui al posto di Sordi e Verdone? «No, questo no, ma sarebbe bello che noi due tornassimo a fare cose insieme». Quanto ti pesarono i fischi dell’Olimpico, il giorno in cui Francesco diede l’addio al calcio? «Mi sono pesati. Non riesco, non sono mai riuscito, a farmi scivolare le cose addosso. Mi restano dentro, mi attraversano, mi corrodono. E le vittorie più delle sconfitte. Io ho molto amato quegli anni a Roma. Ancora ricordo l’emozione che provai quando Bruno Conti mi propose, ero a Udine, di allenare i giallorossi. Quella emozione è indelebile, non si cancella, ti rimane addosso». Affrontiamo un momento doloroso per tutti gli italiani, la sconfitta agli Europei con la Svizzera... «Ho capito di aver caricato i ragazzi di troppe responsabilità, ho esagerato nella pressione. Li ho messi al cospetto, forse con troppa forza, della storia dei campioni e delle squadre che avevano portato gioia all’intero Paese. E così i giocatori hanno perso leggerezza. Ho sbagliato io, me ne sono assunto la responsabilità, per tutti». Riusciremo ad andare ai Mondiali stavolta? I bambini nati dopo il 2014 non hanno mai visto la maglia azzurra alla World Cup... «Siamo tutti consapevoli dell’importanza delle qualificazioni. Ci è capitato un girone con una nazionale forte come la Norvegia ma io ho fiducia nei miei ragazzi. Siamo una squadra forte e abbiamo voglia». Il calcio è un gioco semplice? «Sì, ma la semplicità nel calcio è un punto di arrivo, non di partenza, come dico nel libro. L’importante è impegnarsi, progettare, studiare, avere cura del talento e della fantasia, insegnare la tecnica. Tutte cose che appaiono semplici, prese singolarmente. Ma comporle in un equilibrio anche tattico, fare in modo che una squadra non sia troppo scoperta dietro o troppo arida davanti, è il lavoro che facciamo noi allenatori. E questo, credimi, non è un lavoro semplice». Quali ti sembrano i rischi per i nuovi calciatori, sospesi tra show business e social? «Io penso che la prima cosa da fare, per noi che siamo anche riferimenti educativi nella formazione di questi ragazzi, sia liberarli dalla noia di essere benestanti. Quanto al cellulare, si deve sapere che ti connette con chi è più lontano e ti disconnette da chi è più vicino. Tu usi il cellulare ma non parli più con chi ti sta a fianco. E ora dobbiamo stare attenti che l’intelligenza artificiale non sopprima l’intelligenza naturale. Il rischio è che le domande le si faccia a un apparecchio, non alla propria mente o alla propria coscienza. Le soluzioni ai problemi della vita non le deve trovare un apparato elettronico, ma la mente umana». C’è un giocatore, nella storia del calcio, con il quale vorresti trovarti a cena, per parlare? «Luca Vialli. Grande giocatore e grande persona. Basta vedere come ha affrontato il male. Ci ho giocato contro solo una volta, in un Sampdoria -Spezia. Era forte. Mi diede due brandate pesanti, ma poi mi aiutò subito a rialzarmi. Ecco, il suo modo di vivere, e di morire, ci aiuta a rialzarci, sempre».
  16. La Roma può vincere tranquillamente le prossime due partite, i bovini si scansano
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  18. Voglio proprio vedere andare a vincere a Venezia
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  20. Leggere tutto https://x.com/SandroSca/status/1921882240256000175?t=elJQ6xuzit3BznqXETf57A&s=19
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