
andrea
Tifoso Juventus-
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Inter in silenzio stampa 🤡🤡🤡🤡🤡
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Juventus qualificata per le coppe europee 2025/26
andrea ha risposto al topic di TurinGoeba in Juventus Forum
Siamo tutti in piazza con il bandierone -
[ Serie A enilive ] JUVENTUS - UDINESE 2-0 (61’ Gonzalez, 88’ Vlahovic)
andrea ha risposto al topic di PiemonteBianconero in Stagione 2024/2025
Riusciranno i nostri eroi a vincere a Venezia? -
Si prospetta una bella giornata di M***A
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Teun Koopmeiners, l’oggetto misterioso della Juventus
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Il Bologna ha vinto la Coppa Italia dopo 51 anni: battuto il Milan 1-0
andrea ha risposto al topic di TurinGoeba in Archivio Off Juve
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La soluzione https://x.com/RidTheRock/status/1923765600595177731?t=g8uyMR0PvYEns0XW-OELKw&s=19
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Pagare per giocare? «Si sa da anni» Il servizio tv delle Iene su Salvatore Bagni non sorprende gli esperti piacentini: «La colpa è dell’ambizione dei genitori» Redazione Online 15 maggio 2025 Ha scatenato un putiferio il servizio della trasmissione di Italia 1 “Le Iene” con protagonista Salvatore Bagni. Stando alle riprese, pare proprio che l’ex calciatore, oggi consulente di molte società sportive, avesse promesso di poter piazzare un giocatore mai visto in una squadra professionistica, dietro il pagamento di 30mila euro per sé e 20mila per la società o un suo dirigente. A Piacenza, tra gli addetti ai lavori, c’è indignazione, ma non sorpresa. Addirittura a Daniele Moretti, ex gloria del Piacenza in Serie A e attuale responsabile dell’Academy di Quarto che porta il suo nome, scappa un sorriso amaro: « Non ce lo dovevano certo dire Le Iene - commenta - purtroppo sono cose che succedono da sempre, naturalmente in quelle realtà che lavorano in un certo modo. I dirigenti che accettano soldi sbagliano, ma la vera colpa di quei genitori che cercano scorciatoie che non vanno bene per portare i figli qualche anno in una Primavera o in una realtà di un certo livello. Chiuse quelle stagioni, dovrebbero però acquistare delle intere società per farli arrivare in alto o restare almeno in Serie C…». Pulmini e sponsor Pratiche squallide, che proprio nei settori giovanile sembrano trovare terreno fertile. E non c’è bisogno di una busta contenente denaro (quello delle Iene peraltro era chiaramente finto...), anzi. Il papà di un ragazzo tuttora in attività, passato da una Primavera professionistica (non piacentina), svela altri metodi a quanto pare in voga da anni per aiutare la carriera del proprio “campione”: «Alla fine di una stagione - dice chiedendo di restare anonimo per non coinvolgere il figlio - abbiamo scoperto che per le trasferte della squadra erano stati utilizzati pulmini pagati di tasca proprio da un genitore. È stato inevitabile fare il collegamento con il fatto che questo ragazzo fosse quasi sempre titolare nonostante le prestazioni non propriamente esaltanti». Ma anche nel calcio provinciale, non mancano gli esempi negativi: « Non nascondiamoci dietro un dito - aggiunge - ci sono genitori che con la propria ditta fanno da sponsor alla società in cui gioca il figlio. Niente di male, anzi, in molti casi sono soldi che servono per garantire il proseguimento dell’attività. Ma purtroppo a volte c’è dietro dell’altro e la meritocrazia passa in secondo piano. Credo sia frustrante per tutti, in primis per i giovani coinvolti».
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«Per giocare basta pagare»: Bagni nella trappola delle Iene L’ex calciatore promette di portare un ragazzo alla Vis Pesaro e si fa dare 30 mila euro. Ma viene smascherato Di Monica Scozzafava · 15 mag 2025 Imbarazzo e anche un fortissimo disagio. Salvatore Bagni non è riuscito a dissimulare la vergogna, davanti alle telecamere delle Iene che lo hanno appena smascherato (ha preso 30 mila euro per assicurare l’ingresso in una squadra di C a un ragazzino) dice cose all’apparenza senza senso, resta incredulo verso se stesso: si è fidato e gli è andata male. Si infila in auto, bermuda blu e camicia azzurra, e prende letteralmente il largo. Il giorno dopo è quello degli avvocati, del telefono spento o che squilla a vuoto. Ore di riflessione, valutazioni, alla ricerca di una strategia che possa avere una credibilità. Il filmato mandato in onda martedì sera sulle reti Mediaset è squalificante, il «guerriero» promette una spiegazione, appena l’eco mediatico si sarà spento. Guerriero era il suo soprannome quando giocava a calcio (Bagni ha vinto uno scudetto col Napoli, ha giocato con Maradona e conta 300 partite in serie A) un modo di essere che ha mantenuto negli anni. Un combattente per necessità, anche a seguito di vicende personali terribili: ha perso suo figlio Raffaele in un incidente stradale, aveva appena 3 anni. Cosa ha fatto Bagni? L’inchiesta delle Iene è chiara: l’ex mediano gestisce con il figlio Gianluca un’agenzia. Scopre e vende giocatori in tutto il mondo. Viaggiano tanto, sempre pronti a far le valigie e partire. L’inviato delle Iene Luca Sgarbi si è finto il fratello di un ragazzo che ha il sogno di sfondare nel mondo del calcio. Contatta Bagni, chiede come fare a valorizzarlo. Lui, schietto, spiega: «Vediamo calciatori in tutto il mondo, se siamo noi a cercarli li paghiamo. Ma se invece sono i ragazzi a contattarci ci devono pagare». Chiede quale sia il livello di questo ragazzino, incontra nella sua villa di Cesenatico il fantomatico fratello e gli garantisce la squadra. Sarebbe la Vis Pesaro, serie C. C’è un prezzo: 30 mila euro, più 20 mila al direttore sportivo che poi «è mio amico e lo farà giocare titolare». Affare fatto, l’appuntamento successivo è nel parcheggio del centro sportivo della squadra, l’inviato delle Iene prima gli consegna i soldi e poi lo smaschera. La scena è desolante, nulla di quel che accade rende giustizia alla storia professionale — calcistica e non — di Bagni che finge indifferenza, è evidentemente imbarazzato e va via. Il servizio nella puntata di martedì delle Iene ha scatenato un terremoto («per giocare basta pagare», le parole di Bagni sono inequivocabili), la Vis Pesaro ha tutelato la sua immagine con la sospensione del d.s. Michele Menga. Bagni ha interrotto le comunicazioni, lo spettacolo offerto in tv non è edificante per il calcio e per la sua credibilità. I filmati finiranno sotto la lente della Procura.
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Di G.B. Olivero · 14 mag 2025 Non basta correre, bisogna saperlo fare. Ed è importante capire i tempi, le situazioni, gli ambienti, il peso e la specificità delle maglie. Stephan Lichtsteiner è partito da Adligenswil, 5.000 abitanti vicino a Lucerna, ed è diventato lo straniero più scudettato della Serie A. «Ho vinto sette campionati e molti trofei, ma ho anche perso tanto: due finali di Champions con la Juve, una di Europa League con l’Arsenal. Lo sport è così. Da giovane coltivavo i miei sogni, ma mi allenavo duramente per realizzarli mentre prendevo il diploma assicurandomi un eventuale impiego in banca, se con il calcio non fosse andata bene». Invece è andata molto bene, su e giù per la fascia, difendendo e attaccando, in quattro dei cinque campionati più importanti (alla collezione manca solo la Liga), con tanti momenti a cui ripensare anche se Licht non è tipo da stare seduto sul divano a farsi coccolare dai ricordi: «Ho allenato nel settore giovanile e adesso sono sulla panchina del Wettswil-Bonstetten, quarta divisione. Voglio maturare con calma, devo capire se sono capace di fare questo lavoro». ▶ Quando ha capito di essere un bravo giocatore? «Quando alla Lazio Delio Rossi e Reja mi hanno aiutato a migliorare la fase difensiva. Mi aveva scelto Walter Sabatini, fu una bella esperienza. Nel 2009 vincemmo la Coppa Italia ai rigori contro la Sampdoria. Parità dopo i primi cinque tiri. Io calciai il sesto: me la sentivo, mi piace la pressione positiva. E segnai». ▶Arrivò alla Juve nell’estate del 2011, il momento della svolta. Quanto erano massacranti gli allenamenti con Conte? «Molto. Però non è quella la cosa che più mi resta nella mente. Conte ti mandava in campo sapendo tutto: cosa avrebbero fatto gli avversari, cosa sarebbe successo, come reagire a ogni situazione tattica. Avevamo sempre qualcosa in più. Giocare con la Juve è completamente diverso e Conte te lo faceva capire. Ci diceva sempre che per restare nella storia bisogna vincere. Il primo anno all’inizio credeva solo lui di poter fare qualcosa di grande. Noi ci fidammo di Antonio, gli andammo dietro, riuscimmo a reggere lo stress mentale e negli ultimi due mesi eravamo convintissimi di farcela». ▶ Il suo nome resterà per sempre nella storia dello Stadium, grazie a quel primo gol al Parma che mostrò la speciale connessione con Pirlo. «Vero, ma io preferisco restare nella storia per i sette scudetti. Quel gol, comunque, fu importante perché nelle amichevoli estive qualcosa non funzionava e vincere al debutto ci diede fiducia. Con Andrea c’era questo feeling speciale: se scattavo con i tempi giusti, la palla arrivava. Era una cosa naturale, non la provavamo nemmeno tanto in allenamento. E non c’era bisogno che gliela chiamassi, perché Andrea aveva occhi dappertutto». ▶ Quale scudetto si è goduto di più? «Sembrerà banale, ma sono davvero tutti uguali. Certe volte è sembrato che per noi fosse facile, ma non lo è mai perché mentalmente senti di dover vincere per forza. Nel 2015-16 la rimonta fu incredibile: dopo il gol di Cuadrado nel derby cominciò una serie lunghissima di vittorie consecutive. Non fu mica una cosa normale. L’ultimo scudetto, cioè quello del 2017-18, è stato il più sofferto: noi siamo stati bravi, ma non perfetti e il Napoli ci stava addosso. Me lo sono goduto, anche se sapevo che sarei andato via». ▶ Tre momenti meno felici. La finale di Berlino? «Eravamo vicinissimi, dopo il pareggio di Morata potevamo passare in vantaggio. Il pizzico di fortuna che a volte avevamo in campionato non l’abbiamo mai avuto in Europa. Ma non bisogna cercare alibi, piuttosto capire contro chi abbiamo perso le finali: il Barcellona di Messi, Suarez e Neymar, il Real Madrid di Ronaldo. Con tutto il rispetto per altre squadre, non è la stessa cosa». ▶ Il problema al cuore? «Non ho avuto paura. Mi hanno spiegato la situazione, ero in ottime mani e non ho mai temuto di dover smettere». ▶ Le due esclusioni dalla lista Champions? «Scelte tecniche di Allegri, ma in entrambi i casi a gennaio sono rientrato. C’ero rimasto male, ma nella vita le cose negative succedono. Bisogna reagire». ▶Ha mai visto Buffon arrabbiato come al Bernabeu dopo quel famoso rigore? «No, mai. Ma il rammarico dobbiamo averlo per lo 0-3 dell’andata: eravamo forti, non doveva succedere. Poi, certo, resta quella decisione sbagliata dell’arbitro, ma fa parte del calcio. Non era giusto, però si deve accettare». ▶ Perché disse no all’Inter? «Per serietà: amo la Juve e quindi non potevo giocare nell’Inter. Adesso soffro da tifoso, ma presto torneremo a vincere». ▶ Il “4 e a casa” a Lamela durante Juve-Roma? «Non sapevo del gesto simile fatto da Totti anni prima. Lamela continuava a parlare e a insultare, eravamo 4-0 per noi, gli ho fatto presente che era meglio smetterla...». ▶ Cosa le resta dentro degli anni alla Juve? «La mentalità: devi dare il massimo, vinci, ti godi il momento e ricominci subito a dare il massimo inseguendo un’altra vittoria. Ci sono giocatori fatti per la Juve e altri, pur bravi, che non sono fatti per la Juve. Nel primo gruppo ci sono quelli che riescono a gestire lo stress, che hanno la lucidità di andare oltre il momento o il risultato, che sanno lanciare i messaggi giusti ai compagni, che capiscono cosa significa davvero indossare quella maglia, che imparano da chi c’era prima di loro e poi insegnano a chi arriva».
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Il Bologna ha vinto la Coppa Italia dopo 51 anni: battuto il Milan 1-0
andrea ha risposto al topic di TurinGoeba in Archivio Off Juve
Delicatissimo -
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Porta pure sfiga https://x.com/Fabio_Wallys/status/1922623265756856578?t=y-AX8TVN4XU7J2BSPUVgEA&s=19
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https://x.com/LaVozdelCalcio/status/1922385947158602206?t=GOZcvsEsEwePnPSQK749Og&s=19
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Habemus sponsor: Jeep e Visit Detroit sono i nuovi partner della Juventus
andrea ha risposto al topic di Dani_82 in Juventus Forum
https://x.com/SandroSca/status/1922382629745181052?t=_dJECUyeoN1RYXgNBhkoHg&s=19 -
L’ex bomber: «Agnelli volle conoscermi dopo Villar Perosa Non mi chiese di calcio, ma della mia Cerignola La salvezza alla Reggina da -15? Grazie all’amicizia tra noi» Di Francesco Velluzzi · 13 mag 2025 Sampdoria, Padova, Juventus, Perugia, Napoli, Como, Modena, Messina, Reggina, Torino, Siena, Parma e Atalanta. L’uomo con la valigia, Nicola Amoruso da Cerignola, si è fermato a Milano: «La città più internazionale d’Italia». Ma l’uomo con la valigia, che non ha mai indossato la maglia della Nazionale maggiore, pur vincendo un Europeo Under 21 nel 1996, detiene due record di cui va fiero: ha segnato con 12 delle 13 squadre di A («a Siena no, non mi presi con Giampaolo») in cui ha giocato e questo primato lo condivide con Marco Borriello («che è più bello di me»). In Serie A ha segnato 113 gol. Nessuno come lui tra quelli che non hanno mai vestito l’azzurro. Oggi Nicola è un imprenditore che tra i primi ha creduto nel fenomeno padel, investe nell’immobiliare, è marito di Enrica, avvocato, e padre di Giulia e Maria Ludovica che studiano con ottimi risultati. «Sa qual è il mio vero cruccio? Che non mi sono laureato. Ho fatto lo scientifico, mi ero iscritto a Scienze Politiche, ho mollato». ▶ Amoruso, siete cinque figli, quattro maschi: due, Luca e Fabio, hanno giocato a calcio come lei, un altro, Flavio, era tennista di talento. Azienda di famiglia, mamma dottoressa in biologia e un papà che vi ha insegnato tanto. «Sì, papà Vincenzo, juventino, a 82 anni è ancora il primo ad arrivare in azienda, dove oggi lavorano Luca e Fabio. Producono farina. Per papà le vacanze non sono mai esistite. Noi giocavamo sotto casa da bambini, non ci ha ostacolati, ma abbiamo tutti il diploma. Da piccolo mi portava ad Avellino a vedere la Juve di Platini». ▶ Poi lei alla Juve ci è arrivato da grande centravanti. Ma prima ha sudato. A 14 anni era già alla Sampdoria. «In convitto. Cinque anni bellissimi, i migliori della Samp di Mancini e Vialli. Sven Goran Eriksson mi fece esordire in A». ▶ Poi cominciarono i prestiti e nel 1996 bussò alla sua porta la Juve. «Prima decisi di tornare a casa andando ad Andria. Poi salii a Padova. A Natale del ‘95 sapevo di avere dietro tre club: Inter, Milan e Juve. Mio nonno a tavola sentenziò: alla Signora non si può dire di no. Io avevo deciso, ero juventino. Arrivammo io, Vieri, Iuliano e Montero. Siamo rimasti cari amici. Ti conosci da ragazzo e ti crei i rapporti. È la cosa più bella che mi resta del calcio: l’amicizia e l’aver viaggiato». ▶Cosa è stata la Juve? «Una grande esperienza. Un ricordo resterà per sempre: facevamo la solita amichevole a Villar Perosa. Alla fine Bettega mi chiama e mi dice: “C’è la macchina che ti aspetta”. Salgo e mi portano a casa dell’Avvocato: Gianni Agnelli. Voleva conoscermi. Ero timidissimo. Non mi chiese una cosa di calcio, sapeva che ero di Cerignola. Aveva diverse curiosità. Quando veniva a trovarci ci mettevamo tutti in cerchio e, sapendo che calciavo bene i rigori, a me faceva domande su come si tiravano». ▶Il gol in bianconero che le resta impresso? «Ajax-Juventus, semifinale di Champions. Vincemmo, gol mio e di Bobo». ▶Il più forte con cui ha giocato? «Troppo facile. Zidane. Grande uomo, umile, professionale, leggeva le situazioni prima degli altri. Alto, ma veloce, baricentro basso. Con Iuliano inventammo questa: palla su e ci pensa Zizou». ▶Ma le esperienze del cuore sono Reggina e Perugia. La famosa salvezza di Reggio nel 2007 conquistata con Walter Mazzarri partendo dal -15. «Spensieratezza e rischio. Eravamo amici, uniti, bravo Mazzarri, uno che meritava di più. Capimmo quanto sa essere imprevedibile il calcio. Feci 17 gol (Rolando Bianchi 18), ma l’Italia non chiamò. Lo meritavo. A Perugia ho avuto la fortuna di essere allenato da Carletto Mazzone. Uno che manca al calcio. Aveva umanamente qualcosa in più. Il presidente Luciano Gaucci voleva venire in spogliatoio a impartire lezioni tecniche e urlare. Lui lo respingeva. Si spintonavano. Mazzone tornava con l’autista a casa ad Ascoli da dimissionario ogni volta, ma il martedì era regolarmente al campo. Facevano pace». ▶ A Napoli è stato bello perché ha conosciuto Enrica, la donna della sua vita. «Ero in affitto da lei a Posillipo. Dopo tre mesi ci mettemmo insieme, dopo sei mesi era incinta. Ma l’affitto me lo ha fatto pagare per tutto l’anno. E ancora glielo rinfaccio. Oggi mi aiuta nell’amministrazione. Mi ha seguito e ha fatto tanti traslochi». ▶Perché lei cambiava sempre squadra? «Per far fare i traslochi a Enrica... Sempre situazioni di mercato. Però ho guadagnato bene». ▶E non ha mai buttato i soldi. «Dietro devi avere qualcuno. Io ho avuto papà, intelligente nella gestione». ▶Oggi molti calciatori scommettono. «Mai fatto. Una sola volta andammo al Casinò. Diedi i soldi a Pippo Inzaghi che era fortunato. Vinse. Vincemmo». ▶Ora gioca benissimo a padel, è socio con Vieri nell’Italy Padel tour e con Alessandro Budel nel club di Tolcinasco. «Il padel ha riacceso in noi calciatori la fiamma della sana competizione. Io ho capito da Demetrio Albertini, il primo a crederci, che c’erano potenzialità. Mi insultavano. Budel è bravo e gli dico che diventerà un grande dirigente di calcio. Noi giocatori siamo stati trainanti per il fenomeno padel. E la cosa più bella è che ci ritroviamo. Da amici».
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"Ce la fate ad andare in Champions?" "Ma veramente ti sei fatto inculare da quel co*****e di Gravina?"
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«Sarò felice di smettere Vorrei rivedere Vialli» Di Walter Veltroni · 12 mag 2025 Mister Luciano Spalletti, la storia di un uomo tenace che dai campetti in terra è arrivato ad allenare la Nazionale. «La dedizione per il lavoro, il peso per l’incarico, la gavetta fatta e il sogno di riabbracciare Vialli». E poi Totti. Luciano Spalletti ha pubblicato con Rizzoli un libro, scritto con Giancarlo Dotto, dal titolo «Il paradiso esiste... ma quanta fatica». È un racconto sincero, senza omissioni e senza cattiverie, della storia di un uomo che è salito fino al gradino più alto della sua professione, allenare la Nazionale, partendo dal basso. «L’ho fatto per lasciare ai miei figli il resoconto della vita che ho vissuto. Per me non è stato facile. Sono un pignolo, un perfezionista, credo di sapere il valore delle parole. Poi mi sono convinto che chi vive una vita da raccontare, ha il dovere di farlo. L’ho fatto evitando acidità e cattiverie, che pure nella mia carriera ho conosciuto e vissuto». Spalletti ha conosciuto la gavetta, ha imparato nella polvere dei campi dei piccoli paesi. Si è fatto le ossa, senza scorciatoie. Non è mai stato un campione da serie A o da Champions. Al massimo ha giocato in serie C1. Era bravo, tosto, intelligente, come giocatore. E così è rimasto e per queste doti è diventato un allenatore importante. È un uomo facile? No, ma non bisogna esserlo. Lo ritrovo nel suo ufficio alla Figc, vicino a Villa Borghese. L’ultima volta l’avevo incontrato nella sua campagna di Montaione. Comincio chiedendogli se corrisponde al vero l’impressione che mi sono fatto di lui, di un uomo timido e solitario. «Sì, con la mia solitudine convivo benissimo. Anzi, la solitudine mi fa compagnia. Quando scappo a Montaione mia moglie mi dice “Ma che fai lì da solo?” Io sto benissimo, con la mia terra, i miei operai, le bestie che curo. Quando sono lì, nel silenzio, con i miei pensieri, mi sento nel mio luogo ideale. Anche se dal punto di vista degli affetti il mio paradiso è la mia famiglia, mia moglie e i miei figli ai quali la mia attività ha tolto tempo, spazio, occasioni. E io lo avverto come una colpa, della quale però non ho colpa». Quanti gradini hai salito per arrivare al paradiso azzurro? «È stata una salita lunga, per arrivare fino alla Nazionale. Quando parti da laggiù, dai campi di terra battuta, non dalle squadre blasonate, senza avere la struttura, senza conoscenze di un mondo che vedevi lontano, gli scalini sono sempre alti e scoscesi. Ogni volta che ne sali uno non sai cosa troverai, tutto è sconosciuto». Mi ricordi i tuoi inizi? «Sono partito dai bambini dell’Avane, una zona di case popolari in periferia di Empoli. Poi mi notò la Fiorentina ma lì ci fu la prima delusione, quando mi dissero che non rientravo nei loro programmi. Ricordo quando facevo il raccattapalle e dovevo consegnare il pallone a Merlo o Chiarugi. Dopo il verdetto dei viola avevo deciso che avrei giocato solo tra gli Amatori, ma poi un mio zio mi convinse a riprovare. Insomma ho indossato le magliette di Volterrana, Castelfiorentino, Cuoiopelli, Entella Chiavari, Viareggio, Empoli. Dove ho finito la mia onesta carriera. Sai che mi sono reso conto che da giocatore o da allenatore sono entrato negli spogliatoi di tutte le categorie, dai pulcini alla Nazionale? Mi manca solo la prima categoria, magari un domani...». La tua è una famiglia che ha faticato... «Mio padre lavorava in vetreria e poi ha fatto il guardiacaccia, il magazziniere, ne ha cambiati molti, di mestieri. Mia madre lavorava nelle confezioni, quelle aziende, come la Modiva, che facevano capi d’abbigliamento. In casa c’erano loro, i due nonni, e poi io e mio fratello Marcello». Che per te è stato molto importante... «Lui giocava bene, lui era il calciatore e mi ha insegnato molto. In primo luogo ad avere carattere. Lo ha fatto fino alla fine dei suoi giorni. Se mi attaccavano, lui diceva che andava benissimo, che ero il più forte. Per me è stato come un innaffiatore della fiducia in me stesso. Io di casini ne ho fatti. Sono sempre stato un naif in questo mondo che, nelle sue logiche, non conoscevo. Non ho mai avuto, in vita mia, un procuratore e questo mi ha sempre dato una grande libertà. Nessuno mi ha messo una mano sulla testa. Soltanto la mia famiglia. E Marcello, più di ogni altro. Prima di andarsene, minato dalla sofferenza, mi ha fatto delle raccomandazioni, alle quali sarò fedele». Un caso raro, senza procuratore. Non dico che tu sia disattento, nessuno lo è, all’aspetto economico, ma hai sempre dato l’impressione di amare il tuo lavoro più dei biglietti di carta valuta. «Ci sto attento, sia in entrata che in uscita. Non vengo da cascate di diamanti ma dalla fatica dei calli sulle mani. So che i soldi sono importanti. Ma certe volte mi sembra incredibile che mi paghino per fare ciò che più mi appassiona e mi diverte. Come se da bambino mi avessero pagato per giocare a figurine. Al Napoli, per esempio, sono andato, come racconto nel libro, con l’idea di accettare quella sfida, più che di guadagnare soldi. E il Presidente ne è stato immediatamente consapevole...». Fermiamoci su Napoli, forse il momento più bello della tua carriera. Almeno fin qui... «Ho girato moltissime società, moltissime città, ma non ho mai visto, in molti anni, un popolo che sappia essere così felice e così malinconico come quello napoletano. Io per questo sarò sempre grato al presidente De Laurentiis per avermi fatto fare quella esperienza. Poi è finita male e mi dispiace. Ho sofferto perché dopo lo scudetto il presidente non ha telefonato a nessuno di noi, non ci ha fatto gioire su un pullman scoperto insieme a quel meraviglioso popolo. Io amo Napoli e il Napoli. E ora spero che la città possa essere ancora molte volte felice. L’altra sera in Champions League ho visto l’inter che è totalmente all’altezza delle più grandi squadre d’Europa. I nerazzurri, guidati dalla sapienza tattica di Simone Inzaghi, hanno raggiunto per due volte la finale di questo prestigioso torneo». A Napoli all’inizio ti rubarono la Panda per invitarti ad andare via poi ti hanno amato alla follia... Amore che dura nel tempo... «La passione che le persone mettono per la propria squadra spesso deborda, si fa emotiva, risente, come in fondo è giusto, dei risultati, assapora più la bellezza di una vittoria oggi piuttosto che di un progetto per il domani. Ma forse è giusto così. Quando vedo le curve piene, le bandiere che sventolano, i ragazzi che coltivano una passione pura e non contaminata da altro, penso che quel potenziale potrebbe essere indirizzato anche per altri fini, per esempio di tipo sociale. E poi vorrei che alle centinaia di migliaia di sportivi che vanno negli stadi fosse data la possibilità di vedere le partite in strutture moderne, civili. E penso che se cadessero i vincoli burocratici questi investimenti potrebbero generare lavoro e ricchezza diffusa». Lo scudetto è stato il giorno più bello della tua vita professionale? «In quei giorni ho provato la terribile felicità che si sente quando si regala felicità ad altri, qualcosa che ti fa vibrare in sintonia con persone che non conosci. Ma l’altro momento più bello sarà quando smetterò e non sentirò più sulle spalle questo peso, un peso scelto, ma che spesso mi toglie il fiato». Nel libro ricordi spesso di essere orgoglioso di avere i calli nelle mani. «Quei calli vengono dal lavoro, dalla fatica. Conoscere la terra ti insegna che tu puoi progettare e fare tutto quello che è giusto per i tuoi campi, ma se poi arriva una gelata ogni sforzo può essere stato inutile. Così è nel calcio. Un episodio, un solo momento, può fare drasticamente giustizia di tante idee giuste, di tanto impegno e abnegazione. L’essenziale è non restare schiacciati dalle difficoltà. È saper cadere e sapersi rialzare. Tutto dipende da noi: possiamo decidere di affrontare le difficoltà con determinazione o lasciarci sopraffare dalla tristezza». Nel libro torni sul rapporto con Francesco Totti... «Io gli voglio bene. Lui è il calcio, per me. Istinto, classe, intelligenza pura. Quando lo allenavo, mi rassicurava pensare che il mio futuro dipendesse proprio da quei piedi lì. E mi piacerebbe, ora che tra noi tutto è chiarito, che pensassimo a qualche esperienza professionale, anche fuori dal calcio, da fare insieme». Ci dobbiamo aspettare un remake di «In viaggio con papà» con te e lui al posto di Sordi e Verdone? «No, questo no, ma sarebbe bello che noi due tornassimo a fare cose insieme». Quanto ti pesarono i fischi dell’Olimpico, il giorno in cui Francesco diede l’addio al calcio? «Mi sono pesati. Non riesco, non sono mai riuscito, a farmi scivolare le cose addosso. Mi restano dentro, mi attraversano, mi corrodono. E le vittorie più delle sconfitte. Io ho molto amato quegli anni a Roma. Ancora ricordo l’emozione che provai quando Bruno Conti mi propose, ero a Udine, di allenare i giallorossi. Quella emozione è indelebile, non si cancella, ti rimane addosso». Affrontiamo un momento doloroso per tutti gli italiani, la sconfitta agli Europei con la Svizzera... «Ho capito di aver caricato i ragazzi di troppe responsabilità, ho esagerato nella pressione. Li ho messi al cospetto, forse con troppa forza, della storia dei campioni e delle squadre che avevano portato gioia all’intero Paese. E così i giocatori hanno perso leggerezza. Ho sbagliato io, me ne sono assunto la responsabilità, per tutti». Riusciremo ad andare ai Mondiali stavolta? I bambini nati dopo il 2014 non hanno mai visto la maglia azzurra alla World Cup... «Siamo tutti consapevoli dell’importanza delle qualificazioni. Ci è capitato un girone con una nazionale forte come la Norvegia ma io ho fiducia nei miei ragazzi. Siamo una squadra forte e abbiamo voglia». Il calcio è un gioco semplice? «Sì, ma la semplicità nel calcio è un punto di arrivo, non di partenza, come dico nel libro. L’importante è impegnarsi, progettare, studiare, avere cura del talento e della fantasia, insegnare la tecnica. Tutte cose che appaiono semplici, prese singolarmente. Ma comporle in un equilibrio anche tattico, fare in modo che una squadra non sia troppo scoperta dietro o troppo arida davanti, è il lavoro che facciamo noi allenatori. E questo, credimi, non è un lavoro semplice». Quali ti sembrano i rischi per i nuovi calciatori, sospesi tra show business e social? «Io penso che la prima cosa da fare, per noi che siamo anche riferimenti educativi nella formazione di questi ragazzi, sia liberarli dalla noia di essere benestanti. Quanto al cellulare, si deve sapere che ti connette con chi è più lontano e ti disconnette da chi è più vicino. Tu usi il cellulare ma non parli più con chi ti sta a fianco. E ora dobbiamo stare attenti che l’intelligenza artificiale non sopprima l’intelligenza naturale. Il rischio è che le domande le si faccia a un apparecchio, non alla propria mente o alla propria coscienza. Le soluzioni ai problemi della vita non le deve trovare un apparato elettronico, ma la mente umana». C’è un giocatore, nella storia del calcio, con il quale vorresti trovarti a cena, per parlare? «Luca Vialli. Grande giocatore e grande persona. Basta vedere come ha affrontato il male. Ci ho giocato contro solo una volta, in un Sampdoria -Spezia. Era forte. Mi diede due brandate pesanti, ma poi mi aiutò subito a rialzarmi. Ecco, il suo modo di vivere, e di morire, ci aiuta a rialzarci, sempre».
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La Roma può vincere tranquillamente le prossime due partite, i bovini si scansano
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Nefandezze mediatiche e antijuventinismo vario
andrea ha risposto al topic di Homer_Simpson in Juventus Forum
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Voglio proprio vedere andare a vincere a Venezia
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Nefandezze mediatiche e antijuventinismo vario
andrea ha risposto al topic di Homer_Simpson in Juventus Forum
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Dusan Vlahovic: altra stagione al di sotto delle aspettative
andrea ha risposto al topic di dal1982 in Juventus Forum
Leggere tutto https://x.com/SandroSca/status/1921882240256000175?t=elJQ6xuzit3BznqXETf57A&s=19 -
Adesso il Napoli è nella M***A