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andrea

Tifoso Juventus
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  1. andrea

    Nicola Amoruso

    L’ex bomber: «Agnelli volle conoscermi dopo Villar Perosa Non mi chiese di calcio, ma della mia Cerignola La salvezza alla Reggina da -15? Grazie all’amicizia tra noi» Di Fran­ce­sco Vel­luzzi · 13 mag 2025 Samp­do­ria, Padova, Juven­tus, Peru­gia, Napoli, Como, Modena, Mes­sina, Reg­gina, Torino, Siena, Parma e Ata­lanta. L’uomo con la vali­gia, Nicola Amo­ruso da Ceri­gnola, si è fer­mato a Milano: «La città più inter­na­zio­nale d’Ita­lia». Ma l’uomo con la vali­gia, che non ha mai indos­sato la maglia della Nazio­nale mag­giore, pur vin­cendo un Euro­peo Under 21 nel 1996, detiene due record di cui va fiero: ha segnato con 12 delle 13 squa­dre di A («a Siena no, non mi presi con Giam­paolo») in cui ha gio­cato e que­sto pri­mato lo con­di­vide con Marco Bor­riello («che è più bello di me»). In Serie A ha segnato 113 gol. Nes­suno come lui tra quelli che non hanno mai vestito l’azzurro. Oggi Nicola è un impren­di­tore che tra i primi ha cre­duto nel feno­meno padel, inve­ste nell’immo­bi­liare, è marito di Enrica, avvo­cato, e padre di Giu­lia e Maria Ludo­vica che stu­diano con ottimi risul­tati. «Sa qual è il mio vero cruc­cio? Che non mi sono lau­reato. Ho fatto lo scien­ti­fico, mi ero iscritto a Scienze Poli­ti­che, ho mol­lato». ▶ Amoruso, siete cinque figli, quattro maschi: due, Luca e Fabio, hanno giocato a calcio come lei, un altro, Flavio, era tennista di talento. Azienda di famiglia, mamma dottoressa in biologia e un papà che vi ha insegnato tanto. «Sì, papà Vin­cenzo, juven­tino, a 82 anni è ancora il primo ad arri­vare in azienda, dove oggi lavo­rano Luca e Fabio. Pro­du­cono farina. Per papà le vacanze non sono mai esi­stite. Noi gio­ca­vamo sotto casa da bam­bini, non ci ha osta­co­lati, ma abbiamo tutti il diploma. Da pic­colo mi por­tava ad Avel­lino a vedere la Juve di Pla­tini». ▶ Poi lei alla Juve ci è arrivato da grande centravanti. Ma prima ha sudato. A 14 anni era già alla Sampdoria. «In con­vitto. Cin­que anni bel­lis­simi, i migliori della Samp di Man­cini e Vialli. Sven Goran Eriks­son mi fece esor­dire in A». ▶ Poi cominciarono i prestiti e nel 1996 bussò alla sua porta la Juve. «Prima decisi di tor­nare a casa andando ad Andria. Poi salii a Padova. A Natale del ‘95 sapevo di avere die­tro tre club: Inter, Milan e Juve. Mio nonno a tavola sen­tenziò: alla Signora non si può dire di no. Io avevo deciso, ero juven­tino. Arri­vammo io, Vieri, Iuliano e Mon­tero. Siamo rima­sti cari amici. Ti cono­sci da ragazzo e ti crei i rap­porti. È la cosa più bella che mi resta del cal­cio: l’ami­ci­zia e l’aver viag­giato». ▶Cosa è stata la Juve? «Una grande espe­rienza. Un ricordo resterà per sem­pre: face­vamo la solita ami­che­vole a Vil­lar Perosa. Alla fine Bet­tega mi chiama e mi dice: “C’è la mac­china che ti aspetta”. Salgo e mi por­tano a casa dell’Avvo­cato: Gianni Agnelli. Voleva cono­scermi. Ero timi­dis­simo. Non mi chiese una cosa di cal­cio, sapeva che ero di Ceri­gnola. Aveva diverse curio­sità. Quando veniva a tro­varci ci met­te­vamo tutti in cer­chio e, sapendo che cal­ciavo bene i rigori, a me faceva domande su come si tira­vano». ▶Il gol in bianconero che le resta impresso? «Ajax-Juven­tus, semi­fi­nale di Cham­pions. Vin­cemmo, gol mio e di Bobo». ▶Il più forte con cui ha giocato? «Troppo facile. Zidane. Grande uomo, umile, pro­fes­sio­nale, leg­geva le situa­zioni prima degli altri. Alto, ma veloce, bari­cen­tro basso. Con Iuliano inven­tammo que­sta: palla su e ci pensa Zizou». ▶Ma le esperienze del cuore sono Reggina e Perugia. La famosa salvezza di Reggio nel 2007 conquistata con Walter Mazzarri partendo dal -15. «Spen­sie­ra­tezza e rischio. Era­vamo amici, uniti, bravo Maz­zarri, uno che meri­tava di più. Capimmo quanto sa essere impre­ve­di­bile il cal­cio. Feci 17 gol (Rolando Bian­chi 18), ma l’Ita­lia non chiamò. Lo meri­tavo. A Peru­gia ho avuto la for­tuna di essere alle­nato da Car­letto Maz­zone. Uno che manca al cal­cio. Aveva uma­na­mente qual­cosa in più. Il pre­si­dente Luciano Gaucci voleva venire in spo­glia­toio a impar­tire lezioni tec­ni­che e urlare. Lui lo respin­geva. Si spin­to­na­vano. Maz­zone tor­nava con l’auti­sta a casa ad Ascoli da dimis­sio­na­rio ogni volta, ma il mar­tedì era rego­lar­mente al campo. Face­vano pace». ▶ A Napoli è stato bello perché ha conosciuto Enrica, la donna della sua vita. «Ero in affitto da lei a Posil­lipo. Dopo tre mesi ci met­temmo insieme, dopo sei mesi era incinta. Ma l’affitto me lo ha fatto pagare per tutto l’anno. E ancora glielo rin­fac­cio. Oggi mi aiuta nell’ammi­ni­stra­zione. Mi ha seguito e ha fatto tanti tra­slo­chi». ▶Perché lei cambiava sempre squadra? «Per far fare i tra­slo­chi a Enrica... Sem­pre situa­zioni di mer­cato. Però ho gua­da­gnato bene». ▶E non ha mai buttato i soldi. «Die­tro devi avere qual­cuno. Io ho avuto papà, intel­li­gente nella gestione». ▶Oggi molti calciatori scommettono. «Mai fatto. Una sola volta andammo al Casinò. Diedi i soldi a Pippo Inza­ghi che era for­tu­nato. Vinse. Vin­cemmo». ▶Ora gioca benissimo a padel, è socio con Vieri nell’Italy Padel tour e con Alessandro Budel nel club di Tolcinasco. «Il padel ha riac­ceso in noi cal­cia­tori la fiamma della sana com­pe­ti­zione. Io ho capito da Deme­trio Alber­tini, il primo a cre­derci, che c’erano poten­zia­lità. Mi insul­ta­vano. Budel è bravo e gli dico che diven­terà un grande diri­gente di cal­cio. Noi gio­ca­tori siamo stati trai­nanti per il feno­meno padel. E la cosa più bella è che ci ritro­viamo. Da amici».
  2. "Ce la fate ad andare in Champions?" "Ma veramente ti sei fatto inculare da quel co*****e di Gravina?"
  3. andrea

    Luciano Spalletti

    «Sarò felice di smettere Vorrei rivedere Vialli» Di Walter Veltroni · 12 mag 2025 Mister Luciano Spalletti, la storia di un uomo tenace che dai campetti in terra è arrivato ad allenare la Nazionale. «La dedizione per il lavoro, il peso per l’incarico, la gavetta fatta e il sogno di riabbracciare Vialli». E poi Totti. Luciano Spalletti ha pubblicato con Rizzoli un libro, scritto con Giancarlo Dotto, dal titolo «Il paradiso esiste... ma quanta fatica». È un racconto sincero, senza omissioni e senza cattiverie, della storia di un uomo che è salito fino al gradino più alto della sua professione, allenare la Nazionale, partendo dal basso. «L’ho fatto per lasciare ai miei figli il resoconto della vita che ho vissuto. Per me non è stato facile. Sono un pignolo, un perfezionista, credo di sapere il valore delle parole. Poi mi sono convinto che chi vive una vita da raccontare, ha il dovere di farlo. L’ho fatto evitando acidità e cattiverie, che pure nella mia carriera ho conosciuto e vissuto». Spalletti ha conosciuto la gavetta, ha imparato nella polvere dei campi dei piccoli paesi. Si è fatto le ossa, senza scorciatoie. Non è mai stato un campione da serie A o da Champions. Al massimo ha giocato in serie C1. Era bravo, tosto, intelligente, come giocatore. E così è rimasto e per queste doti è diventato un allenatore importante. È un uomo facile? No, ma non bisogna esserlo. Lo ritrovo nel suo ufficio alla Figc, vicino a Villa Borghese. L’ultima volta l’avevo incontrato nella sua campagna di Montaione. Comincio chiedendogli se corrisponde al vero l’impressione che mi sono fatto di lui, di un uomo timido e solitario. «Sì, con la mia solitudine convivo benissimo. Anzi, la solitudine mi fa compagnia. Quando scappo a Montaione mia moglie mi dice “Ma che fai lì da solo?” Io sto benissimo, con la mia terra, i miei operai, le bestie che curo. Quando sono lì, nel silenzio, con i miei pensieri, mi sento nel mio luogo ideale. Anche se dal punto di vista degli affetti il mio paradiso è la mia famiglia, mia moglie e i miei figli ai quali la mia attività ha tolto tempo, spazio, occasioni. E io lo avverto come una colpa, della quale però non ho colpa». Quanti gradini hai salito per arrivare al paradiso azzurro? «È stata una salita lunga, per arrivare fino alla Nazionale. Quando parti da laggiù, dai campi di terra battuta, non dalle squadre blasonate, senza avere la struttura, senza conoscenze di un mondo che vedevi lontano, gli scalini sono sempre alti e scoscesi. Ogni volta che ne sali uno non sai cosa troverai, tutto è sconosciuto». Mi ricordi i tuoi inizi? «Sono partito dai bambini dell’Avane, una zona di case popolari in periferia di Empoli. Poi mi notò la Fiorentina ma lì ci fu la prima delusione, quando mi dissero che non rientravo nei loro programmi. Ricordo quando facevo il raccattapalle e dovevo consegnare il pallone a Merlo o Chiarugi. Dopo il verdetto dei viola avevo deciso che avrei giocato solo tra gli Amatori, ma poi un mio zio mi convinse a riprovare. Insomma ho indossato le magliette di Volterrana, Castelfiorentino, Cuoiopelli, Entella Chiavari, Viareggio, Empoli. Dove ho finito la mia onesta carriera. Sai che mi sono reso conto che da giocatore o da allenatore sono entrato negli spogliatoi di tutte le categorie, dai pulcini alla Nazionale? Mi manca solo la prima categoria, magari un domani...». La tua è una famiglia che ha faticato... «Mio padre lavorava in vetreria e poi ha fatto il guardiacaccia, il magazziniere, ne ha cambiati molti, di mestieri. Mia madre lavorava nelle confezioni, quelle aziende, come la Modiva, che facevano capi d’abbigliamento. In casa c’erano loro, i due nonni, e poi io e mio fratello Marcello». Che per te è stato molto importante... «Lui giocava bene, lui era il calciatore e mi ha insegnato molto. In primo luogo ad avere carattere. Lo ha fatto fino alla fine dei suoi giorni. Se mi attaccavano, lui diceva che andava benissimo, che ero il più forte. Per me è stato come un innaffiatore della fiducia in me stesso. Io di casini ne ho fatti. Sono sempre stato un naif in questo mondo che, nelle sue logiche, non conoscevo. Non ho mai avuto, in vita mia, un procuratore e questo mi ha sempre dato una grande libertà. Nessuno mi ha messo una mano sulla testa. Soltanto la mia famiglia. E Marcello, più di ogni altro. Prima di andarsene, minato dalla sofferenza, mi ha fatto delle raccomandazioni, alle quali sarò fedele». Un caso raro, senza procuratore. Non dico che tu sia disattento, nessuno lo è, all’aspetto economico, ma hai sempre dato l’impressione di amare il tuo lavoro più dei biglietti di carta valuta. «Ci sto attento, sia in entrata che in uscita. Non vengo da cascate di diamanti ma dalla fatica dei calli sulle mani. So che i soldi sono importanti. Ma certe volte mi sembra incredibile che mi paghino per fare ciò che più mi appassiona e mi diverte. Come se da bambino mi avessero pagato per giocare a figurine. Al Napoli, per esempio, sono andato, come racconto nel libro, con l’idea di accettare quella sfida, più che di guadagnare soldi. E il Presidente ne è stato immediatamente consapevole...». Fermiamoci su Napoli, forse il momento più bello della tua carriera. Almeno fin qui... «Ho girato moltissime società, moltissime città, ma non ho mai visto, in molti anni, un popolo che sappia essere così felice e così malinconico come quello napoletano. Io per questo sarò sempre grato al presidente De Laurentiis per avermi fatto fare quella esperienza. Poi è finita male e mi dispiace. Ho sofferto perché dopo lo scudetto il presidente non ha telefonato a nessuno di noi, non ci ha fatto gioire su un pullman scoperto insieme a quel meraviglioso popolo. Io amo Napoli e il Napoli. E ora spero che la città possa essere ancora molte volte felice. L’altra sera in Champions League ho visto l’inter che è totalmente all’altezza delle più grandi squadre d’Europa. I nerazzurri, guidati dalla sapienza tattica di Simone Inzaghi, hanno raggiunto per due volte la finale di questo prestigioso torneo». A Napoli all’inizio ti rubarono la Panda per invitarti ad andare via poi ti hanno amato alla follia... Amore che dura nel tempo... «La passione che le persone mettono per la propria squadra spesso deborda, si fa emotiva, risente, come in fondo è giusto, dei risultati, assapora più la bellezza di una vittoria oggi piuttosto che di un progetto per il domani. Ma forse è giusto così. Quando vedo le curve piene, le bandiere che sventolano, i ragazzi che coltivano una passione pura e non contaminata da altro, penso che quel potenziale potrebbe essere indirizzato anche per altri fini, per esempio di tipo sociale. E poi vorrei che alle centinaia di migliaia di sportivi che vanno negli stadi fosse data la possibilità di vedere le partite in strutture moderne, civili. E penso che se cadessero i vincoli burocratici questi investimenti potrebbero generare lavoro e ricchezza diffusa». Lo scudetto è stato il giorno più bello della tua vita professionale? «In quei giorni ho provato la terribile felicità che si sente quando si regala felicità ad altri, qualcosa che ti fa vibrare in sintonia con persone che non conosci. Ma l’altro momento più bello sarà quando smetterò e non sentirò più sulle spalle questo peso, un peso scelto, ma che spesso mi toglie il fiato». Nel libro ricordi spesso di essere orgoglioso di avere i calli nelle mani. «Quei calli vengono dal lavoro, dalla fatica. Conoscere la terra ti insegna che tu puoi progettare e fare tutto quello che è giusto per i tuoi campi, ma se poi arriva una gelata ogni sforzo può essere stato inutile. Così è nel calcio. Un episodio, un solo momento, può fare drasticamente giustizia di tante idee giuste, di tanto impegno e abnegazione. L’essenziale è non restare schiacciati dalle difficoltà. È saper cadere e sapersi rialzare. Tutto dipende da noi: possiamo decidere di affrontare le difficoltà con determinazione o lasciarci sopraffare dalla tristezza». Nel libro torni sul rapporto con Francesco Totti... «Io gli voglio bene. Lui è il calcio, per me. Istinto, classe, intelligenza pura. Quando lo allenavo, mi rassicurava pensare che il mio futuro dipendesse proprio da quei piedi lì. E mi piacerebbe, ora che tra noi tutto è chiarito, che pensassimo a qualche esperienza professionale, anche fuori dal calcio, da fare insieme». Ci dobbiamo aspettare un remake di «In viaggio con papà» con te e lui al posto di Sordi e Verdone? «No, questo no, ma sarebbe bello che noi due tornassimo a fare cose insieme». Quanto ti pesarono i fischi dell’Olimpico, il giorno in cui Francesco diede l’addio al calcio? «Mi sono pesati. Non riesco, non sono mai riuscito, a farmi scivolare le cose addosso. Mi restano dentro, mi attraversano, mi corrodono. E le vittorie più delle sconfitte. Io ho molto amato quegli anni a Roma. Ancora ricordo l’emozione che provai quando Bruno Conti mi propose, ero a Udine, di allenare i giallorossi. Quella emozione è indelebile, non si cancella, ti rimane addosso». Affrontiamo un momento doloroso per tutti gli italiani, la sconfitta agli Europei con la Svizzera... «Ho capito di aver caricato i ragazzi di troppe responsabilità, ho esagerato nella pressione. Li ho messi al cospetto, forse con troppa forza, della storia dei campioni e delle squadre che avevano portato gioia all’intero Paese. E così i giocatori hanno perso leggerezza. Ho sbagliato io, me ne sono assunto la responsabilità, per tutti». Riusciremo ad andare ai Mondiali stavolta? I bambini nati dopo il 2014 non hanno mai visto la maglia azzurra alla World Cup... «Siamo tutti consapevoli dell’importanza delle qualificazioni. Ci è capitato un girone con una nazionale forte come la Norvegia ma io ho fiducia nei miei ragazzi. Siamo una squadra forte e abbiamo voglia». Il calcio è un gioco semplice? «Sì, ma la semplicità nel calcio è un punto di arrivo, non di partenza, come dico nel libro. L’importante è impegnarsi, progettare, studiare, avere cura del talento e della fantasia, insegnare la tecnica. Tutte cose che appaiono semplici, prese singolarmente. Ma comporle in un equilibrio anche tattico, fare in modo che una squadra non sia troppo scoperta dietro o troppo arida davanti, è il lavoro che facciamo noi allenatori. E questo, credimi, non è un lavoro semplice». Quali ti sembrano i rischi per i nuovi calciatori, sospesi tra show business e social? «Io penso che la prima cosa da fare, per noi che siamo anche riferimenti educativi nella formazione di questi ragazzi, sia liberarli dalla noia di essere benestanti. Quanto al cellulare, si deve sapere che ti connette con chi è più lontano e ti disconnette da chi è più vicino. Tu usi il cellulare ma non parli più con chi ti sta a fianco. E ora dobbiamo stare attenti che l’intelligenza artificiale non sopprima l’intelligenza naturale. Il rischio è che le domande le si faccia a un apparecchio, non alla propria mente o alla propria coscienza. Le soluzioni ai problemi della vita non le deve trovare un apparato elettronico, ma la mente umana». C’è un giocatore, nella storia del calcio, con il quale vorresti trovarti a cena, per parlare? «Luca Vialli. Grande giocatore e grande persona. Basta vedere come ha affrontato il male. Ci ho giocato contro solo una volta, in un Sampdoria -Spezia. Era forte. Mi diede due brandate pesanti, ma poi mi aiutò subito a rialzarmi. Ecco, il suo modo di vivere, e di morire, ci aiuta a rialzarci, sempre».
  4. La Roma può vincere tranquillamente le prossime due partite, i bovini si scansano
  5. https://x.com/Eretico_sempre/status/1921962167332385235?t=CcpNiPtRgk5HfM8QZl2c3Q&s=19
  6. Voglio proprio vedere andare a vincere a Venezia
  7. https://x.com/kantor57/status/1921939798681407573?t=iLhpltC-4YYeYShDxUUTxQ&s=19
  8. andrea

    Dusan Vlahovic

    Leggere tutto https://x.com/SandroSca/status/1921882240256000175?t=elJQ6xuzit3BznqXETf57A&s=19
  9. https://www.dagospia.com/sport/co*****e-M***A-la-prossima-volta-ti-tiro-sberla-cretino-alla-kings-league-434218
  10. Pensate ieri difendere il vantaggio con un uomo in meno e questo qui in campo🤮
  11. https://x.com/RidTheRock/status/1921277558760317145?t=C1pmWuP9Hzw-ZoW78PTedA&s=19
  12. Di Gregorio è uno dei primi cento portieri al mondo
  13. Giochiamo una partita decisiva schierando una formazione ridicola
  14. andrea

    Ricky Albertosi

    Fumavo un pacchetto al giorno, Riva di più. di Furio Zara · 8 mag 2025 Disteso nel volo a planare, allungando la sagoma scossa da un colpo di reni, mulinando il braccio come un Don Chisciotte con i guanti, la chioma da Sandokan al vento, la segreta convinzione di arrivare a schiaffeggiare anche stavolta il pallone, interrompendone la traccia e cambiandogli il destino. Ricky Albertosi è stato il portiere come è bello immaginarlo, dove il ruolo prevede istinto, audacia e attitudine a prendersi la scena, come l’acrobata che vola da trapezio a trapezio, nel silenzio dopo un rullo di tamburo che di colpo si fa muto. ▶ Albertosi, verrebbe da dire che lei non si è limitato a venire al mondo. Si è tuffato verso il mondo. «Ero un bambino e con i miei amichetti mi tuffavo da 4-5 metri in un laghetto, a Pontremoli, dove sono nato. Poi andavamo tutti al fiume, ad abbrancare con le mani le trote che si nascondevano sotto i sassi: forse è là che sono diventato un portiere». ▶ Cosa ricorda dei suoi inizi? «Non avevo ancora sedici anni quando giocai in Prima Categoria, con il Pontremoli. Il portiere titolare, tale Gregoratto, poche ore prima si era imbarcato come marinaio. Ricordo che faceva un freddo cane, presi quattro gol». ▶ A diciannove anni il debutto in Serie A con la Fiorentina. «Ero il vice di Giuliano Sarti, da lui ho imparato a giocare al limite dell’area, a fare il “libero” aggiunto. Con la Fiorentina credo d’aver disputato la partita della vita, a Glasgow, contro i Rangers, finale di andata della Coppa delle Coppe che poi vincemmo. Clima infernale, 2-0 per noi, parai tutto». ▶ Nel 1970 lo scudetto a Cagliari. «Abbiamo fatto la storia, svelato un’altra Sardegna, restituito identità e dignità ad una terra che l’Italia aveva dimenticato. Una squadra di amici veri, con Beppe Tomasini siamo fratelli, ci sentiamo ancora. Quell’anno ho subito solo 11 reti - tra cui due autogol e un rigore - in 30 partite. Se l’anno dopo Gigi Riva non si fosse infortunato in Nazionale, avremmo vinto di nuovo». ▶ Lei indossava una maglia rossa. «Ebbi l’idea guardando un portiere inglese. In allenamento Riva mi confermò che il rosso disturbava l’attaccante, diceva che sembravo più grande e lo inducevo a sbagliare». ▶ Chi fumava di più lei o Riva? «Io un pacchetto di Marlboro al giorno, ma Gigi pure di più. Scopigno lasciava fare: in campo davamo il massimo, non c’era nulla da rimproverare». ▶ Quella del 1970 è l’estate di ItaliaGermania 4-3. «Cal­cio d’angolo, See­ler col­pi­sce di testa, Gerd Müller la cor­regge in rete. Sul palo c’è Rivera, fa una tor­sione strana e non la prende: 3-3. Gliene dissi di tutti i colori. Lo insul­tavo, lui sbat­teva la testa sul palo. Poi mi fece: “Ora vado a fare gol” (ride). Fu di parola». ▶ Quattro anni prima, al Mondiale inglese del 1966, l’onta della Corea. «Durante riscal­da­mento li vediamo entrare in campo, ognuno ha un pal­lone in mano. Lo lan­ciano per aria, poi fanno la rove­sciata. Pen­siamo: “Sono matti”. La verità è che Perani nei primi 20 minuti sprecò tre occa­sioni da rete. Mi fece gol quel den­ti­sta, che den­ti­sta non era: Pak Doo-Ik. Ci sono par­tite segnate da un destino con­tra­rio: quella lo fu». ▶ Nel 1979, scudetto della Stella con il Milan. «Grande sod­di­sfa­zione, avevo già qua­rant’anni, gio­cavo con la casacca gialla. Non c’erano cam­pioni, ma era­vamo tosti. Lie­d­holm in alle­na­mento mi bom­bar­dava con i suoi tiri. Diceva: “La metto là”. E indi­cava l’incro­cio dei pali. E il pal­lone finiva ine­vi­ta­bil­mente là. Il Barone aveva quasi 60 anni, ma non sba­gliava un tiro». ▶ Subito dopo la squalifica per il calcioscommesse. Lei si è sempre dichiarato innocente. Cosa le ha tolto quel periodo buio? «La pos­si­bi­lità di andare a gio­care in Ame­rica, era già tutto fatto, il Milan mi avrebbe ceduto il car­tel­lino. Poi l’Ame­rica è venuta da me: i Glo­be­trot­ters, la squa­dra di basket che girava il mondo, mi chiese di fare uno spet­ta­colo all’inter­vallo delle loro par­tite. Mi met­tevo in porta e gli spet­ta­tori pro­va­vano a fare gol. Mi sono diver­tito un sacco». ▶ Il suo dualismo con Dino Zoff ha fatto epoca. Cosa aveva lei in più e in meno del suo collega? «Pos­siamo dirlo? Siamo stati due gran­dis­simi por­tieri. Io più agile, Dino più com­patto. Lui aveva gambe grosse, strut­tu­rate, solide; io solo muscoli. Zoff è un monu­mento del cal­cio ita­liano». ▶ Com’è la sua vita oggi? «Bella e tran­quilla, sono for­tu­nato. Nel 2004 ho rischiato di morire di infarto. Ero all’ippo­dromo di Mon­te­ca­tini, avevo appena fatto una corsa. Stavo riguar­dando al moni­tor la gara, sono crol­lato a terra. Sono stati bravi con i primi soc­corsi, mi hanno sal­vato la vita. I cavalli sono stati a lungo la mia pas­sione, da allora non più. Vivo a Forte dei Marmi con mia moglie Betty, stiamo insieme da 50 anni. Ho 4 favo­losi nipoti: Edoardo e Sofia stu­diano all’uni­ver­sità, poi ci sono i pic­coli Emma, che gioca a ten­nis, e Tom­maso: lui impaz­zi­sce per il cal­cio, ma non vuole che vada a vederlo, mi tocca nascon­dermi». ▶ Chi le piace tra i portieri italiani? «Car­ne­sec­chi, un po’ mi ci rivedo. È spe­ri­co­lato, inco­sciente come si può esserlo da gio­vani. Io mi sono rotto due volte il setto nasale e ho perso quat­tro denti. Farà una grande car­riera». ▶ Un’ultima cosa: ma è vero che lei aveva il vezzo di giocare senza le mutande? «No, in realtà in campo le por­tavo sotto i cal­zon­cini, era nella vita quo­ti­diana che non le met­tevo mai».
  15. https://x.com/TrollFootball/status/1920578566191984813?t=fBsyiyBWhyh3DGHiVzGYbA&s=19
  16. Penso sia doverosa una riflessione. Da sportivi non si può far finta che non si sia scritta una pagina epica nel grande libro della storia del calcio. Al di là delle appartenenze e delle fedi calcistiche, davanti a certe imprese sportive, bisogna solo alzarsi in piedi ed applaudire. E riconoscere il merito e la caparbietà oltre i colori. Inzaghi e tutti i suoi nerazzurri hanno dimostrato cosa vuol dire vincere sapendo soffrire. Anche sovvertendo i pronostici e zittendo i “gufi”. Complimenti sinceri al Pisa per il meritato ritorno in serie A!
  17. andrea

    Gigi De Agostini

    Nel ’90 il Mondiale e la Coppa Uefa con la Juventus Di Furio Zara · 6 mag 2025 Nel silen­zio di quel bosco - “Tal cidin dal bosc” come dicono in Friuli - che chia­miamo vita, Gigi De Ago­stini è un cuore puro che ascolta il rumore di sé, con­sa­pe­vole che è nell’impa­sto di bel­lezza e dolore, di ricordi che bril­lano e altri che feri­scono, di parole dette e altre taciute che tro­viamo un senso al nostro stare qui, ora. «Non l’ho ancora detto pub­bli­ca­mente a nes­suno, ma è arri­vato il momento. Cin­que anni fa sono stato ope­rato, tumore allo sto­maco. Ora sto meglio, sono qui, ogni sei mesi fac­cio i con­trolli, ma sono vivo, ed è l’unica cosa che conta. Lo sape­vano i miei fami­liari e un paio di ex col­le­ghi, amici fra­terni come Tri­cella e Vialli. Con Luca ne par­lavo spesso, sta­vamo facendo le stesse cure, ci davamo forza a vicenda. Mi manca Luca, era una bel­lis­sima per­sona». ▶De Ago­stini, par­tiamo dall’ini­zio. «Sono nato a Udine, cre­sciuto a Tri­ce­simo, figlio di Luciana e Clau­dio, un for­naio che di notte impa­stava il pane e di giorno lavo­rava come con­ta­dino nei campi. Ho pas­sato l’infan­zia gio­cando a pal­lone in un cor­tile, con i miei fra­telli, Sil­vio e Andrea e mio cugino Ste­fano, cal­cia­tore pure lui, ha gio­cato anche in Serie A. Siamo una fami­glia di cal­cia­tori. Mio zio, Giu­liano For­tu­nato, era nel Milan negli Anni 60; anche mio figlio Michele ha gio­cato in Serie C più di tre­cento par­tite. Da ragazzo mi chia­ma­vano “Gigi Milan”. Avevo le vene rosse e le arte­rie nere, l’idolo era Rivera». ▶Ha debuttato in serie A a 19 anni Il Toro di domani Di Furio Zara · 6 mag 2025 In ascesa Ali Dembélé, 21 anni, festeggia il gol del 2-0 contro l’udinese. Alle sue spalle Sergiu Perciun, 19 el silen­zio di quel bosco - “Tal cidin dal bosc” come dicono in Friuli - che chia­miamo vita, Gigi De Ago­stini è un cuore puro che ascolta il rumore di sé, con­sa­pe­vole che è nell’impa­sto di bel­lezza e dolore, di ricordi che bril­lano e altri che feri­scono, di parole dette e altre taciute che tro­viamo un senso al nostro stare qui, ora. «Non l’ho ancora detto pub­bli­ca­mente a nes­suno, ma è arri­vato il momento. Cin­que anni fa sono stato ope­rato, tumore allo sto­maco. Ora sto meglio, sono qui, ogni sei mesi fac­cio i con­trolli, ma sono vivo, ed è l’unica cosa che conta. Lo sape­vano i miei fami­liari e un paio di ex col­le­ghi, amici fra­terni come Tri­cella e Vialli. Con Luca ne par­lavo spesso, sta­vamo facendo le stesse cure, ci davamo forza a vicenda. Mi manca Luca, era una bel­lis­sima per­sona». Ha debuttato in serie A a 19 anni ancora da compiere «Al Friuli, con­tro il Napoli il 23 marzo 1980, la dome­nica delle volanti negli stadi, quando scoppiò il cal­cio­scom­messe. Venivo dalla Pri­ma­vera, uno squa­drone. Gero­lin, Borin, Miano, Pra­della, Cinello, Papais, Trom­betta, tutta gente che poi ha fatto car­riera. Gio­cavo con il numero 10 sulla schiena, fu Enzo Fer­rari anni dopo a spo­starmi ter­zino. Mi disse: Gigi, da ter­zino arri­ve­rai in Nazio­nale. Mi misi a ridere». C'è arrivato «Nel 1987, dopo l’anno a Verona. Con Vicini in azzurro ho fatto l’Euro­peo del 1988 e il Mon­diale del 1990, quello delle Notti Magi­che. Quella è stata l’ita­lia più bella degli ultimi decenni, la più spet­ta­co­lare». ▶Quando arrivò alla Juventus le diedero la maglia numero 10 che era stata di Platini. Per ruolo sarebbe toccata a Magrin, ma Marchesi non volle gravarlo di responsabilità e la diede a me, che facevo il mediano. Del resto ho il record di aver gio­cato con tutte le maglie, dal 2 all’11, mi manca solo quella del por­tiere. Boni­perti mi disse: “Gigi, te la senti?”. Io risposi: “A Udine ho indos­sato la 10 di Zico, posso farlo anche con Pla­tini”. Scher­zavo, eh, sia chiaro…». ▶Che compagno di squadra è stato Zico? «Un fuo­ri­classe asso­luto, un uomo retto, leale, puro. Lui, Zoff, Sci­rea per me sono stati esempi di vita. In alle­na­mento Zico pro­vava le puni­zioni. Dopo una set­ti­mana ci fa: “Ragazzi, io di solito fac­cio gol, qua prendo sem­pre la tra­versa”. I diri­genti con­trol­lano e sco­prono che la tra­versa era più bassa di qual­che cen­ti­me­tro. A Cata­nia, in cam­pio­nato, accadde una cosa incre­di­bile. Finale di par­tita, vin­ce­vamo noi, puni­zione dal limite e i tifosi cata­nesi comin­ciano a invo­care il nome di Zico. Tiro, gol. Il por­tiere Sor­ren­tino, rivolto alla curva alzò le brac­cia e disse: che ci posso fare?». ▶Come compagni di squadra tanti campioni, Zico, Baggio, Elkjaer, e qualche meteora, come Rush. «Bag­gio è della stessa pasta, tec­nica e umana, di Zico: un feno­meno. Ricordo che Elk­jaer fumava siga­rette fino a un attimo prima di entrare in campo. Gli dicevo: “Pre­ben, ma ti pare?”. E lui: “Gigi tu gio­chi in squa­dra con Elk­jaer, tu non puoi aver paura”. Rush ogni due giorni andava a sbat­tere con la mac­china con­tro gli auto­bus. Tra i viali e i con­tro­viali di Torino, abi­tuato alla guida a sini­stra, non ci capiva nulla. È stato un grande bom­ber, ma non si è mai ambien­tato». ▶Sul suo profilo WhatsApp c’è la sua foto con i nipoti accompagnata dalla scritta “pentanonno”... «Ho cin­que nipoti, (ride) è un lavoro. Con mia moglie Odilla e i miei figli Michele e Sofia abbiamo creato la De Ago­stini Aca­demy a Savor­gnano del Torre, in pro­vin­cia di Udine. Ci sono 130 bam­bini iscritti, fac­ciamo cal­cio, yoga, danza. Den­tro c’è l’Oste­ria del Ter­zino, un omag­gio al sot­to­scritto. Sofia si occupa del run­ning. Quando aveva dieci anni è stata inve­stita da una mac­china. Una tra­ge­dia vera. La rie­du­ca­zione è stata lenta e fati­cosa, ma gra­zie a Dio si è ripresa. A mag­gio cor­rerà la sua qua­ran­tu­ne­sima mara­tona. Io alleno i bam­bini, cerco di tra­smet­tere loro quello che mi hanno inse­gnato i miei mae­stri. Gia­co­mini, Fer­rari, Bagnoli, Zoff, Vicini. I valori impre­scin­di­bili sono il com­por­ta­mento e la qua­lità del gioco». ▶De Agostini, che qualità si riconosce? «La tena­cia. Una volta in Nazio­nale mi infor­tu­nai alla cavi­glia, Boni­perti mi tele­fonò: “Guarda che dome­nica devi strin­gere i denti, se no che friu­lano sei?”. Ogni volta che la vita si mette di mezzo ci ripenso. Ho avuto il tumore, ho pro­blemi al cuore, sono bra­di­car­dico e di recente mi hanno messo un pace­ma­ker. Ma guardo avanti con spe­ranza e fer­mezza, se no che friu­lano sarei?».
  18. andrea

    EL PENTAPLETE

    Quote Sisal Paris Saint-Germain 1.67 Inter 2.25
  19. Che roba è questa? https://x.com/Somhiseremfcb/status/1920117958476464317?t=7v2Abxa6l2aVbFw-2wNx2g&s=19
  20. andrea

    EL PENTAPLETE

    Attenzione che l'Inter può trovarli in finale 🤦
  21. andrea

    EL PENTAPLETE

    https://x.com/KrankFessie/status/1919872080322990288?t=yjszczadS_VwMO_FBD0M_A&s=19
  22. https://www.dagospia.com/cronache/l-improponibile-look-john-elkann-lavinia-borromeo-red-carpet-met-gala-dove-433760
  23. andrea

    EL PENTAPLETE

    https://www.dagospia.com/sport/tristissima-scena-dei-tifosi-dell-inter-se-ne-vanno-dopo-gol-raphinha-433720
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