andrea
Tifoso Juventus-
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L’ex bomber: «Agnelli volle conoscermi dopo Villar Perosa Non mi chiese di calcio, ma della mia Cerignola La salvezza alla Reggina da -15? Grazie all’amicizia tra noi» Di Francesco Velluzzi · 13 mag 2025 Sampdoria, Padova, Juventus, Perugia, Napoli, Como, Modena, Messina, Reggina, Torino, Siena, Parma e Atalanta. L’uomo con la valigia, Nicola Amoruso da Cerignola, si è fermato a Milano: «La città più internazionale d’Italia». Ma l’uomo con la valigia, che non ha mai indossato la maglia della Nazionale maggiore, pur vincendo un Europeo Under 21 nel 1996, detiene due record di cui va fiero: ha segnato con 12 delle 13 squadre di A («a Siena no, non mi presi con Giampaolo») in cui ha giocato e questo primato lo condivide con Marco Borriello («che è più bello di me»). In Serie A ha segnato 113 gol. Nessuno come lui tra quelli che non hanno mai vestito l’azzurro. Oggi Nicola è un imprenditore che tra i primi ha creduto nel fenomeno padel, investe nell’immobiliare, è marito di Enrica, avvocato, e padre di Giulia e Maria Ludovica che studiano con ottimi risultati. «Sa qual è il mio vero cruccio? Che non mi sono laureato. Ho fatto lo scientifico, mi ero iscritto a Scienze Politiche, ho mollato». ▶ Amoruso, siete cinque figli, quattro maschi: due, Luca e Fabio, hanno giocato a calcio come lei, un altro, Flavio, era tennista di talento. Azienda di famiglia, mamma dottoressa in biologia e un papà che vi ha insegnato tanto. «Sì, papà Vincenzo, juventino, a 82 anni è ancora il primo ad arrivare in azienda, dove oggi lavorano Luca e Fabio. Producono farina. Per papà le vacanze non sono mai esistite. Noi giocavamo sotto casa da bambini, non ci ha ostacolati, ma abbiamo tutti il diploma. Da piccolo mi portava ad Avellino a vedere la Juve di Platini». ▶ Poi lei alla Juve ci è arrivato da grande centravanti. Ma prima ha sudato. A 14 anni era già alla Sampdoria. «In convitto. Cinque anni bellissimi, i migliori della Samp di Mancini e Vialli. Sven Goran Eriksson mi fece esordire in A». ▶ Poi cominciarono i prestiti e nel 1996 bussò alla sua porta la Juve. «Prima decisi di tornare a casa andando ad Andria. Poi salii a Padova. A Natale del ‘95 sapevo di avere dietro tre club: Inter, Milan e Juve. Mio nonno a tavola sentenziò: alla Signora non si può dire di no. Io avevo deciso, ero juventino. Arrivammo io, Vieri, Iuliano e Montero. Siamo rimasti cari amici. Ti conosci da ragazzo e ti crei i rapporti. È la cosa più bella che mi resta del calcio: l’amicizia e l’aver viaggiato». ▶Cosa è stata la Juve? «Una grande esperienza. Un ricordo resterà per sempre: facevamo la solita amichevole a Villar Perosa. Alla fine Bettega mi chiama e mi dice: “C’è la macchina che ti aspetta”. Salgo e mi portano a casa dell’Avvocato: Gianni Agnelli. Voleva conoscermi. Ero timidissimo. Non mi chiese una cosa di calcio, sapeva che ero di Cerignola. Aveva diverse curiosità. Quando veniva a trovarci ci mettevamo tutti in cerchio e, sapendo che calciavo bene i rigori, a me faceva domande su come si tiravano». ▶Il gol in bianconero che le resta impresso? «Ajax-Juventus, semifinale di Champions. Vincemmo, gol mio e di Bobo». ▶Il più forte con cui ha giocato? «Troppo facile. Zidane. Grande uomo, umile, professionale, leggeva le situazioni prima degli altri. Alto, ma veloce, baricentro basso. Con Iuliano inventammo questa: palla su e ci pensa Zizou». ▶Ma le esperienze del cuore sono Reggina e Perugia. La famosa salvezza di Reggio nel 2007 conquistata con Walter Mazzarri partendo dal -15. «Spensieratezza e rischio. Eravamo amici, uniti, bravo Mazzarri, uno che meritava di più. Capimmo quanto sa essere imprevedibile il calcio. Feci 17 gol (Rolando Bianchi 18), ma l’Italia non chiamò. Lo meritavo. A Perugia ho avuto la fortuna di essere allenato da Carletto Mazzone. Uno che manca al calcio. Aveva umanamente qualcosa in più. Il presidente Luciano Gaucci voleva venire in spogliatoio a impartire lezioni tecniche e urlare. Lui lo respingeva. Si spintonavano. Mazzone tornava con l’autista a casa ad Ascoli da dimissionario ogni volta, ma il martedì era regolarmente al campo. Facevano pace». ▶ A Napoli è stato bello perché ha conosciuto Enrica, la donna della sua vita. «Ero in affitto da lei a Posillipo. Dopo tre mesi ci mettemmo insieme, dopo sei mesi era incinta. Ma l’affitto me lo ha fatto pagare per tutto l’anno. E ancora glielo rinfaccio. Oggi mi aiuta nell’amministrazione. Mi ha seguito e ha fatto tanti traslochi». ▶Perché lei cambiava sempre squadra? «Per far fare i traslochi a Enrica... Sempre situazioni di mercato. Però ho guadagnato bene». ▶E non ha mai buttato i soldi. «Dietro devi avere qualcuno. Io ho avuto papà, intelligente nella gestione». ▶Oggi molti calciatori scommettono. «Mai fatto. Una sola volta andammo al Casinò. Diedi i soldi a Pippo Inzaghi che era fortunato. Vinse. Vincemmo». ▶Ora gioca benissimo a padel, è socio con Vieri nell’Italy Padel tour e con Alessandro Budel nel club di Tolcinasco. «Il padel ha riacceso in noi calciatori la fiamma della sana competizione. Io ho capito da Demetrio Albertini, il primo a crederci, che c’erano potenzialità. Mi insultavano. Budel è bravo e gli dico che diventerà un grande dirigente di calcio. Noi giocatori siamo stati trainanti per il fenomeno padel. E la cosa più bella è che ci ritroviamo. Da amici».
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«Sarò felice di smettere Vorrei rivedere Vialli» Di Walter Veltroni · 12 mag 2025 Mister Luciano Spalletti, la storia di un uomo tenace che dai campetti in terra è arrivato ad allenare la Nazionale. «La dedizione per il lavoro, il peso per l’incarico, la gavetta fatta e il sogno di riabbracciare Vialli». E poi Totti. Luciano Spalletti ha pubblicato con Rizzoli un libro, scritto con Giancarlo Dotto, dal titolo «Il paradiso esiste... ma quanta fatica». È un racconto sincero, senza omissioni e senza cattiverie, della storia di un uomo che è salito fino al gradino più alto della sua professione, allenare la Nazionale, partendo dal basso. «L’ho fatto per lasciare ai miei figli il resoconto della vita che ho vissuto. Per me non è stato facile. Sono un pignolo, un perfezionista, credo di sapere il valore delle parole. Poi mi sono convinto che chi vive una vita da raccontare, ha il dovere di farlo. L’ho fatto evitando acidità e cattiverie, che pure nella mia carriera ho conosciuto e vissuto». Spalletti ha conosciuto la gavetta, ha imparato nella polvere dei campi dei piccoli paesi. Si è fatto le ossa, senza scorciatoie. Non è mai stato un campione da serie A o da Champions. Al massimo ha giocato in serie C1. Era bravo, tosto, intelligente, come giocatore. E così è rimasto e per queste doti è diventato un allenatore importante. È un uomo facile? No, ma non bisogna esserlo. Lo ritrovo nel suo ufficio alla Figc, vicino a Villa Borghese. L’ultima volta l’avevo incontrato nella sua campagna di Montaione. Comincio chiedendogli se corrisponde al vero l’impressione che mi sono fatto di lui, di un uomo timido e solitario. «Sì, con la mia solitudine convivo benissimo. Anzi, la solitudine mi fa compagnia. Quando scappo a Montaione mia moglie mi dice “Ma che fai lì da solo?” Io sto benissimo, con la mia terra, i miei operai, le bestie che curo. Quando sono lì, nel silenzio, con i miei pensieri, mi sento nel mio luogo ideale. Anche se dal punto di vista degli affetti il mio paradiso è la mia famiglia, mia moglie e i miei figli ai quali la mia attività ha tolto tempo, spazio, occasioni. E io lo avverto come una colpa, della quale però non ho colpa». Quanti gradini hai salito per arrivare al paradiso azzurro? «È stata una salita lunga, per arrivare fino alla Nazionale. Quando parti da laggiù, dai campi di terra battuta, non dalle squadre blasonate, senza avere la struttura, senza conoscenze di un mondo che vedevi lontano, gli scalini sono sempre alti e scoscesi. Ogni volta che ne sali uno non sai cosa troverai, tutto è sconosciuto». Mi ricordi i tuoi inizi? «Sono partito dai bambini dell’Avane, una zona di case popolari in periferia di Empoli. Poi mi notò la Fiorentina ma lì ci fu la prima delusione, quando mi dissero che non rientravo nei loro programmi. Ricordo quando facevo il raccattapalle e dovevo consegnare il pallone a Merlo o Chiarugi. Dopo il verdetto dei viola avevo deciso che avrei giocato solo tra gli Amatori, ma poi un mio zio mi convinse a riprovare. Insomma ho indossato le magliette di Volterrana, Castelfiorentino, Cuoiopelli, Entella Chiavari, Viareggio, Empoli. Dove ho finito la mia onesta carriera. Sai che mi sono reso conto che da giocatore o da allenatore sono entrato negli spogliatoi di tutte le categorie, dai pulcini alla Nazionale? Mi manca solo la prima categoria, magari un domani...». La tua è una famiglia che ha faticato... «Mio padre lavorava in vetreria e poi ha fatto il guardiacaccia, il magazziniere, ne ha cambiati molti, di mestieri. Mia madre lavorava nelle confezioni, quelle aziende, come la Modiva, che facevano capi d’abbigliamento. In casa c’erano loro, i due nonni, e poi io e mio fratello Marcello». Che per te è stato molto importante... «Lui giocava bene, lui era il calciatore e mi ha insegnato molto. In primo luogo ad avere carattere. Lo ha fatto fino alla fine dei suoi giorni. Se mi attaccavano, lui diceva che andava benissimo, che ero il più forte. Per me è stato come un innaffiatore della fiducia in me stesso. Io di casini ne ho fatti. Sono sempre stato un naif in questo mondo che, nelle sue logiche, non conoscevo. Non ho mai avuto, in vita mia, un procuratore e questo mi ha sempre dato una grande libertà. Nessuno mi ha messo una mano sulla testa. Soltanto la mia famiglia. E Marcello, più di ogni altro. Prima di andarsene, minato dalla sofferenza, mi ha fatto delle raccomandazioni, alle quali sarò fedele». Un caso raro, senza procuratore. Non dico che tu sia disattento, nessuno lo è, all’aspetto economico, ma hai sempre dato l’impressione di amare il tuo lavoro più dei biglietti di carta valuta. «Ci sto attento, sia in entrata che in uscita. Non vengo da cascate di diamanti ma dalla fatica dei calli sulle mani. So che i soldi sono importanti. Ma certe volte mi sembra incredibile che mi paghino per fare ciò che più mi appassiona e mi diverte. Come se da bambino mi avessero pagato per giocare a figurine. Al Napoli, per esempio, sono andato, come racconto nel libro, con l’idea di accettare quella sfida, più che di guadagnare soldi. E il Presidente ne è stato immediatamente consapevole...». Fermiamoci su Napoli, forse il momento più bello della tua carriera. Almeno fin qui... «Ho girato moltissime società, moltissime città, ma non ho mai visto, in molti anni, un popolo che sappia essere così felice e così malinconico come quello napoletano. Io per questo sarò sempre grato al presidente De Laurentiis per avermi fatto fare quella esperienza. Poi è finita male e mi dispiace. Ho sofferto perché dopo lo scudetto il presidente non ha telefonato a nessuno di noi, non ci ha fatto gioire su un pullman scoperto insieme a quel meraviglioso popolo. Io amo Napoli e il Napoli. E ora spero che la città possa essere ancora molte volte felice. L’altra sera in Champions League ho visto l’inter che è totalmente all’altezza delle più grandi squadre d’Europa. I nerazzurri, guidati dalla sapienza tattica di Simone Inzaghi, hanno raggiunto per due volte la finale di questo prestigioso torneo». A Napoli all’inizio ti rubarono la Panda per invitarti ad andare via poi ti hanno amato alla follia... Amore che dura nel tempo... «La passione che le persone mettono per la propria squadra spesso deborda, si fa emotiva, risente, come in fondo è giusto, dei risultati, assapora più la bellezza di una vittoria oggi piuttosto che di un progetto per il domani. Ma forse è giusto così. Quando vedo le curve piene, le bandiere che sventolano, i ragazzi che coltivano una passione pura e non contaminata da altro, penso che quel potenziale potrebbe essere indirizzato anche per altri fini, per esempio di tipo sociale. E poi vorrei che alle centinaia di migliaia di sportivi che vanno negli stadi fosse data la possibilità di vedere le partite in strutture moderne, civili. E penso che se cadessero i vincoli burocratici questi investimenti potrebbero generare lavoro e ricchezza diffusa». Lo scudetto è stato il giorno più bello della tua vita professionale? «In quei giorni ho provato la terribile felicità che si sente quando si regala felicità ad altri, qualcosa che ti fa vibrare in sintonia con persone che non conosci. Ma l’altro momento più bello sarà quando smetterò e non sentirò più sulle spalle questo peso, un peso scelto, ma che spesso mi toglie il fiato». Nel libro ricordi spesso di essere orgoglioso di avere i calli nelle mani. «Quei calli vengono dal lavoro, dalla fatica. Conoscere la terra ti insegna che tu puoi progettare e fare tutto quello che è giusto per i tuoi campi, ma se poi arriva una gelata ogni sforzo può essere stato inutile. Così è nel calcio. Un episodio, un solo momento, può fare drasticamente giustizia di tante idee giuste, di tanto impegno e abnegazione. L’essenziale è non restare schiacciati dalle difficoltà. È saper cadere e sapersi rialzare. Tutto dipende da noi: possiamo decidere di affrontare le difficoltà con determinazione o lasciarci sopraffare dalla tristezza». Nel libro torni sul rapporto con Francesco Totti... «Io gli voglio bene. Lui è il calcio, per me. Istinto, classe, intelligenza pura. Quando lo allenavo, mi rassicurava pensare che il mio futuro dipendesse proprio da quei piedi lì. E mi piacerebbe, ora che tra noi tutto è chiarito, che pensassimo a qualche esperienza professionale, anche fuori dal calcio, da fare insieme». Ci dobbiamo aspettare un remake di «In viaggio con papà» con te e lui al posto di Sordi e Verdone? «No, questo no, ma sarebbe bello che noi due tornassimo a fare cose insieme». Quanto ti pesarono i fischi dell’Olimpico, il giorno in cui Francesco diede l’addio al calcio? «Mi sono pesati. Non riesco, non sono mai riuscito, a farmi scivolare le cose addosso. Mi restano dentro, mi attraversano, mi corrodono. E le vittorie più delle sconfitte. Io ho molto amato quegli anni a Roma. Ancora ricordo l’emozione che provai quando Bruno Conti mi propose, ero a Udine, di allenare i giallorossi. Quella emozione è indelebile, non si cancella, ti rimane addosso». Affrontiamo un momento doloroso per tutti gli italiani, la sconfitta agli Europei con la Svizzera... «Ho capito di aver caricato i ragazzi di troppe responsabilità, ho esagerato nella pressione. Li ho messi al cospetto, forse con troppa forza, della storia dei campioni e delle squadre che avevano portato gioia all’intero Paese. E così i giocatori hanno perso leggerezza. Ho sbagliato io, me ne sono assunto la responsabilità, per tutti». Riusciremo ad andare ai Mondiali stavolta? I bambini nati dopo il 2014 non hanno mai visto la maglia azzurra alla World Cup... «Siamo tutti consapevoli dell’importanza delle qualificazioni. Ci è capitato un girone con una nazionale forte come la Norvegia ma io ho fiducia nei miei ragazzi. Siamo una squadra forte e abbiamo voglia». Il calcio è un gioco semplice? «Sì, ma la semplicità nel calcio è un punto di arrivo, non di partenza, come dico nel libro. L’importante è impegnarsi, progettare, studiare, avere cura del talento e della fantasia, insegnare la tecnica. Tutte cose che appaiono semplici, prese singolarmente. Ma comporle in un equilibrio anche tattico, fare in modo che una squadra non sia troppo scoperta dietro o troppo arida davanti, è il lavoro che facciamo noi allenatori. E questo, credimi, non è un lavoro semplice». Quali ti sembrano i rischi per i nuovi calciatori, sospesi tra show business e social? «Io penso che la prima cosa da fare, per noi che siamo anche riferimenti educativi nella formazione di questi ragazzi, sia liberarli dalla noia di essere benestanti. Quanto al cellulare, si deve sapere che ti connette con chi è più lontano e ti disconnette da chi è più vicino. Tu usi il cellulare ma non parli più con chi ti sta a fianco. E ora dobbiamo stare attenti che l’intelligenza artificiale non sopprima l’intelligenza naturale. Il rischio è che le domande le si faccia a un apparecchio, non alla propria mente o alla propria coscienza. Le soluzioni ai problemi della vita non le deve trovare un apparato elettronico, ma la mente umana». C’è un giocatore, nella storia del calcio, con il quale vorresti trovarti a cena, per parlare? «Luca Vialli. Grande giocatore e grande persona. Basta vedere come ha affrontato il male. Ci ho giocato contro solo una volta, in un Sampdoria -Spezia. Era forte. Mi diede due brandate pesanti, ma poi mi aiutò subito a rialzarmi. Ecco, il suo modo di vivere, e di morire, ci aiuta a rialzarci, sempre».
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La Roma può vincere tranquillamente le prossime due partite, i bovini si scansano
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Nefandezze mediatiche e antijuventinismo vario
andrea ha risposto al topic di Homer_Simpson in Juventus Forum
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Voglio proprio vedere andare a vincere a Venezia
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Nefandezze mediatiche e antijuventinismo vario
andrea ha risposto al topic di Homer_Simpson in Juventus Forum
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Leggere tutto https://x.com/SandroSca/status/1921882240256000175?t=elJQ6xuzit3BznqXETf57A&s=19
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Adesso il Napoli è nella M***A
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https://www.dagospia.com/sport/co*****e-M***A-la-prossima-volta-ti-tiro-sberla-cretino-alla-kings-league-434218
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Douglas Luiz lascia la Juventus e firma per il Nottingham Forest
andrea ha risposto al topic di Crimson Ghost in Archivio Calciomercato
Pensate ieri difendere il vantaggio con un uomo in meno e questo qui in campo🤮 -
[ Serie A enilive ] LAZIO-JUVENTUS 1-1 (51’ Kolo Muani, 96’ Vecino)
andrea ha risposto al topic di PiemonteBianconero in Stagione 2024/2025
https://x.com/RidTheRock/status/1921277558760317145?t=C1pmWuP9Hzw-ZoW78PTedA&s=19 -
Michele Di Gregorio, il portiere bianconero
andrea ha risposto al topic di Homer_Simpson in Juventus Forum
Di Gregorio è uno dei primi cento portieri al mondo -
[ Serie A enilive ] LAZIO-JUVENTUS 1-1 (51’ Kolo Muani, 96’ Vecino)
andrea ha risposto al topic di PiemonteBianconero in Stagione 2024/2025
Giochiamo una partita decisiva schierando una formazione ridicola -
Fumavo un pacchetto al giorno, Riva di più. di Furio Zara · 8 mag 2025 Disteso nel volo a planare, allungando la sagoma scossa da un colpo di reni, mulinando il braccio come un Don Chisciotte con i guanti, la chioma da Sandokan al vento, la segreta convinzione di arrivare a schiaffeggiare anche stavolta il pallone, interrompendone la traccia e cambiandogli il destino. Ricky Albertosi è stato il portiere come è bello immaginarlo, dove il ruolo prevede istinto, audacia e attitudine a prendersi la scena, come l’acrobata che vola da trapezio a trapezio, nel silenzio dopo un rullo di tamburo che di colpo si fa muto. ▶ Albertosi, verrebbe da dire che lei non si è limitato a venire al mondo. Si è tuffato verso il mondo. «Ero un bambino e con i miei amichetti mi tuffavo da 4-5 metri in un laghetto, a Pontremoli, dove sono nato. Poi andavamo tutti al fiume, ad abbrancare con le mani le trote che si nascondevano sotto i sassi: forse è là che sono diventato un portiere». ▶ Cosa ricorda dei suoi inizi? «Non avevo ancora sedici anni quando giocai in Prima Categoria, con il Pontremoli. Il portiere titolare, tale Gregoratto, poche ore prima si era imbarcato come marinaio. Ricordo che faceva un freddo cane, presi quattro gol». ▶ A diciannove anni il debutto in Serie A con la Fiorentina. «Ero il vice di Giuliano Sarti, da lui ho imparato a giocare al limite dell’area, a fare il “libero” aggiunto. Con la Fiorentina credo d’aver disputato la partita della vita, a Glasgow, contro i Rangers, finale di andata della Coppa delle Coppe che poi vincemmo. Clima infernale, 2-0 per noi, parai tutto». ▶ Nel 1970 lo scudetto a Cagliari. «Abbiamo fatto la storia, svelato un’altra Sardegna, restituito identità e dignità ad una terra che l’Italia aveva dimenticato. Una squadra di amici veri, con Beppe Tomasini siamo fratelli, ci sentiamo ancora. Quell’anno ho subito solo 11 reti - tra cui due autogol e un rigore - in 30 partite. Se l’anno dopo Gigi Riva non si fosse infortunato in Nazionale, avremmo vinto di nuovo». ▶ Lei indossava una maglia rossa. «Ebbi l’idea guardando un portiere inglese. In allenamento Riva mi confermò che il rosso disturbava l’attaccante, diceva che sembravo più grande e lo inducevo a sbagliare». ▶ Chi fumava di più lei o Riva? «Io un pacchetto di Marlboro al giorno, ma Gigi pure di più. Scopigno lasciava fare: in campo davamo il massimo, non c’era nulla da rimproverare». ▶ Quella del 1970 è l’estate di ItaliaGermania 4-3. «Calcio d’angolo, Seeler colpisce di testa, Gerd Müller la corregge in rete. Sul palo c’è Rivera, fa una torsione strana e non la prende: 3-3. Gliene dissi di tutti i colori. Lo insultavo, lui sbatteva la testa sul palo. Poi mi fece: “Ora vado a fare gol” (ride). Fu di parola». ▶ Quattro anni prima, al Mondiale inglese del 1966, l’onta della Corea. «Durante riscaldamento li vediamo entrare in campo, ognuno ha un pallone in mano. Lo lanciano per aria, poi fanno la rovesciata. Pensiamo: “Sono matti”. La verità è che Perani nei primi 20 minuti sprecò tre occasioni da rete. Mi fece gol quel dentista, che dentista non era: Pak Doo-Ik. Ci sono partite segnate da un destino contrario: quella lo fu». ▶ Nel 1979, scudetto della Stella con il Milan. «Grande soddisfazione, avevo già quarant’anni, giocavo con la casacca gialla. Non c’erano campioni, ma eravamo tosti. Liedholm in allenamento mi bombardava con i suoi tiri. Diceva: “La metto là”. E indicava l’incrocio dei pali. E il pallone finiva inevitabilmente là. Il Barone aveva quasi 60 anni, ma non sbagliava un tiro». ▶ Subito dopo la squalifica per il calcioscommesse. Lei si è sempre dichiarato innocente. Cosa le ha tolto quel periodo buio? «La possibilità di andare a giocare in America, era già tutto fatto, il Milan mi avrebbe ceduto il cartellino. Poi l’America è venuta da me: i Globetrotters, la squadra di basket che girava il mondo, mi chiese di fare uno spettacolo all’intervallo delle loro partite. Mi mettevo in porta e gli spettatori provavano a fare gol. Mi sono divertito un sacco». ▶ Il suo dualismo con Dino Zoff ha fatto epoca. Cosa aveva lei in più e in meno del suo collega? «Possiamo dirlo? Siamo stati due grandissimi portieri. Io più agile, Dino più compatto. Lui aveva gambe grosse, strutturate, solide; io solo muscoli. Zoff è un monumento del calcio italiano». ▶ Com’è la sua vita oggi? «Bella e tranquilla, sono fortunato. Nel 2004 ho rischiato di morire di infarto. Ero all’ippodromo di Montecatini, avevo appena fatto una corsa. Stavo riguardando al monitor la gara, sono crollato a terra. Sono stati bravi con i primi soccorsi, mi hanno salvato la vita. I cavalli sono stati a lungo la mia passione, da allora non più. Vivo a Forte dei Marmi con mia moglie Betty, stiamo insieme da 50 anni. Ho 4 favolosi nipoti: Edoardo e Sofia studiano all’università, poi ci sono i piccoli Emma, che gioca a tennis, e Tommaso: lui impazzisce per il calcio, ma non vuole che vada a vederlo, mi tocca nascondermi». ▶ Chi le piace tra i portieri italiani? «Carnesecchi, un po’ mi ci rivedo. È spericolato, incosciente come si può esserlo da giovani. Io mi sono rotto due volte il setto nasale e ho perso quattro denti. Farà una grande carriera». ▶ Un’ultima cosa: ma è vero che lei aveva il vezzo di giocare senza le mutande? «No, in realtà in campo le portavo sotto i calzoncini, era nella vita quotidiana che non le mettevo mai».
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Europa e Conference League 2024/25: vincono Tottenham e Chelsea
andrea ha risposto al topic di kkekko in Archivio Off Juve
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Penso sia doverosa una riflessione. Da sportivi non si può far finta che non si sia scritta una pagina epica nel grande libro della storia del calcio. Al di là delle appartenenze e delle fedi calcistiche, davanti a certe imprese sportive, bisogna solo alzarsi in piedi ed applaudire. E riconoscere il merito e la caparbietà oltre i colori. Inzaghi e tutti i suoi nerazzurri hanno dimostrato cosa vuol dire vincere sapendo soffrire. Anche sovvertendo i pronostici e zittendo i “gufi”. Complimenti sinceri al Pisa per il meritato ritorno in serie A!
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Nel ’90 il Mondiale e la Coppa Uefa con la Juventus Di Furio Zara · 6 mag 2025 Nel silenzio di quel bosco - “Tal cidin dal bosc” come dicono in Friuli - che chiamiamo vita, Gigi De Agostini è un cuore puro che ascolta il rumore di sé, consapevole che è nell’impasto di bellezza e dolore, di ricordi che brillano e altri che feriscono, di parole dette e altre taciute che troviamo un senso al nostro stare qui, ora. «Non l’ho ancora detto pubblicamente a nessuno, ma è arrivato il momento. Cinque anni fa sono stato operato, tumore allo stomaco. Ora sto meglio, sono qui, ogni sei mesi faccio i controlli, ma sono vivo, ed è l’unica cosa che conta. Lo sapevano i miei familiari e un paio di ex colleghi, amici fraterni come Tricella e Vialli. Con Luca ne parlavo spesso, stavamo facendo le stesse cure, ci davamo forza a vicenda. Mi manca Luca, era una bellissima persona». ▶De Agostini, partiamo dall’inizio. «Sono nato a Udine, cresciuto a Tricesimo, figlio di Luciana e Claudio, un fornaio che di notte impastava il pane e di giorno lavorava come contadino nei campi. Ho passato l’infanzia giocando a pallone in un cortile, con i miei fratelli, Silvio e Andrea e mio cugino Stefano, calciatore pure lui, ha giocato anche in Serie A. Siamo una famiglia di calciatori. Mio zio, Giuliano Fortunato, era nel Milan negli Anni 60; anche mio figlio Michele ha giocato in Serie C più di trecento partite. Da ragazzo mi chiamavano “Gigi Milan”. Avevo le vene rosse e le arterie nere, l’idolo era Rivera». ▶Ha debuttato in serie A a 19 anni Il Toro di domani Di Furio Zara · 6 mag 2025 In ascesa Ali Dembélé, 21 anni, festeggia il gol del 2-0 contro l’udinese. Alle sue spalle Sergiu Perciun, 19 el silenzio di quel bosco - “Tal cidin dal bosc” come dicono in Friuli - che chiamiamo vita, Gigi De Agostini è un cuore puro che ascolta il rumore di sé, consapevole che è nell’impasto di bellezza e dolore, di ricordi che brillano e altri che feriscono, di parole dette e altre taciute che troviamo un senso al nostro stare qui, ora. «Non l’ho ancora detto pubblicamente a nessuno, ma è arrivato il momento. Cinque anni fa sono stato operato, tumore allo stomaco. Ora sto meglio, sono qui, ogni sei mesi faccio i controlli, ma sono vivo, ed è l’unica cosa che conta. Lo sapevano i miei familiari e un paio di ex colleghi, amici fraterni come Tricella e Vialli. Con Luca ne parlavo spesso, stavamo facendo le stesse cure, ci davamo forza a vicenda. Mi manca Luca, era una bellissima persona». Ha debuttato in serie A a 19 anni ancora da compiere «Al Friuli, contro il Napoli il 23 marzo 1980, la domenica delle volanti negli stadi, quando scoppiò il calcioscommesse. Venivo dalla Primavera, uno squadrone. Gerolin, Borin, Miano, Pradella, Cinello, Papais, Trombetta, tutta gente che poi ha fatto carriera. Giocavo con il numero 10 sulla schiena, fu Enzo Ferrari anni dopo a spostarmi terzino. Mi disse: Gigi, da terzino arriverai in Nazionale. Mi misi a ridere». C'è arrivato «Nel 1987, dopo l’anno a Verona. Con Vicini in azzurro ho fatto l’Europeo del 1988 e il Mondiale del 1990, quello delle Notti Magiche. Quella è stata l’italia più bella degli ultimi decenni, la più spettacolare». ▶Quando arrivò alla Juventus le diedero la maglia numero 10 che era stata di Platini. Per ruolo sarebbe toccata a Magrin, ma Marchesi non volle gravarlo di responsabilità e la diede a me, che facevo il mediano. Del resto ho il record di aver giocato con tutte le maglie, dal 2 all’11, mi manca solo quella del portiere. Boniperti mi disse: “Gigi, te la senti?”. Io risposi: “A Udine ho indossato la 10 di Zico, posso farlo anche con Platini”. Scherzavo, eh, sia chiaro…». ▶Che compagno di squadra è stato Zico? «Un fuoriclasse assoluto, un uomo retto, leale, puro. Lui, Zoff, Scirea per me sono stati esempi di vita. In allenamento Zico provava le punizioni. Dopo una settimana ci fa: “Ragazzi, io di solito faccio gol, qua prendo sempre la traversa”. I dirigenti controllano e scoprono che la traversa era più bassa di qualche centimetro. A Catania, in campionato, accadde una cosa incredibile. Finale di partita, vincevamo noi, punizione dal limite e i tifosi catanesi cominciano a invocare il nome di Zico. Tiro, gol. Il portiere Sorrentino, rivolto alla curva alzò le braccia e disse: che ci posso fare?». ▶Come compagni di squadra tanti campioni, Zico, Baggio, Elkjaer, e qualche meteora, come Rush. «Baggio è della stessa pasta, tecnica e umana, di Zico: un fenomeno. Ricordo che Elkjaer fumava sigarette fino a un attimo prima di entrare in campo. Gli dicevo: “Preben, ma ti pare?”. E lui: “Gigi tu giochi in squadra con Elkjaer, tu non puoi aver paura”. Rush ogni due giorni andava a sbattere con la macchina contro gli autobus. Tra i viali e i controviali di Torino, abituato alla guida a sinistra, non ci capiva nulla. È stato un grande bomber, ma non si è mai ambientato». ▶Sul suo profilo WhatsApp c’è la sua foto con i nipoti accompagnata dalla scritta “pentanonno”... «Ho cinque nipoti, (ride) è un lavoro. Con mia moglie Odilla e i miei figli Michele e Sofia abbiamo creato la De Agostini Academy a Savorgnano del Torre, in provincia di Udine. Ci sono 130 bambini iscritti, facciamo calcio, yoga, danza. Dentro c’è l’Osteria del Terzino, un omaggio al sottoscritto. Sofia si occupa del running. Quando aveva dieci anni è stata investita da una macchina. Una tragedia vera. La rieducazione è stata lenta e faticosa, ma grazie a Dio si è ripresa. A maggio correrà la sua quarantunesima maratona. Io alleno i bambini, cerco di trasmettere loro quello che mi hanno insegnato i miei maestri. Giacomini, Ferrari, Bagnoli, Zoff, Vicini. I valori imprescindibili sono il comportamento e la qualità del gioco». ▶De Agostini, che qualità si riconosce? «La tenacia. Una volta in Nazionale mi infortunai alla caviglia, Boniperti mi telefonò: “Guarda che domenica devi stringere i denti, se no che friulano sei?”. Ogni volta che la vita si mette di mezzo ci ripenso. Ho avuto il tumore, ho problemi al cuore, sono bradicardico e di recente mi hanno messo un pacemaker. Ma guardo avanti con speranza e fermezza, se no che friulano sarei?».
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Quote Sisal Paris Saint-Germain 1.67 Inter 2.25
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Che roba è questa? https://x.com/Somhiseremfcb/status/1920117958476464317?t=7v2Abxa6l2aVbFw-2wNx2g&s=19
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Attenzione che l'Inter può trovarli in finale 🤦
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https://x.com/KrankFessie/status/1919872080322990288?t=yjszczadS_VwMO_FBD0M_A&s=19
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https://www.dagospia.com/sport/tristissima-scena-dei-tifosi-dell-inter-se-ne-vanno-dopo-gol-raphinha-433720
